Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
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mercoledì 21 aprile 2021

 

CHI E’ IL POPOLO NELLA DEMOCRAZIA?

Pubblicato in Presenza Taurisanese a. aprile 2021,n. 327, pp. 13-14 

                                             Pubblicato in Iuncurae  il 30 aprile 2021

Non c’è società umana, organizzata civilmente e strutturata politicamente in un ben definito ordine giuridico, che non contempli il legittimo detentore della sovranità, riconosciuto e condiviso da tutti i cittadini. Anche nelle società organizzate e governate secondo la forma democratica, quindi, c’è il titolare della sovranità; ed è il démos, cioè il “popolo”, che, in quanto sovrano, non riconosce nulla e nessuno superiore a sé, a meno che non venga derubato e svuotato del suo potere. Ma chi è il popolo in una democrazia? Non certo quello di uno stato retto da una monarchia, in cui è costituito da sudditi devoti al re; o da una plutocrazia, in cui è costituito da consumatori al servizio del mercato; o da una oligarchia, in cui è costituito da anonimi individui divenuti muto gregge al seguito del padrone; o da una partitocrazia, in cui è costituito da miliziani scelti al servizio del leader.

Chi è, allora, il popolo d’una democrazia? Lungi dal porsi solamente come una moltitudine indistinta d’individui coabitanti nello stesso luogo, esso è un insieme di persone, tutte di pari dignità, unite tra di loro – con l’obiettivo finale di perseguire, accrescere e fruire del maggior bene comune possibile - da un rapporto di collaborazione costruttiva e strutturata in un complesso di tradizioni, consuetudini e norme, divenuto col tempo fonte e fondamento d’una propria Costituzione Nazionale.  Infatti, in uno dei Principi Fondamentali, sui quali si regge tutto l’articolato della Costituzione della Repubblica Democratica Italiana, si proclama solennemente che il popolo italiano  è la totalità dei cittadini, i quali “Hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). A ben riflettere, quindi, un Paese che voglia ritenersi, vivere e agire da “Paese Democratico” – come cittadinanza e come insieme ordinato di istituzioni statuali – si fonda preliminarmente e opera sostanzialmente nell’ottica d’una propria specifica visione generale del mondo, dell’uomo e delle loro storie. Pertanto, la democrazia di per sé non è semplicemente una tra le tante forme di governo, bensì prima di tutto ed essenzialmente una grande idea regolativa sia antropologica sia cosmologica, in quanto presuppone e si nutre d’una visione generale della realtà, nella quale non ci sono diversità e gradualità di valori, ma solo molteplicità e varietà di funzioni, tutte da rispettare e onorare secondo i principi di proporzionalità e necessarietà: in questa prospettiva di democrazia non esistono un centro e delle periferie economico-sociali-culturali, ma ogni singola realtà è contemporaneamente centro e periferia d’un’unica totalità  multicentrica.

Solo nella democrazia così definita radica e prospera la libertà civile e politica dei singoli cittadini e delle istituzioni che li governano; e solo nella libertà e con la libertà ha senso e concretezza la formula adottata ormai da secoli da tutti gli organi governativi democratici: “In nome del popolo sovrano”. Questa espressione, infatti, sintetizza e racchiude felicemente la coincidenza di Stato, in quanto organizzazione della comunità, e di Governo, in quanto organismo responsabile delle scelte politiche, e li correda di un valore, oltre che socio-economico, anche etico-politico, per cui divengono contemporaneamente fonti d’incremento culturale e gestori di potere “sovrano”, ma non nell’accezione di sovranismo o autoritarismo, bensì come concreta manifestazione e chiara espressione d’una volontà “democratica”, in quanto sono la voce indiscussa della volontà libera del popolo e, quindi, volontà democratica nel suo significato autentico e profondo: la democrazia è libertà dello spirito e delle intenzioni d’un popolo, che si realizzano nel concreto agire umano, cioè  nella vita e nell’azione politica.

Nasce, a questo punto, il problema di come il popolo eserciti materialmente la sua sovrana e libera volontà e di come la traduca concretamente ed efficacemente in azioni governative. La via della democrazia diretta – largamente usata in alcune città dell’antica Grecia - si rivela per i nostri tempi utopia e inganno per almeno due motivi principali. In primo luogo per  il  grande numero di cittadini delle odierne nazioni democratiche: basti pensare che lo stesso Jean Jacques Rousseau, già due secoli e mezzo fa, nello stendere le  Considerazioni sul Governo della Polonia  (pubblicate nel l 1782), proprio a causa della grandezza numerica della cittadinanza polacca, credette necessario, rifacendosi al suo precedente Progetto di Costituzione della Corsica (scritto nel 1768), suddividere la grande  nazione  della Polonia in piccoli stati tra di loro confederati. In secondo luogo, perché la democrazia diretta - nonostante l’utilizzo dei mezzi messi a disposizione dalla tecnologia più avanzata - di fatto, esclude il popolo dalla partecipazione attiva e consapevole alla vita politica nazionale. Infatti, nel mondo attuale della globalizzazione e dell’internalizzazione si richiedono, con urgenza sempre più pressante, velocità e decisionismo, tanto che da più parti si sente talora denunciare la lentezza e addirittura l’inutilità del voto e, quindi, dei Parlamenti, da sostituire ormai – senza alcun confronto di idee e senza un vero dialogo con i cittadini - con alcuni individui scelti col sorteggio, senza alcuna considerazione per le specifiche capacità amministrative, per  le necessarie doti morali e l’indiscutibile sensibilità  etica. L’importante è che siano pronti a decidere e svelti nel tagliare i tempi del profitto e dell’efficienza. In breve e in sostanza si celebra il trionfo del pragmatismo - attivo, operoso e sempre vincente - di pochi e, nello stesso tempo, si esclude il popolo e si condanna a morte la democrazia. La democrazia, infatti, è inclusione, riflessione e mediazione, e opera sempre al fine di ascoltare le voci di tutte le persone, di coinvolgere e tutelare tutti i cittadini, senza la presunzione di formulare arbitrariamente e proporre arrogantemente programmi ritenuti validi e proficui, ma che in effetti lasciano inascoltati e irrisolti i problemi reali di larga parte di cittadini,

Come via da percorrere rimane quella della democrazia rappresentativa, in cui il popolo - che evidentemente non può governare direttamente la “Res Publica” - delega, attraverso il voto, a propri eletti di governare, di fatto, in suo nome. In molte democrazie compiute della Terra – grazie proprio al voto popolare – si designano gli eletti (cioè, i deputati), alcuni a proporre, decidere e governare, e altri a correggere, suggerire, controllare quelli che governano: sono le cosiddette “maggioranza e minoranza”, che, ciascuna nel proprio ruolo, collaborano insieme – coerentemente con il significato etimologico e lo spirito autentico della democrazia, che è “servizio” di ciascuno verso tutti - al miglior governo possibile della cosa pubblica e per il bene comune. E’ il bipolarismo, per cui maggioranza e minoranza lavorano sinergicamente per il benessere e il progresso della nazione. Le cose cambiano, quando la “democrazia”, da governo voluto dal voto popolare, si tramuta in “potere” di partito o di partiti. Allora al posto della formula “in nome del popolo sovrano” si sostituisce di fatto l’altra “in nome del partito o della coalizione di partiti”, che sovrani non sono né possono essere. A questo punto la Democrazia è umiliata, tradita e annichilita: svuotata, infatti, dei suoi veri valori etici e privata dei suoi contenuti sociali e politi, viene ridotta ad asettico contenitore informe, disponibile ad accogliere qualunque mistificazione di realtà di privati o di comunità particolari o di piccole collettività.

La Democrazia, però, muore, perché non viene più alimentato il fuoco della fucina, nella quale – oltre che nella famiglia e nella scuola - si forgiano uomini probi, cittadini e lavoratori onesti, professionisti e imprenditori coraggiosi e, soprattutto si preparano e si cimentano amministratori responsabili e capaci, cioè i partiti politici.  Questi costituivano una fitta rete capillare di piccoli centri (le sezioni), che si diramavano da tutte le parti del Paese e confluivano tutti verso la capitale. In ogni “sezione” arrivavano quotidianamente i giornali organo d’ogni partito, con i quali si proponeva l’interpretazione dei fatti consona alle diverse visioni politiche, che i cittadini discutevano e commentavano talora animatamente e con sentita passione, espressione della aderenza e della fedeltà al proprio credo politico. Era un pulsare vivo di confronti di idee, che, arricchite del contributo di tante diverse opinioni, da ogni periferia giungevano ai deputati, che a loro volta recepivano e vagliavano nelle sedi parlamentari. Nelle “sezioni” di partito, infatti, s’incontravano cittadini d’ogni ceto sociale, s’accoglieva il contributo pronto e valido del movimento femminile e dei giovani, si approfondiva la reciproca conoscenza, si prendeva consapevolezza dei vari ruoli politici, s’apprendeva l’arte d’amministrare la cosa pubblica e, gradualmente e a tempo opportuno, si veniva designati – in base alle capacità e al merito - per i vari incarichi pubblici. Era l’applicazione e la realizzazione del dettato costituzionale: “Tutti i cittadini – sancisce l’articolo 49 - hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Quanto diverse - per natura, metodo, contenuti e finalità - le cosiddette “scuole di formazione politica” degli odierni partiti. Da circa un trentennio la Costituzione è disattesa. I partiti si sono svuotati di ideali e si sono riempiti di interessi personali e di parte, condividendo un umico denominatore            comune: acquistare e accrescere a qualunque costo potere e ricchezza. Ovviamente con la compagnia del séguito coerente di tutte le logiche conseguenze naturali, tra le quali non ci saranno né quella di bene comune né quella di rispetto del popolo,   (C.S.)

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 21 maggio 2020

NOTE SUL PENSIERO POLITICO IN LUIGI CORVAGLIA Popolo Sacralità Religiosità




*Pubblicato in Prsenza Taurisaneze, a. XXXVIII, , n. 320, , maggio-giugno 2020, pp. 13-14.

La produzione letteraria, filosofica e politica di Luigi Corvaglia è pervasa da un sentimento di perenne fede razionale, che si sostanzia del convincimento che il reale costituisce un’infinita Totalità indivisibile sia della natura e sia dell’umanità. Nelle sue opere, infatti, prevale una visione dell’uomo e del mondo, che affonda le radici nel naturalismo antropocentrico del XV e XVI secolo, il quale a sua volta aggiorna e reinterpreta il panvitalismo dell’antica filosofia greca, soprattutto del neoplatonismo. Privati di questa solidità speculativa, gli scritti corvagliani rischiano di non essere compresi in modo veritiero ed esaustivo, e addirittura d’essere fraintesi. In tutte le sue opere – Commedie, Romanzo, Scritti Politici – Corvaglia dissemina affermazioni e riflessioni sull’infinito universale, di cui ogni realtà individuale è parte viva e indispensabile.  Nella commedia “Tantalo”, alla vista d’una processione di monaci benedettini cantilenanti tristi nenie, l’Autore chiosa: “Anime penanti sono. Hanno il vero infinito e lo vogliono vivisezionare. Creati all’infinito si studian di porlo sotto chiave, illudendosi di poter dire ‘l’Infinito è mio’. Mentre è di tutti. Anzi è in tutti! In un punto che si chiama io (…). Sfugge il senso dell’universale. Fuori di quell’infinito mancherà il senso della nostra destinazione immanente (“Tantalo”, Fratelli Carra Editori, ,Matino, 1929, p. XXXVIII). Nel romanzo “Finibusterre” afferma per bocca del suo alter ego, don Paolo Santacroce, che l’uomo durante la vita terrena deve rimanere saldo come roccia, perché è parte dell’infinito e “l’impronta del divino, una volta impressa, non si cancella più” (Finibusterre, Editrice Dante Alighieri, Roma,1936, p. 326).

Per il Corvaglia questa concezione “panica” è condizione pregiudiziale e preliminare per la conoscenza della realtà cosmica e per la padronanza della vita dell’uomo e di tutta la sua storia, in quanto è essa a dare il senso a ogni esistenza particolare, indicandone l’ideale e il fine. E’ una verità di fatto, indiscutibile e inviolabile, per cui assume il carattere impresso della sacralità, senza la quale qualunque realtà perde pregnanza di senso e di valore. L’uomo, allora, ha una propria collocazione storico-temporale e una propria destinazione socio-culturale, finalizzate al progresso e al miglioramento delle condizioni dell’umanità; è nelle sue capacità comprendere pienamente e realizzare responsabilmente il proprio ruolo per il concreto e retto cammino dell’Umanità. Pensare altrimenti e sostenere idee diverse significa illudere le menti, dissacrare il vero, impoverire lo spirito e fuorviare o impedire del tutto i percorsi storici. Da qui la denuncia di Corvaglia dei pericoli, che presentavano alcuni cattivi maestri del suo tempo: “Come vi sono dei poeti maledetti vi hanno dei dottrinarii maledetti”, scrive nel 1944, riferendosi a certi, che, spacciandosi per seguaci di Nietzsche, ma in realtà sulla base della loro “grossolana interpretazione”, predicavano che “l’uomo non deve abituarsi più a vivere come uomo del gregge e,  per raggiungere ciò, deve distruggere in sé la morale cristiana, il romanticismo e l’idealismo” (Quaderni mazziniani, n. 3”, Carra Editori, pp.. 7-8). La verità, invece, è l’opposto. All’eroismo dell’azione eccezionale e alla grandiosità del superomismo in voga in quegli anni bisogna opporsi con decisione, propugnando idee nobili e degne dell’uomo e coltivando il valore vero della vita quotidiana, comune, onesta e laboriosa, con cui si realizzano – mediante il lavoro onesto, tenace e assiduo e corrispondente alle capacità e ai legittimi desideri di ciascuno – concrete opere straordinarie e durature, come attesta “la gente seria, umile e operosa del Salento” (Quaderni mazziniani, n. 3”, op. cit., pag. 52).

I fondamenti essenziali più significativi del pensiero politico di Corvaglia – che s’ispira allo spiritualismo francese soprattutto di Robert de Lamennais e rimane sempre coerente con il pensiero mazziniano – sono la dottrina socio-politica di popolo e l’idea religiosa d’un’unica suprema divinità. Il popolo – argomenta il Corvaglia – è la totalità di tutti gli umani esistenti, uguali per natura, diversi per abilità, ma di pari dignità. Essi nel loro insieme costituiscono un organismo morale, in cui, similmente a un organismo fisico, i singoli organi, pur differenti per costituzione, attività e funzione, operano tutti in sintonia armonica per la salute dell’intero organismo. Sarebbe innaturale e assurdo un conflitto tra di loro, in quanto ciò condurrebbe fatalmente alla reciproca distruzione. Analogamente dovrebbe pensarsi del corpo sociale. Da qui discendono due corollari: il rigetto d’ogni forma di lotta sociale e di classe e il rifiuto d’ogni materialismo. “Diciamolo con fermezza – sostiene decisamente il Corvaglia, marcando nel 1944 i confini con il neonato Partito d’Azione, che ipotizzava alleane con partiti marxisti -. Noi (mazziniani) non siamo socialisti. Noi non possiamo esserlo, perché mazziniani. Noi non siamo comunisti. E’ vano cercar di spiritualizzare questi materialismi con temperamenti. Se essi tollerano tali  rinfianchi, non sono più né socialismo né comunismo. Sono il loro contrario. Debbono cercarsi lealmente in altre correnti dottrinarie denominazioni appropriate. Se non li tollerano, è vano travestirli con paludamenti, più vano ancora se coi mazziniani” (Quaderni mazziniani, Carra Editori, numero 1, p.17). L’opposizione di Corvaglia ai “socialismi”, quindi, non è preconcetta o ideologica. L’uomo è materia e spirito in reciproca interdipendenza, ma con indiscutibile priorità dello spirito, che può e deve guidare e indirizzare le esigenze anche della materialità. I problemi dell’uomo sono innanzitutto di natura morale e spirituale, per cui, ridurli a problemi materiali e sociali e cercarne le soluzioni in chiave economico-sociale, significa non solo lasciarli incompresi e irrisolti, ma addirittura aggravarli. E‘ necessario, allora, da una parte “educare” il popolo, perché abbia coscienza dei suoi veri bisogni e, dall’altra parte, trovarvi concreti e adeguati rimedi. E - sulle tracce di Giuseppe Mazzini – sottolinea la necessità di educare il popolo al senso del dovere, insieme alla difesa dei diritti: ciò per due motivazioni. In primo luogo, perché l’assolvimento dei doveri è legato alla responsabilità solidale propria di ciascuno, mentre la fruizione dei propri diritti dipende dalla coerenza morale degli altri; ed è utopico pensare di poter imporre agli altri il senso del dovere con strumenti legislativi o comunque coercitivi. In secondo luogo, la formazione del senso del dovere genera la cultura della reciproca integrazione, mentre il puntare sulla rivendicazione di diritti non può che determinare situazioni culturali e sociali di conflittualità, destinate solo a creare nuove forme  d’ingiustizia, che scateneranno nuove lotte.

Perché queste prospettive non restino solo ideali a cui tendere, ma si concretizzino, è indispensabile che la società si doti d’una forma di governo, che contempli e favorisca le legittime esigenze del cittadino di giustizia e di libertà. E questa non può essere certo la forma monarchica, come testimoniano le vicende del suo “maestro” Mazzini, perseguitato dalla monarchia sabauda e perpetuo esule per le sue idee  antimonarchiche. Nelle monarchie s’affievolisce fino all’estinzione la capacità di pensare autonomamente e di volere liberamente: non si è mai cittadini, ma solo e sempre sudditi. In “ Finibusterre” Orfano, rivoluzionario della setta dei “Decisi”, di fronte alle sventure di Pietro, sbotta: “Bisogna farlo giusto il destino (..),  E sai di chi è la colpa? Dei governi. Dei Birboni specialmente. Se fosse Repubblica, si comanderebbe a turno, un po’ per uno, oggi io, domani tu, e il pane si spartirebbe a once, secondo la fatica, ché tutti fratelli siamo” (Finibusterre, op. cit., pp.  133-134).
Non meno incisivo e chiaro è il suo pensiero riguardo la religione, la cui interpretazione, però, non è né facile né agevole. Certamente egli non credeva in una religione che postulasse forme di verità rivelate, né tanto meno accettava una religione istituzionalizzata e organizzata in chiese. La sua fede religiosa si può definire un deismo immanentistico; quindi, una ferma convinzione dell’esistenza d’una divinità sempre presente e sempre operante nella storia degli uomini e nelle vicende universali del mondo. Questo spiega il suo sofferto ma fermo sdegno per le forme solo esteriori di culto, vuote d’ogni autentico sentimento interiore di devozione.  “Non sono io che nego Dio – ribatte il professor Tito all’accusa rivoltagli  - . Io sento di custodire Dio in me. In forma meno gretta e personale di quella che è in moda. Effigie per monete false. Dio è svuotato ormai. N’è rimasto il fantoccio” (La casa di Seneca”, Fratelli Carra Tipografia, Matino, 1926, p. 82). Particolarmente significativa rimane una pagina del “Viaggio in Ispagna”. Alla vista della facciata della cattedrale di Burgos, esclama: “Ebbi un tuffo nel sangue. Veniva a galla l’uomo, con la sua benedetta natura sentimentale e con quel groppo che mi piglia alla gola (…), quando mi trovo dinnanzi alle forme del divino (…). M’echeggiava dentro la rampogna ‘Ubi est Deus tuus? Che ne hai fatto? Straziante nostalgia di questo divino epico che ha parlato, così potentemente, al cervello e al cuore dei nostri padri, da renderli capaci di creare forme di bellezza sovrumane, mentre s’è spento in noi (…). Queste cose vive eroiche eterne, impastate di lagrime, di sangue, di fede, l’abbiamo create noi dall’eterno che era in noi, nella nostra famiglia universale di credenti”.(Introduzione a S. Teresa e Aldonzo, pp. 8-9).

Questo sentimento religioso – insieme al senso di solidarietà umana – è uno dei grandi valori, che dominano la coscienza morale del Corvaglia e dànno significato autentico al suo pensiero e ai suoi scritti. Per lo scrittore melissanese, infatti, la religione è la difesa del sacro, cioè dell’intoccabile e dell’inviolabile; non è, quindi, un momento della storia della coscienza umana, ma un elemento costitutivo e, perciò, organico della struttura stessa della coscienza. L'esperienza del sacro – sottolinea spesso il Corvaglia mediante il comportamento e le convinzioni soprattutto di don Paolo Santacroce - è totalmente connessa allo sforzo che l’uomo compie per costruire un mondo che abbia un senso. Secondo il nostro filosofo, quindi, il significato della realtà non è un dato oggettivo che si trova e si accetta, ma un valore che l’uomo proietta e pone in realtà, che percepisce come vuote e “insensate”. Il senso del mondo, quindi, è quasi una proiezione della totalità della persona umana integralmente vissuta e realizzata in continua unione collaborativa con la divinità e con l’orecchio sempre teso, per intercettare ogni messaggio proveniente dal mondo.





mercoledì 28 novembre 2018

IL “POPOLO” E’ IL SOVRANO SEMPRE AFFIDABILE E GIUSTO?


Si esprimono queste riflessioni, con l’ausilio del pensiero e della testimonianza di personalità del passato, non per una comoda cautela nell’esprimere palesemente nostri convincimenti personali e nemmeno con la mira d’accattivarci il consenso altrui, bensì perché possa sollecitare efficacemente la riflessione critica e la valutazione serena di molte situazioni, in cui oggi si vive, in Italia e non solo. Per questo richiamiamo il pensiero di Platone e di Cicerone: il primo, voce esperta e autorevole della cultura greca; il secondo, audace testimone e solutore acuto di non poche crisi della vita politica della Roma del suo tempo; entrambi contrari a forme governative di natura autoritaria e favorevoli a forme, che oggi chiameremmo democratiche.
Premesso che le forme di governo di quei tempi avevano senso, modalità e nomi diversi da quelli odierni, si possono, tuttavia, individuare alcune concezioni e alcune funzioni comuni a quelli dei nostri giorni: come “sovrano e sudditi”, “governanti e governati”, “giustizia sociale e libertà individuale”, “diritti e doveri”, cioè, alcuni capisaldi d’ogni dottrina politica, morale privata, etica pubblica, convivenza civile. Ora, nel quadro politico delle nazioni e degli stati odierni si dà  quasi per scontato – eccetto per i governi palesemente tirannici e dittatoriali - che i governi siano generalmente ispirati a “democrazia”, in quanto di dà per acquisito che la fonte e la garanzia d’ogni autorità sia il “popolo” nelle modalità più disparate. 
Platone, già due millenni e mezzo or sono, manifestava molte perplessità sulla democrazia, poiché dubitava della reale capacità del popolo “governato” di dettare con saggezza e di controllare con giustizia l’azione dei governanti. E documentava il suo atteggiamento con due considerazioni d’ordine generale. Primo, ogni sistema democratico – come testimoniano i fatti della storia - è destinato o a corrompersi in demagogia (oggi si direbbe “populismo”) o a far germinare nel suo stesso seno  la “malerba della tirannia” (oggi molto diffusa, anche se in modo camuffato e sfrontatamente negato). Secondo, il popolo è un’astrazione; nella realtà è un insieme eterogeneo di soggetti, che vanno formati con responsabilità per tutto il corso della loro esistenza e orientati saggiamente nelle diverse congiunture. E rimane sempre, comunque, un attore fallibile, come dimostrarono largamente le vicende occorse al suo maestro Socrate, il quale - primo vero martire della democrazia  - fu condannato a morte, ufficialmente per le accuse (infondate e smentire) di corrompere i giovani e di incitare all’ateismo, ma in realtà perchè politicamente nemico della democrazia appena nata in Atene. Fu condannato da giudici designati democraticamente proprio dal popolo, il quale però, riconosciuto subito dopo il proprio errore, condannò e punì gli stessi giudici che prima aveva ritenuto capaci e competenti. 
A questo punto il filosofo greco cerca di trovare i motivi per cui il popolo, che ha tanto lottato per conquistare la democrazia, fa quasi di tutto per farsela strappare. E ritiene di giungere a questa conclusione:  In un ambiente, in cui il maestro teme ed lusinga gli scolari e gli scolari non tengono in alcuna considerazione i maestri; in cui tutto si rimescola e si confonde; in cui chi comanda, (per poter comandare sempre di più), finge  di mettersi al servizio di chi è comandato e ne blandisce tutti i vizi, per poterli sfruttare meglio; in cui i rapporti tra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle rispettive convenienze nelle rispettive tolleranze (…) la democrazia, per sete di libertà e per l’incompetenza dei suoi capi, precipita nella corruzione e nella paralisi. Allora la gente si separa da coloro, cui attribuisce la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla: prima coi sarcasmi, poi con la violenza. Così la democrazia muore: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo (La Repubblica, cap. VIII). In questo senso Platone si rivela molto moderno: i giovani vogliono apparire più preparati degli anziani e spesso pensano che con l’urlare dimostrano la maggiore validità del proprio pensiero; gli alunni spesso deridono gli insegnanti, i quali, per non esser considerati troppo autoritari e fuori moda, accontentano le loro richieste, non preoccupandosi di trasmettere loro cultura sostanziata di valori e di regole. Gli alunni, invece, che si mostrano ligi ai doveri nel rispetto delle norme, vengono esclusi dal gruppo, divenendo talora vittime di bullismo.  
Ogni popolo – si sentenzia   - ha il governo che si merita. E’ probabile. Ma, se ciò è vero, è molto più vero che ogni popolo è il risultato dell’educazione umana e della formazione politica, che i governanti gli hanno consentito d’acquisire. Ciò che è certo ce lo documenta la storia: in tutti i tempi molti potenti sono sorti e si sono retti sulla “ignoranza” dei cittadini, ai quali viene negata tutta o in parte la verità. Populismi e statalismi nascono e si sostengono sulla progettata carenza di cultura del popolo.  Di conseguenza, quando un cittadino non è tempestivamente educato al senso d’appartenenza e al sentimento di solidarietà corresponsabile, accade che, mirando solo a vivere bene, non s’interessa più al bene comune, ma al bene proprio anche a danno dell’altro. Perdendo la propria libertà, in quanto divenuto “schiavo” del suo egoismo asfittico.
“La libertà – interviene, infatti, Cicerone - non consiste nell'avere un padrone giusto, ma nel non averne alcuno” (De Re Publica, II, 23). Non avere alcun padrone significa, però, essere padroni di se stessi, sviluppando, controllando e gestendo ogni dimensione propria dell’essere umano. E questo richiede la formazione dell’uomo e del cittadino. L’uomo non nasce essere umano, ma lo diventa gradualmente mediante lo sviluppo della propria personalità in tutti i suoi aspetti, primo fra tutti il senso della socialità, cioè del bisogno dell’altro per una vera completa umanità. L’altro non sminuisce né frena la nostra totalità, anzi è l’elemento necessario grazie al quale possiamo dirci ed essere partecipi del genere umano.
Il bambino nasce nella famiglia, cresce nella famiglia e nella scuola, si prepara ad affrontare la vita nella società. La adulterazione di uno di questi ambienti comporta, di necessità, la carenza di umanità nell’adulto futuro. Per non cadere nel gioco dello scaricabarile, è sufficiente che ciascun ambiente adempia al suo compito. Certo, dovremmo immaginare famiglia, scuola, società ideali, e l’ideale non è e non può mai divenire  reale. Ma l’ideale è la forza motrice dell’agire umano, in quanto indica e illumina, regolandola, la meta verso cui dirigersi. Forse, oggi, queste tre istituzioni basilari indicano ben altri ideali. E l’uomo e l’umanità marciano verso di essi, il cui esito finale è difficile prevedere.