Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

venerdì 4 gennaio 2019

L’UOMO. L’ESSERE CHE “RAGIONA” COL CUORE


“Quella vita ch'è una cosa bella – fa dire Giacomo Leopardi al ‘Venditore d’almanacchi a un passeggere’ - non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura”. Il poeta recanatese, però, non sembra essere nel vero. Infatti, solo il passato della vita (sia vissuto come bello o come brutto) è ‘certo’ e, quindi, ‘bello’, in quanto la bellezza coincide col reale e col certo. Solo il passato, pertanto, può essere bello, perché assolutamente certo e ormai del tutto libero dal volere di chiunque e al riparo da qualsiasi evento; il presente, invece, è solo un debole barlume di vita in un brandello fugace di tempo morente; il futuro, poi, è addirittura totalmente imprevedibile e inimmaginabile, in quanto non nel mondo dell’essere. L’uomo, quindi, dovrebbe rallegrarsi o dolersi del passato, non del presente (che è solo fugacemente nelle sue mani) né del futuro (che è spesso inaspettato e mai totalmente in suo potere). Tuttavia, l’uomo – sulle tracce del cantore dell’Infinito - si tormenta per il suo presente e s’interroga sul suo futuro, e vive ogni rimembranza, che lo riconduca ai suoi giorni vissuti, come un atto solo di malinconica nostalgia o di dolorosa impotente invidia. Non  è così, però, per l’uomo che prende per guida dell’intero percorso del suo esistere e per consigliera quotidiana delle sue scelte la razionalità integrale propria della persona umana, che deve rimanere sempre vigile e benpensante, attenta e disponibile.

“Il fatto che l’uomo - ha scritto Immanuel Kant - non soltanto pensi, ma possa anche dire a se stesso ‘Io penso’, fa di lui una persona”. Per molti la differenza tra pensanti e non pensanti è la vera precondizione necessaria, per poter comprendere e valutare ogni altra differenza tra gli uomini, come tra individui credenti e non, socievoli e non, altruisti e non. Molti, infatti, sono convinti che, se è certo che tutti viviamo una vita, non è altrettanto certo che tutti siamo consapevoli di cosa sia realmente la vita che stiamo vivendo, in quanto non ci poniamo sensatamente le domande di quale sia il significato del nostro trovarci nell’esistenza, della motivazione vera e della finalità ultima delle nostre scelte. L’uomo, comunque, sente spesso tutta la difficoltà d’una vita, ch’egli non ha chiesto di vivere e che gli pone frequenti domande dall’incerta risposta e addirittura coinvolgenti misteri inspiegabili: chi o cosa manipola la mia volontà apparentemente libera; ove porta il mistero irrisolto del soffrire e del morire di tutte le creature ospitate sulla terra?  “Che fai tu luna in ciel?  - egli chiede, con il Poeta dell’Infinito, all’astro notturno confidente fidato e discreto dei segreti degli umani -. Ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale? (...). Che vuol dir questa solitudine immensa? Ed io che sono?”. Senso e sostegno, allora, gli saranno offerti soltanto dall’uso della sua ragione integrale, cioè – secondo il pensiero del tedesco Kant – dall’umana razionalità, la quale coinvolge tutte le dimensioni della natura umana: le fuggevoli sensazioni del corpo e le profonde intuizioni dello spirito, l’interiorità segreta della persona e la sua generosa apertura all’altro, l’intelletto che conosce, la volontà che vuole, l’affettività che abbraccia e vive ogni situazione di vita . Cioè, il cuore dell’uomo: unico centro capace di comprendere e di gestire le diverse dimensioni. Infatti, secondo anche un adagio induista, si ragiona non con la mente, ma col cuore, il sicuro e valido punto-forza dell’uomo razionale. Solo la vitalità del cuore, cioè l’amore, alimenta la fedeltà e rinvigorisce la coerenza in ogni situazione della vita. E’ l’amore che dà il giusto colore ai fatti e il dovuto sapore ai pensieri, illuminandoli con la sua luce insostituibile, collocandoli ciascuno a suo posto.

         Fiumi abbondanti e piogge copiose - annotava Seneca - gettano le loro acque nel mare salato, ma non ne alterano né attenuano il sapore. Allo stesso modo, la violenza delle avversità non sconvolge né turba l’animo dell’uomo forte: egli resta saldo e immoto nel proprio stato e converte a proprio beneficio qualunque vicenda, perché egli è più forte d’ogni evento esterno. Non è che egli non lo  senta, ma lo vince: quieto e placido, si erge contro ciò che lo attacca. Del resto – continuava il filosofo stoico - non è stabile né forte un albero che non venga incessantemente sballottolato dall’infuriare dei venti; anzi, è irrobustito dalla continua violenza e rinsalda più tenacemente le sue radici. Sono fragili le piante cresciute in una valle solitaria al riparo delle turbolenze atmosferiche. E le radici dell’autentico uomo forte allignano soltanto nel cuore: totale e indivisibile, che coi suoi battiti scandisce il ritmo della vita vissuta degnamente.

Davanti a queste considerazioni non pochi sentono fastidio e tedio e, presi dall’importanza dei loro impegni, non perdono occasione di far notare che il rapido trascorrere del tempo impone ben altro che occupare forze ed energie in piacevoli ma inutili passatempi, per cui è già abbastanza l’impegnarsi e l’industriarsi a risolvere al meglio i problemi concreti della giornata, che ciascuno vive nel posto in cui ha scelto di operare.  Ma sono proprio queste persone che, sballottolate dal susseguirsi confuso degli eventi, generano non poca inquietudine e preoccupano per la loro inconsapevolezza. “Coloro – ha scritto Hannah Arendt - che non sono innamorati della bellezza, della giustizia e della sapienza sono incapaci di pensiero”: l’uomo ha bisogno di pensare, ma con la totalità della sua razionalità, che abita nel cuore, centro di confluenza d’ogni moto dell’animo umano. Solo così la vita non si riduce a un anonimo e insipido passaggio sulla terra, ma è una consapevole e costruttiva collaborazione alla felicità propria e dell’umanità intera: a questi impensati ampi confini ci conducono l’auspicio e il monito anche del Mathama Gandhi: “Il giorno in cui il potere dell’amore supererà l’amore per il potere il mondo potrà scoprire la pace”.



sabato 29 dicembre 2018

Dicembre 2018 – Brogliaccio Salentino, Gigi Montonato recensisce “La poetica di G. C. Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo”, di L.Corvaglia, riedizione a cura di Cosimo Scarcella

Sta per concludersi a Melissano il biennio di studio su Luigi Corvaglia (Melissano 1892 – Roma 1966) per il cinquantenario della sua morte, condotto da Cosimo Scarcella.

Aperto con la pubblicazione del volume Introduzione allo studio di Luigi Corvaglia da Melissano (Tuglie, 2017), autore lo stesso Scarcella, va in epilogo con la pubblicazione di un’opera corvagliana, a cui l’Autore teneva particolarmente: La poetica di Giulio Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo, pubblicata per la prima volta nel 1959 sul “Giornale critico della filosofia italiana” di Giovanni Gentile, sessant’anni fa. Atmosfere celebrative diffuse, se consideriamo che Giulio Cesare Scaligero, nato nel 1484, morì nel 1558, dunque 460 anni fa. La sua Poetica (Poetices libri septem) vide luce a Lione, postuma, nel 1561 a cura del figlio Silvio, a cui era stata dedicata. Quando si dice le coincidenze! Anche l’opera inedita di Corvaglia sarebbe stata pubblicata dalla figlia.
Tanto, per l’aspetto editoriale dell’evento, al netto di manifestazioni preparatorie e collaterali che hanno scandito il biennio corvagliano e che si concluderanno con un convegno nazionale nell’aprile
del 2019.
L’evento celebrativo ha avuto il supporto politico e amministrativo del Comune di Melissano, proseguirà con la creazione di un Centro Studi Corvagliani, per dare carattere meno episodico alla centralità di Luigi Corvaglia nella vita culturale del natio centro salentino. Ricordiamo che nel 1986, in ricorrenza del ventennale della sua morte, Corvaglia fu ricordato dal Comune di Melissano con un convegno, cui presero parte Donato Valli, Luigi Scorrano, Gino Pisanò e Quintino Scozzi, e fu murata una lapide sulla facciata della sua casa. Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso fu pubblicata a sua Opera Omnia, relativamente ai suoi studi vaniniani, a cura della figlia Maria e di Gino Pisanò (Galatina, 1990-1994).

Corvaglia fu anche uomo del suo tempo e del suo luogo. Profuse molto del suo impegno militante in opere politiche, che andrebbero riproposte e studiate; in opere letterarie, che contribuiscono come poche a definire quella che chiamiamo identità salentina; e in materiali documentali. Mi riferisco al suo romanzo Finibusterre, ai suoi drammi e alla corrispondenza epistolare, da lui stesso ordinata, con tantissimi personaggi del tempo, politici e intellettuali. Né ci sembra di minore importanza affrontare l’aspetto storico del Corvaglia, di cui si sa ancora poco, con un profilo biografico più rispondente a più approfondite finalità d studio.

Nella circostanza editoriale dell’Opera Omnia, oltre alle due opere del Vanini, furono pubblicati i suoi famosi inediti, quelli del terzo volume (poi terzo e quarto) degli studi vaniniani, che Corvaglia non potette pubblicare da vivo per diversi motivi, ampiamente spiegati dai curatori. Rimase fuori da quell’edizione – non è chiaro perché – il saggio sulla Poetica dello Scaligero, autore a cui pure è dedicato il secondo tomo del terzo volume, il più corposo. Forse perché quell’opera non era tra le fonti utilizzate dal Vanini e poteva non entrare organicamente in un’impresa editoriale dal titolo molto preciso: Le opere di Giulio Cesare Vanini e le loro fonti.

Quel saggio riappare oggi a cura di Scarcella, con un prodromo di Alessandro Conte (Sindaco di Melissano) e con la presentazione di Fabio D’Astore (Neviano, Musicaos, 2018, pp. 132).
Operazione azzeccata e di molta utilità per quanti si avvicinino alla conoscenza e allo studio di Corvaglia, uomo e filosofo. Scarcella ha colto un aspetto del rapporto Corvaglia-Scaligero che illumina non poco gli studi corvagliani sul filosofo veronese, fino ad evidenziare affinità caratteriali e biografiche fra i due. Nota Scarcella: “Nel leggere le singole parole con cui il melissanese descrive la psicologia dello Scaligero, viene spontaneo immaginare, per chi ha avuto relazioni amicali o di semplice conoscenza col Corvaglia in vita, ch’egli stesse descrivendo Scaligero, ma pensando a se stesso” (p. 33).
Scaligero e Corvaglia si somigliano: sono collerici, violenti, polemizzano come gladiatori, sono entrambi valetudinari. Corvaglia, estrapola dal suo studio scaligeriano la parte della Poetica e decide di affidarla al Gentile per pubblicarla perché presente di morire senza poter pubblicare l’intera monografia, a cui teneva tantissimo.

Fu facile profeta di se stesso. La sua grande monografia scaligeriana sarebbe rimasta incompiuta e inedita. Ecco perché volle almeno compiere un atto di simpatia umana e di riconoscimento all’autore della sua vita, che evidentemente non era Vanini, come si crede per altri motivi, ma proprio Scaligero. E se avesse potuto dimostrarlo, portando a compimento l’impresa, sarebbe stato il meritato coronamento del suo lungo lavoro di studioso. Volle pubblicare la genesi e lo sviluppo della Poetica, quasi in risposta a quanti avevano rilevato mende importanti nel lavoro dello Scaligero, a volte anche malevolmente e senza dare supporti critici necessari. Corvaglia, senza dare giudizi ma col suo solito metodo, quasi avvocatesto, smonta l’opera scaligeriana fino a ridurla alle sue componenti costitutive, ne analizza i contenuti con rimandi storici e filologici puntuali e con le funzionalità tecniche e dottrinarie di ognuna di esse nell’insieme.

La cornice storica e l’apparato critico che aggiunge Scarcella allo scritto corvagliano conferiscono completezza e danno risalto all’opera e al suo contesto.

domenica 9 dicembre 2018

L’UOMO E’ UNO SCOLARO, E IL DOLORE E’ IL SUO MAESTRO

L’UOMO E’ UNO SCOLARO, E IL DOLORE E’ IL SUO MAESTRO

 “L’uomo – sentenziava il Mahatma Gandhi - è uno scolaro, e il dolore è il suo maestro”. La massima, ovviamente, non significa pessimisticamente che la vita umana sia sempre e solo dolore e sofferenza; è  solo la constatazione realistica che solo il dolore e la sofferenza plasmano l’essere umano forte e maturo, forgiandone tenacemente l’intelletto, l’anima, la coscienza e la volontà. Gli eventi dolorosi nel camminare per i sentieri impervi e bui dello scorrere del tempo e i tormenti strazianti delle scelte periodiche richieste improvvisamente dal corso dell’esistenza umana sono come dure e forti martellate, con cui il dolore proprio della vita scalpella il marmo informe della natura umana, ricavandone forme mirabili di vigore e sculture di rara sublime dignità. Non è certo con le morbidezze d’un petalo di rosa, che accarezza dolcemente un batuffolo di lana, che si possono incidere marmi e pietre vive. Figuriamoci caratteri vivi, decisi, fermi e stabili: capaci, cioè, di avviarsi per il cammino ignoto e imprevedibile della vita  con decisioni lucide e nette e con scelte radicali e definitive. E questo essere martellati comporta, di necessità, uno stato di vita interiore di perenne sofferenza e lotta con se stessi. Una lotta, però, che, mentre fa sanguinare le fibre più intime dell’animo, germina il sorriso sulle labbra e la tranquillità nell’anima. 

L’essere umano, infatti, agogna la tranquillità e la serenità; e si sforza di raggiungerle e di ottenerle, rimuovendo attentamente dalla sua vita quotidiana ogni ostacolo che gli si presenta e ogni occasione di contrasto, in quanto è convinto che i suoi turbamenti e le sue sofferenze siano generati soprattutto dal mondo a lui esterno e, in primo luogo, dalla rete intricata e confusa delle sue relazioni sociali. Ma, avvertiva ancora il Mahatma Gandhi, “serenità è quando ciò che dici, ciò che pensi, ciò che fai, sono in perfetta armonia”. Bisogna avere il coraggio, quindi, di scoprire fino in fondo chi siamo davvero noi, senza paura di riconoscerlo e di accettarlo nella sua totalità. Anche perché tu e io – si dicono spesso le persone che pensano d’amarsi - non siamo che una cosa sola. Di conseguenza, non posso fare a te  del male senza, nello stesso tempo, colpire anche me. E nessuno può farci più male di quello che noi facciamo a noi stessi. 

Pertanto, è necessario, per una vita che abbia senso di realtà e di verità, vivere nel momento concreto, ma nutrire nel cuore sogni alti, anche se possono sembrare assurdità e follia: solo in questo modo si vive da esseri umani. Senza covare sogni nutriti gelosamente e sperati fortemente, si smarrisce il senso della vita, che diviene così un continuo girovagare insensato dello spirito: il senso del vivere quotidiano  si trova dove collochiamo il nostro cuore, non dove risiede il nostro corpo. E il cuore non pulsa soltanto, ma parla e comunica: non con urla che tutti possono udire, non con sussurri che sentono solo i vicini, ma col silenzio – sempre tormentato e spesso doloroso - che sente solo chi ci ama. 

Questo insegna il dolore: esperto maestro di chiunque voglia essere suo scolaro attento.




mercoledì 28 novembre 2018

IL “POPOLO” E’ IL SOVRANO SEMPRE AFFIDABILE E GIUSTO?


Si esprimono queste riflessioni, con l’ausilio del pensiero e della testimonianza di personalità del passato, non per una comoda cautela nell’esprimere palesemente nostri convincimenti personali e nemmeno con la mira d’accattivarci il consenso altrui, bensì perché possa sollecitare efficacemente la riflessione critica e la valutazione serena di molte situazioni, in cui oggi si vive, in Italia e non solo. Per questo richiamiamo il pensiero di Platone e di Cicerone: il primo, voce esperta e autorevole della cultura greca; il secondo, audace testimone e solutore acuto di non poche crisi della vita politica della Roma del suo tempo; entrambi contrari a forme governative di natura autoritaria e favorevoli a forme, che oggi chiameremmo democratiche.
Premesso che le forme di governo di quei tempi avevano senso, modalità e nomi diversi da quelli odierni, si possono, tuttavia, individuare alcune concezioni e alcune funzioni comuni a quelli dei nostri giorni: come “sovrano e sudditi”, “governanti e governati”, “giustizia sociale e libertà individuale”, “diritti e doveri”, cioè, alcuni capisaldi d’ogni dottrina politica, morale privata, etica pubblica, convivenza civile. Ora, nel quadro politico delle nazioni e degli stati odierni si dà  quasi per scontato – eccetto per i governi palesemente tirannici e dittatoriali - che i governi siano generalmente ispirati a “democrazia”, in quanto di dà per acquisito che la fonte e la garanzia d’ogni autorità sia il “popolo” nelle modalità più disparate. 
Platone, già due millenni e mezzo or sono, manifestava molte perplessità sulla democrazia, poiché dubitava della reale capacità del popolo “governato” di dettare con saggezza e di controllare con giustizia l’azione dei governanti. E documentava il suo atteggiamento con due considerazioni d’ordine generale. Primo, ogni sistema democratico – come testimoniano i fatti della storia - è destinato o a corrompersi in demagogia (oggi si direbbe “populismo”) o a far germinare nel suo stesso seno  la “malerba della tirannia” (oggi molto diffusa, anche se in modo camuffato e sfrontatamente negato). Secondo, il popolo è un’astrazione; nella realtà è un insieme eterogeneo di soggetti, che vanno formati con responsabilità per tutto il corso della loro esistenza e orientati saggiamente nelle diverse congiunture. E rimane sempre, comunque, un attore fallibile, come dimostrarono largamente le vicende occorse al suo maestro Socrate, il quale - primo vero martire della democrazia  - fu condannato a morte, ufficialmente per le accuse (infondate e smentire) di corrompere i giovani e di incitare all’ateismo, ma in realtà perchè politicamente nemico della democrazia appena nata in Atene. Fu condannato da giudici designati democraticamente proprio dal popolo, il quale però, riconosciuto subito dopo il proprio errore, condannò e punì gli stessi giudici che prima aveva ritenuto capaci e competenti. 
A questo punto il filosofo greco cerca di trovare i motivi per cui il popolo, che ha tanto lottato per conquistare la democrazia, fa quasi di tutto per farsela strappare. E ritiene di giungere a questa conclusione:  In un ambiente, in cui il maestro teme ed lusinga gli scolari e gli scolari non tengono in alcuna considerazione i maestri; in cui tutto si rimescola e si confonde; in cui chi comanda, (per poter comandare sempre di più), finge  di mettersi al servizio di chi è comandato e ne blandisce tutti i vizi, per poterli sfruttare meglio; in cui i rapporti tra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle rispettive convenienze nelle rispettive tolleranze (…) la democrazia, per sete di libertà e per l’incompetenza dei suoi capi, precipita nella corruzione e nella paralisi. Allora la gente si separa da coloro, cui attribuisce la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla: prima coi sarcasmi, poi con la violenza. Così la democrazia muore: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo (La Repubblica, cap. VIII). In questo senso Platone si rivela molto moderno: i giovani vogliono apparire più preparati degli anziani e spesso pensano che con l’urlare dimostrano la maggiore validità del proprio pensiero; gli alunni spesso deridono gli insegnanti, i quali, per non esser considerati troppo autoritari e fuori moda, accontentano le loro richieste, non preoccupandosi di trasmettere loro cultura sostanziata di valori e di regole. Gli alunni, invece, che si mostrano ligi ai doveri nel rispetto delle norme, vengono esclusi dal gruppo, divenendo talora vittime di bullismo.  
Ogni popolo – si sentenzia   - ha il governo che si merita. E’ probabile. Ma, se ciò è vero, è molto più vero che ogni popolo è il risultato dell’educazione umana e della formazione politica, che i governanti gli hanno consentito d’acquisire. Ciò che è certo ce lo documenta la storia: in tutti i tempi molti potenti sono sorti e si sono retti sulla “ignoranza” dei cittadini, ai quali viene negata tutta o in parte la verità. Populismi e statalismi nascono e si sostengono sulla progettata carenza di cultura del popolo.  Di conseguenza, quando un cittadino non è tempestivamente educato al senso d’appartenenza e al sentimento di solidarietà corresponsabile, accade che, mirando solo a vivere bene, non s’interessa più al bene comune, ma al bene proprio anche a danno dell’altro. Perdendo la propria libertà, in quanto divenuto “schiavo” del suo egoismo asfittico.
“La libertà – interviene, infatti, Cicerone - non consiste nell'avere un padrone giusto, ma nel non averne alcuno” (De Re Publica, II, 23). Non avere alcun padrone significa, però, essere padroni di se stessi, sviluppando, controllando e gestendo ogni dimensione propria dell’essere umano. E questo richiede la formazione dell’uomo e del cittadino. L’uomo non nasce essere umano, ma lo diventa gradualmente mediante lo sviluppo della propria personalità in tutti i suoi aspetti, primo fra tutti il senso della socialità, cioè del bisogno dell’altro per una vera completa umanità. L’altro non sminuisce né frena la nostra totalità, anzi è l’elemento necessario grazie al quale possiamo dirci ed essere partecipi del genere umano.
Il bambino nasce nella famiglia, cresce nella famiglia e nella scuola, si prepara ad affrontare la vita nella società. La adulterazione di uno di questi ambienti comporta, di necessità, la carenza di umanità nell’adulto futuro. Per non cadere nel gioco dello scaricabarile, è sufficiente che ciascun ambiente adempia al suo compito. Certo, dovremmo immaginare famiglia, scuola, società ideali, e l’ideale non è e non può mai divenire  reale. Ma l’ideale è la forza motrice dell’agire umano, in quanto indica e illumina, regolandola, la meta verso cui dirigersi. Forse, oggi, queste tre istituzioni basilari indicano ben altri ideali. E l’uomo e l’umanità marciano verso di essi, il cui esito finale è difficile prevedere.


mercoledì 21 novembre 2018

COMPITO DELLA CULTURA NELLA POLITICA DI OGGI



Proporre analisi o suggerire rimedi in termini culturali alle prassi politiche d’oggi, a qualunque livello esse operino, potrebbero suscitare risate umoristiche o addirittura apparire uno stravagante scherzo ironico. Politici, storici, economisti, infatti, gareggiano d’ingegno nell’individuare le cause prossime e remote dei tanti disordini sociali, che serpeggiano in ogni parte del mondo, dalle ribellioni dei cittadini contro i poteri costituiti fino ai sanguinosi conflitti armati tra le nazioni e i diversi popoli. In queste analisi, quasi sempre, vengono analizzati gli aspetti esteriori di tali fatti, per i quali - con logica conseguenza – si indicano come rimedi risolutivi, mutamenti esteriori: o ordinamenti giuridici più severi o sistemi politici opportunamente aggiornati o strategie e tattiche di marketing tempestivamente rinnovate o confederazioni di popoli nuove e validamente strutturate. E’ chiaro che in questa prospettiva tutto viene ridotto a problema giuridico e socio-economico, nel cui campo non s’intravede e non si assegna alcun ruolo attivo ed efficace alla cultura. D’altra parte, quale aiuto o aspettativa ci si potrebbe aspettare dalla cultura, dal momento che gli eventi s’inseguono così rapidamente che non concedono alcun intervallo da dedicare alla riflessione e alla valutazione: vengono a mancare così sia la necessaria e pacata lucidità della ragione sia la vigile e tenace vigoria della volontà, presupposti indispensabili per ogni valutazione oggettiva dei fatti e per ogni intervento lungimirante.


Chiunque, però, voglia e sappia scrutare le cause profonde delle insensibilità disumane, che generano divisioni e lotte, ingiustizie e aggressività, povertà e miseria tra gli uomini e tra i popoli in questi tempi, non può non riconoscere che non si tratta solo di degenerazione di alcuni organi istituzionali e di corruzione di alcune funzioni private e pubbliche, bensì di depravazione - nell’intero organismo sociale – di ciò che esso ha di sostanziale e di più profondo, per cui non a torto – sembrerebbe - gli uomini di cultura hanno spesso dubitato e dubitano tuttora che la loro presenza attiva nella vita politica (vista dai più come sontuoso paludamento dei politici’ scaltri, ma priva di vera e fattiva rilevanza) potrebbe essere considerata e concretamente usata solo come una collaborazione di “utili idioti”, per cui prendono poca parte nell’attività politica, in cui palesemente non s’ascolta la correttezza d’un parere, ma s’incorona col successo chi segue le tendenze e si getta nell’oscurità e nell’indifferenza chi vi s’oppone.

Ai nostri giorni, però, s’impone la necessità d’un supplemento di cultura nei “popoli” e nei loro “governanti”, cioè nella vita politica nel suo complesso. E’ più che sufficiente osservare la qualità e i toni della lingua generalmente usata per esprimere valutazioni su amici e nemici (pare n esista più “l’avversario” politico) e per lanciare giudizi su tutto e su tutti: tanta è la virulenza e il sarcasmo che non è dato quasi mai distinguere il vero dal falso. E questo è nocivo per tutti i cittadini. Già quindici anni or sono Norberto Bobbio scriveva: “Non vi è cultura senza libertà, ma non vi è neppure cultura senza spirito di verità. Le più comuni offese alla verità consistono nelle falsificazioni di fatti o nelle storture di ragionamenti”. Affermazione che fa meditare con preoccupazione.

 A questo male non si ripara, però, facendo ricorso all’intervento nella politica dei cosiddetti ‘tecnici’. Questi vengono richiesti dagli apolitici, che pretendono di separare politica e tecnica, benché siano consapevoli che il tecnico non avrà mai le competenze necessarie per capire e risolvere il tanto decantato bene comune. E nuovamente ci ammonisce Bobbio: “Tecnica apolitica vuol dire in fin dei conti tecnica pronta a servire qualsiasi padrone, purché questi lasci lavorare e, s'intende, assicuri al lavoro più o meno onesti compensi; tecnica apolitica vuol dire soprattutto che la tecnica è forza bruta, strumento, e come tale si piega al volere e agli interessi del primo che vi ponga le mani. Chi si rifugia, come in un asilo di purità, nel proprio lavoro, pretende di essere riuscito a liberarsi dalla politica, e invece tutto quello che fa in questo senso altro non è che un tirocinio alla politica che gli altri gli imporranno, e quindi alla fine fa della cattiva politica”. Dietro le parvenze del tecnico apolitico Bobbio intravedeva il politico incompetente, che è privo delle conoscenze necessarie, per cui non sa come procurarsele e in genere resta solto un politicante. Un tema, come si vede, di chiara attualità nel dibattito politico: si deve rendere la politica consapevole dell'importanza della conoscenza accurata dei fatti e del rigore nell'argomentazione. Cioè della cultura.






mercoledì 7 novembre 2018

L'EUROPA NON E' SOLO DEMOCRAZIA


Vale la pena dedicare alcuni minuti, per leggere e riflettere su alcuni stralci della “Opinione”, che Maurizio Ferrera ha pubblicato sull’odierno “Corriere della Sera”, con l’auspicio che sia fatto oggetto di un sereno “dialogo” fra cittadini europei.

L’EUROPA NON È SOLO BUROCRAZIA di Maurizio Ferrera

Le elezioni europee del prossimo maggio avranno luogo alla fine di un vero e proprio «decennio orribile» per la Ue. Prima il terremoto finanziario importato dagli Usa, poi quello del debito sovrano. La Grande Recessione, con i suoi costi sociali. E, ancora, gli attentati terroristici, la crisi dei rifugiati, lo tsunami dell’immigrazione, la Brexit. Un’inedita sequenza di choc, che hanno fatto vacillare le fondamenta dell’Unione. Eppure l’edificio non è crollato. Al contrario, sono stati intrapresi alcuni passi verso una maggiore integrazione economica, avviando un delicato percorso di condivisione dei rischi. Non si è fatto abbastanza, certo, e su alcuni fronti (ad esempio la dimensione sociale) si è persino tornati un po’ indietro. Ma nel suo complesso l’Unione ha saputo resistere alle enormi tensioni. Anche se insicurezza e paure non sono scomparse, la stragrande maggioranza dei cittadini europei (Regno Unito escluso) ha recuperato oggi fiducia nella Ue. A dispetto delle varie tempeste, quella che potremmo chiamare l’«Europa di tutti i giorni» ha continuato imperterrita a funzionare (…).

Nel grande dibattito sulla Ue, nessuno considera questa Europa di tutti i giorni. La ragione è semplice: fa così parte del nostro mondo che abbiamo smesso di percepirla. Siamo diventati come i «bambini viziati» di cui parlava il filosofo spagnolo Ortega y Gasset negli anni Trenta del secolo scorso. Così come la democrazia liberale, diamo ormai per scontata anche l’Europa integrata: i suoi benefici, le sue opportunità quotidiane. Della Ue i media e i politici parlano in genere come un’entità astratta e lontana, tendono a vederne gli aspetti che non funzionano. Per sentire parole di apprezzamento e ammirazione dobbiamo attraversare i confini esterni, entrare in contatto con chi vive sotto un regime oppressivo (…).

Sottolineare la vitalità e i pregi dell’Europa di tutti i giorni non significa disconoscerne i difetti come sistema istituzionale. Al contrario, è una ragione in più per dispiacersene e per spronare chi ci governa a correggerli. Ortega y Gasset diceva che sono proprio le élite a dover difendere tutto ciò che i «bambini viziati» danno per scontato. I sondaggi rivelano che esiste ancora un vasto potenziale elettorale per un rilancio del progetto d’integrazione. Le indagini sugli orientamenti delle classi politiche nazionali sono meno confortanti. A questo livello prevale una percezione «strumentale»: la Ue è un bene solo se è vantaggiosa per il proprio Paese, è un sistema di regole da usare finché conviene. Non lo dicono solo i leader sovranisti (che giocano a fare i «bambini arrabbiati») ma anche segmenti importanti dei popolari e, seppur in misura inferiore, di socialisti e democratici. Le prime comunità europee furono create da Padri Fondatori responsabili e lungimiranti. La Ue di oggi sembra invece un’orfana lasciata a se stessa.

L’infrastruttura dell’Europa di tutti i giorni ha dato prova di robustezza e può procedere col pilota automatico. Ma non a lungo. In vista delle elezioni di maggio, abbiamo un disperato bisogno di élite capaci di far leva sul tessuto «banale» di connessioni a livello economico e sociale per smorzare i conflitti politici. Servono nuovi leader che emergano dal basso, espressione di quelle maggioranze silenziose che si trovano a proprio agio in una Unione sempre più stretta. E che proprio per questo vorrebbero che la Casa Europa diventasse meno litigiosa, più solida e resistente alle inevitabili intemperie della globalizzazione.

Maurizio Ferrera 

martedì 20 giugno 2017

ARROGANZA SEGRETA DI COMPORTAMENTI BANALI


Nel “Corriere della Sera” di ieri, 19 maggio 2017, è stata proposta una “Opinione” a firma di Dacia Maraini. Lo stile piacevole e il contenuto interessante (col sorriso si correggono non poche stupidità, aveva già detto duemila anni fa il poeta latino Orazio) ne rendono davvero utile la lettura. E noi la riproponiamo.

 Il linguaggio segreto, simbolo di fragilità.
Di Dacia Maraini

Le mode hanno qualcosa di stupido e devastante. Se chiedi a un ragazzo perché porti i capelli rasati di fianco e alzati sul capo come un panierino, ti dirà che fanno tutti così. Ma lo sai che questa moda della rasatura laterale vuole esprimere una rabbia militaresca ed è stata lanciata da Kim Jong, il piccolo grasso crudelissimo dittatore della Corea del nord? Mi si risponde con una alzata di spalle. Fanno pure ridere quelli che comprano a caro prezzo dei jeans pieni di strappi che imitano una finta povertà che piace soprattutto a chi povero non è. E che dire della moda delle scarpe a punta, (per fortuna ormai passata) che provoca deformazioni ai piedi? Il mito del piede piccolo nasceva in Cina dalla volontà di mostrare che una ragazza nobile e ricca non aveva bisogno di camminare. Andare a piedi era da contadine, per questo si torturavano i piedi fino a renderli inutilizzabili. Anche le scarpe a punta e i tacchi alti di oggi sono deleteri per un piede di donna che vuole camminare, correre, salire e scendere le scale. Ma se la moda lo chiede…

E che dire della barba lunga, spesso ingrigita, che gli adulti, soprattutto intellettuali, portano con disinvoltura? Sono stati i fanatici religiosi a cominciare. Per loro la barba è un simbolo di austerità e rigore morale. Il paradosso è che anche chi si dichiara laico e combatte i fanatismi, si fa crescere la barba. È la moda, e non ci posso fare niente, cara amica. Chi sa che il tatuaggio nasce nelle prigioni, come il linguaggio della pelle prigioniera? Erano gli analfabeti, i poveri schiavi che non sapevano né leggere né scrivere a parlare con le immagini del loro corpo. Il tatuaggio più ripetuto era la farfalla (ricordate Papillon?) o il gabbiano, che esprimevano il desiderio di attraversare le sbarre e inoltrarsi in un cielo libero. Anche una figura femminile o una barca dalle vele spiegate, parlavano della libertà perduta. Il corpo diventava la carta su cui si scrivevano i messaggi di un recluso infelice e solo. Come mai oggi ragazzi e ragazze, mai stati in prigione, si fanno infilare gli aghi nella pelle per imitare senza saperlo quei disperati segregati nelle carceri dei secoli scorsi? La moda si nutre di linguaggi segreti e memorie perse, e racconta una fragilità senza rimedio. L’arroganza sta nel ripetere un rito senza conoscerne le origini, per cieca allusione a una sofferenza non propria, come il crocifisso scintillante su un petto di donna, come l’anello infisso in una palpebra o sul labbro a memoria di una lontana schiavitù.


sabato 1 aprile 2017

MA COS'E' L'AMERICA DI OGGI?



Donald John Trump è un potente imprenditore, capace soltanto di accumulare denaro ed esercitare potere. Divenuto progressivamente insensibile ad ogni sensibilità umana, pensa soltanto in termini di dominio e agisce in prospettive di gretto malcelato egoismo individuale. Pronto a strumentalizzare intere generazioni, per celebrare la propria presunzione di onnipotenza, che vorrebbe genuflessa ai suoi piedi l’umanità. Del tutto incapace a prevedere le conseguenze pratiche delle sue azioni.

S’è trasformato misteriosamente in politico ed è divenuto il 45º presidente degli Stati Uniti d'America dal 20 gennaio 2017.

Non è forse opportuno ripensare ad Alexis De Tocqueville? E meditare come è stato visto da alcuni uomini di pensiero responsabile e ponderato?

"Non è affatto un ammiratore soddisfatto della società americana: nel suo intimo conserva una gerarchia di valori che assume dalla sua classe, l'aristocrazia francese”(Raymond Aron).

Diviso fra ammirazione e inquietudine per la democrazia e devozione e sollecitudine per la libertà, il dissidio egli lo portava dentro di sé(Norberto Bobbio).

La Democrazia in America, il miglior libro mai scritto sugli Stati Uniti, si basava su un viaggio durato non più di nove mesi(Eic Hobsbawn).

I moderni teorici della democrazia politica non sono interessati alla fondamentale condizione sociale di uguaglianza che Tocqueville aveva in mente(Ralf Dahrendorf).



).

INVOLUZIONE DI UN CONCETTO. CORRUZIONE DI UNA PRATICA


Per “Politica” si è intesa – sin dalle culture più antiche – una concezione di indiscusso contenuto etico, generalmente appannaggio di persone probe e di chiara moralità anche privata.

Di conseguenza, la pratica della “Politica” era pensabile solo come attività da affidare solo a delle personalità capaci di “guidare” la “città” soprattutto grazie al patrimonio morale della loro vita coerente ed onesta, tale da essere esempio a tutti e, massimamente alle nuove generazioni: la politica era, quindi, la maestra e l’educatrice dei popoli e dei singoli, che apprendevano così le tradizioni virtuose e i valori fondamentali mirati alla reciproca crescita globalmente umana. 

Tali personalità, ovviamente, venivano richieste di dedicare un po’ della loro vita alla cosa pubblica: ed esse accettavano coerentemente ai loro principi di “servizio”. Mai avrebbero rivendicato un proprio “diritto di fare politica”, e tanto meno di costituire la “classe politica” esperta e capace.

Dopo il servizio “regalato” alla propria comunità, si ritiravano senza nulla pretendere, soddisfatti solo di “aver fatto politica”: e così contenti, assistevano alla vita pubblica della loro “città” guidata da altre persone ugualmente idonee e disponibili a “regalare un pò della loro vita alla cosa pubblica: ed esse accettavano coerentemente ai loro principi di servizio”. 

Chissà su quale pianeta sono andati a finire questi uomini veri, destinati dalla storia a vivere in tempi in cui era possibile una vita umana e sociale veramente a dimensione d’uomo!




sabato 2 luglio 2016

VINCE L'ASTENSIONISMO. DEMOCRAZIA KO

Pubblicato su Affaritaliani il 20 giugno 2016

E’ giunto il tempo fissato per “tirare le conseguenze” del responso delle urne elettorali. Le analisi e le valutazioni veramente significative delle consultazioni amministrative erano state rinviate al dopo i ballottaggi, fermo restando – com’era stato sottolineato ripetutamente da alcuni esponenti e forze politiche - che si sarebbe trattato di consultazioni amministrative, quindi di breve respiro, in quanto circoscritte al governo di Enti Locali  e, pertanto,  assolutamente vuote di qualunque valenza politica nazionale. I commenti dei leaders di partito sono noti, del resto prevedibili e scontati, perché collaudati da decennale ritualità: il solito e usurato sciorinare numeri, cavillando per evidenziare a ogni costo il significato positivo o negativo dei decimali delle parti e, ovviamente, per ostentare il proprio avanzamento (probabile) e sottolineare la regressione (eventuale) d’altri. Qualunque conquista è esaltata come vittoria e qualunque perdita è segnalata come sconfitta. Il cittadino italiano, però, da parte sua, a questo spettacolo assiste incredulo, ma soprattutto amaramente sospeso tra il serio e il faceto: l’intero mondo politico ostenta grande competenza a interpretare il responso delle urne; ma dimentica (astutamente) o sottace (scaltramente) che a disertare le urne è stata circa la metà dell’elettorato.

Certo, nella democrazia rappresentativa è utopistico pretendere una partecipazione totale del popolo all’esercizio del voto, ma è realistico aspettarsi l’adesione d’un numero significativo di elettori. Quando ciò non succede, discettare su chi – tra i partiti politici in campo – abbia vinto e perso è un esercizio inutile, se non dannoso e che, comunque, fa parte di modelli ormai superati. Oggi, il fenomeno più incomprensibile e pauroso, che dev’essere analizzato e valutato in ogni sua dimensione, è l’astensionismo: il destino della democrazia – non solo in Italia – è appeso alla soluzione del problema dell’astensionismo. Nella democrazia realizzata nasce, si radica e s’irrobustisce un sempre più convinto e profondo sentimento di comune appartenenza, che è l’esatto contrario dell’assenteismo. La disaffezione e l’avversione del cittadino verso la politica, pertanto, nascono essenzialmente dal vedersi privato del “diritto di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49 della Costituzione) e dallo svuotamento (graduale, ma reale) del suo diritto-dovere di voto, a causa di leggi elettorali, che trasferiscono il potere reale di designare i “rappresentati del popolo” solo ai capipartito. Si crea così un distacco tra governanti e governati, che snatura l’essenza stessa della democrazia, sradicandola dal suo senso costitutivo e trasformandola in altre forme di governo, forse più efficienti, ma non certo “del popolo per il popolo”.

In buona sostanza, la causa dell’astensionismo è lo strapotere di alcuni pochi, che pianificano programmi socio-politici forse anche in sé validi, ma che il “popolo non gradisce”; per cui bisogna individuare e valutare chi sono i “soggetti interessati”, che propongono - con un pesante deficit di democrazia - per il prossimo futuro i mutamenti alle condizioni generali della politica (ovviamente in nome del popolo e per il bene comune). A rafforzare queste domande (e a trovare risposte plausibili) sono i recentissimi comportamenti - espliciti e diretti – dei mercati economici e finanziari, delle grandi imprese e delle multinazionali. E’ di qualche giorno fa l’avviso dell’agenzia internazionale di valutazione di credito Fith, che – dopo l’ingiunzione già del 1913 all’Eurozona di “sbarazzarsi delle costituzioni antifasciste” – ha unito la sua voce a quella dei Fondi JP Morgan, della Confindustria e del Fondo Monetario Internazionale a proposito del comportamento dei cittadini al prossimo referendum costituzionale: gli Italiani approvino la proposta referendaria del loro Governo, perché “l’esito del referendum di ottobre 2016 sarà fondamentale per determinare se la spinta alle riforme continua o va in stallo”. Nulla da eccepire sulla legittimità di esprimere opinioni e dare indicazioni, anche se i mercati finanziari e le multinazionali non hanno le migliori credenziali per giudicare e consigliare (considerando la crisi del 2007-2008); si tratta, comunque, di un mondo autonomo, che giustamente ha i propri scopi da raggiungere e i propri interessi da difendere. Del resto, anche i vertici delle gerarchie ecclesiastiche spesso non dubitano di attaccare a gamba tesa il mondo della politica e dare ai “credenti” – spesso e più o meno diplomaticamente - indicazioni  di comportamento.

Il problema vero – che deve preoccupare molto seriamente, e non solo gli Italiani - non è né la retorica dell’antipolitica (quante carriere costruite e quante scalate al potere in nome dell’antipolitica!), né la perdita spesso lamentata di autonomia della politica a causa sia dello strapotere della magistratura e sia delle indebite ingerenze della sfera morale. Autonomia, infatti, non è assoluta e totale autoreferenzialità o rigida divisione impermeabile dei poteri, ma capacità di ogni potere e istituzione di perseguire i propri scopi con i propri metodi, sempre e comunque in continuo confronto collaborativo con ogni altra realtà statuale, sociale, economica e culturale. Il problema vero è lo svuotamento del modello democratico. La democrazia reale è certamente una forma di governo, ma che si sostanzia d’una propria  visione integrale dell’uomo e del mondo, senza della quale diventa sterile tecnicismo, arido sistema di riforme e controriforme, spesso bloccato dai veti incrociati dei diversi partiti e sindacati. Per questo nella democrazia c’è il rischio che si apra un’agevole strada per reclamare urgente la necessità di efficienza governativa e di velocità amministrativa, comportando ovviamente un depotenziamento del  modello democratico, in cui si depaupera gradualmente il ruolo del popolo. La democrazia viene ridotta a insieme di regole e di procedure di natura tecnica, bisognosa, quindi, non di politici competenti e lungimiranti, ma di tecnici e di decisionisti. Invece la democrazia vive di azioni di governo e di sviluppo, in cui tutte le forze sane della cultura, della politica e dell’economia s’intrecciano in sinergia positiva e solidale. Del resto, la politica, finché sembrava offrire qualche possibilità costruttiva di azioni concrete indirizzate al maggior bene comune, poteva ricorrere all’ausilio di personalità valide e generose, estranee alla politica (irrise poi dagli stessi politici come “utili idioti”), ma l’attuale situazione (non solo dell’Occidente) fa rammentare ai benpensanti il consiglio suggerito due millenni e mezzo fa nella Repubblica (VI libro) dal vecchio ed esperto Platone: quando infuria la tempesta devastatrice, è da insensati mettersi in mezzo e sfidare la bufera; è saggio soltanto il mettersi al riparo, sperando di salvare almeno la propria ragione.
Mettersi al riparo dalla degenerazione della politica e dalla corruzione dilagante ovvero, parafrasando Jacques Maritain, schierarsi per la “neutralità attiva”: forse è questa oggi l’unica forma di “antipolitica” positiva e costruttiva, intesa come lotta dura contro i partiti alquanto degenerati e i suoi esponenti che, anziché  perseguire il bene comune, sono dediti solo o soprattutto agli interessi personali e privati, sfruttando al peggio i bisogni del popolo onesto e laborioso. La presenza in politica di persone credibili potrebbe tornare a vantaggio di chi della politica fa un mestiere  a suo uso e consumo. Inoltre, rimanere fuori, in situazioni particolari, è l’opposizione necessaria, in quanto, se non ci sono forme sane di opposizione, non c’è democrazia, ma pensiero unico; e senza diversità di pensiero, si annichilisce lo spirito umano creativo e libero e s’incoraggiano la simulazione degli scaltri e l’uniformità dei deboli. Di conseguenza, non più rispetto del vero, del giusto e del bene, ma ampia liceità di ciò che conviene. Ma, se è giusto sempre e solo ciò che conviene, svaniscono responsabilità e libertà, cioè quell’eredità umana, che dovremmo responsabilmente trasmettere alle generazioni future.

domenica 12 giugno 2016

PER UN VOTO REFERENDARIO RESPONSABILE E LIBERO

Pubblicato su Affaritaliani il 6 giugno 2016

Chiuse le urne e sfogliate le schede elettorali, tutti i partiti sono impegnati a fare i conti e tracciare bilanci, concentrati a indovinare a favore di chi sta girando il vento. Comunque, può ritenersi chiuso il tempo della campagna elettorale per le consultazioni amministrative (dai toni non sempre raffinati e dalla qualità spesso mediocre); ed è giunto il tempo di dedicarsi alla conoscenza seria e alla valutazione ponderata delle problematiche inerenti al referendum costituzionale, che si terrà in ottobre e con cui i cittadini italiani sono interpellati se approvare o respingere la riforma voluta dal governo in carica.

Il testo di legge - lungo e piuttosto complicato – comprende contenuti notevoli e destinati a cambiare in maniera significativa il funzionamento dello Stato e delle sue Istituzioni. Se approvato, la “Repubblica Democratica” italiana non sarà governata più dal Parlamento composto da due Camere con ruoli uguali e competenze ripetitive; il suo Governo sarà investito del suo Potere Esecutivo mediante la fiducia della sola Camera dei Deputati; il Senato avrà composizione e ruolo del tutto inediti; nuove norme regoleranno i rapporti tra il Governo Nazionale e le Assemblee dei vari Enti Locali; saranno introdotte importanti novità riguardo la procedura dell’elezione del Presidente della Repubblica e nuovi criteri per la designazione dei componenti della Corte Costituzionale.
Si tratta, insomma, d’un documento legislativo, con cui si propone una serie di modifiche ed emendamenti, che darà un volto radicalmente innovativo all’intera organizzazione governativa dell’Italia del XXI secolo. Per questo ci sarà bisogno sia d’un popolo diligentemente informato e responsabilmente coinvolto, e sia d’una classe politica dalle competenze adeguate e disponibile ai frequenti e tempestivi aggiornamenti, che richiederanno sia l’evolvere talora repentino delle situazioni e sia la sempre maggiore necessità di efficienza operativa dell’intera macchina politico-amministrativa del Paese. Si tratta, quindi, d’una svolta politica decisiva, che richiede, oltre alle ovvie dotazioni tecniche e giuridiche, anche e soprattutto una generale formazione culturale rinnovata, grazie alla quale l’intera Nazione sappia intercettare e accogliere ogni emergente istanza del nuovo, innestandola - con l’indispensabile “prudenza politica” – sull’eredità del passato (che va sempre e comunque valutato e rispettato) e armonizzandola col presente e nella prospettiva del futuro, cui ogni generazione vuole legittimamente ambire.
Appare subito chiaro che la partita in gioco è di estrema importanza: si tratta, infatti, di scelte decisive, che determineranno la qualità della vita del popolo italiano di oggi e di domani. Per questo è assolutamente prioritario che agli elettori siano illustrati  i contenuti della legge oggetto del referendum con spirito di collaborazione costruttiva, in modo sincero e veritiero, con opportuna pacatezza di argomentazioni e con la dignità di linguaggio richiesta dall’argomento; senza timore di esplicitare ogni intenzione (anche non immediatamente palese), di riconoscere possibili contraddizioni in cui si è dovuti cadere, anzi, evidenziando probabili rischi, cui sarà possibile (o anche necessario) incorrere, pur di perseguire obiettivi reali di progresso e di bene comune. Essere disponibili al confronto e al dialogo, difendere le proprie idee riconoscendone pregi e difetti, accogliere suggerimenti utili per miglioramenti evidenti è sempre e comunque dimostrazione di maturità etica e prova di saggezza politica.
Quello, invece, che viene offerto ai cittadini in questa circostanza appare uno scenario molto diverso e comunque molto lontano da quello che serve. Si ha la sensazione che si voglia trattare l’elettorato alla stregua di tifoserie calcistiche da ben organizzare e istruire. Da una parte, infatti, è stato stilato l’appello dei cosiddetti “costituzionalisti contrari alla riforma costituzionale” (immediatamente e aprioristicamente definiti – proprio da chi forse dovrebbe rimanere al di sopra delle parti -  “archeologi che credono di difendere il codice di Hammurabi”), dall’altra parte è stato contrapposto e diffuso il “manifesto delle ragioni del sì”, sottoscritto da un nutrito gruppo di costituzionalisti e intellettuali, che si presenta come chi, “dopo anni e anni di sforzi vani (…), affronta efficacemente alcune fra le maggiori emergenze istituzionali del nostro Paese”. Leggendoli entrambi, per la genericità aleatoria del contenuto, per il tono sconveniente all’elevatezza dell’argomento e poco riguardoso dell’intelligenza dei cittadini, fanno rimpiangere i “Manifesti” degli intellettuali fascisti e antifascisti di novant’anni fa (1925), che pure non brillarono molto per imparzialità dottrinale e lungimiranza politica, nonostante la riconosciuta autorevolezza dei loro promotori. Tanto può fare  la “passione politica”, se incontrollata.
Oggi, però, i cittadini italiani non sono chiamati a sostenere e far trionfare una di due proposte opposte, ma a “contribuire democraticamente” a creare l’unico documento necessario e utile per la più onesta e più efficace strutturazione del governo della società. Ai cittadini interessa sostanzialmente che siano salvaguardate la sovranità popolare (essenziale per una “democrazia” e come sancito nell’articolo 1 della Costituzione)  e la libertà personale e collettiva (conquistata e donata loro dai propri padri). La graduale usurpazione di questi due valori fondamentali e irrinunciabili ha allontanato molti (circa la metà degli elettori non più votanti!) dalla politica, in quanto si sono visti deprivati – in maniera progressiva, ma sostanziale e talora con ingannevoli tatticismi partitici - della loro sovranità, affidata all’esercizio del voto “personale ed eguale, libero e segreto” (articolo 48 della Costituzione), essendo stati ridotti di fatto ad avalli, rituali e obbligati, di scelte decise da pochi e al di fuori dal popolo, anche quando si proclamava da tutte le parti di agire per il bene del popolo. Senza sovranità sostanziale non ci può essere concreta pienezza di libertà né di pensiero né di azione.
Dal momento, quindi, che la prossima riforma costituzionale regolerà l’intera vita futura del popolo italiano, è essenziale che a deciderla definitivamente sia il popolo, coinvolto il più direttamente possibile e mediante procedimenti condivisibili e rispondenti alla forma “Repubblicana-Democratica” dello Stato e del Governo. E non si può fingere di non sapere che il mutamento della forma dello Stato e del Governo si può perseguire in tanti modi. Mutando, per esempio, qualche formale, ma significativa “sovrastruttura” funzionale, di fatto resta modificata anche la “struttura essenziale e sostanziale” della Carta. Certo, nel contesto politico europeo e intercontinentale, è risibile sentir paventare la “deriva autoritaria” o, all’opposto, veder brandire il fantasma della “palude”.  Così come è assurdità istituzionale e contraddizione politica legare il destino d’un Potere Esecutivo e addirittura il futuro d’un Premier a un esito referendario. A meno che non si vogliano nascondere biasimevoli forme ricattatorie. La Costituzione va aggiornata, perché ne ha bisogno, secondo anche l’avvertimento del Calamandrei, che già novant’anni fa, in occasione della festa della Repubblica, affermava che si celebrava la “festa dell’incompiuta”.
Il popolo sovrano è chiamato ad esprimersi non sull’opinabilità di messaggi più o meno veritieri e opportuni, ma su temi vitali e ben definiti. A tal fine, è necessaria una sola cosa: abbandonare ogni interesse privato e ogni settarismo partitico e spiegare al popolo, in maniera “schietta e popolare”, quanta verità certa e quanti sottintesi pericolosi sono contenuti nella riforma costituzionale proposta, dileguando le ombre che oscurano soprattutto alcune questioni nevralgiche, come le innegabili ripercussioni del combinato disposto di riforma costituzionale-legge elettorale.


mercoledì 1 giugno 2016

DIRITTI UMANI E DIGNITA’ DELLA DONNA

 Pubblicato su Affaritaliani il 25 maggio 2016

Nel maggio dell’anno scorso, su iniziativa del mensile de “L’Osservatore Romano” Donne Chiesa Mondo, nella Casina Pio IV in Vaticano, s’era celebrato un seminario internazionale di tre giorni (28-31 maggio)  sul tema riguardante i diritti umani e la salvaguardia della dignità della donna. I partecipanti erano tutte donne, ma a relazionare erano stati chiamati due uomini, “persone competenti ed appassionate”. Dall’articolato e ricco dibattito vennero fuori testimonianze interessanti e proposte coraggiose, che furono riassunte in tre ambiti problematici: a) la violenza sessuale subìta e vissuta con vergogna da parte della donna, b) il comportamento della famiglia di fronte all’emancipazione femminile, c) la definizione della nuova identità della donna. 

Trascorso un anno, il 3 maggio scorso, il Segretario di Stato Vaticano, cardinale Pietro Parolin, la coordinatrice della rivista Lucetta Scaraffia e la sorella di Bose Elisa Zamboni hanno presentato - ufficialmente e solennemente nella sala della Filmoteca Vaticana a Palazzo San Carlo - il medesimo mensile Donne Chiesa Mondo, che compiva quattro anni di vita e veniva arricchito di contenuti nuovi e di rinnovata veste tipografica. 

Venti giorni dopo,  su proposta di Anelay of St Johns, ministro e rappresentante speciale del governo britannico per la prevenzione della violenza sessuale nei conflitti, l’ambasciatore di Gran Bretagna presso la Santa Sede ha organizzato, con l’aiuto del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, un seminario per discutere della violenza sessuale, primo ambito emerso dal seminario tenuto l’anno precedente e dolorosa emergenza causata soprattutto dalla crescente belligeranza tra le nazioni.   

La riunione – sottolinea con sofferta amarezza e attenta precisazione Lucetta Scaraffia - si è svolta a porte chiuse, in un luogo appartato di Roma, perché molte delle religiose e dei religiosi coinvolti rischierebbero la vita, se si sapesse cosa fanno. E comunque si è capito che la rischiano ugualmente. È infatti molto pericoloso cercare di difendere le donne in Paesi dove domina incontrastata la guerra civile, che comporta una violenza continua e inesorabile: un cappuccino congolese ha parlato di trecento donne violentate al giorno solo nella sua regione. È una realtà terribile, di cui non si parla molto, oppure vi si accenna solo per dire “è sempre stato così”. E ancor meno si parla di chi cerca di porre rimedio a questa tragedia”. 

A conclusione dei lavori del seminario sono stati suggeriti e sottolineati alcuni rimedi immediati e indispensabili, per contrastare la violenza sessuale a danno delle donne. Innanzitutto la produzione d’una legislazione seria, ferma e decisa contro l’impunità diffusa dei violentatori: infatti, la prospettiva d’una punizione del colpevole certa, sicura e ben proporzionata al misfatto, se non scoraggia del tutto l’aggressività dei molestatori, almeno incoraggia la donna a denunciare, superando e vincendo il senso di colpa, che quasi sempre s’addossa, rimanendone attanagliata. In secondo luogo, l’impegno necessario per unire gli sforzi da parte di tutti, al fine di dare vita – in questi tempi caratterizzati da movimenti di rivendicazione dei diritti d’ogni natura e a ogni livello - a ogni possibile iniziativa capace di trasformare, con gradualità e continuità, la visione culturale spesso carente dei valori peculiari della persona umana e della donna. 

A giusta ragione il ministro britannico ha predisposto un protocollo - firmato da 140 Paesi – in cui sono contemplate e dettagliatamente spiegate le istruzioni per l’avvio delle indagini e per la protezione dei testimoni e delle donne disponibili a denunciare. Il protocollo si pone anche come un ottimo  strumento offerto agli avvocati e ai giudici, perchè  affrontino un problema al quale, per ovvi motivi, non sono stati preparati.  

Per ora il protocollo riguarda i casi di violenza perpetrati nei paesi divenuti teatro spesso stabile di guerre oppure in nazioni  devastate da frequenti conflitti civili fratricidi fatti anche di funeste politiche di pulizia etnica. Questo, pur attirando giustamente l’attenzione su ciò che succede quotidianamente in luoghi alquanto “lontani”, non può e non deve distrarre l’interesse per quanto accade in luoghi a noi “vicini”. Le donne, infatti, subiscono violenze fisiche e morali anche nel chiuso dei muri domestici di “amorevoli case”, nelle strade popolate di “civilissime città” e spesso da parte d’individui insospettabili che, da uomini “per bene e di cui fidarsi”, si trasformano in esseri perversi e snaturati, privi d’ogni sensibilità e schiavi d’istinti brutali.  

Pertanto, è dovere universale di solidarietà umana e di giustizia sociale unire in un unico potente impegno le forze di tutti gli esseri umani, al fine di debellare l’inciviltà contro le donne e di lottare per la salvaguardia dei loro diritti umani e, in primo luogo, della loro dignità di persona. Gli incontri realizzati grazie anche all’iniziativa del mensile Donne Chiesa Mondo hanno scoperto un piccolo lembo della coltre che copre una realtà tanto disumana quanto trascurata. Infatti, la narrazione e la conoscenza di tante coraggiose esperienze, di tante vite eroiche, sinora quasi sempre sotterrate dal pudore personale e imprigionate dal timore sociale, sono state l’occasione che ha messo in luce l’immagine almeno d’una parte di umanità, che vuole schierarsi dalla parte dei più deboli, ai quali la frenesia del profitto economico, la brama del potere politico e la sordità morale d’interi paesi hanno tolto persino la voce, con cui poter denunciare soprusi patiti e difendere elementari diritti negati.  

In primo luogo, pertanto, urge l’impegno comune per una radicale trasformazione culturale, che faccia capire - agli uomini e anche alle donne – che la donna è una persona appartenente al genere umano e, quindi, con gli stessi diritti umani, con la stessa dignità e con il medesimo dovuto rispetto; e lo è sempre, anche quando – disgraziatamente – è stata deturpata nel corpo e dissacrata nell’anima; essa resta sempre persona che ha le carte in regola, per vivere da elemento attivo della propria società e da parte vitale della comunità umana. Anzi, diventa persona più degna, perché più provata; più meritevole, perché più sperimentata; più amabile, perché  riconsacrata. Nella storia secolare dell’umanità, quella della donna  è una storia a sé e registra lunghe ed estenuanti lotte per rivendicare e ottenere il riconoscimento almeno dell’uguaglianza di genere, per lungo tempo sopraffatta e negata dalla prepotenza ottusa del genere maschile. 

Prevenire, impedire, difendere, punire debbono essere, quindi, i cardini d’ogni valida iniziativa di rieducazione permanente al rispetto reciproco di tutti gli esseri umani e, quindi, anche della donna. A cominciare dalle famiglie, a continuare con la scuola, a proseguire con le istituzioni nazionali e gli organismi internazionali















giovedì 26 maggio 2016

CORRUZIONE E PRESCRIZIONE TRA URGENZE E DUBBI


Pubblicato su Affaritaliani il 29 aprile 2016

Ciò che suscita stupore – che subito, però, si trasforma in indignazione – ormai non sono più la realtà e la scoperta dei fatti di corruzione ogni giorno più dilaganti e veramente sorprendenti. Stupiscono, invece, le reazioni di alcune parti del mondo della politica, quando sono interrogate e chiamate a trovarne i rimedi, al fine di debellare il più possibile la piaga della disonestà privata e del malaffare pubblico. 

Come, soprattutto nell’ultimo ventennio, il “potere legislativo” italiano abbia prodotto volta per volta (e spesso caso per caso) “strumenti  giudiziari” mirati a rendere impunibili non pochi né piccoli reati delle caste e delle lobbies è scritto nelle cronache di quegli anni e ormai sotto gli occhi di tutti. Tra tutti spiccano gli interventi sulla prescrizione, grazie alla quale sono state pronunciate (per costrizione di forza maggiore) numerose sentenze di non colpevolezza, prontamente scambiata e tatticamente propagandata come “innocenza”, tanto che da “presunti colpevoli” si diventava “sicuri innocenti” perseguitati, vittime di una giustizia vessatoria e amante delle manette.  

Da oggi – finalmente! – parte l’esame parlamentare del testo base per allungare i tempi della prescrizione. Significative le puntuali sottolineature fatte ieri all’inaugurazione dell’anno formativo della Scuola Superiore della Magistratura a Scandicci dal Presidente Mattarella, giunto a Firenze in treno. Ricordato il dovere di chiunque s’impegni in politica non solo di essere, ma anche di mostrarsi onesto in ogni momento e con tutta trasparenza, in quanto “nell'impegno politico si assume un duplice dovere di onestà per sè e per i cittadini che si rappresentano”, il Capo dello Stato ha avvertito: “Dobbiamo continuare a spezzare le catene della corruzione, che va combattuta senza equivoci e senza timidezze. Occorre una grande alleanza tra forze sane per sviluppare gli anticorpi necessari”. 

A tal fine è necessario che vi sia la massima coesione tra gli organi dello Stato e nelle istituzioni, perché “Il conflitto genera sfiducia, la giustizia è un servizio e un valore, le istituzioni devono saperla assicurare per evitare che si generi sfiducia e si dia spazio al malaffare". Certo, “Vanno rispettati i confini delle proprie attribuzioni, senza cedere alla tentazione di sottrarre spazi di competenza a chi ne ha titolo in base alla Costituzione”, ma ognuno deve fare senza indecisioni e negligenze il proprio compito. L’ordinamento giuridico e il funzionamento operativo della giustizia sono uno dei pilastri della vita democratica del Paese: "Ai magistrati è affidata la cura di uno degli aspetti fondanti del nostro Stato: la tutela dei diritti, della giustizia, delle libertà. Senza questi non c'è democrazia, non c'è uguaglianza, non c'è dignità della persona, in altre parole non c’è Repubblica”. 

Ecco allora lo stupore, quando si assiste a certi distinguo di qualche parte politica e ad alcune dichiarazioni di alcuni importanti esponenti di partito. Si è giunti a dover leggere il minaccioso ricorso all’uso della “fiducia al governo” anche su quest’atto così vitale per la sopravvivenza morale ed etica dell’Italia. Che senso avrebbe imporre un ultimatum sulla possibilità di somministrare l’unico farmaco salvifico a chi sta morendo proprio per la mancanza di quel farmaco?