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domenica 20 dicembre 2015

ETICA PUBBLICA E DEMOCRAZIA

Pubblicato su Affaritaliani il 13.11.2015

“I cittadini, cui sono affidate funzioni pubbliche, hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”, sancisce l’articolo 54 della Costituzione Italiana. Non si può fare a meno, pertanto, di rimanere increduli e di riflettere con ponderatezza sullo scenario, che in questi ultimi giorni offre la realtà quotidiana della politica italiana e in quali situazioni il popolo è costretto a vivere. Quello che da qualche decennio s’impone alla constatazione di tutti nell’attività politica non riguarda un’astratta teoria del rapporto morale-politica, ma l’imprescindibile necessità di dignità morale e di decoro istituzionale, che deve avere chiunque voglia esercitare “funzioni pubbliche”, e che oggi il cittadino non riscontra facilmente nella concretezza quotidiana. E ciò non pone un problema limitato e circoscritto (anche se importante), ma coinvolge la qualità istituzionale dei governi e il destino quotidiano del tenore della vita dei cittadini. Ad avvertirne l’ampiezza e l’urgenza era già stato Enrico Berlinguer nel 1977, quando durante un’intervista puntò il dito contro i rischi derivanti dall’incompetenza e dall’immoralità della classe politica dirigente: “La questione morale, nell'Italia d'oggi – affermò - fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano (…). Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude”. 

Non è necessario uno sforzo particolare per verificare come la classe dirigente italiana negli ultimi decenni è andata perdendo a poco a poco la consapevolezza che le sue scelte non possono essere dettate da meschini tornaconti privati e nemmeno da interessati calcoli di partito, ma che debbono essere decisioni e risoluzioni dalle dimensioni nazionali, per cui necessitano di un robusto corredo di morale pubblica, sostanziata e alimentata da responsabilità e interesse generale. Proprio per questo è assurdo assistere allo spettacolo odierno, in cui apparati dello Stato e Istituzioni di Governo Locali – sotto l’apparente, ma obbligato rispetto - si criticano reciprocamente, gettando discredito su atti e fatti e demolendo ogni criterio di comprensione e di valutazione da parte del cittadino, che così perde ogni figura di riferimento etico e politico. Ma la moralità nell’azione politica non è questione di “divisione di poteri” né di militanza di destra o di sinistra, ma riguarda tutti come cittadini e reclama da tutti il “buon costume” proprio dei benpensanti. 

Davvero preoccupanti, allora, sono gli atteggiamenti di governo nazionale, regionale e persino comunale sempre più ispirati a idee monocratiche e “centralizzate”, sminuendo e addirittura misconoscendo il ruolo degli organismi sociali intermedi. Appena qualche giorno fa a Firenze, Papa Bergoglio avvertiva che “la società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media”; e metteva in guardia dalla tentazione di abusare del potere, “anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale”. Invece, nell’attuale politica italiana trionfa pericolosamente sempre di più la vecchia discutibile tecnica del trasformismo, per cui, pur di raggiungere i propri obiettivi particolari, ci s’accontenta di racimolare il numero di voti di volta in volta necessario, indipendentemente da valori e intenzioni. E’ il trionfo del trasformismo incondizionato, dettato dalla legge dell’unico profitto politico e del successo a qualunque costo, ovviamente sempre sotto le vesti d’un “potere utile e funzionale” per il bene di tutti gli italiani. E’ superfluo avvertire che questo modo di agire politico si fonda su un’idea autoritaria e accentratrice del potere: non al servizio del bene generale, bensì al perseguimento della vittoria della prossima consultazione elettorale.  

Nutrire queste preoccupazioni non significa pensare e agire da uomini schierati o di parte. Si tratta solo di dover vivere preoccupati una politica locale e nazionale fatta da pochi protagonisti, senza il consenso richiesto da una vera democrazia e, quindi, senza radici nella realtà sociale dei cittadini. Questo indica una sostanziale riduzione di democrazia, che si riverserà negativamente sulla stessa classe politica: i cittadini, accorgendosi che a contare sono sempre e solo quei pochi, che s’accordano sempre e che comandano comunque, si allontaneranno  dalla politica, andranno a  ingrossare le file del più numeroso partito nazionale, quello dell’astensionismo elettorale e dell’indifferentismo. E nasce un’inquieta percezione. Siccome su certi princìpi non si può accettare alcun compromesso, non si sottovalutino l’intelligenza e la responsabilità dei cittadini italiani, i quali non si fanno certo intimorire da atteggiamenti di falso potere e di forza accigliata. Non si vada troppo oltre la vera democrazia, perché “Ci sono uomini nel mondo – recita Liu Ji, da una favola cinese del 1300 - che governano con l’inganno. Non si rendono conto della propria confusione mentale. Appena i loro sudditi se ne accorgono, gli inganni non funzionano più”.

 

SENZA “SOLIDARIETA’ POLITICA” NON CI PUO’ ESSERE DEMOCRAZIA

Pubblicato su Affaritaliani il 2.11.2015

“La Repubblica – è sancito nell’articolo 2 della Costituzione Italiana - riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Con estrema chiarezza i Padri Costituenti dichiarano, già dal 1948, il valore umano e la dignità politica del cittadino – nella sua dimensione sia individuale che sociale - che la “Repubblica” deve assicurare e sostenere nella possibilità di realizzare la propria “personalità”, consentendogli il godimento dei suoi diritti e chiedendogli l’adempimento dei suoi “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. La Carta Costituzionale, quindi, esprime la natura “laica” dello Stato. Gli Organi statuali, di conseguenza, sono chiamati a creare e assicurare situazioni sociopolitiche almeno nazionali, in cui la singola “persona” possa operare, come cittadino fedele e onesto, le sue scelte politiche - sempre e comunque in maniera responsabile e libera - che la Politica, da parte sua, ha il difficile compito di proteggere mediante la creazione di regole opportune e adeguate. 

Il singolo cittadino, tuttavia, vive e opera non da solo, ma in una rete di “formazioni sociali”, quali la famiglia, la scuola, l’ente locale, il sindacato, la confessione religiosa. Ognuno, perciò, in nome della “solidarietà politica” è chiamato a operare non per un suo immediato bisogno né per rivendicare un proprio diritto nell’interesse personale, ma per assolvere a un “dovere inderogabile” per il bene di tutti: è questo che trasforma l’individuo in cittadino attivo. E’  un principio espresso anche dalla  Carta Europea dei diritti fondamentali e, in particolare nel Preambolo, dove si afferma che il godimento dei diritti “fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future”. Ora, se sono noti i doveri nei campi dell’economia e del sociale, meno  considerati forse sono quelli propri del campo politico. Oltre ai casi straordinari, come il difendere la propria patria e l’essere inviato per salvaguardare l’ordine e la pace in altri Paesi, s’impone un dovere ordinario e quotidiano, che costituisce il fondamento solido e l’essenza insostituibile d’ogni vera democrazia: recarsi alle urne per esprimere il proprio voto, che l’articolo 48 della Costituzione sancisce come “personale ed uguale, libero e segreto”, e non certo come il consueto siglare una scheda preparata da altri e a lui proposta quasi per un’eventuale presa d’atto.  

L’uguaglianza, la giustizia sociale e la libertà sono certamente alti valori e “Principi fondamentali” riconosciuti dalla Costituzione, ma che, purtroppo, sono destinati a rimanere nel mondo delle pie intenzioni e nella realtà belle enunciazioni vuote d’ogni contenuto, se non c’è concretamente solidarietà politica. E, oltre alla storia secolare, lo testimonia la vita contemporanea di molte Nazioni: il principio solidarista è il tessuto connettivo dell’intero ordinamento sociale e politico. E, osservando la realtà italiana di questi ultimi decenni, non desta certo entusiasmo e ottimismo ciò che è possibile indurre nei riguardi della partecipazione attiva e responsabile dei cittadini nell’azione politica. Di fatto si sono gradualmente stravolti la natura e il ruolo del partito politico: da laboratorio di programmi e di proposte è stato ridotto ad associazione alle dipendenza del capo, quasi sempre preoccupato del suo interesse privato. Ne è conseguito la sostanziale cancellazione dei poteri delle Camere legislative, costituite solo da “nominati” e, logicamene, attenti alla parole del proprio mecenate. Il tutto grazie alla tanto contestata legge elettorale denominata “porcellum”, proposta dall’allora maggioranza, ma non osteggiata seriamente da nessuno per ovvi calcoli di potere. Qualche mese fa l’attuale Parlamento ha approvato la nuova legge elettorale, con cui di fatto si limita ancor di più il diritto di voto libero e personale del cittadino e si crea un Parlamento di persone certo non scelte liberamente dai votanti, ma designate d’autorità dai capi di partito.
 
Se tutto viene calato dall’alto, che solidarietà politica potranno esercitare i cittadini? Ma senza solidarietà politica non può esserci democrazia. Con il metodo con cui si sta governando negli ultimi decenni, e soprattutto negli ultimi anni, non si darà vita a governi democratici, ma solo a oligarchie di dubbia natura. E, di fronte allo spettacolo che la politica italiana sta dando a ogni livello, non c’è certo da stare sereni. Infatti, la realtà inconfutabile è che la cosiddetta classe politica può offrire e disporre di “oligarchie” - sia partitiche che della cosiddetta società civile - che non si distinguono per moralità e competenza. Più che designare sindaci, presidenti e governatori o decidere rispettivi commissariamenti, urge ritornare ai cittadini, per consentire loro una rinnovata presa di coscienza della loro dimensione sociale  e un modificato atteggiamento verso la politica, ora considerata una temibile associazione di malaffare. Se non si ritorna ai cittadini, s’ingrossa sempre più il numero di quelli che aborrono la politica e non si recano nemmeno alle urne, se addirittura non vanno a rafforzare i movimenti dell’antipolitica. Ma per questo ci vuole capacità e audacia: si tratta di ricostituire valori intramontabili, di aggiornarne i criteri attuativi per il presente e, soprattutto, di prestare costante attenzione al futuro. Le nuove generazioni non hanno alcuna colpa per dover subire eredità negative; devono, pertanto, essere educate alla vera vita della democrazia e, quindi, essere dotate del senso del “dovere” di solidarietà politica, grazie al quale saper operare scelte libere e prendere decisioni valide per tutti, che poi proporranno - sempre con i metodi della democrazia - ai propri governi