Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
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venerdì 4 gennaio 2019

L’UOMO. L’ESSERE CHE “RAGIONA” COL CUORE


“Quella vita ch'è una cosa bella – fa dire Giacomo Leopardi al ‘Venditore d’almanacchi a un passeggere’ - non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura”. Il poeta recanatese, però, non sembra essere nel vero. Infatti, solo il passato della vita (sia vissuto come bello o come brutto) è ‘certo’ e, quindi, ‘bello’, in quanto la bellezza coincide col reale e col certo. Solo il passato, pertanto, può essere bello, perché assolutamente certo e ormai del tutto libero dal volere di chiunque e al riparo da qualsiasi evento; il presente, invece, è solo un debole barlume di vita in un brandello fugace di tempo morente; il futuro, poi, è addirittura totalmente imprevedibile e inimmaginabile, in quanto non nel mondo dell’essere. L’uomo, quindi, dovrebbe rallegrarsi o dolersi del passato, non del presente (che è solo fugacemente nelle sue mani) né del futuro (che è spesso inaspettato e mai totalmente in suo potere). Tuttavia, l’uomo – sulle tracce del cantore dell’Infinito - si tormenta per il suo presente e s’interroga sul suo futuro, e vive ogni rimembranza, che lo riconduca ai suoi giorni vissuti, come un atto solo di malinconica nostalgia o di dolorosa impotente invidia. Non  è così, però, per l’uomo che prende per guida dell’intero percorso del suo esistere e per consigliera quotidiana delle sue scelte la razionalità integrale propria della persona umana, che deve rimanere sempre vigile e benpensante, attenta e disponibile.

“Il fatto che l’uomo - ha scritto Immanuel Kant - non soltanto pensi, ma possa anche dire a se stesso ‘Io penso’, fa di lui una persona”. Per molti la differenza tra pensanti e non pensanti è la vera precondizione necessaria, per poter comprendere e valutare ogni altra differenza tra gli uomini, come tra individui credenti e non, socievoli e non, altruisti e non. Molti, infatti, sono convinti che, se è certo che tutti viviamo una vita, non è altrettanto certo che tutti siamo consapevoli di cosa sia realmente la vita che stiamo vivendo, in quanto non ci poniamo sensatamente le domande di quale sia il significato del nostro trovarci nell’esistenza, della motivazione vera e della finalità ultima delle nostre scelte. L’uomo, comunque, sente spesso tutta la difficoltà d’una vita, ch’egli non ha chiesto di vivere e che gli pone frequenti domande dall’incerta risposta e addirittura coinvolgenti misteri inspiegabili: chi o cosa manipola la mia volontà apparentemente libera; ove porta il mistero irrisolto del soffrire e del morire di tutte le creature ospitate sulla terra?  “Che fai tu luna in ciel?  - egli chiede, con il Poeta dell’Infinito, all’astro notturno confidente fidato e discreto dei segreti degli umani -. Ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale? (...). Che vuol dir questa solitudine immensa? Ed io che sono?”. Senso e sostegno, allora, gli saranno offerti soltanto dall’uso della sua ragione integrale, cioè – secondo il pensiero del tedesco Kant – dall’umana razionalità, la quale coinvolge tutte le dimensioni della natura umana: le fuggevoli sensazioni del corpo e le profonde intuizioni dello spirito, l’interiorità segreta della persona e la sua generosa apertura all’altro, l’intelletto che conosce, la volontà che vuole, l’affettività che abbraccia e vive ogni situazione di vita . Cioè, il cuore dell’uomo: unico centro capace di comprendere e di gestire le diverse dimensioni. Infatti, secondo anche un adagio induista, si ragiona non con la mente, ma col cuore, il sicuro e valido punto-forza dell’uomo razionale. Solo la vitalità del cuore, cioè l’amore, alimenta la fedeltà e rinvigorisce la coerenza in ogni situazione della vita. E’ l’amore che dà il giusto colore ai fatti e il dovuto sapore ai pensieri, illuminandoli con la sua luce insostituibile, collocandoli ciascuno a suo posto.

         Fiumi abbondanti e piogge copiose - annotava Seneca - gettano le loro acque nel mare salato, ma non ne alterano né attenuano il sapore. Allo stesso modo, la violenza delle avversità non sconvolge né turba l’animo dell’uomo forte: egli resta saldo e immoto nel proprio stato e converte a proprio beneficio qualunque vicenda, perché egli è più forte d’ogni evento esterno. Non è che egli non lo  senta, ma lo vince: quieto e placido, si erge contro ciò che lo attacca. Del resto – continuava il filosofo stoico - non è stabile né forte un albero che non venga incessantemente sballottolato dall’infuriare dei venti; anzi, è irrobustito dalla continua violenza e rinsalda più tenacemente le sue radici. Sono fragili le piante cresciute in una valle solitaria al riparo delle turbolenze atmosferiche. E le radici dell’autentico uomo forte allignano soltanto nel cuore: totale e indivisibile, che coi suoi battiti scandisce il ritmo della vita vissuta degnamente.

Davanti a queste considerazioni non pochi sentono fastidio e tedio e, presi dall’importanza dei loro impegni, non perdono occasione di far notare che il rapido trascorrere del tempo impone ben altro che occupare forze ed energie in piacevoli ma inutili passatempi, per cui è già abbastanza l’impegnarsi e l’industriarsi a risolvere al meglio i problemi concreti della giornata, che ciascuno vive nel posto in cui ha scelto di operare.  Ma sono proprio queste persone che, sballottolate dal susseguirsi confuso degli eventi, generano non poca inquietudine e preoccupano per la loro inconsapevolezza. “Coloro – ha scritto Hannah Arendt - che non sono innamorati della bellezza, della giustizia e della sapienza sono incapaci di pensiero”: l’uomo ha bisogno di pensare, ma con la totalità della sua razionalità, che abita nel cuore, centro di confluenza d’ogni moto dell’animo umano. Solo così la vita non si riduce a un anonimo e insipido passaggio sulla terra, ma è una consapevole e costruttiva collaborazione alla felicità propria e dell’umanità intera: a questi impensati ampi confini ci conducono l’auspicio e il monito anche del Mathama Gandhi: “Il giorno in cui il potere dell’amore supererà l’amore per il potere il mondo potrà scoprire la pace”.



martedì 8 marzo 2011

UNA LAICITÀ “NUOVA” PER RIPARTIRE

Nel definire il significato di “laicità” e nel fissarne compiti e ruolo, talora si frappongono alcuni equivoci, che alterano la serenità del dialogo e fuorviano dalle reali intenzioni della discussione. Quindi, è necessario innanzitutto precisare il senso autentico della parola “laicità”, che, pur essendo ricca di contenuto e di valore, non sempre è intesa e adoperata in maniera appropriata. Essere laico, infatti, non significa, come purtroppo spesso si pensa, essere un avversario della religione in generale e del cattolicesimo in particolare; la parola “laico”, di per sé, non vuol dire l’essere né “credente” né “indifferente” né “miscredente”. A essere ostile alla religione e a combatterne ogni forma di predicazione è il “laicismo”, cioè quell’atteggiamento estremista, che disprezza e odia la religione e le chiese per pregiudizio. La vera “laicità”, invece, anche quando non condivide dottrine e regole dei diversi campi religiosi (o anche modelli proposti dalla politica, dalla società, dall’economia, dalla morale, dalla scienza, dalla teologia, ecc)), tuttavia li valuta con serena imparzialità, li rispetta con lealtà e li apprezza con onestà, senza fare confusione tra le rispettive facoltà e, soprattutto, tenendo ben separate – con intelligenza e fermezza – le rispettive competenze delle Chiese e degli Stati.

La “laicità”, pertanto, non è un insieme di dottrine particolari, ma è soltanto un abito mentale, grazie al quale si distingue ciò che è dimostrabile con la ragione da ciò che si accetta per fede. La laicità, quindi, non s’identifica con alcun credo specifico e non sostiene alcuna filosofia o morale o politica o ideologia particolare; essa è soltanto la capacità di articolare le proprie convinzioni (siano esse religiose, filosofiche, sociali, culturali) secondo regole che sono proprie della logica razionale, la quale, per la sua stessa natura, non può accettare o subire condizionamenti esterni, perché perderebbe la sua validità. Infatti, la logica razionale è veramente tale, solo se opera nella sua assoluta autonomia, cioè solo se è libera e, quindi, “laica”: tanto in un San Tommaso d'Aquino quanto in un pensatore ateo, la logica s’affida sempre e solo a principi di razionalità, allo stesso modo in cui, nella matematica, la dimostrazione d’un teorema obbedisce solo alle leggi della matematica, indipendentemente dal fatto che essa sia fatta da un Santo o da un miscredente.

La laicità, così intesa, crea la cultura della tolleranza: quella tolleranza che si concretizza nella sapiente umiltà che fa dubitare delle proprie certezze. Il laico è veramente tale, quando è “libero” davvero, cioè quando non si crea propri idoli da adorare né accetta miti altrui da venerare. Egli crede con forza e coerenza in alcuni valori che fa suoi, ma nello stesso tempo non dimentica mai che esistono anche i valori degli altri, che sono pur’essi nobili e validi e, perciò, meritevoli di stima e di rispetto. Laicità significa, allora, avere il coraggio di fare le proprie scelte, assumendosi la responsabilità delle eventuali rinunce necessarie e degli eventuali errori e fallimenti, senza confondere in nessun caso il pensiero rigoroso con i convincimenti fanatici e senza mescolare il sentimento sincero con le reazioni emotive e passionali. Per queste sue caratteristiche la laicità crea e difende una moralità appropriata, con cui si evitano sia gli eccessi del moralismo fazioso sia le licenziosità del permissivismo. Solo il “laico”, dunque, è e vive da uomo libero, perché solo lui aderisce a un'idea, senza restarne succube; s’impegna politicamente, senza perdere la propria indipendenza critica; non resta schiavo delle sue stesse idee e non denigra quelle degli altri; non inganna se stesso, trovando mille giustificazioni ideologiche per le proprie mancanze.

Questa concezione di laicità è stata condivisa e raccomandata anche dal Concilio Ecumenico Vaticano II, nel quale viene delineata una Chiesa aperta alle esigenze del mondo, attenta ai “segni dei tempi”, alla ricerca di un dialogo fecondo con il “Mondo” nelle sue varie dimensioni. Perciò, si rivendica per l’uomo una fede religiosa integrale, cioè che non può essere ridotta a un affare privato riguardante solo la sfera personale, poiché il credente, in quanto “laico”, non può né deve essere relegato nel recinto del suo tempio, così come chi professa idee diverse deve godere del diritto a realizzare nella vita sociale le sue idee. Il volere per forza chiudere il credente nella sua cappella o il pretendere di scacciare dal proprio recinto chi la pensa diversamente, fa parte d’un laicismo arrogante. Del resto, se si vuole una “Chiesa aperta al mondo” e disponibile a capirne e ad accoglierne – sia pur criticamente - le esigenze, si deve ammettere anche un “Mondo aperto alla chiesa”, disponibile, cioè, a comprendere e ad accettare – sia pur criticamente - le sue opinioni e le sue prese di posizione su temi pastorali, che abbiano eventuali implicazioni sociali e indirettamente anche politiche. Autorevoli pensatori religiosi hanno offerto frequenti esempi di questa chiarezza e continuano tuttora a testimoniare l’esigenza di rispettare la ragione e le sue frontiere. Essi, infatti, rivendicano il ruolo che il Vangelo può e deve avere nell’ispirare una visione del mondo e, quindi, nel contribuire a creare una società più giusta; ma, nello stesso tempo, sostengono che la predicazione del Cristo non può mai tradursi direttamente e immediatamente in articoli di legge, per cui esigono un senso profondo della distinzione tra Stato e Chiesa, tra ciò che spetta all'uno e ciò che spetta all'altra.

La laicità, però, s’oppone anche al cosiddetto pluralismo culturale, spesso falso e ostentato dalla società del nostro tempo, la quale esalta tutte le differenze, ma in realtà, sotto l’ingannevole apparenza d’accogliere tutto indistintamente, persegue soltanto il qualunquismo, in cui ogni proposta è considerata come “valore”: c’è posto per tutto e per tutti, perché in esso regna la più piatta indifferenza. Invece la laicità vera, quella che garantisce il pluralismo autentico, riconosce non tutto senza distinzione, ma ogni reale positività di chi operi con efficacia alla costruzione della vita dei popoli e degli stati, i quali non sono contenitori vuoti da riempire con tutto quello che si vuole, ma sono uno spazio, nel quale ciascuno può e deve portare il suo contributo all’edificazione del bene comune. Oggi c’è bisogno di questa laicità “nuova”, per ripartire verso traguardi di civiltà vera.