Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
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mercoledì 21 aprile 2021

 

CHI E’ IL POPOLO NELLA DEMOCRAZIA?

Pubblicato in Presenza Taurisanese a. aprile 2021,n. 327, pp. 13-14 

                                             Pubblicato in Iuncurae  il 30 aprile 2021

Non c’è società umana, organizzata civilmente e strutturata politicamente in un ben definito ordine giuridico, che non contempli il legittimo detentore della sovranità, riconosciuto e condiviso da tutti i cittadini. Anche nelle società organizzate e governate secondo la forma democratica, quindi, c’è il titolare della sovranità; ed è il démos, cioè il “popolo”, che, in quanto sovrano, non riconosce nulla e nessuno superiore a sé, a meno che non venga derubato e svuotato del suo potere. Ma chi è il popolo in una democrazia? Non certo quello di uno stato retto da una monarchia, in cui è costituito da sudditi devoti al re; o da una plutocrazia, in cui è costituito da consumatori al servizio del mercato; o da una oligarchia, in cui è costituito da anonimi individui divenuti muto gregge al seguito del padrone; o da una partitocrazia, in cui è costituito da miliziani scelti al servizio del leader.

Chi è, allora, il popolo d’una democrazia? Lungi dal porsi solamente come una moltitudine indistinta d’individui coabitanti nello stesso luogo, esso è un insieme di persone, tutte di pari dignità, unite tra di loro – con l’obiettivo finale di perseguire, accrescere e fruire del maggior bene comune possibile - da un rapporto di collaborazione costruttiva e strutturata in un complesso di tradizioni, consuetudini e norme, divenuto col tempo fonte e fondamento d’una propria Costituzione Nazionale.  Infatti, in uno dei Principi Fondamentali, sui quali si regge tutto l’articolato della Costituzione della Repubblica Democratica Italiana, si proclama solennemente che il popolo italiano  è la totalità dei cittadini, i quali “Hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). A ben riflettere, quindi, un Paese che voglia ritenersi, vivere e agire da “Paese Democratico” – come cittadinanza e come insieme ordinato di istituzioni statuali – si fonda preliminarmente e opera sostanzialmente nell’ottica d’una propria specifica visione generale del mondo, dell’uomo e delle loro storie. Pertanto, la democrazia di per sé non è semplicemente una tra le tante forme di governo, bensì prima di tutto ed essenzialmente una grande idea regolativa sia antropologica sia cosmologica, in quanto presuppone e si nutre d’una visione generale della realtà, nella quale non ci sono diversità e gradualità di valori, ma solo molteplicità e varietà di funzioni, tutte da rispettare e onorare secondo i principi di proporzionalità e necessarietà: in questa prospettiva di democrazia non esistono un centro e delle periferie economico-sociali-culturali, ma ogni singola realtà è contemporaneamente centro e periferia d’un’unica totalità  multicentrica.

Solo nella democrazia così definita radica e prospera la libertà civile e politica dei singoli cittadini e delle istituzioni che li governano; e solo nella libertà e con la libertà ha senso e concretezza la formula adottata ormai da secoli da tutti gli organi governativi democratici: “In nome del popolo sovrano”. Questa espressione, infatti, sintetizza e racchiude felicemente la coincidenza di Stato, in quanto organizzazione della comunità, e di Governo, in quanto organismo responsabile delle scelte politiche, e li correda di un valore, oltre che socio-economico, anche etico-politico, per cui divengono contemporaneamente fonti d’incremento culturale e gestori di potere “sovrano”, ma non nell’accezione di sovranismo o autoritarismo, bensì come concreta manifestazione e chiara espressione d’una volontà “democratica”, in quanto sono la voce indiscussa della volontà libera del popolo e, quindi, volontà democratica nel suo significato autentico e profondo: la democrazia è libertà dello spirito e delle intenzioni d’un popolo, che si realizzano nel concreto agire umano, cioè  nella vita e nell’azione politica.

Nasce, a questo punto, il problema di come il popolo eserciti materialmente la sua sovrana e libera volontà e di come la traduca concretamente ed efficacemente in azioni governative. La via della democrazia diretta – largamente usata in alcune città dell’antica Grecia - si rivela per i nostri tempi utopia e inganno per almeno due motivi principali. In primo luogo per  il  grande numero di cittadini delle odierne nazioni democratiche: basti pensare che lo stesso Jean Jacques Rousseau, già due secoli e mezzo fa, nello stendere le  Considerazioni sul Governo della Polonia  (pubblicate nel l 1782), proprio a causa della grandezza numerica della cittadinanza polacca, credette necessario, rifacendosi al suo precedente Progetto di Costituzione della Corsica (scritto nel 1768), suddividere la grande  nazione  della Polonia in piccoli stati tra di loro confederati. In secondo luogo, perché la democrazia diretta - nonostante l’utilizzo dei mezzi messi a disposizione dalla tecnologia più avanzata - di fatto, esclude il popolo dalla partecipazione attiva e consapevole alla vita politica nazionale. Infatti, nel mondo attuale della globalizzazione e dell’internalizzazione si richiedono, con urgenza sempre più pressante, velocità e decisionismo, tanto che da più parti si sente talora denunciare la lentezza e addirittura l’inutilità del voto e, quindi, dei Parlamenti, da sostituire ormai – senza alcun confronto di idee e senza un vero dialogo con i cittadini - con alcuni individui scelti col sorteggio, senza alcuna considerazione per le specifiche capacità amministrative, per  le necessarie doti morali e l’indiscutibile sensibilità  etica. L’importante è che siano pronti a decidere e svelti nel tagliare i tempi del profitto e dell’efficienza. In breve e in sostanza si celebra il trionfo del pragmatismo - attivo, operoso e sempre vincente - di pochi e, nello stesso tempo, si esclude il popolo e si condanna a morte la democrazia. La democrazia, infatti, è inclusione, riflessione e mediazione, e opera sempre al fine di ascoltare le voci di tutte le persone, di coinvolgere e tutelare tutti i cittadini, senza la presunzione di formulare arbitrariamente e proporre arrogantemente programmi ritenuti validi e proficui, ma che in effetti lasciano inascoltati e irrisolti i problemi reali di larga parte di cittadini,

Come via da percorrere rimane quella della democrazia rappresentativa, in cui il popolo - che evidentemente non può governare direttamente la “Res Publica” - delega, attraverso il voto, a propri eletti di governare, di fatto, in suo nome. In molte democrazie compiute della Terra – grazie proprio al voto popolare – si designano gli eletti (cioè, i deputati), alcuni a proporre, decidere e governare, e altri a correggere, suggerire, controllare quelli che governano: sono le cosiddette “maggioranza e minoranza”, che, ciascuna nel proprio ruolo, collaborano insieme – coerentemente con il significato etimologico e lo spirito autentico della democrazia, che è “servizio” di ciascuno verso tutti - al miglior governo possibile della cosa pubblica e per il bene comune. E’ il bipolarismo, per cui maggioranza e minoranza lavorano sinergicamente per il benessere e il progresso della nazione. Le cose cambiano, quando la “democrazia”, da governo voluto dal voto popolare, si tramuta in “potere” di partito o di partiti. Allora al posto della formula “in nome del popolo sovrano” si sostituisce di fatto l’altra “in nome del partito o della coalizione di partiti”, che sovrani non sono né possono essere. A questo punto la Democrazia è umiliata, tradita e annichilita: svuotata, infatti, dei suoi veri valori etici e privata dei suoi contenuti sociali e politi, viene ridotta ad asettico contenitore informe, disponibile ad accogliere qualunque mistificazione di realtà di privati o di comunità particolari o di piccole collettività.

La Democrazia, però, muore, perché non viene più alimentato il fuoco della fucina, nella quale – oltre che nella famiglia e nella scuola - si forgiano uomini probi, cittadini e lavoratori onesti, professionisti e imprenditori coraggiosi e, soprattutto si preparano e si cimentano amministratori responsabili e capaci, cioè i partiti politici.  Questi costituivano una fitta rete capillare di piccoli centri (le sezioni), che si diramavano da tutte le parti del Paese e confluivano tutti verso la capitale. In ogni “sezione” arrivavano quotidianamente i giornali organo d’ogni partito, con i quali si proponeva l’interpretazione dei fatti consona alle diverse visioni politiche, che i cittadini discutevano e commentavano talora animatamente e con sentita passione, espressione della aderenza e della fedeltà al proprio credo politico. Era un pulsare vivo di confronti di idee, che, arricchite del contributo di tante diverse opinioni, da ogni periferia giungevano ai deputati, che a loro volta recepivano e vagliavano nelle sedi parlamentari. Nelle “sezioni” di partito, infatti, s’incontravano cittadini d’ogni ceto sociale, s’accoglieva il contributo pronto e valido del movimento femminile e dei giovani, si approfondiva la reciproca conoscenza, si prendeva consapevolezza dei vari ruoli politici, s’apprendeva l’arte d’amministrare la cosa pubblica e, gradualmente e a tempo opportuno, si veniva designati – in base alle capacità e al merito - per i vari incarichi pubblici. Era l’applicazione e la realizzazione del dettato costituzionale: “Tutti i cittadini – sancisce l’articolo 49 - hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Quanto diverse - per natura, metodo, contenuti e finalità - le cosiddette “scuole di formazione politica” degli odierni partiti. Da circa un trentennio la Costituzione è disattesa. I partiti si sono svuotati di ideali e si sono riempiti di interessi personali e di parte, condividendo un umico denominatore            comune: acquistare e accrescere a qualunque costo potere e ricchezza. Ovviamente con la compagnia del séguito coerente di tutte le logiche conseguenze naturali, tra le quali non ci saranno né quella di bene comune né quella di rispetto del popolo,   (C.S.)

 

 

 

 

 

 

 

martedì 14 aprile 2020

LA PANDEMIA DI COVID-19 Aggressione della Natura e rinascita del senso dell’Umanità

L’umanità all’improvviso è stata risvegliata da un sonno profondo, che le conquiste della scienza moderna, i progressi della tecnologia e la floridezza dei mercati economico-finanziari  le avevano promesso lungo e tranquillo. A riportarla coi piedi per terra nel mondo concreto della realtà, sono stati l’insorgere repentino e il rapido diffondersi d’una pandemia imprevista, causata dalla diffusione d’un virus finora sconosciuto, che ha già mietuto un sorprendente numero di vite. Gli uomini, che si credevano possessori e dominatori invincibili della terra, improvvisamente hanno visto la terra rivoltarsi tacitamente e costringerli a prendere coscienza della loro fragile piccolezza e soprattutto della loro mortalità naturale, che li rende solo abitanti pellegrini sul pianeta Terra e di cui di cui non dovrebbero mai dimenticarsi.

L’ottimistica serenità d’animo degli uomini non è, tuttavia, da attribuire totalmente a una loro maldestra superficialità o a una loro colpevole ignoranza, ma anche e soprattutto all’influsso del periodo storico e culturale, in cui hanno vissuto nei decenni del secondo dopoguerra. Lo sfruttamento senza scrupoli delle risorse naturali, l’inquinamento crescente d’ogni ambiente, la corsa all’arricchimento scandaloso di alcuni e l’indifferenza per la povertà di molti, la supremazia dell’economia e della finanza costituivano una pericolosa minaccia e creavano sempre più problemi enormi e visibili, ma che le nazioni e i popoli non coglievano a tempo debito né risolvevano adeguatamente, perché costantemente sovrastati dal pericolo della guerra fredda (1947-1991), che con la sua minaccia sempre incombente “alienava” le menti e gli animi degli uomini, riducendoli a ingranaggi di Stati ideologizzati. Il mondo era diviso – e di fatto anche dominato - sostanzialmente dagli interessi di due “imperialismi”: quello economico dell’Occidente e quello ideologico dell’Oriente, che si fondavano (e continuano a fondarsi) su due concezioni dell’uomo e del mondo, opposte, ma paradossalmente convergenti nella corsa verso il progressivo stravolgimento della Natura e l’inesorabile sbriciolamento dell’inviolabile dignità della Persona umana, fino alla loro completa distruzione. In entrambe queste forme d’imperialismo, infatti, la Natura è qualcosa solo da sfruttare e l’uomo non è soggetto titolare di propri diritti inalienabili, e soprattutto non è dotato d’una propria finalità esistenziale, ma vale solo come mezzo per il raggiungimento di scopi a lui estranei e imposti arbitrariamente dal altri. E’ l’uomo unidimensionale, come aveva consapevolmente accusato Herbert Marcuse già nel 1964,

In quest’ultimo trentennio, poi, l’intenso dinamismo  della vita individuale e collettiva ha consolidato a poco a poco lo stato di fiducia illimitata e di sicuro benessere economico, per cui - ingannando la ragione e seducendo le speranze soprattutto dei ceti agiati e dei responsabili della cosa pubblica – l’evolvere del tempo, grazie all’intervento della “mano invisibile” già preconizzata da Adam Smith, avrebbe sistemato qualche eventuale carattere sfavorevole e tutto sarebbe proceduto verso il meglio: gli uomini potevano disporre a loro piacimento di tutto ciò che offriva la natura con le sue risorse minerarie e con tutte le sue dotazioni di flora e di fauna. A confermarli in questo convincimento hanno contribuito decisamente, tra l’altro, il diffondersi e il consolidarsi della democrazia contemporanea come forma si Stato  e di Governo. Agli inizi, in verità, a reggere i governi - a ogni livello e d’ogni dimensione - venivano chiamate  personalità di sicura competenza, di profondo senso dello Stato e di radicata coscienza civica. Accanto a loro, però,  spuntavano e mettevano sempre più piede, alcuni che faticavano a comprendere e ad accettare il ruolo, che compete a un governante “democratico”, cioè di “servitore dello Stato” al servizio del bene comune. Questa distorsione concettuale gradualmente ha deformato e cancellato quasi del tutto l’anima stessa della democrazia, in cui è nato l’odierno “uomo democratico”, che perlopiù coltiva e persegue, quale ultima finalità del vivere e dell’agire umano il profitto individuale e di parte, da ottenere a qualunque costo e con qualunque patto, perché si sente libero da pastoie giuridiche, morali ed etiche. Non solo nei rapporti con gli esseri umani a lui simili e uguali, ma anche nei riguardi della Natura. Ha dimenticato, però, l’accorto ammonimento dello scienziato-filosofo Francesco Bacone: “La natura non la si vince, se non ubbidendole”.

La pandemia in atto porge all’uomo – quale quadro complessivo delle conseguenze documentarie del suo comportamento disinvolto nei riguardi della Terra e dell’Umanità -  la rappresentazione d’una la realtà planetaria drammatica e dolorosa, ch’egli mai avrebbe potuto immaginare. In quale stato di decadimento s’andava riducendo il pianeta Terra, stava e sta davanti agli occhi di tutti, ma nessuno ne intuiva tutta la gravità e ne prevedeva gli esiti funesti e orribili. Quando, però, gli uomini, ammutoliti, hanno dovuto assistere alla lunga e triste teoria di camion militari col carico di salme destinate alla cremazione; quando, increduli, hanno visto dormire stese sull’asfalto d’un ampio parcheggio, antistante ad alberghi di lusso vuoti nell’opulenta città d’un grande Stato, decine di senzatetto; quando, attoniti, hanno assistito al seppellimento in fosse comuni di cadaveri di persone umane, allora i loro occhi si sono aperti e, ascoltando gl’impressionanti “numeri” quotidiani delle vittime e dei contagiati in Europa e nel mondo, hanno riflettuto: dietro ognuno di quei numeri c’erano una vita umana spenta, una famiglia smembrata e depauperate di affetti per lei vitali, energie fisiche, doti intellettive e morali sottratte prematuramente a tutto il genere umano. Allora hanno cominciato a chiedersi cosa stesse succedendo e perché; e soprattutto hanno cercato di capire cosa si potesse fare, anzi cosa si dovesse fare.

Il mondo degli scienziati, del governanti e della politica ha messo subito in moto tutte le conoscenze di cui disponeva; essendo, per, un’epidemia del tutto sconosciuta, sta andando alla ricerca, per scoprire terapie, che possano debellare il contagio. E pare che c’è qualche indizio che induce a ben sperare. E, quindi, soprattutto governanti e politici e forze sociali hanno cominciato a prefigurare e programmare un futuro possibile e sicuro per l’avvenire dei singoli popoli e dell’umanità intera. A ragione e doverosamente si occupano concretamente di ripresa del lavoro, di blocco della occupazione, di garanzie per la salute, di sviluppo dell’economia, di tutela della finanza: insomma di tutto ciò che occorre perché la vita degli uomini possa “ripartire”. Ed è a questo punto che nascono non poche perplessità e riserve. Si tratta, infatti, d’interventi necessari e urgenti, ma insufficienti e destinati al fallimento, se privi della condizione sostanziale e indispensabile. Infatti, interpretando rigorosamente il significato dell’evento che sta stravolgendo la vita umana, è richiesta la rinascita della coscienza morale degli uomini, che debbono essere chiamati non a “ripartire”, per proseguire, come se nulla fosse successo, per le vecchie strade, ma debbono spronati e convinti a “svoltare”, cambiando totalmente e decisamente la loro ragione e i loro sentimenti. 

Michail Gorbaciov. in un congresso tenuto a Milano nel 1995, volle svelare il suo stato d’animo nell’intraprendere nel 1985 da neo segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, il difficile e insidioso cammino della sua Perestroika: convinto, infatti della necessità di curare prima le anime e poi i corpi per “svolte” imposte dalla storia, “In fin dei conti – disse - la fonte dei problemi contemporanei non è all’esterno, ma dentro di noi, nel nostro rapporto reciproco, nel rapporto verso la società e verso la natura. Tutto il resto è un derivato. E dobbiamo innanzitutto cambiare noi stessi”(Costruire la pace, Comunità S. Egidio, Milano, 1996, p. 40).                  

mercoledì 28 novembre 2018

IL “POPOLO” E’ IL SOVRANO SEMPRE AFFIDABILE E GIUSTO?


Si esprimono queste riflessioni, con l’ausilio del pensiero e della testimonianza di personalità del passato, non per una comoda cautela nell’esprimere palesemente nostri convincimenti personali e nemmeno con la mira d’accattivarci il consenso altrui, bensì perché possa sollecitare efficacemente la riflessione critica e la valutazione serena di molte situazioni, in cui oggi si vive, in Italia e non solo. Per questo richiamiamo il pensiero di Platone e di Cicerone: il primo, voce esperta e autorevole della cultura greca; il secondo, audace testimone e solutore acuto di non poche crisi della vita politica della Roma del suo tempo; entrambi contrari a forme governative di natura autoritaria e favorevoli a forme, che oggi chiameremmo democratiche.
Premesso che le forme di governo di quei tempi avevano senso, modalità e nomi diversi da quelli odierni, si possono, tuttavia, individuare alcune concezioni e alcune funzioni comuni a quelli dei nostri giorni: come “sovrano e sudditi”, “governanti e governati”, “giustizia sociale e libertà individuale”, “diritti e doveri”, cioè, alcuni capisaldi d’ogni dottrina politica, morale privata, etica pubblica, convivenza civile. Ora, nel quadro politico delle nazioni e degli stati odierni si dà  quasi per scontato – eccetto per i governi palesemente tirannici e dittatoriali - che i governi siano generalmente ispirati a “democrazia”, in quanto di dà per acquisito che la fonte e la garanzia d’ogni autorità sia il “popolo” nelle modalità più disparate. 
Platone, già due millenni e mezzo or sono, manifestava molte perplessità sulla democrazia, poiché dubitava della reale capacità del popolo “governato” di dettare con saggezza e di controllare con giustizia l’azione dei governanti. E documentava il suo atteggiamento con due considerazioni d’ordine generale. Primo, ogni sistema democratico – come testimoniano i fatti della storia - è destinato o a corrompersi in demagogia (oggi si direbbe “populismo”) o a far germinare nel suo stesso seno  la “malerba della tirannia” (oggi molto diffusa, anche se in modo camuffato e sfrontatamente negato). Secondo, il popolo è un’astrazione; nella realtà è un insieme eterogeneo di soggetti, che vanno formati con responsabilità per tutto il corso della loro esistenza e orientati saggiamente nelle diverse congiunture. E rimane sempre, comunque, un attore fallibile, come dimostrarono largamente le vicende occorse al suo maestro Socrate, il quale - primo vero martire della democrazia  - fu condannato a morte, ufficialmente per le accuse (infondate e smentire) di corrompere i giovani e di incitare all’ateismo, ma in realtà perchè politicamente nemico della democrazia appena nata in Atene. Fu condannato da giudici designati democraticamente proprio dal popolo, il quale però, riconosciuto subito dopo il proprio errore, condannò e punì gli stessi giudici che prima aveva ritenuto capaci e competenti. 
A questo punto il filosofo greco cerca di trovare i motivi per cui il popolo, che ha tanto lottato per conquistare la democrazia, fa quasi di tutto per farsela strappare. E ritiene di giungere a questa conclusione:  In un ambiente, in cui il maestro teme ed lusinga gli scolari e gli scolari non tengono in alcuna considerazione i maestri; in cui tutto si rimescola e si confonde; in cui chi comanda, (per poter comandare sempre di più), finge  di mettersi al servizio di chi è comandato e ne blandisce tutti i vizi, per poterli sfruttare meglio; in cui i rapporti tra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle rispettive convenienze nelle rispettive tolleranze (…) la democrazia, per sete di libertà e per l’incompetenza dei suoi capi, precipita nella corruzione e nella paralisi. Allora la gente si separa da coloro, cui attribuisce la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla: prima coi sarcasmi, poi con la violenza. Così la democrazia muore: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo (La Repubblica, cap. VIII). In questo senso Platone si rivela molto moderno: i giovani vogliono apparire più preparati degli anziani e spesso pensano che con l’urlare dimostrano la maggiore validità del proprio pensiero; gli alunni spesso deridono gli insegnanti, i quali, per non esser considerati troppo autoritari e fuori moda, accontentano le loro richieste, non preoccupandosi di trasmettere loro cultura sostanziata di valori e di regole. Gli alunni, invece, che si mostrano ligi ai doveri nel rispetto delle norme, vengono esclusi dal gruppo, divenendo talora vittime di bullismo.  
Ogni popolo – si sentenzia   - ha il governo che si merita. E’ probabile. Ma, se ciò è vero, è molto più vero che ogni popolo è il risultato dell’educazione umana e della formazione politica, che i governanti gli hanno consentito d’acquisire. Ciò che è certo ce lo documenta la storia: in tutti i tempi molti potenti sono sorti e si sono retti sulla “ignoranza” dei cittadini, ai quali viene negata tutta o in parte la verità. Populismi e statalismi nascono e si sostengono sulla progettata carenza di cultura del popolo.  Di conseguenza, quando un cittadino non è tempestivamente educato al senso d’appartenenza e al sentimento di solidarietà corresponsabile, accade che, mirando solo a vivere bene, non s’interessa più al bene comune, ma al bene proprio anche a danno dell’altro. Perdendo la propria libertà, in quanto divenuto “schiavo” del suo egoismo asfittico.
“La libertà – interviene, infatti, Cicerone - non consiste nell'avere un padrone giusto, ma nel non averne alcuno” (De Re Publica, II, 23). Non avere alcun padrone significa, però, essere padroni di se stessi, sviluppando, controllando e gestendo ogni dimensione propria dell’essere umano. E questo richiede la formazione dell’uomo e del cittadino. L’uomo non nasce essere umano, ma lo diventa gradualmente mediante lo sviluppo della propria personalità in tutti i suoi aspetti, primo fra tutti il senso della socialità, cioè del bisogno dell’altro per una vera completa umanità. L’altro non sminuisce né frena la nostra totalità, anzi è l’elemento necessario grazie al quale possiamo dirci ed essere partecipi del genere umano.
Il bambino nasce nella famiglia, cresce nella famiglia e nella scuola, si prepara ad affrontare la vita nella società. La adulterazione di uno di questi ambienti comporta, di necessità, la carenza di umanità nell’adulto futuro. Per non cadere nel gioco dello scaricabarile, è sufficiente che ciascun ambiente adempia al suo compito. Certo, dovremmo immaginare famiglia, scuola, società ideali, e l’ideale non è e non può mai divenire  reale. Ma l’ideale è la forza motrice dell’agire umano, in quanto indica e illumina, regolandola, la meta verso cui dirigersi. Forse, oggi, queste tre istituzioni basilari indicano ben altri ideali. E l’uomo e l’umanità marciano verso di essi, il cui esito finale è difficile prevedere.


venerdì 29 aprile 2016

DEMOCRAZIA E CAPITALISMO INDUSTRIALIZZATO TRA OTTIMISMO (IDEALE) E NICHILISMO (REALE)

Pubblicato su Affaritaliani il 10 aprile 2016

“Corrono brutti tempi” è la sensazione dominante, tra stupore e incredulità, appena si dà uno sguardo alle realtà sociali e politiche dei nostri giorni. Viene subito in mente l’indignazione con cui duemila anni fa il console Cicerone, seriamente preoccupato, lamentava l’andamento delle cose nella Repubblica romana del suo tempo, inquinata dalla corruzione devastante, dallo smarrimento dell’etica pubblica e dalla perdita dei valori morali a ogni livello. 

“Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico” accusava, da parte sua, Herbert Marcuse, quando mezzo secolo fa analizzava e descriveva le condizioni reali di vita nelle attuali società industrializzate, anche se guidate da governi che si designano come democratici. In essi, infatti, risaltano alcune caratteristiche dannose: manipolazione della verità, usurpazione della libertà individuale, baratto dei valori fondativi la democrazia, lotta smodata per scalare il potere, insaziabili ambizioni di benessere e di accumulo di ricchezze. Tutto abilmente camuffato da allettanti promesse di crescita generale sicura e godibile da tutti. 

Grazie, poi, ai rapidi processi industriali, alle enormi conquiste scientifiche e tecnologiche sempre più efficienti, l’uomo viene fatto sentire padrone della natura, e, disponendo di sempre più veloci mezzi di comunicazione, viene fatto illudere d’essere ormai divenuto l’invincibile dominatore dell’universo e di tutti i meccanismi della vita, compresa quella umana. Per poi, però, farlo ritrovare di fatto inadeguato alle nuove situazioni e sprovvisto delle capacità necessarie per l’enormità della sfida da affrontare. Con gravi imprevedibili conseguenze per gl’individui e le collettività. Non a caso negli stessi anni Hans Jonas proponeva la nuova formulazione dell’imperativo categorico kantiano: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla terra”. 

A questo punto s’impone la necessità d’una riconsiderazione dell’intero modello culturale dell’attuale società industrializzata: proposto come fondato sulla verità, proclamato come salvaguardia di libertà e come garanzia d’innovazione e di futuro, nella realtà significa, però, soltanto liberismo e capitalismo, in cui sono proprio la verità, la libertà e l’equità che, benché ammesse formalmente, nella realtà rimangono del tutto esautorate e annichilite, tanto che non c’è alcun posto né per una verità oggettiva, né per un comune senso morale riconoscibile, né per un’etica pubblica cogente e condivisibile. Infatti, nel capitalismo industrializzato è possibile affermare e negare indifferentemente ogni cosa, in qualunque tempo; di conseguenza, solo il “nichilismo” (da dottrina filosofica divenuta categoria sociale) rimane l’unica visione in grado di sorreggere e avallare i contenuti e le implicanze del liberismo e del capitalismo, che s’arrogano il potere di elaborare e imporre soltanto le norme che si dànno da soli, in quanto devono essere atte a promuovere sempre e solo gli interessi del libero mercato e a inseguire gli umori variabili dell’offerta-domanda, assecondando la logica dominante della “volontà di potenza”. E fidando, naturalmente, nell’intervento salvifico della “mano invisibile”, che tutto adatta e tutto seleziona in una dinamicità interattiva.  

Le proposte alternative non saranno certamente né la rassegnata accettazione né il radicale violento rifiuto: sarebbero risposte entrambe utopiche e inconcludenti, e aggraverebbero ulteriormente la situazione. E’ necessario, invece, analizzare la vera natura delle cause che conducono ai risultati umanamente negativi e socialmente inaccettabili. Ora, davanti a noi si presenta un quadro sociale e culturale caotico: c’è una confusione generale dei princìpi, che causa un pericoloso rovesciamento dei valori reali. Infatti, mentre da ogni parte si ribadiscono la centralità dell’uomo e la dignità della persona, invece s’assiste a realtà di sfruttamento disumano, di disuguaglianze e di ingiustizie talmente gravi e offensive da far scrivere all’ONU giovedì scorso (7 aprile) dall’attuale Papa: “La grave questione della schiavitù moderna e del traffico di esseri umani continua a essere una piaga in tutto il mondo” da ritenersi un vero e proprio “crimine contro l’umanità”. A porre ordine e a tentare di sanare le disumane condizioni delle nostre società cosiddette avanzate è necessario che lo scopo ultimo ritorni a essere l’Umanità in tutte le sue dimensioni, e i mezzi siano gestiti come mezzi. Soltanto quando non sarà dimenticata la dignità d’ogni persona e si daranno i dovuti riconoscimenti a coloro che il capitalismo ha reso emarginati e ridotto a utili strumenti di produzione-consumo, allora si può ragionevolmente sperare che le società saranno comunità di individui dello stesso genere e della medesima dignità: ognuno fine ultimo della vita e non ridotto a mezzo di ricchezza economica o di potere politico.

Occorre mettere in atto ogni possibile iniziativa, per impedire il diffondersi d’una coscienza palesemente falsa e promuovere la formazione d’una coscienza umana autentica: ossia, uscire dagli interessi immediati e privati e mirare e tutelare i diritti reali della società intera. Bisogna cominciare dal prendere atto quanto sia deleterio per tutti, anche per le stesse imprese e gli stessi governi, concentrarsi soprattutto sulla creazione di profitti. Già quattro secoli fa nella “Nuova Atlantide” (1626) Francesco Bacone insisteva sulla necessità di un'organizzazione di ricerca coordinata tra “sapienti”; in essa nutriva concreta fiducia per un progresso scientifico e tecnico a dimensione umana e tratteggiava il disegno d’una società del futuro amministrata e governata grazie al dominio della scienza e della ricerca da parte dell’umanità: gli scienziati – in proficua leale collaborazione con i governanti delle nazioni - saranno quei “mercanti della luce”, che divulgheranno ogni scoperta e ogni conquista in tutte le parti del mondo, perché la Terra è di tutti e nessuno può essere escluso dalla fruizione del progresso. Ma un patto: che il vero fine sia “la conoscenza delle cause e dei segreti movimenti delle cose per allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo”, e non l’asservimento dell’Umanità e della Natura sotto la schiavitù dell’egoismo e delle passioni.  

Utopia? Forse. Ma Kant ha dimostrato abbondantemente l’energia e la potenza delle idee: mete da non perdere mai di vista, ma a cui guardare costantemente come fari di luce, per un cammino sicuro e umanamente degno verso le Altezze della libertà e della giustizia. Senza ideali, cui tendere con umana ma incrollabile speranza, l’uomo “si fa vivere” dai flussi incontrollati della storia e del mondo: da attore o co-attore protagonista della storia si riduce a insignificante comparsa sulla scena del teatro dl mondo.




giovedì 3 marzo 2016

SENZA PARTITI (VERI) NON C’E’ POLITICA DEMOCRATICA (VERA)

Pubblicato su Affaritaliani il  23 febbraio 2016

Lo spettacolo che sta dando il mondo della politica italiana non è certo dei più esaltanti, anzi è di livello talmente deludente che spinge a riflessioni attente, per poter valutare oggettivamente e con responsabilità ogni circostanza. Infatti, sembra che regnino – sia nelle strutture partitiche sia negli organismi istituzionali legislativi e di governo – uno smarrimento generale e un’incontrollata frettosa premura di salvaguardare gli interessi di parte, probabilmente anche legittimi, ma certamente avulsi dalle reali esigenze del bene comune. 

Certo, come tutte le organizzazioni sociali, anche i partiti attraversano momenti di floridezza e momenti di fiacchezza, determinati o da infondate interpretazioni dei disagi della società o da inadeguatezza dei leader del momento oppure da comportamenti suggeriti più da tattica partitica che da strategia politica. Il malessere e il disagio aumentano, poi, allorquando i partiti giungono a occupare spazi pubblici non propri, fino a impadronirsi delle istituzioni e abusarne. Allora ne consegue la loro delegittimazione, smarrendo sempre di più il contatto vitale con i cittadini, i quali, non vedendone l’utilità, nutrono e accrescono i latenti sentimenti di antipolitica, fino al qualunquismo e all’assenteismo. S’impone, allora, l’urgenza di riannodare il legame società-politica-istituzioni, ricollocando ciascuno nell’alveo del proprio spazio, secondo le funzioni e i ruoli propri. Il problema non si risolve, però, riconoscendo e denunciando lo scollamento tra politica e base popolare. Devono, invece e in primo luogo, rinnovarsi i partiti, riconquistando la loro natura originaria, servendosi d’ogni mezzo nuovo messo a disposizione dall’evoluzione e dal progresso: cioè devono tornare ad essere aggiornati e validi strumenti di partecipazione dei cittadini e non costruzione di classi a loro ostili.


E i partiti politici, pur nella loro molteplicità talora eccessiva, sono insostituibili per una politica veramente democratica. Il popolo d’un Paese libero si munisce sempre di forme associative, mediante le quali vive e agisce nella vita politica da soggetto responsabile e attivo; così come è ovvio che ogni governo, che voglia essere democratico, esercita il potere nel rispetto morale e con l’ausilio delle rappresentanze sociali territoriali, prime fra tutte i partiti politici e le organizzazioni sindacali. Indubbiamente non mancano vie alternative per una partecipazione politica, ma i corpi territoriali intermedi, liberamente organizzati e abilmente diretti, garantiscono con maggiore efficacia molte opportunità, tra cui due veramente fondamentali: quella d’individuare decisioni concrete e pertinenti al bene comune e quella di preparare il ricambio della classe politica con soggetti validi e capaci. 


Questo è confermato dalla storia e sostenuto da studiosi esperti. Alla fine del primo conflitto mondiale, per esempio, il giurista James Bryce sostenne categoricamente: “Nessun grande paese libero è stato senza i partiti. Nessuno ha mostrato come un governo rappresentativo possa operare senza di essi. Essi creano l’ordine dal caos di una moltitudine di elettori”. E dopo le sciagure della seconda guerra mondiale, i nostri Padri Costituenti hanno stabilito concordemente: “L'Italia è una Repubblica democratica” (art, 1), per cui, dovendo “riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali” (art. 2), hanno riconosciuto ai cittadini il “diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale” (art. 18), concludendo con l’articolo 49, in cui hanno indicato i partiti politici come il luogo naturale dove i cittadini si riuniscono e si confrontano liberamente, “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. 

E’ nei partiti, quindi, che i cittadini elaborano liberamente idee proprie, lontani dal rischio di rimanere ostacolati o addirittura fuorviati da pericolosi giochi politici. Non pare, quindi, sia stato un gesto di pura formalità il richiamo che il Presidente Mattarella ha rivolto al Parlamento nel suo discorso d’insediamento: “La strada maestra di un Paese unito è quella che indica la nostra Costituzione, quando sottolinea il ruolo delle formazioni sociali, corollario di una piena partecipazione alla vita pubblica”. E, manifestando preoccupata attenzione al mutamento dei tempi, annotava che “la crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione”, divenuti ormai un forte ostacolo per il dispiegarsi delle energie del paese, per cui s’impone una riconsiderazione e una ristrutturazione delle rappresentane sociali e soprattutto dei partiti e delle forze sindacali.


E’ evidente che in Italia i partiti politici  attraversano ormai da qualche decennio una profonda crisi, mostrando sempre di più d’aver smarrito la ragion d’essere assegnata loro dalla Costituzione.  Da organizzazioni libere di cittadini liberi sono diventati associazioni d’interesse privato, sia elettorale sia economico e sia di potere; non operano più come laboratori di progetti d’interesse generale, ma come fucina di personalismi decisionisti; non vivono più come presidio di dialogo aperto tra cittadini benpensanti, ma come colonia di leader da ascoltare e ubbidire. Faticano a riconoscere e denunciare che la causa profonda della loro crisi è ancora più drammatica: è la loro intrinseca incapacità di darsi un ordinamento interno e un metodo di interconnessione reciproca, causata dalla sempre più massiccia personalizzazione del potere, incarnata nel leader del momento.


La personalizzazione dei partiti s’è rivelata ancor più incisiva, da quando il medesimo leader occupa la guida d’un partito (che ha compiti di progettazione e di programmazione) e nello stesso tempo presiede la massima istituzione del potere esecutivo (ovviamente controllandola). Con la legge 400 del 1988 l’Italia s’è dotata d’un Presidente del Consiglio dei Ministri con prerogative e competenze adeguate ai suoi poteri esecutivi; gradualmente, con successivi procedimenti di riforme sostanziali, la Presidenza del Consiglio è divenuto di fatto il fulcro operativo dell’attività dell’intero governo, sul piano sia organizzativo e sia legislativo. E’ utile ricordare, inoltre, che il rafforzamento dei poteri del Primo Ministro italiano ha coinciso con il progressivo spostamento di una vasta serie di funzioni normative dal Parlamento all’Esecutivo. E tutto ciò è avvenuto nei tempi della grave crisi dei partiti tradizionali, offrendo, così, ai Presidenti del Consiglio l’opportunità di servirsi d’ogni occasione per consolidare il partito d’appartenenza o di formarsene uno proprio. Ma il tempo scorre, e tutto o cambia o viene travolto: ogni assetto sociale, politico, istituzionale. La divisione dei poteri, la separazione tra governanti e governati, la diversità controllori e controllati non sono invenzioni astratte, ma insegnamenti concreti che la storia millenaria dell’umanità consegna ai nuovi tempi. Alla saggezza e all’onestà degli uomini farne buon uso.


domenica 20 dicembre 2015

SENZA “SOLIDARIETA’ POLITICA” NON CI PUO’ ESSERE DEMOCRAZIA

Pubblicato su Affaritaliani il 2.11.2015

“La Repubblica – è sancito nell’articolo 2 della Costituzione Italiana - riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Con estrema chiarezza i Padri Costituenti dichiarano, già dal 1948, il valore umano e la dignità politica del cittadino – nella sua dimensione sia individuale che sociale - che la “Repubblica” deve assicurare e sostenere nella possibilità di realizzare la propria “personalità”, consentendogli il godimento dei suoi diritti e chiedendogli l’adempimento dei suoi “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. La Carta Costituzionale, quindi, esprime la natura “laica” dello Stato. Gli Organi statuali, di conseguenza, sono chiamati a creare e assicurare situazioni sociopolitiche almeno nazionali, in cui la singola “persona” possa operare, come cittadino fedele e onesto, le sue scelte politiche - sempre e comunque in maniera responsabile e libera - che la Politica, da parte sua, ha il difficile compito di proteggere mediante la creazione di regole opportune e adeguate. 

Il singolo cittadino, tuttavia, vive e opera non da solo, ma in una rete di “formazioni sociali”, quali la famiglia, la scuola, l’ente locale, il sindacato, la confessione religiosa. Ognuno, perciò, in nome della “solidarietà politica” è chiamato a operare non per un suo immediato bisogno né per rivendicare un proprio diritto nell’interesse personale, ma per assolvere a un “dovere inderogabile” per il bene di tutti: è questo che trasforma l’individuo in cittadino attivo. E’  un principio espresso anche dalla  Carta Europea dei diritti fondamentali e, in particolare nel Preambolo, dove si afferma che il godimento dei diritti “fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future”. Ora, se sono noti i doveri nei campi dell’economia e del sociale, meno  considerati forse sono quelli propri del campo politico. Oltre ai casi straordinari, come il difendere la propria patria e l’essere inviato per salvaguardare l’ordine e la pace in altri Paesi, s’impone un dovere ordinario e quotidiano, che costituisce il fondamento solido e l’essenza insostituibile d’ogni vera democrazia: recarsi alle urne per esprimere il proprio voto, che l’articolo 48 della Costituzione sancisce come “personale ed uguale, libero e segreto”, e non certo come il consueto siglare una scheda preparata da altri e a lui proposta quasi per un’eventuale presa d’atto.  

L’uguaglianza, la giustizia sociale e la libertà sono certamente alti valori e “Principi fondamentali” riconosciuti dalla Costituzione, ma che, purtroppo, sono destinati a rimanere nel mondo delle pie intenzioni e nella realtà belle enunciazioni vuote d’ogni contenuto, se non c’è concretamente solidarietà politica. E, oltre alla storia secolare, lo testimonia la vita contemporanea di molte Nazioni: il principio solidarista è il tessuto connettivo dell’intero ordinamento sociale e politico. E, osservando la realtà italiana di questi ultimi decenni, non desta certo entusiasmo e ottimismo ciò che è possibile indurre nei riguardi della partecipazione attiva e responsabile dei cittadini nell’azione politica. Di fatto si sono gradualmente stravolti la natura e il ruolo del partito politico: da laboratorio di programmi e di proposte è stato ridotto ad associazione alle dipendenza del capo, quasi sempre preoccupato del suo interesse privato. Ne è conseguito la sostanziale cancellazione dei poteri delle Camere legislative, costituite solo da “nominati” e, logicamene, attenti alla parole del proprio mecenate. Il tutto grazie alla tanto contestata legge elettorale denominata “porcellum”, proposta dall’allora maggioranza, ma non osteggiata seriamente da nessuno per ovvi calcoli di potere. Qualche mese fa l’attuale Parlamento ha approvato la nuova legge elettorale, con cui di fatto si limita ancor di più il diritto di voto libero e personale del cittadino e si crea un Parlamento di persone certo non scelte liberamente dai votanti, ma designate d’autorità dai capi di partito.
 
Se tutto viene calato dall’alto, che solidarietà politica potranno esercitare i cittadini? Ma senza solidarietà politica non può esserci democrazia. Con il metodo con cui si sta governando negli ultimi decenni, e soprattutto negli ultimi anni, non si darà vita a governi democratici, ma solo a oligarchie di dubbia natura. E, di fronte allo spettacolo che la politica italiana sta dando a ogni livello, non c’è certo da stare sereni. Infatti, la realtà inconfutabile è che la cosiddetta classe politica può offrire e disporre di “oligarchie” - sia partitiche che della cosiddetta società civile - che non si distinguono per moralità e competenza. Più che designare sindaci, presidenti e governatori o decidere rispettivi commissariamenti, urge ritornare ai cittadini, per consentire loro una rinnovata presa di coscienza della loro dimensione sociale  e un modificato atteggiamento verso la politica, ora considerata una temibile associazione di malaffare. Se non si ritorna ai cittadini, s’ingrossa sempre più il numero di quelli che aborrono la politica e non si recano nemmeno alle urne, se addirittura non vanno a rafforzare i movimenti dell’antipolitica. Ma per questo ci vuole capacità e audacia: si tratta di ricostituire valori intramontabili, di aggiornarne i criteri attuativi per il presente e, soprattutto, di prestare costante attenzione al futuro. Le nuove generazioni non hanno alcuna colpa per dover subire eredità negative; devono, pertanto, essere educate alla vera vita della democrazia e, quindi, essere dotate del senso del “dovere” di solidarietà politica, grazie al quale saper operare scelte libere e prendere decisioni valide per tutti, che poi proporranno - sempre con i metodi della democrazia - ai propri governi

lunedì 2 novembre 2015

LA RIFORMA DEL SENATO E LA SOSTANZA DELLA DEMOCRAZIA


Pubblicato su Affaritaliani il 14 ottobre 2015
La democrazia è sostanza di valori umani e di giustizia sociale, stile di vita, garanzia di diritti e di doveri. Certo, ha bisogno di norme procedurali e di regole di partecipazione e di comportamento, ma non può mai essere ridotta solo ad esse. Oggi assistiamo al Governo italiano che esulta. “Rottamata” la passata inerzia amministrativa, “asfaltate” le catastrofiche attese dei gufi di turno, giunge al traguardo della tanto sospirata e controversa riforma del Senato della Repubblica. E, senza interruzione di continuità, dà subito avvio alle nuove riforme, proclamate anch’esse come mezzo indispensabile per l’avanzamento civile e la crescita del benessere sociale. Si tratterà di riforme programmate e scandite secondo una ferrea modulazione anche dei tempi: si va avanti, nonostante tutto; non solo sorvolando su eventuali proposte di altre forze politiche, ma anche ignorando di fatto ogni confronto veramente disponibile, fino a ignorare gli ammonimenti avanzati dalla Banca d’Italia e persino a sprezzare le doverose annotazioni degli Organismi dell’Europa.
“E’ l’Italia che ce lo chiede”, è l’antifona  che vanno ripetendo i governanti. Il Cittadino italiano, invece, rimane incredulo, attonito: ha ancora davanti agli occhi le immagini delle scene delle Aule parlamentari, cui ha dovuto assistere nelle ultime settimane, suscitandogli perplessità e vergogna. Ora, però, placatosi alquanto l’ingarbugliato e incandescente clima politico, è opportuno, lasciare da parte ogni inutile lagnanza e commento, fermarsi per riflettere seriamente sulla condizione reale della vita democratica in Italia.
E’ ormai un dato di fatto l’esautorazione del dettato dell’articolo 1 della Costituzione. Ora preoccupa anche la sorte, cui sembra destinato anche l’articolo 3, che sancisce: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che (…) impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.  Tradotto in pratica, s’impone, per una democrazia realizzata, la “partecipazione” responsabile dei cittadini, costanti e attivi protagonisti della “organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Ne consegue che ogni riforma o “regola del gioco” dev’essere valutata in base ai contenuti che si vogliono perseguire e che debbono investire l’interesse generale di tutto il popolo, espresso tramite i suoi rappresentanti. Se ciò non viene consentito e garantito, ogni riforma può nascondere un astuto e mascherato sotterfugio per finalità antidemocratiche, che i cittadini, quando le scopriranno, rigetteranno con modalità non sempre prevedibili.
E’ chiaramente infondato e strumentale il sostenere che i governi hanno il “dovere di fare”, ovviamente nell’interesse del popolo, tutti gli interventi necessari, anche ad esso non graditi e che i partiti non farebbero mai per un proprio tornaconto elettorale. Ciò è falso: nella nazione - che sia democratica non solo formalmente, ma in primo luogo nella sua sostanza - dev’essere riconosciuto, sempre e in ogni circostanza, il diritto-dovere del popolo di autodeterminarsi, in qualsiasi direzione si decida di andare, compresa quella eventualmente non condivisa dal governante di turno. La vitalità d’un popolo  democratico ammette solo i limiti e le forme che pone da sé, in via temporanea e transitoria, sempre disposta a superarli sino a rovesciarli. “Se a me socialista – insegna Sandro Pertini - offrissero la realizzazione della riforma più radicale di carattere sociale, ma privandomi della libertà, io la rifiuterei, non la potrei accettare”. 

Ciò di cui soffre la politica italiana è evidenziato dall’incremento quotidiano del maggiore partito: quello degli elettori che non votano e che si confermano nel rigetto di una politica chiusa in se stessa, lontana dal popolo e insensibile ai suoi veri problemi. A riparare questa grave situazione non basta produrre riforme con l’ausilio di “una” maggioranza racimolata, momentaneamente utile, ma variopinta e non sempre disinteressata. E’ necessario ricostruire il partito politico previsto dall’articolo 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti, per concorrere con metodo democratico a determinare a politica nazionale”. Ma, guardando serenamente la politica italiana degli ultimi decenni, risuonano le parole di Enrico Berlinguer: “ I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela”. 

Il Presidente del Consiglio e Segretario del maggiore partito di oggi ha probabilmente capito il problema e intuito anche la soluzione: ricreare partiti fatti dai cittadini, liberi e consapevoli, per riportare l’azione politica nei suoi veri binari. Probabilmente sta impegnando questi suoi primi tempi a prepararne la strada giusta. Probabilmente è la tirannia della situazione eredita che lo costringe a “collaborare” con un Parlamento di nominati e con capi-partiti interessati a se stessi. Ma a questo proposito non disdegni di riflettere su un consiglio d’un suo predecessore, che contribuì coraggiosamente a ricostruire in Italia una vita materiale e morale degna degli italiani: “Non sostate – ammonì Alcide De Gasperi - sui labili espedienti, non illudetevi con una tregua momentanea, con compromessi instabili”. Il corpo sociale del popolo italiano è sano e incorrotto: va ascoltata soprattutto la sua voce. Oggi il pericolo non è una paventata deriva autoritaria, ma la rottura dei rapporti con il popolo.       

domenica 8 aprile 2012

DEMOCRAZIA IN CRISI. DIGNITA’ UMANA E GIUSTIZIA SOCIALE

La “democrazia”, prima che una dottrina politica e una forma di governo, è una visione generale dell’uomo e del mondo, fondata su valori propri e caratterizzata da princìpi consolidati e storicamente sperimentati. La concezione ideale normalmente condivisa di democrazia è riassumibile nella formula “governo del popolo, da parte del popolo, per il bene del popolo”. Si tratta di un trinomio inseparabile, tale, cioè, che in mancanza di uno solo dei tre termini, la sostanza dello spirito democratico rimane incompiuta, falsata e tradita. Ogni popolo ha bisogno di una guida e, quindi, deve poter contare su un “buon governo”. Ad accollarsi questo peso e a caricarsi questa responsabilità debbono essere, perciò, guide esperte, sagge e prudenti; chiunque si gravi della responsabilità di governare un popolo deve possedere competenze adeguate, conoscenze ampie e idonee, doti morali d’indiscussa trasparenza, princìpi etici solidi ed esemplari. Il “governante”, che voglia essere e agire “democraticamente”, si deve astenere da ogni tornaconto personale o da qualunque interesse esclusivo di qualche gruppo, dedicandosi, al contrario, esclusivamente ad amministrare quale delegato da tutto il popolo e per il bene di tutto il popolo. Questo significa che egli, almeno per tutto il tempo in cui è responsabile della cosa pubblica, cessa d’essere cittadino “privato” o “di parte” e diventa “pubblico”, cioè di tutti; come tale deve sottoporsi a continua verifica da parte del popolo, in modo da potersi proporre a tutti come “modello” di onestà, di probità, di altruismo disinteressato e gratuito. Solo così sarà e mostrerà a tutti d’essere testimonianza di democrazia autentica: questa, infatti, è servizio rivolto a tutti e reso con impegno e disinteresse; servizio, cioè, che rigetta qualunque forma di attaccamento al potere e rifiuta ogni tentativo d’asservimento del potere a obiettivi personali o di parte.

La democrazia, di conseguenza, non resta mai una pura idea astratta, ma s’incarna nelle persone concrete che la gestiscono e si traduce in regole operative quotidiane, che ispirano e dirigono i comportamenti concreti sia dei governanti sia dei governati. E i caratteri fondamentali dello stile democratico risultano l’altruismo, la coerenza, l’integralità, la testimonianza. Grazie alla condotta suggerita da questi valori, il sistema democratico persegue e garantisce lo sviluppo materiale e morale dei singoli e dei popoli, in quanto permette di capire e di gestire il presente nel massimo rispetto del passato e nella ragionevole proiezione del futuro. Quando, invece, il sistema d’un governo e il modo concreto d’operare d’una democrazia s’allontanano dagli ideali democratici o addirittura ne tradiscono i valori fondamentali, s’apre inevitabilmente il precipizio delle crisi, che generano demagogie e sfociano in populismi più o meno camuffati.

Una delle conseguenze che nascono dalla crisi della democrazia è il dilagare dell’ingiustizia in ogni sua forma: da quella giuridica a quella politica, da quella sociale a quella economica. Ora, è innegabile che nei nostri tempi s’assiste a gravi casi d’indebolimento della democrazia e, in qualche caso, addirittura di un suo sostanziale tradimento. E, quando ciò accade, è perchè comincia a venir meno soprattutto il terzo termine del “trinomio democratico”; cioè, perché si dimentica il “bene di tutto popolo”, si trascura e si misconosce il “primato del bene comune”; e, siccome questo è il fondamento dell’intero sistema democratico, resta necessariamente compromesso l’intero assetto della società, che viene sommersa dalle macerie di quello stesso stato, che avrebbe dovuto tenerla riparata e tutelata.

Il segno più evidente di una democrazia in crisi è il graduale distacco tra governanti e governati: i primi diventano sempre più insensibili e sordi alle giuste esigenze dei secondi, i quali, sentendosi misconosciuti e vedendosi trascurati, perdono la fiducia in chi dovrebbe governarli, per cui ricercano direttamente vie più o meno traverse o imboccano scorciatoie forse criticabili, ma certamente per loro efficaci. Questa situazione, però, determina il rovesciamento del potere democratico, perché ne snatura l’essenza: esso, infatti, non è più servizio generoso e gratuito verso gli altri, ma diventa asservimento disumano degli altri agli interessi propri e di parte. Diventa, allora, normale, anzi legittimo e addirittura necessario il beffeggiare chi concepisce e compie l’impegno politico come “dovere morale” e, all’opposto, si sbandiera come naturale e giusta la pretesa di chiunque di disporre di un chimerico (e tuttavia arrogante e pericoloso) “diritto di fare politica” (intesa come ‘possesso del potere’), come se il governare un popolo possa essere uno dei tanti lavori, cui dedicarsi, per tener occupato piacevolmente il tempo della propria vita. Ovviamente in questo clima si creano gruppi di cittadini avversari, che si vivono non come compagni d’una stessa sorte, ma come rivali e addirittura nemici, che debbono combattersi reciprocamente, rivendicando ciascuno esclusivamente i propri bisogni. Attecchisce e prospera, così, la triste pianta dell’egoismo individuale e di gruppo, su cui s’innestano e prosperano demagogia e populismo capeggiati dall’astuto agitatore di turno.

Cosa aspettarsi da un simile stato di cose, se non il proliferare delle ingiustizie, naturalmente propagandate come necessarie premesse per successive conquiste di benessere di tutti? Ecco, allora, la gravità dei problemi generati da ogni crisi della democrazia. Problemi che possono essere risolti, almeno in parte, solo riscoprendo nella vita sociale la dignità della persona umana e riproponendo di fatto nel governo dei cittadini la centralità dei loro diritti e dei loro doveri in quanto persone tutte d’uguale valore. Questo significa creare e mantenere sistemi politici e governativi costruiti sulla “reciprocità”. Non è più pensabile, infatti, una società “gerarchica”, nella quale i cittadini siano divisi in classi diverse e, quindi, la distribuzione di diritti e di doveri sia “giusta”, solo se rispetta la “proporzione gerarchica”. Le società dei nostri giorni, invece, sono “egalitarie”, per cui si riconoscono tutti i cittadini di pari valore e di uguale dignità: di conseguenza, ogni cittadino, in quanto persona, gode degli stessi diritti e degli stessi doveri, indipendentemente dalla scala sociale di appartenenza. Questa concezione dell’uomo e della politica è quella proposta dal personalismo cristiano, secondo cui l’uomo è unità integrale di corpo e di spirito, aperto alla dimensione della socialità: cioè, è “persona” dotata di razionalità e di conoscenza, di volontà, di sentimento, di libertà e, quindi, di responsabilità, cui non può né deve rinunciare.