Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
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martedì 31 marzo 2020

GLOBALIZZAZIONE POLITICA E E SOVRANITA’ NAZIONALI Utopia o Ideale Storico Concreto secondo Jacques Maritain*

* Pubblicato in "Presenza Taurisanese", a. XXXVIII, marzo-aprile, 2020, n. 319

E’ ormai da decenni che si ostenta e si esalta il fenomeno progressivo della globalizzazione, intesa e accolta soprattutto come la realizzazione d’una meta vagheggiata e da tutti  agognata dopo i tragici eventi, che avevano segnato la prima metà del secolo scorso: era finalmente possibile sentire e desiderare il globo terrestre come casa e patria comune abitata da tutti gli uomini in comunanza intenzionale di sentimenti di cooperazione attiva e intelligente. S’immaginava, così, raggiunto e realizzato il vecchio progetto prospettato e proposto a suo tempo da Immanuel Kant (1724-1804): l’umanità s’incamminava costruttivamente verso una globalizzazione anche politica, cioè s’orientava verso la realizzazione d’una bsocietà umana, che sarebbe stata sostanziata e sorretta da valori umani autentici, accolti da tutti e unanimemente rispettati e vissuti con crescente consapevolezza, in quanto sarebbero stati salvaguardati e garantiti da un’autorità politica federale planetaria, che avrebbe dato all’antico principio di sovranità nazionale senso vero e significato nuovo, tale che avrebbe permesso per tutta l’umanità grande benessere economico e sicuri percorsi di felicità anche morale. Questo  auspicio formulato da Kant fu gravemente smentito dagli avvenimenti del  XIX secolo, che, al contrario,  vide il perseguire e il consolidarsi della sovranità nazionale dei singoli stati, intenti o a riprendersi il ruolo perduto o a inventare stratagemmi per ampliare il loro campo d’azione o anche solo per salvaguardare e consolidare il loro influsso. La storia registra e documenta gli effetti: la prima metà del secolo scorso fu teatro di  due guerre disumane e del radicarsi di autoritarismi tirannici, che, auto-investitisi d’un potere dittatoriale assoluto, credettero loro missione spargere ovunque e indiscriminatamente sangue, creare e preservare la razza pura, privilegiando il superuomo, annientare ogni diversità, difendere il potere e la potenza nazionali,
Trascorso un secolo e mezzo dalla proposta kantiana e avendo assistito ai nuovi tragici eventi, Jacques Maritain (1882-1973) riprese i sentieri di pensiero tracciati dal filosofo tedesco e li consolidò con la propria speculazione politica, arricchita dagli insegnamenti della storia a lui contemporanea. Il filosofo francese tenne nel 1949 un ciclo di lezioni a Chicago presso la “Fondazione Charles R. Walgreen”, che furono pubblicate due anni dopo col titolo  L’uomo e lo Stato” (Chicago, University of Chicago Press, 1951; qui si citerà dall’edizione Marietti, Milano 2003). Negli stessi anni, invero, da più parti si ricercavano e si proponevano possibili soluzioni per il superamento della difficile situazione e tentare la realizzazione d’un globalismo, che fosse non solo garanzia di scambio e d’equilibrio economico, ma anche e contemporaneamente di crescita civile e maturazione morale, cioè, degno d’essere vissuto dagli uomini. Si ricordano, tra gli altri, i contributi di Hans Kelsen (1881-1973) e Jürgen Habermas (1929), propugnatori entrambi di in globalismo, fondato e affidato a un ordine giuridico universale, accettato da tutte le nazioni; tale proposta rimarrebbe, tuttavia, carente del necessario e adeguato potere anche coercitivo e, quindi, in sostanza resterebbe legata alla volubilità della volontà delle singole nazioni. Vanno ricordati, inoltre, i contributi dottrinali, le esortazioni pastorali e i coraggiosi e concreti passi in avanti di papa Giovanni XXIII con la rivoluzionaria enciclica ”Pacem in terris” del 1963 e del suo successore Paolo VI con la “Populorum Progressio Del 1967.
Nel panorama culturale di questo periodo s’inserisce il contributo di Jacques Maritain,  che alla fine della seconda guerra mondiale fu scelto personalmente da Charles De Gaulle per dirigere l’ambasciata francese presso la Santa Sede e si trovò proiettato in un’esperienza difficile nuova. Veramente tra papa Paolo VI e Maritain correva un’amicizia personale sin dal  1928, quando il giovane Gianbattista Montini – assistente presso la Pontificia Università Gregoriana, esponendosi a un grave rischio personale - tradusse e curò la pubblicazione dell’opera maritainiana “I tre riformatori”; d’allora i due stettero costantemente in contatto anche durante l’intero svolgimento del Concilio Ecumenico Vaticano II; di questa reciproca stima s’era capito quando Paolo VI consegnò al filosofo-amico, l’8 dicembre 1965, uno dei messaggi del concilio con queste parole: “La Chiesa vi è riconoscente per il lavoro di tutta la vostra vita”.
La mente e l’animo di Maritain non restarono mai insensibili ai gravi problemi, che tormentavano l’Europa e il mondo, e in diverse occasioni era intervenuto per denunciarvi cause e proporre adeguati rimedi di natura giuridica, etica e politica. Nel 1936, con “Umanesimo integrale”, metteva in guardia dalla massificazione e dalla spersonalizzazione implicite nelle dottrine marxiste-comuniste; nel 1965, con “Il contadino della Garonna”, avvisava e denunciava la forza subdola e disumanante dell’individualismo borghese proprio delle idee del liberalismo e dei modelli dell’economa liberista. L’invito americano del 1949 gli diede l’opportunità d’esplicitare ordinatamente le sue preoccupazioni e di formulare coerentemente le sue proposte di rimedio. “L’uomo e lo Stato” costituisce, quindi, uno dei più importanti e completi documenti della sua visione della problematica politica.
Lo svolgimento delle lezioni americane si conclude con la delineazione d’un progetto di unificazione politica di tutte le nazioni del mondo, ossia della creazione d’una società politica mondiale, fondata sulla responsabilità solidale dei popoli e delle nazioni, dotata di suoi organismi strutturali e affidata a un’autorità mondiale costituita e rispettata da tutti, tenendo nel giusto conto che il globalismo - come processo graduale anche di “globalizzazione politica”, è un dato di fatto, in quanto il genere umano, essendo unico e uguale per natura, è di per sé globalità. Solo che i dilaganti messaggi e le allettanti prospettive dell’individualismo borghese di quegli anni – oggi vestiti con i paludamenti dell’uomo democratico, attento solo al proprio interesse privato e alla propria visibilità sia pure fugace – oscuravano e oscurano tuttora la realtà vera, e inventano, raccontano e insistono sulle differenze artificiosamente spiegate e giustificate, dando libero campo e facile vittoria ai sentimenti disumani di rabbia e di odio.
La formulazione della proposta maritainiana si differenzia dalla soluzione politica di Kant: infatti, l’universalismo umano non è un’idea regolativa della ragione degli uomini, ma l’ideale storico da perseguire e realizzare  concretamente grazie alla graduale maturazione morale degli uomini. Maritain ritiene che le istituzioni e le leggi possono ostacolare e impedire alcuni comportamenti umani, ma sono impotenti a far germinare l’intima convinzione e la totale adesione al bene comune esteso quanto il genere umano. Si tratta certamente d’un processo lungo e lento, ma di sicure conquiste.
Il discorso di Maritain si fonda su due presupposti, esposti nei primi due capitoli dell’opera. In primo luogo, la distinzione tra Stato e Società Politica, per rimarcare la preminenza e l’anteriorità della società sullo stato: lo Stato - puntualizza - non esaurisce la totalità della Società, ma ne è solo parte. In secondo luogo, la critica radicale del concetto di sovranità come progettato nei tempi moderni da Bodin, Hobbes e Rousseau e la definizione d’un nuovo schema di rela­zioni internazionali, in cui non c’è più posto per lo Stato, che non riconosce né accetta alcuna superiorità di  potere o di legge. I rapporti tra gli Stati moderni – argomenta il Maritain - si fondano sulla ragion di Stato, che si traduce e coincide con il piccolo interesse particolare di uni Stato ritenuto inviolabile, perché supremo. Questo è il il falso presupposto che interpreta lo  Stato come “Persona” superiore al corpo politico della società e produce la propensione sventurata al potere supremo caratterizzato da una sicura e chiara amoralità d’azione.
Le nazioni e i governi democratici o che vogliono essere tali debbono liberarsi dal totem della sovranità sia nei rapporti tra i propri cittadini e sia nelle relazioni internazionali. I cittadini di un unico Stato possono tutelarsi e difendersi dall’assoluta arbitrarietà della sovranità dei propri governanti con i limiti previsti dalla costituzione e dalle leggi, ma i governi delle nazioni sono costretti, quando il dialogo umano e l’arbitrato politico falliscono, a ricorrere al “diritto di fare guerra”, che il principio di sovranità concede loro. Oggi appare più urgente e necessario questo percorso di globalizzazione politica, in quanto è divenuta vitale e quasi strutturale l’interdipendenza tra le nazioni; solo che, conservando e difendendo le sovranità nazionali,  i rapporti sono più occasione di conflitti che di collaborazione, soprattutto perché si tratta di relazioni imposte  da processi tecnici  ed economici e non politici.
Il 10 dicembre 1948 fu approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite la “La dichiarazione universale dei diritti umani”, il cui articolo 1 recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fraternità vicendevole”. Guardando lo spettacolo che oggi ci fa vedere il mondo, non è facile capire come mai siano passati più di settant’anni, senza che l’umanità abbia lavorato per il suo progresso civile e morale. Forse non resta che continuare a credere nella bontà dell’animo umano e sperare in uomini migliori e tempi meno infausti. Nel frattempo facciamo nostro il consiglio che ci ha dato mezzo secolo fa Italo Calvino nelle Le città invisibili: “Cercare e saper riconoscere chi e che cosa - in mezzo all’inferno - non è inferno: per farlo durare e dargli spazio”.






mercoledì 7 novembre 2018

L'EUROPA NON E' SOLO DEMOCRAZIA


Vale la pena dedicare alcuni minuti, per leggere e riflettere su alcuni stralci della “Opinione”, che Maurizio Ferrera ha pubblicato sull’odierno “Corriere della Sera”, con l’auspicio che sia fatto oggetto di un sereno “dialogo” fra cittadini europei.

L’EUROPA NON È SOLO BUROCRAZIA di Maurizio Ferrera

Le elezioni europee del prossimo maggio avranno luogo alla fine di un vero e proprio «decennio orribile» per la Ue. Prima il terremoto finanziario importato dagli Usa, poi quello del debito sovrano. La Grande Recessione, con i suoi costi sociali. E, ancora, gli attentati terroristici, la crisi dei rifugiati, lo tsunami dell’immigrazione, la Brexit. Un’inedita sequenza di choc, che hanno fatto vacillare le fondamenta dell’Unione. Eppure l’edificio non è crollato. Al contrario, sono stati intrapresi alcuni passi verso una maggiore integrazione economica, avviando un delicato percorso di condivisione dei rischi. Non si è fatto abbastanza, certo, e su alcuni fronti (ad esempio la dimensione sociale) si è persino tornati un po’ indietro. Ma nel suo complesso l’Unione ha saputo resistere alle enormi tensioni. Anche se insicurezza e paure non sono scomparse, la stragrande maggioranza dei cittadini europei (Regno Unito escluso) ha recuperato oggi fiducia nella Ue. A dispetto delle varie tempeste, quella che potremmo chiamare l’«Europa di tutti i giorni» ha continuato imperterrita a funzionare (…).

Nel grande dibattito sulla Ue, nessuno considera questa Europa di tutti i giorni. La ragione è semplice: fa così parte del nostro mondo che abbiamo smesso di percepirla. Siamo diventati come i «bambini viziati» di cui parlava il filosofo spagnolo Ortega y Gasset negli anni Trenta del secolo scorso. Così come la democrazia liberale, diamo ormai per scontata anche l’Europa integrata: i suoi benefici, le sue opportunità quotidiane. Della Ue i media e i politici parlano in genere come un’entità astratta e lontana, tendono a vederne gli aspetti che non funzionano. Per sentire parole di apprezzamento e ammirazione dobbiamo attraversare i confini esterni, entrare in contatto con chi vive sotto un regime oppressivo (…).

Sottolineare la vitalità e i pregi dell’Europa di tutti i giorni non significa disconoscerne i difetti come sistema istituzionale. Al contrario, è una ragione in più per dispiacersene e per spronare chi ci governa a correggerli. Ortega y Gasset diceva che sono proprio le élite a dover difendere tutto ciò che i «bambini viziati» danno per scontato. I sondaggi rivelano che esiste ancora un vasto potenziale elettorale per un rilancio del progetto d’integrazione. Le indagini sugli orientamenti delle classi politiche nazionali sono meno confortanti. A questo livello prevale una percezione «strumentale»: la Ue è un bene solo se è vantaggiosa per il proprio Paese, è un sistema di regole da usare finché conviene. Non lo dicono solo i leader sovranisti (che giocano a fare i «bambini arrabbiati») ma anche segmenti importanti dei popolari e, seppur in misura inferiore, di socialisti e democratici. Le prime comunità europee furono create da Padri Fondatori responsabili e lungimiranti. La Ue di oggi sembra invece un’orfana lasciata a se stessa.

L’infrastruttura dell’Europa di tutti i giorni ha dato prova di robustezza e può procedere col pilota automatico. Ma non a lungo. In vista delle elezioni di maggio, abbiamo un disperato bisogno di élite capaci di far leva sul tessuto «banale» di connessioni a livello economico e sociale per smorzare i conflitti politici. Servono nuovi leader che emergano dal basso, espressione di quelle maggioranze silenziose che si trovano a proprio agio in una Unione sempre più stretta. E che proprio per questo vorrebbero che la Casa Europa diventasse meno litigiosa, più solida e resistente alle inevitabili intemperie della globalizzazione.

Maurizio Ferrera