Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
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mercoledì 30 dicembre 2009

PERCHE’ IL DOLORE E LA MORTE?

Vi sono molte discussioni e si propongono non poche argomentazioni convincenti sulle risposte che sono state avanzate e che tuttora si vanno ricercando sulle tristi realtà del dolore e della morte. Tornerebbe, però, forse più utile, e comunque più “umano”, tentare di penetrare le motivazioni vere e profonde che spingono gli “esseri razionali” a porsi la domanda stessa più che a trovarne la risposta. Infatti, è dentro il perché della domanda che sono custoditi i segreti della drammaticità di questo problema, che ogni singolo essere umano vive nell’intimità inconfessabile del suo animo, il quale – si deve riconoscere per onestà intellettuale - non è nutrito e guidato da certezze oggettive incontestabili, bensì alimentato e sorretto dagli orientamenti unici, che scaturiscono dalla particolare visione del mondo, che l’irripetibile storia personale propone a ciascuno come la più valida e la più credibile.
L’essere umano non tende, per sua necessità naturale, alla felicità; e, pertanto, non si chiede che cos’è la felicità, né la rincorre in sè e per sè. Seguendo i bisogni della propria natura, l’essere umano vorrebbe solo non soffrire, cioè, vorrebbe solo godere di un corso esistenziale biologico, spirituale e morale ordinato secondo i limiti e le finalità della sua realtà; e, per questo, si chiede cos’è il dolore in ogni sua manifestazione, fino alla sua ultima rivelazione che è la morte. Il dolore, infatti, è presente e domina ogni forma di esistenza; e la morte, conclusione ineluttabile d’ogni corso esistenziale, è l’unico evento certo, che accomuna ogni genere vivente, compreso quello umano. L’essere umano, però, è dotato non solo di sensibilità e di ragione, ma anche di sentimento, di emotività e forse soprattutto di libertà; in quanto tale, è disponibile ad accettare e sopportare qualunque evento che, però, non sia assurdo. Ma il dolore rimane un assurdo, perché contrario a ogni principio di ragionevole comprensione. Esso, infatti, sfugge a ogni tentativo di farsi conoscere, anzi si ostina a rimanere serrato nell’impenetrabile dominio dell’incomprensibile, che va al di là d’ogni limite anche dello stesso mistero. Il mistero, infatti, è un’esigenza della ragione umana protesa certamente anche verso l’ignoto, ma che sia razionalmente fondato, cioè, verso quell’ignoto che propone conoscenze e realtà superiori alle capacità cognitive umane, ma che sono supportate da elementi non irrazionali. Il dolore, purtroppo, non ha un simile fondamento, per cui rimane un assurdo, almeno fino a quando non si manifestino alla mente umana suoi eventuali aspetti “ragionevoli”.
Allora – ci si chiede – qual è il significato della sofferenza, quali sono le sue radici, che “valore” porta o aggiunge alla natura umana e alla storia della sua evoluzione? Quale ruolo storico svolge nell’inesorabile scorrere dell’esistenza dei singoli e dell’umanità? Insomma, che rapporto c’è tra sofferenza e realtà dell’essere umano (e dell’intero cosmo)? L’esistenza umana consiste in una ben determinata durata di tempo, di cui ciascuno dispone, non importa se già necessariamente programmata in ogni suo accadimento o con margini di possibile intervento umano; anche se tutti dobbiamo prendere atto almeno che la nostra nascita non è stato frutto di una scelta consapevole o inconscia. “Vivere” questo segmento esistenziale può essere o pensato e realizzato come un riempire e un concretizzare un qualche progetto “sensato” (per usare il linguaggio del Popper) oppure concepito e vissuto come un esaurire e un consumare un qualcosa, che ci è dato in uso, di cui, quindi, è consentito disporre provvisoriamente e rapidamente, perché è destinato a passare inesorabilmente. L’esistenza umana, allora, è una realtà o “sensata” ma necessitata, oppure “insensata” ed effimera. O vi è qualche altra possibile visione?
L’intero arco della vita presenta momenti propizi e momenti avversi, stati di felicità e stati di dolore. A questi modi di essere non si vuole attribuire alcun giudizio valutativo; si vuole soltanto indicarne la presenza certa e ricercarne un significato plausibile. Appare razionalmente appagante ma umanamente insoddisfacente, la convinzione, secondo cui ogni “essere” è sempre e comunque positività e valore (buono, vero, bello, giusto, ecc.), per cui ogni negatività e disvalore devono ricondursi a una qualche carenza di essere, dovuta alla natura stessa d’ogni essere finito e contingente. Tuttavia - a prescindere che non è del tutto agevole accettare la presunta compresenza di essere e di non-essere - questa non è una risposta al perché sia proprio “l’essere finito e contingente” a interrogarsi sul proprio dolore e sulla propria morte; mentre è quest’ultima la domanda, dentro la quale si cela l’arcano della drammaticità del senso dell’umana esistenza e alla quale si vuole trovare una possibile soluzione.
E’ una partita, questa, che ciascun essere umano si trova a dover giocare sempre da solo. Infatti, non si può delegare ad altri la propria sofferenza né ci si può fare sostituire nella propria morte. E sofferenza e morte sono sempre collegati durante tutta l’esistenza, anzi sono tali che l’una richiama sempre l’altra. Infatti, il dolore fisico e morale è, in sostanza, sottrazione di vitalità, per cui è preannuncio della morte, che giunge come assenza totale di vita. Per l’ineluttabilità di questo destino - individuale ma universale, in quanto accumuna tutti nella medesima sorte - l’essere umano, finito e contingente, proprio in quanto tale, vive costantemente in compagnia del suo progressivo “estinguersi”.
Per andare verso quale meta? Ogni realtà – si afferma spesso e da molti – ha, anzi deve avere, in se stessa la ragione del suo esistere. La teleologia universale è veramente una connotazione reale oppure risponde a un’esigenza soltanto dello spirito umano? Che nel cosmo ogni cosa tenda alla realizzazione di un immenso e ordinato progetto armonico, all’interno del quale si assume senso e significato, è una realtà oppure concretizza solo l’anelito dell’animo ad abbracciarsi a un qualcosa che mitighi il suo smarrimento e calmi la sua ansia esistenziale?
Una realtà, comunque, s’impone in tutta la sua asprezza: non c’è alcuno che non senta l’acuto morso della domanda: qual è il senso della sofferenza che accompagna ogni attimo dell’esistenza umana, che ha l’inizio in modalità sconosciuta e la conclusione biologicamente necessitata. Certo essa può essere esaudita – come di fatto è avvenuto – in tanti modi, da quello assolutamente pessimistico a quello assolutamente ottimistico; ma ci si trova quasi sempre di fronte o a costruzioni fondate su argomentazioni logiche (stringenti ma inappaganti) oppure su intime intuizioni spontanee (intime e segrete e, quindi, incomunicabili). Risposte “credute razionalmente” o “accolte umanamente”, ma sempre minate dal dubbio e dalla nostalgia della certezza, cui anela ogni inquietudine umana. Costruzioni solide ed esigenze profondissime, dietro le quali si cela solo la tenace volontà di “credere” in qualcosa, che salvi l’animo umano dal precipitare nel baratro dell’insignificanza e del non-senso. Conclusioni temporanee, però, smentite quasi sempre dall’avventura esistenziale di ciascuno. Audacia, comunque, di non rifugiarsi acriticamente in soluzioni fideistiche o in negazioni irrazionali. Coraggio, sempre, di assumersi, umilmente ma totalmente, ogni responsabilità delle proprie scelte e della propria coerenza.

sabato 13 dicembre 2008

L’ANIMO UMANO. L’INTIMITA’ CHE TUTTO REALIZZA E TUTTO SALVA

L’animo umano, nella sua più profonda intimità, è lo scrigno più prezioso, più sicuro, più impenetrabile, più sacro che è dato in dote a ciascun uomo. Esso non è ciò che chiamiamo coscienza, e che spesso riduciamo a burbero censore o a scomodo contenitore di comandi e di veti. E non è nemmeno ciò che chiamiamo “anima”, e che spesso intendiamo come un supplemento aggiunto alla natura propria dell’essere umano, che così diverrebbe prodigiosamente partecipe di realtà superiori destinate a vite più eccelse senza tempo e senza spazio. L’animo umano è l’essere sostanziale d’ogni individuo, la sua vera essenza esistente e vivente in sé e per sé, nella sua singolarità totale. E’ l’animo che rende l’esistente umano (che in sé e per sé è individuale e contingente) partecipe della Totalità somma dell’unico Essere infinito: quell’Essere che tutto comprende e tutto accoglie; che tutto realizza e tutto esprime; che tutto verifica nell’assoluta trasparenza immediata della verità immortale; che da nessuno e da nulla può essere contraddetto, perché è esso stesso la verità; che mai viene meno, mai dubita, mai tradisce; quell’Essere totale che nessuno e nulla può ingannare. Quell’Essere, la cui partecipazione appaga l’uomo, la cui comunione ne lenisce le sofferenze esistenziali, la cui unione gli dona i primordiali impulsi di speranza nel futuro e di tensione verso le dimensioni vere della realtà, fatte di pienezza massima e di sintonia perfetta.
L’intimità dell’animo umano, poi, è il tabernacolo sacro, nel quale rimangono scolpiti indelebilmente tutti i pensieri, tutti i desideri, tutti i sentimenti, tutti gli eventi che scandiscono l’intero itinerario dell’esistenza di ciascun individuo. Solo nell’intimità dell’animo umano si conservano, quindi, tutti i segreti veri, che nessun altro essere conoscerà mai; sono quei segreti intimi, che tali rimarranno in eterno: molti presumeranno di indurne cause ed effetti, altri presupporranno di intuirne la natura, ma nessuno ne conoscerà veramente la vera natura.
E’ qui, in questo sacro scrigno, che ci si deve rifugiare, se si vuole veramente stare al riparo da indiscrezioni invadenti e da curiosità interessate; e soprattutto se si vuole vivere davvero la totalità della propria anima. Nell’intimità dell’animo umano gli ”altri” saranno sempre degli estranei molesti, ai quali sarà negata qualunque condivisione e per i quali rimarrà serrato qualunque spiraglio: in essa trova sicuro rifugio la totalità dell’uomo, che avverte il rischio di perdersi nel caos delle attività quotidiane e nel ginepraio delle relazioni sociali. Nell’intimità dell’animo il singolo io raccoglie tutto il proprio spirito, autopossedendosi e vivendosi in tutta la sua totalità e, soprattutto, nella sincera totale trasparenza di sé a se stesso.
In quest’intima meditata conversazione con se stessi cessa ogni equivoco, si dilegua ogni dubbio; non ha ragion d’essere alcun mediatore, alcun traduttore. Si fuga ogni resistenza: tutto lo spirito si scioglie in se stesso e s’abbraccia, comprendendosi.
Solo allora l’uomo si ama davvero, perché solo allora conosce la vera essenza del suo pensiero, del suo agire, del suo sperare, del suo angosciarsi, del suo odiare, del suo stesso amare e amarsi. Allora si pacifica con se stesso, con tutto se stesso: possiede la pace che nessuno può turbare, gode dell’appagamento che nessuno può intaccare, riconquista la purezza originaria che nessuno può più contaminare né tanto meno dissacrare.
E allora, diventa sopportabile anche il mondo degli altri, benché fatto di banalità, di ipocrisie, di invidie, di cattiverie. E il mondo diventa sopportabile, anche perché esso diventa e si rivela più banale e più vuoto.
Custodire l’intimità del proprio animo vuol dire salvare la propria vita: salvarla dalla dissipazione, dalle frivolezze, dalle contese, dal pettegolezzo. Tutte queste negatività ci saranno e continueranno a esserci e a farsi sentire; ma per chi conserva e coltiva l’intimità del suo animo, proteggendola fino al sommo sacrificio di abnegazione e di generosa empatia, è come se esse non ci fossero, perché non penetrano né penetreranno nello scrigno ben custodito della propria anima.

domenica 26 ottobre 2008

LA VITA E’ UN “LUNGO SOGNO”

Arturo Schopenhauer, seguendo il pensiero di Kant, sostiene che la “realtà”, rimanendo sempre inconoscibile in sé, si rivela solo come rappresentazione del soggetto. Per questo diventa molto difficile distinguerla dal sogno. Scrive, infatti:

“Noi abbiamo sogni; non è forse tutta la vita un sogno? – o più precisamente: esiste un criterio sicuro per distinguere sogno e realtà, fantasmi ed oggetti reali? – L’addurre la minor vivacità e chiarezza dell’immagine sognata rispetto a quella reale non merita alcuna considerazione; dato che nessuno ancora ha avuto presenti contemporaneamente l’uno e l’altro per confrontarli, ma si poteva confrontare soltanto il ricordo del sogno con la realtà presente. Kant risolve cosí il problema: “Il rapporto delle rappresentazioni fra di loro secondo la legge della causalità distingue la vita dal sogno”. Ma anche nel sogno ciascun particolare dipende parimenti in tutte le sue forme dal principio di ragione, e questo si rompe soltanto fra la vita e il sogno e fra i singoli sogni. La risposta di Kant potrebbe, quindi, essere formulata cosí: il lungo sogno (la vita) ha in sé connessioni costanti secondo il principio di ragione, ma non le ha coi sogni brevi; sebbene ciascuno di questi abbia in sé la stessa connessione: fra questi e quello è dunque rotto il ponte, e in base a ciò si distinguono tra loro.
(...) L’unico criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà è in effetti quello affatto empirico del risveglio, col quale in verità il nesso causale fra le circostanze sognate e quelle della vita cosciente viene espressamente e sensibilmente rotto.
(...) Calderon infine era preso cosí profondamente da questo pensiero, che cercò di esprimerlo in un dramma, che in un certo modo è metafisico: La vita è sogno.
Dopo tutti questi passi di poeti sarà concesso anche a me di esprimermi con una similitudine. La vita e il sogno sono le pagine di uno stesso libro. La lettura continuata si chiama la vita reale. Ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) è terminata e giunge il tempo del riposo, allora noi spesso seguitiamo ancora pigramente, senza ordine e connessione, a sfogliare ora qua ora là una pagina: ora è una pagina già letta, ora una ancora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro. Una pagina letta cosí isolatamente è, invero, senza connessione con la lettura ordinata: tuttavia non rimane molto indietro a questa, se si pensa che anche il complesso della lettura ordinata comincia e finisce parimenti all’improvviso, e si deve, quindi, considerare solo come un’unica pagina piú lunga.
Anche se, dunque, i singoli sogni sono distinti dalla vita reale in quanto non entrano in quella connessione dell’esperienza, che costantemente continua per tutta la vita; anche se il risveglio rivela questa differenza; tuttavia è proprio quella connessione dell’esperienza che già appartiene, come sua forma, alla vita reale ed il sogno stesso mostra anch’esso una connessione, che si trova a sua volta in se stesso. Se, dunque, per giudicare scegliamo un punto di riferimento esterno ad entrambi, non troviamo nella loro essenza nessuna distinzione precisa e siamo, così, costretti a concedere ai poeti che la vita è un lungo sogno”. (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 5).

Cos’è la realtà? Cos’è il sogno? Cos’è la vita? Tre domande che resteranno sempre senza una risposta certa. Ciascuno vede – e lo fa con estrema lealtà – la “sua” realtà e, se non intende oltrepassare i limiti dell’onestà intellettuale, non ne formula ipotesi interpretative, senza dubbio rispettabili, ma comunque prive di fondamento valido. Ciascuno elabora i “suoi” sogni, che, a differenza dei progetti, che sono qualcosa di inesistente che si vuol portare alla realtà (e, si solito, vengono partecipati ad altri senza alcuna remora), sono elaborazione positiva del proprio esistere (e, di solito, vengono tutelati all’ombra pudica del proprio lato intimo).
La vita, allora, è l’unione di realtà e sogno, cioè di razionalità umana (realtà) e di umanità integrale (sogno): la prima non deve soffocare la seconda, perché ne resterebbe annichilita la vita intera; la seconda non deve misconoscere la prima, perché ne uscirebbe gravemente mutilata la totalità dell’essere umano. Tutto – reale e sognato - è proiezione del singolo soggetto; ogni pretesa di possedere qualcosa come “reale oggettivo” è debolezza umana incapace di accettare e rimanere nei limiti umani; ogni tentativo o desiderio d’imporre ad altri il proprio modo di vedere è presunzione pericolosa, che oltraggia la libertà e la dignità della coscienza altrui.
I poeti definiscono la vita un “lungo sogno”. Parafrasando Schopenhauer, noi diremo che la vita è un libro unico, più o meno voluminoso, composto da tante pagine, sulle quali vengono scritte tante vicende “reali” e “sognate”: belle e brutte, felici e tristi, volute e fortuite. Le pagine, se lette isolate, perdono il proprio senso vero, autentico e compiuto; ma acquistano tutto il loro significato nell’ essere lette e intuite nel loro insieme. Così è la vita umana: è realtà d’ogni momento programmato e vissuto, ed è, insieme, sogno d’ogni istante covato e protetto. Il loro intrecciarsi tessono la vita d’ogni uomo, che sappia e voglia leggere l’intero volume della sua esistenza, con coraggio e senza paura di riconoscere e abbracciare l’intera sua scrittura.

martedì 20 settembre 2005

Noi, gli eremiti di massa

Così, Umberto Galimberti ha sintetizzato emblematicamente uno dei “miti d’oggi” nelle colonne di Repubblica (18 agosto 2005, pag. 35). Secondo lo studioso, oggi “si vive separati l’uno dall’altro, come i monaci di un tempo”, in quanto gli attuali mezzi di comunicazione rendono tutti gli uomini spettatori e non artefici e protagonisti degli accadimenti. La conclusione è consequenziale: “Le mille voci che riempiono l’etere eliminano le differenze tra gli uomini. E li rendono sempre più soli”.
Le riflessioni del Galimberti scorrono fluide e incontrastate:
  1. gli interlocutori di un dialogo non comunicano, oggi, esperienze personali soggettive e diverse. Ognuno ascolta, e a sua volta narra, ciò che già sa (dai e grazie ai molti mezzi di comunicazione: dal telefono a internet, dalla televisione alla stampa, dalla radio alla pubblicità);
  2. questo non significa prendere posizione sulla bontà o meno dei mezzi di comunicazione nè discutere sui buoni e cattivi maestri; ma significa solo “sentirsi costretti” a prendere atto che “la natura umana” è cambiata (e qui non si parla se in meglio o in peggio!);
  3. “Lo scambio – scrive l’Autore – ha un andamento solipsistico, dove un numero infinito di eremiti di massa comunicano le vedute del mondo quale appare dal loro eremo, separati uno dall’altro, chiusi nel loro guscio come i monaci di un tempo, sui picchi delle alture, non per rinunciare al mondo, ma per non perdere neppure un frammento del mondo in immagine”;
  4. Ecco la situazione capovolta tra interiorità ed esteriorità: prima si meditava in solitudine, si viveva nell’intimità protetta del proprio ambito familiare e, successivamente si andava in piazza per realizzare la vita sociale trattata come progettato nel proprio pensiero; oggi,al contrario, ci si rifugia nell’intimità della propria camera, dove si apprende e si vive la vita cosmica di tutto e di tutti, su tutto e su tutti;
La conclusione più immediata è che i mezzi di comunicazione attuali, indipendentemente dall’uso che se ne faccia, hanno determinato dei mutamenti essenziali nella stessa natura dell’uomo. Si tratta di una vera mutazione “oggettiva” e non solo “funzionale”:
Se il mondo viene a noi – sostiene il Galimberti – noi ‘non siamo nel mondo’,… ma (siamo) semplici consumatori del mondo. Se poi viene a noi solo in forma di immagine, ciò che consumiamo è solo il fantasma. Se questo fantasma lo possiamo evocare in qualsiasi momento, siamo onnipotenti come Dio. Ma poi questa onnipotenza si riduce, perché, se possiamo vedere il mondo senza potergli parlare, siamo dei voyeurs condannati all’afasia
I mezzi di comunicazione, allora, non sono soltanto dei “mezzi”, dal momento che incidono e determinano in maniera consistente la stessa natura dell’uomo. L’uomo deve recuperare la capacità di fare esperienza. L’uomo non è onnipotente; come non sono onnipotenti i mezzi di cui dispone. Milioni di uomini solitari dovranno comunicare esperienze nuove e umane: al di là dei mezzi di cui dispongono.

lunedì 12 settembre 2005

Giovanni Andreae, nella sua Christianopolis del 1619 (quindi, nell'importantissima opera che si colloca fra quelle del filone "utopia" (e che sta fra le contemporanee: La Città del Sole di Campanella, la Nuova Atlantide di Bacone e la Nova Solyma di Samuel Gott ) scrive:
"Una certa Confraternita (a parer mio, si tratta di uno scherzo, ma secondo i teologi è una questione seria ... ) promise ... le cose piú grandi ed insolite; proprio quelle cose che gli uomini generalmente desiderano; diede anche la straordinaria speranza di emendare la corruzione dell'attuale stato di cose e ... l'imitazione degli atti di Cristo"
Quale confusione tra gli uomini abbia fatto seguito a questa notizia, quale conflitto fra i dotti, quale agitazione, quale scalpore e scompiglio di impostori e truffatori, è inutile ricordare o riportare.

venerdì 15 luglio 2005

Quasi tre secoli fa, Isaac Newton diceva di sé:
"Io mi vedo come un fanciullo che gioca sulla riva del mare, e di tanto in tanto si diverte a scoprire un ciottolo più levigato o una conchiglia più bella del consueto, mentre davanti mi si stende, inesplorato, l'immenso oceano della verità"
A quel che Newton chiamava "divertimento", noi siamo soliti dare il nome di scienza.

giovedì 23 giugno 2005

Nelle mani di Paolo Casini il mito di Pitagora diventa una originale chiave di lettura di molte pagine della storia della cultura e della scienza (Paolo Casini, L’antica sapienza italica. Cronistoria di un mito, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 372, da “Sole 24Ore” del 24 gennaio 1999).
Il mito è quello di Pitagora. Il mito si costituisce intorno al sodalizio fondato nel VI secolo a.C. da una figura che già nell'antichità è leggenda. Sciamano e semidio, mago, taumaturgo dotato di poteri sovrannaturali. Iniziato ai misteri egizi, seguace di Zoroastro e di Mosè. Matematico e fisico, assertore dell'eliocentrismo, riformatore morale e capo di una setta religiosa. Di origine greca o tirrena, capostipite della “scuola italica”. All'inizio dell'Ottocento si pone in dubbio “perfino la sua inafferrabile presenza storica”. Rivendicato ed enfatizzato tra Seicento e Settecento fino ad acquisire la consistenza di un mito nazionale tra l'età napoleonica e l'Unità.
“Le leggende che circondano il Pitagora riformatore, sciamano, autore di miracoli e di meraviglie - scrive Casini - ricadono nelle fabulazioni del pensiero mitico, in un passato sapienziale arcaico, distinto dalla fase creativa nella quale le intuizioni della “scienza” pitagorica si configurano come frutto di ricerche razionali”
A Pitagora sono state attribuite dubbie priorità di scoperte tramandate da aneddoti, dal teorema che porta il suo nome, agli intervalli della scala musicale ai numeri irrazionali e ai solidi regolari “platonici”, di cui Euclide mostra le proprietà. I detti oracolari, i tabù alimentari, la dottrina della reincarnazione dell'anima, il simbolismo arcano dei numeri e l'armonia delle sfere celesti. Dissolte le nebbie della leggenda, la critica moderna ha rivelato l'inconsistenza di molte attribuzioni, viziate “dal peccato d'origine delle finzioni e invenzioni neopitagoriche”. e tuttavia “la storia delle idee non procede soltanto per verità razionali”, afferma a ragione Casini. Il suo percorso è molto più incerto e sfuggente.Ecco perché
“ignorare un mito così multiforme per il suo alto contenuto di errore precluderebbe ogni comprensione dei motivi accessori che fiorirono ai margini della leggenda e nutrirono l'immaginazione di generazioni”

lunedì 21 marzo 2005

“Non si può ritenere che la fede di tante generazioni sia tutta nelle fredde testimonianze dei suoi interpreti ufficiali. Invisibili, innumerevoli altri legami congiungono noi al Cristo. Senza di essi il Cristianesimo sarebbe una religione di pergamene e una fede di amanuensi”.
(ERNESTO BUONAIUTI, Prefazione alla Storia del Cristianesimo, Milano, 1942-1943).
“Il prurito del disputare in teologia viene dalla scabbia delle Chiese”.
(HENRY WOTTON, personalità inglese del XVII secolo, grande conoscitore dell’Italia del tempo, per tre volte ambasciatore inglese presso la Repubblica di Venezia).
“Esiste un ordine o ‘gerarchia’ nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana”.
(Decreto sull’Ecumenismo 11 Unitatis redintegratio; mons. PANGRAZIO, Vescovo di Gorizia).

venerdì 7 gennaio 2005

"L'amore della libertà è l'amore più alto ed universale dell'uomo: egli la cerca sotto tutti i cieli, in tutti i gradi della civiltà, in tutte le forme della attività sua". (PIERO MARTINETTI, La libertà).
"Benedette tutte le leggi metriche che vietano risposte automatiche: ci costringono a una riflessione, liberando dalle pastoie dell'Io" (W. H. AUDEN, Shorts).

domenica 31 ottobre 2004

Qualunque formazione e organizzazione sociale, che vogliano sussistere e sopravvivere in quanto tali, indipendentemente dalla propria entità quantitativa e dal fine che intendono perseguire, hanno bisogno della presenza operosa di un detentore dell'autorità, cioè della capacità e della responsabilità di dirigerle e amministrarle. Non v'è famiglia autentica senza l’autorità parentale; non v’è scuola educante senza l'autorità d’un educatore intellettualmente preparato e umanamente formato; non v’è tribunale giusto senza l’autorità di una magistratura credibile; non v’è organismo dello Stato senza l’autorità di un governante seriamente accreditato. In ogni forma di società umana è necessario, quindi, che ci sia chi abbia il potere d’ indirizzare la volontà degli altri secondo la propria.
La differenza, però, che distingue una società civilmente progredita e moralmente accettabile da una società indegna delle reali dimensioni dell’uomo sta nelle modalità con cui il detentore dell’autorità la esercita. Oggi s’assiste con frequenza – e in ogni campo: civile, militare, politico, religioso, culturale, economico - a detentori dell’autorità fondamentalmente convinti che essi possono (e talora addirittura debbono) pretendere e ottenere l’ubbidienza al proprio volere, solo “in quanto autorità costituita”. Oggi, soprattutto laddove sono stati conquistati i principi della democrazia e i valori della libertà, non c’è alcuna esigenza di questo tipo d’autorità; anzi, al contrario, è quanto mai da evitare, proprio perché fondata e sostanziata della forza brutale, che s’addice a società primitive o di basso livello di civiltà. Nel nostro mondo c’è, invece, grande bisogno ma di “autorità autorevoli”, cioè di chi detenga il potere ed eserciti le proprie funzioni nella sfera privata o in quella pubblica, grazie e in nome della sua capacità di ottenere fiducia e obbedienza – prima e oltre che per la carica – soprattutto per superiorità morale e intellettuale, per competenze specifiche e particolarmente rilevanti, per dignità derivante dalla testimonianza di una vita tale da fornire elementi certi di giudizio e dati significativi di valutazione. La democrazia e la libertà hanno bisogno di credibilità e di prestigio: cioè, non di forza economica o militare, ma di autorevolezza fatta di spessore intellettuale e di seria gravità morale. E non è un’astratta utopia. E’ solo l’ideale di ogni uomo che continua a credere, comunque, nella ragionevolezza dei propri simili: è il suo ideale, per il quale ritiene che valga la pena di vivere; ma è anche l’ideale verso il quale deve guardare ogni civiltà che non voglia condannarsi al proprio annientamento.

martedì 26 ottobre 2004

Le generazioni che hanno provocato e gestito le contestazioni del ’68 sono quelle che governano oggi – in maggior parte – i nostri modelli culturali e le nostre organizzazioni sociali ed economiche. Certo, qualche volta si fa fatica a convincersi che si tratta dei medesimi “protagonisti” della storia!

venerdì 22 ottobre 2004

Sognare – e contribuire a far sognare – un mondo ideale, o comunque diverso e migliore, non significa fuggire, come codardi, dalla realtà. Anzi, è tendere e lavorare, con operosa audacia, alla costruzione di un mondo popolato di ingiustizie meno disumane e occupato da sofferenze meno laceranti.