Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
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giovedì 23 luglio 2020

Libertà dell’Uomo. Conquista faticosa e Tremore metafisico Rileggendo in chiave critica Erik Fromm



Pubblicato in Inncturae il 23 luglio 2020

La schiavitù peggiore, che possa incatenare e dominare l’essere umano, è l’ignoranza di ciò che lo tiene schiavo. Non s’intende qui affrontare il problema d’una possibile soluzione dell’antitesi tradizionale tra «indeterminismo» e «determinismo», per fondarvi il libero volere umano, ma si vuole solo tentare di analizzare e di comprendere  - nel suo misterioso e sofferto travaglio - la dinamica della vita intima d’ogni individuo, che vada alla ricerca della possibilità d’un proprio vivere libero, perché incondizionato e, quindi,  «felice». Acquisire chiara consapevolezza e prendere piena coscienza di ciò che frena la capacità creativa dello spirito umano e debilita l’energia vitale della sua volontà attiva è impresa ardua e irta di ostacoli. Questo vale per i percorsi mirati a liberarsi sia dalle dipendenze d’origine esteriore sia dai vincoli e dai legami interiori. La vita umana, infatti, dalla nascita alla morte, è destinata a svolgersi in una rete d’inevitabili relazioni necessarie e complicate, spesso simile a una ragnatela, dalla quale ogni uomo, in certi momenti particolarmente impegnativi, vorrebbe uscire e liberarsi, al fine di ripossedersi integralmente, per riprogrammare aggiornati e vagheggiati itinerari di vita, ma spesso finisce coll’avvilupparsi in vincoli più stretti e dolorosi,  a causa proprio del suo divincolarsi talora  inconsulto e spesso anche dannoso. Ma l’uomo aspira comunque a uno stato di vita, in cui possa sentirsi e viversi in piena libertà; e in ciò pone ogni suo sforzo. Raggiungere, però, la completa liberazione da ogni forma di dipendenza introduce l’uomo, nello stesso tempo, in una situazione esistenziale tanto paradossale e assurda quanto reale e consequenziale, qual è l’insorgere del tremore metafisico proprio della «solitudine assoluta», che getta l’uomo in un insopportabile stato d’angoscia generale. Ciò converte – soprattutto negli animi incapaci di padroneggiare e di gestire le nuove e ignote responsabilità, che derivano dal riemergere della riconquistata autenticità della vita - la ricerca della libertà in ricerca d’un nuovo legame qualunque, purché sia di d’accompagnamento amichevole e di saldo sostegno.

A ben comprendere il dinamismo di questi mutamenti della vita dello spirito umano sono d’insostituibile guida tre studi di Erik Fromm (1900.1980), i quali, benché datati, rimangono tuttora molto attuali e puntuali: Fuga dalla libertà del 1941, Psicanalisi della società contemporanea del 1955 e L’Arte d’amare del 1956. Nel primo volume, scritto al culmine dello svolgimento della seconda guerra  mondiale, lo studioso tedesco osserva con disincantata e quasi scettica curiosità il comportamento socio-emotivo degli uomini del tempo e nota come essi, proprio mentre lottano contro l’assoggettamento ai regimi nazifascisti, nello stesso tempo, proiettandosi nell’immediato futuro e percependosi liberi da «regole» da seguire e da «padroni» cui obbedire, sono invasi da un’inconscia agitazione parossistica, che placano solo desiderando e sognando nuove situazioni di subalternità, capaci di far superare l’incombente stato di solitudine e di insicurezza. Erik Fromm, quindi, considerando l’uomo in simile stato, lo vede necessariamente da una parte preda d’un’appartenenza che lo blocca e lo intrappola e, dall’altra parte, sparuto frammento vivente, insignificante e sospeso su un’ampia voragine che lo terrorizza. Secondo il filosofo tedesco questo senso d’inspiegabile violenta fobia e d’insostenibile incertezza angosciante, che immobilizza mente e anima, non è sopportabile per lungo tempo, per cui ne indica le due possibili vie d’uscita: o avanzare con ferma vigoria verso una piena e solida maturazione, o ricercare opportunamente un nuovo «padrone», per il quale valga le pena continuare a vivere. Quest’ultima sembra la via scelta dalla maggior parte degl’individui sia perché socialmente più condivisa, sia perché psicologicamente meno problematica, sia perché  socialmente più gratificante, almeno in apparenza e nell’immediato. Ci sono, infatti, dipendenze ormai ritenute quasi organicamente strutturate, che orientano e addirittura guidano il comportamento di singoli e di gruppi di persone, fino a orientarne totalmente la vita. Basti pensare alle forme quasi mistiche di lavoro frenetico, in cui ci s’impegna in ritmi maniacali: più si più lavora, più si ha popolarità e potere, più si è apprezzati; o anche alla dipendenza - coltivata con camuffata umiltà e ostentata come discrezione - è la ricerca della fama a ogni costo: basta essere considerato «qualcuno», a prescindere da ogni riscontro valoriale oggettivo.

Uno dei passaggi particolarmente significativi dello studio di Erik Fromm riguarda l’indicazione delle vie da seguire per usufruire con profitto della libertà eventualmente riconquistata. L’Autore suggerisce sostanzialmente tre itinerari necessari e complementari: auto-analisi impietosa del proprio comportamento, accettazione virile dei momenti dolorosi, creatività senza mania del successo. Cioè, conoscere la propria umanità, rispettarla senza infingimenti e amarla. Lo studioso, tuttavia, dopo quindici anni si dedica ad un’attenta «Psicanalisi della società contemporanea», che – con occhio incredulo e con mente sgomenta - vede dominata da uno stato «di malattia e di sofferenza», nonostante la tempestiva ricostruzione socio-politica postbellica delle nazioni e il «miracolo della crescita economica» osannata in nome  delle teorie del capitalismo, facessero immaginare tutt’altro. Fromm ne ricerca le cause probabili. Gli uomini, anziché curare e accrescere la propria creatività, si sono dedicati alla produzione ripetitiva e per il maggior profitto soprattutto economico; essi, pertanto, si sono gradualmente alienati da sé stessi e sono divenuti, inconsapevolmente ma realmente, idolatri degli oggetti che essi stessi hanno prodotto. L’umo, quindi, da «finalità ultima» dell’agire umano, s’è trasformato in mezzo di produzione di «cose», le quali sono divenute, così, il vero fine ultimo della vita e dell’agire dell’uomo nel mondo. Il mondo è il dominio dell’uomo «reificato».

Quale la causa di questo sovvertimento di realtà e di questa confusione di valori? Fromm ne indica, tra le altre, una – ovviamente formulandola come ipotesi da verificare - nello studio pubblicato l’anno successivo, intitolato significativamente «L’arte di amare». Il messaggio generale, che il libro dovrà tramettere, è affidato all’eloquente citazione d’un aforisma dello scienziato rinascimentale Paracelso: «Colui che non sa niente, non ama niente. La maggiore conoscenza è congiunta indissolubilmente all’amore» (Citiamo dalla trad. it. di Marilena Damiani, Il Saggiatore, 1963, p. 7). Quello che oggi l’umanità non conosce è proprio la vera natura dell’amore: e fraintenderla significa «ricercare disperatamente» quell’equilibrio – ovviamente instabile, come s’addice alla natura umana -, che deriva solo da una prospettiva complessiva della vita, che con linguaggio puntuale e univoco l’italo-tedesco Romano Gardini (1885-1968) chiama «Totalità». La totalità dell’essere in generale e dell’animo umano in particolare non è comprensibile mediante sottili ragionamenti o elaborate ipotesi, così come la totalità della bellezza d’un dipinto multicolore chiuso in una stanza non è conoscibile mediante lo scambio di dotte conversazioni, ma basta aprire una finestra; la luce si fonde coi colori e la bellezza del dipinto si manifesta agli occhi dell’osservatore. Così è per la totalità della vita dell’animo umano. Basta amare con autenticità e il caos esistenziale si modificherà – gradualmente ma realmente – in un cosmo ordinato e appagante.

Ma cos’è l’amore autentico. Per rispondere a questa domanda, Fromm si sofferma prima a indicare cosa l’amore non è: non è «una piacevole sensazione», non è la ricerca dei modi  e delle tecniche «per essere amati», non è trovare una persona o un ideale cui dedicarsi, e non è una «facoltà» da coltivare. E’ un’arte, che, come l’arte medica e tutte le altre arti, va appresa e aggiornata con fatica e costanza. E perché un’arte venga sempre  più perfezionata, sottolinea Fromm, «non deve esserci al   mondo nulla di più importante. Questo vale per la musica, per la medicina, per l’amore». E «Forse - conclude  il filosofo - qui sta la risposta alla domanda perché la nostra civiltà cerca così raramente d’imparare quest’arte a onta dei suoi fallimenti; nonostante la ricerca disperata dell’amore, tutto il resto viene considerato più importante: successo, prestigio, denaro, potere; quasi ogni nostra energia è usata per raggiungere questi scopi, e quasi nessuna per conoscere l’arte dell’amore» (Ivi, p. 18).
Il disordine e l’infelicità dell’uomo contemporaneo sono causati dal caos che regna nella Totalità: prospettive allettanti ma ingannevoli, miraggi illusori pregustati come  visioni concrete e ideali aggiungibili. Per ristabilire l’ordine è necessario che l’uomo, lungi dal farsi dominare dal «tremore metafisico», si reimpossessi della sua vita e – paradossalmente – nell’intimità della sua solitudine interiore- riscopra la capacità d’amare il più e meglio possibile, rispettando la totalità nel suo insieme.






domenica 20 dicembre 2015

SOLITUDINE INTERIORE E VERTIGINE ESISTENZIALE


Pausa di solitudine “interiore”: indefinita densa profonda. Momenti interminabili d’uno smarrimento totale, insospettato. Angosciata sospensione di tutto, strana misteriosa interruzione di realtà. 

Non la riflessione distaccata sull’origine del proprio esserci, o la ricerca appassionata del come del proprio esistere, o la struggente inquietudine d’indovinare la destinazione della propria vita. E neppure il dolente rimuginare i pochi o molti rapporti più o meno sinceri e disinteressati o calcolati o falsi intercorsi nel tempo. E nemmeno il rimembrare le passate vicende: belle e gratificanti oppure tristi, frustranti, talora quasi fatte e destinate per il peggiore andamento della vita. 

Forse importante, ma certamente penoso, è il bisogno d’intrattenersi mestamente con se stessi, per poter prendere atto della realtà del naturale evolvere della vita cosmica in generale e umana in particolare, che inesorabilmente ha un inizio, uno svolgimento, un termine, secondo una propria inarrestabile ciclicità esistenziale, dall’incomprensibile criterio. Non meno angosciosa è la voglia di confortarsi, magari con un malinconico sorriso di auto-commiserazione e di rassegnata auto-sopportazione; momentanea è anche l’illusione di sostenersi, rannicchiandosi in un’inerte accettazione di tutto il passato e in una spenta disponibilità a partecipare a qualunque accadimento futuro. Non si sente neppure lo stimolo a tentare almeno di non sentirsi e di non viversi fuscello di paglia in balia d’un arcano destino. Nessun impulso a tentare d’evitare di dover concludere che tutto è soltanto coincidenza o casualità o addirittura caos.  

Ma .... “toccarsi concretamente” quasi con mano nel fondo della propria realtà, intuirsi profondamente nel proprio nucleo esistenziale senza alcuna mediazione di ragionamenti o sentimenti o volontà, verificare inesorabilmente che colui che si sta quasi toccando con mano, che si sta intuendo identico a sè, che si sta constatando realmente e con sicurezza come un esistente vivente già nel passato, nel presente come pensante all’oggi ma nel tentativo anche d’intuire un qualche flusso premonitore del futuro … è proprio lui!

Lui, ora, da solo, unico come identico a se stesso e necessariamente diverso e diviso da ogni altra realtà: lui che vive come gettato - insieme al tempo - nel cosmo universale, immerso nell’infinità che scorre ora dolcemente ora crudelmente verso un’eternità agognata ma ignota, sperata ma spesso evanescente, forse anche del tutto inconoscibile. Solo; con tutto ciò che è stato e ha fatto. Intuirsi, allora; e viversi nell’assoluto isolamento da tutto e da tutti.

Dichiararsi pronto a riconoscersi serenamente e accettarsi eroicamente come l’unico vero protagonista della propria vita, per cui può e, qualora ne sia il caso, deve dare conto di se stesso solo a se stesso: mai, allora, potrà ingannare la sua intelligenza né circuire la sua coscienza. Per questo diventa ormai pronto ad accogliere tutto ciò che è successo nello scorrere del tempo, sorridendo del bene che gli occorre alla memoria, rammaricandosi del non bene che potrà aver fatto, addolorandosi di qualche eventuale male, di cui però non ricorda nulla in particolare, che spera non sia esistito, ma che sa, qualora l’avesse fatto, che può correlarlo sicuramente alla sua buona fede, perché è sempre stato del tutto estraneo al suo modo di vivere ogni intenzione malevola o malefica. 

Solitudine interiore. Vertigine da panico. Enorme. Dapprima angosciante con tremore, poi immobile e serena, infine dolce e benevola: tutto, allora, acquista colore e valore. Momenti sublimi: godersi pacificamente, pacatamente, piacevolmente la calma morale che rinvigorisce, l’alito della speranza che vivifica, la brezza dell’entusiasmo che ristora. E gradualmente “toccarsi concretamente” quasi con mano come esistente pervaso da senso, da serenità, perché purificato da ogni scoria colpevole o innocente d’un passato vissuto tra speranza e disperazione, tra amore e odio, tra fatica e passione, tra entusiasmo e depressione. Da essere umano.

 

martedì 7 giugno 2011

GIOVANI, MORALE E FELICITÀ

Il mondo dei giovani d’oggi è una realtà complessa e mutevole e, proprio per questo, non si presenta come un sistema immediatamente e chiaramente riconoscibile. Esso è, piuttosto, come un universo aperto, nel quale s’incontrano e si scontrano inclinazioni diverse, talora contraddittorie. Questo potrebbe far pensare che è problematico formulare e presentare una proposta morale fatta su misura delle necessità dei giovani. Infatti, da una parte, negli ultimi decenni sono intervenuti mutamenti così rapidi e profondi che è quasi impossibile fare un confronto con il passato anche recente; dall’altra parte, le diversità del presente sono così importanti che non consentono di fare riferimento a modelli culturali certi. Ciò non toglie, però, che nel comportamento dei giovani dei nostri giorni esistano e si possano rintracciare tratti caratteristici, ai quali riferirsi, per sviluppare una proposta di morale. Questa proposta, però, non dovrà solo puntare a prescrivere precetti dettagliati e precisi, ma dovrà anche (e soprattutto) mirare a illuminare il campo della libertà dei giovani, offrendo loro la possibilità d’autonomia di giudizio e di responsabile autodeterminazione.

Sotto quest’aspetto si rileva subito un elemento significativo e importante: cioè la forte aspirazione dei giovani a ricercare la felicità, a soddisfare i loro bisogni, a migliorare la qualità della loro vita. Allora, è quanto mai doveroso fare i conti con quest’aspirazione dei giovani, stando attenti, però, tanto a non cedere ad accondiscendenze frettolose e ingenue, quanto a non rimanere prigionieri di prevenzioni e di paure eccessive. Infatti, se è vero che il far prevalere nelle scelte la libera decisione dei singoli può condurre ai pericoli dell’indifferenza e del relativismo, è anche vero, tuttavia, che può costituire una preziosa occasione, perché il giovane conquisti una più alta forma di moralità, centrata sulla maturazione della sua coscienza e sull'assunzione concreta delle sue responsabilità.

Del resto, oggi i giovani rifiutano chiaramente e con fermezza le morali, che si fondano su leggi oppressive e su imposizioni esterne, e reclamano con decisione una morale fondata sulla coscienza personale formata ragionevolmente e sulle responsabilità assunte volontariamente. Naturalmente quest’atteggiamento può nascondere equivoci e ambiguità, in quanto talora vuol significare un volersi “liberare” da insegnamenti scomodi e da proposte impegnative, per aderire (o meglio, per “asservirsi”) a modi di pensare propri del consumismo e libertarismo. E questo è un atteggiamento molto pericoloso, perchè non permette di stabilire e rispettare una scala di valori credibili e condivisi, in quanto molti bisogni, che vengono sollecitati dalla società, hanno lo scopo di mantenere sistemi socio-economici, che coprono profonde ingiustizie e gravi sperequazioni tra gli uomini.

Questa situazione, però, ha i suoi aspetti costruttivi, che sono d’estrema importanza. Infatti, con questa loro rivendicazione i giovani (nella loro maggioranza) esprimono l’esigenza di liberarsi da divieti inutili e di sottrarsi a tradizioni ormai superate, ma imposte autoritariamente dall’esterno. Essi rivendicano il bisogno di vivere secondo una propria identità: e questo bisogno non dev’essere interpretato con superficialità come il tentativo di sfuggire ai propri doveri, ma va inteso come il segnale del loro legittimo e lodevole ricercare una morale, che sia espressione della propria coscienza, la quale, in verità, è la vera sede delle decisioni umane autentiche. E’ chiaro, comunque, che quest’esigenza dei giovani va gestita con estrema prudenza: ne va compresa e valorizzata la ricchezza dei contenuti, ma, nello stesso tempo, ne vanno previsti e neutralizzati i pericoli d’ogni eccesso.

Solo in questo contesto, però, si può collocare il problema delle regole morali per i giovani. Infatti, il pericolo del relativismo morale è generato dalla confusione tra “valori” e “norme” di comportamento, per cui è necessario intendersi sul loro significato. I “valori” sono fondati direttamente sui diritti fondamentali della persona, per cui costituiscono il punto di riferimento essenziale della condotta umana. Le “norme”, invece, hanno, per loro natura, il carattere di relatività, in quanto sono (e debbono) essere dettate dalle situazioni concrete e, come tali, sono destinate a mutare col mutare delle condizioni sociali e culturali. Pertanto, una morale della responsabilità, che faccia appello innanzi tutto alla coscienza del singolo, dev’essere per la maggior parte impostata come “morale dei valori”, senza preoccuparsi eccessivamente di somministrare “ricette” particolareggiate valide per tutte le situazioni. Sottolineare eccessivamente l’importanza delle norme dettagliate, non solo determina atteggiamenti di pura acquiescenza, ma finisce anche per rendere labile nelle coscienze il rapporto con i valori.

Di qui l'esigenza di assumere, nel campo dell'educazione morale, un atteggiamento propositivo, che punti a offrire uno stile di vita complessivo, in cui ognuno sia capace di articolare autonomamente la scala gerarchica dei valori, e tale che venga assimilato in profondità dalla coscienza dei singoli. La vita morale, cioè, non va presentata come un’astratta ipotesi di principi sganciati dall'esistenza, ma come un cammino di crescita verso una meta ideale, i cui lineamenti vanno, di volta in volta, identificati nella loro concreta possibilità di attuazione dentro la vita della quotidianità. Oggi i giovani colgono con maggiore realismo la compresenza del bene e del male nella realtà della loro vita quotidiana e vivono con sofferenza la crisi dei valori veri e la sfiducia nelle capacità umane. Possono uscire da questo stato di sofferenza, solo se ritroveranno la fiducia nella propria ragione, capace di discernere e di decidere. Il recupero del valore della coscienza individuale – se bene inteso e lealmente perseguito - può costituire un momento felice per il recupero d’una nuova morale umana.

martedì 8 marzo 2011

UNA LAICITÀ “NUOVA” PER RIPARTIRE

Nel definire il significato di “laicità” e nel fissarne compiti e ruolo, talora si frappongono alcuni equivoci, che alterano la serenità del dialogo e fuorviano dalle reali intenzioni della discussione. Quindi, è necessario innanzitutto precisare il senso autentico della parola “laicità”, che, pur essendo ricca di contenuto e di valore, non sempre è intesa e adoperata in maniera appropriata. Essere laico, infatti, non significa, come purtroppo spesso si pensa, essere un avversario della religione in generale e del cattolicesimo in particolare; la parola “laico”, di per sé, non vuol dire l’essere né “credente” né “indifferente” né “miscredente”. A essere ostile alla religione e a combatterne ogni forma di predicazione è il “laicismo”, cioè quell’atteggiamento estremista, che disprezza e odia la religione e le chiese per pregiudizio. La vera “laicità”, invece, anche quando non condivide dottrine e regole dei diversi campi religiosi (o anche modelli proposti dalla politica, dalla società, dall’economia, dalla morale, dalla scienza, dalla teologia, ecc)), tuttavia li valuta con serena imparzialità, li rispetta con lealtà e li apprezza con onestà, senza fare confusione tra le rispettive facoltà e, soprattutto, tenendo ben separate – con intelligenza e fermezza – le rispettive competenze delle Chiese e degli Stati.

La “laicità”, pertanto, non è un insieme di dottrine particolari, ma è soltanto un abito mentale, grazie al quale si distingue ciò che è dimostrabile con la ragione da ciò che si accetta per fede. La laicità, quindi, non s’identifica con alcun credo specifico e non sostiene alcuna filosofia o morale o politica o ideologia particolare; essa è soltanto la capacità di articolare le proprie convinzioni (siano esse religiose, filosofiche, sociali, culturali) secondo regole che sono proprie della logica razionale, la quale, per la sua stessa natura, non può accettare o subire condizionamenti esterni, perché perderebbe la sua validità. Infatti, la logica razionale è veramente tale, solo se opera nella sua assoluta autonomia, cioè solo se è libera e, quindi, “laica”: tanto in un San Tommaso d'Aquino quanto in un pensatore ateo, la logica s’affida sempre e solo a principi di razionalità, allo stesso modo in cui, nella matematica, la dimostrazione d’un teorema obbedisce solo alle leggi della matematica, indipendentemente dal fatto che essa sia fatta da un Santo o da un miscredente.

La laicità, così intesa, crea la cultura della tolleranza: quella tolleranza che si concretizza nella sapiente umiltà che fa dubitare delle proprie certezze. Il laico è veramente tale, quando è “libero” davvero, cioè quando non si crea propri idoli da adorare né accetta miti altrui da venerare. Egli crede con forza e coerenza in alcuni valori che fa suoi, ma nello stesso tempo non dimentica mai che esistono anche i valori degli altri, che sono pur’essi nobili e validi e, perciò, meritevoli di stima e di rispetto. Laicità significa, allora, avere il coraggio di fare le proprie scelte, assumendosi la responsabilità delle eventuali rinunce necessarie e degli eventuali errori e fallimenti, senza confondere in nessun caso il pensiero rigoroso con i convincimenti fanatici e senza mescolare il sentimento sincero con le reazioni emotive e passionali. Per queste sue caratteristiche la laicità crea e difende una moralità appropriata, con cui si evitano sia gli eccessi del moralismo fazioso sia le licenziosità del permissivismo. Solo il “laico”, dunque, è e vive da uomo libero, perché solo lui aderisce a un'idea, senza restarne succube; s’impegna politicamente, senza perdere la propria indipendenza critica; non resta schiavo delle sue stesse idee e non denigra quelle degli altri; non inganna se stesso, trovando mille giustificazioni ideologiche per le proprie mancanze.

Questa concezione di laicità è stata condivisa e raccomandata anche dal Concilio Ecumenico Vaticano II, nel quale viene delineata una Chiesa aperta alle esigenze del mondo, attenta ai “segni dei tempi”, alla ricerca di un dialogo fecondo con il “Mondo” nelle sue varie dimensioni. Perciò, si rivendica per l’uomo una fede religiosa integrale, cioè che non può essere ridotta a un affare privato riguardante solo la sfera personale, poiché il credente, in quanto “laico”, non può né deve essere relegato nel recinto del suo tempio, così come chi professa idee diverse deve godere del diritto a realizzare nella vita sociale le sue idee. Il volere per forza chiudere il credente nella sua cappella o il pretendere di scacciare dal proprio recinto chi la pensa diversamente, fa parte d’un laicismo arrogante. Del resto, se si vuole una “Chiesa aperta al mondo” e disponibile a capirne e ad accoglierne – sia pur criticamente - le esigenze, si deve ammettere anche un “Mondo aperto alla chiesa”, disponibile, cioè, a comprendere e ad accettare – sia pur criticamente - le sue opinioni e le sue prese di posizione su temi pastorali, che abbiano eventuali implicazioni sociali e indirettamente anche politiche. Autorevoli pensatori religiosi hanno offerto frequenti esempi di questa chiarezza e continuano tuttora a testimoniare l’esigenza di rispettare la ragione e le sue frontiere. Essi, infatti, rivendicano il ruolo che il Vangelo può e deve avere nell’ispirare una visione del mondo e, quindi, nel contribuire a creare una società più giusta; ma, nello stesso tempo, sostengono che la predicazione del Cristo non può mai tradursi direttamente e immediatamente in articoli di legge, per cui esigono un senso profondo della distinzione tra Stato e Chiesa, tra ciò che spetta all'uno e ciò che spetta all'altra.

La laicità, però, s’oppone anche al cosiddetto pluralismo culturale, spesso falso e ostentato dalla società del nostro tempo, la quale esalta tutte le differenze, ma in realtà, sotto l’ingannevole apparenza d’accogliere tutto indistintamente, persegue soltanto il qualunquismo, in cui ogni proposta è considerata come “valore”: c’è posto per tutto e per tutti, perché in esso regna la più piatta indifferenza. Invece la laicità vera, quella che garantisce il pluralismo autentico, riconosce non tutto senza distinzione, ma ogni reale positività di chi operi con efficacia alla costruzione della vita dei popoli e degli stati, i quali non sono contenitori vuoti da riempire con tutto quello che si vuole, ma sono uno spazio, nel quale ciascuno può e deve portare il suo contributo all’edificazione del bene comune. Oggi c’è bisogno di questa laicità “nuova”, per ripartire verso traguardi di civiltà vera.