L’intera durata
dell’esistenza di ciascun vivente (soprattutto) umano, breve o lunga che sia,
può essere interpretata e spiegata in maniere diverse, ma tutte ugualmente credibili
e valide, perché tutte ugualmente dettate da intimi sinceri bisogni dell’animo
e suggerite da profonde intense aspirazioni dell’umana
sensibilità. La vita, pertanto, può essere intuita come un naturale spontaneo ininterrotto
fluire di momenti e, di conseguenza, può essere vissuta come un regolare
succedersi di accadimenti necessitati e imprevedibili. Oppure può essere concepita
come un mosaico di fattura straordinaria, ma misteriosa e oscura, composta da
tessere del tutto slegate e tra di loro indipendenti, collocate in un punto
particolare per puro gioco del caso oppure costrette dall’ignoto causale agire di forze
sfuggenti a ogni possibilità di comprensione e, pertanto, imprevedibili,
incontrollabili, ingovernabili da parte dell’uomo. A questi due principali e
comuni modi d’intendere il problema
della vita umana, non si può non aggiungere almeno un altro, in apparenza poco rilevante
e, quindi, non meritevole di considerazione; esso, però, è abbastanza diffuso e
non sempre è riconducibile a superficialità di riflessione, a faciloneria di
valutazione, a negligenza nelle scelte morali. Quest’ultima concezione consiste
nell’inconfessata sfiducia in ogni agire umano, per cui si traduce in atteggiamenti
di stanca resistenza e d’indolente disinteresse: si offusca il significato del
proprio vivere, s’indeboliscono le virtù fondamentali, s’inaridisce la linfa vitale,
che alimenta progetti esaltanti e vivifica scelte audaci; un’indolenza diffusa penetra
pian piano nell’anima, permeando ogni fibra dell’essere umano, talora diventato
passivo abulico spettatore d’ogni evento.
Certo, il dilemma esistenziale
non è nuovo, né investe solo le menti più pensose o gli spiriti più riflessivi.
E’ un problema che coinvolge tutti gli esseri razionali indistintamente e in
maniera più o meno consapevole, qualunque cultura abbiano, qualunque
sensibilità posseggano, qualunque situazione esistenziale vivano. Ed è un
problema che trova sempre e comunque soluzioni differenti.
Perché io, in
questo momento e in questo luogo, con queste doti positive e con questi caratteri
negativi, con queste attitudini e con queste
aspirazioni, con queste simpatie e antipatie? Sono tanti interrogativi,
che covano muti e inesorabili nel profondo dell’essere umano. Continuamente in
agguato, ora balenano all’improvviso sogghignanti, per poi scomparire
immediatamente e dileguarsi, qual guizzo fulmineo d’un fuoco fatuo; ora s’ergono
e s’impongono, possenti e inesorabili, con piglio vigoroso e, qual giudici
implacabili, pretendono con ostinata tenacia una qualche soddisfacente
risposta. E ancora, a livello meno individuale, ci si chiede: chi o che cosa è
il motore del cosmo? Chi ne assegna i traguardi? Chi ne decide la direzione?
Chi muove le vicende del mondo e dell’umanità? Chi determina il cammino delle
civiltà e dei popoli? Chi stabilisce le scelte dei singoli uomini e ne indica
gli itinerari? Come si muove l’universo? E’ finito o infinito? E’ determinato o
indeterminato? E’ vero, è reale che, tra tutti gli esseri viventi e non, l’uomo
occupa un posto privilegiato o, comunque, particolare? Caso, caos, un Tutto
architettato bene o congegnato male: cos’è quest’immenso universo conosciuto
solo in minima parte dalla pur millenaria capacità conoscitiva dell’uomo?
Dove e come sia
possibile attingere una risposta che appaghi, se non tutte, almeno qualcuna di queste
domande è impresa molto faticosa e, comunque, non agevole. La tradizione,
infatti, da parte sua, custodisce e lascia in eredità spiegazioni certamente plausibili
e spesso anche seducenti, che hanno costellato il corso dei secoli e dei millenni:
e tuttavia lasciano tutte, sempre, ampi aloni fitti di triste insoddisfazione. Le
conquiste culturali e i progressi della scienza e della tecnica attuali, da
parte loro, non solo non placano aneliti e non dissipano dubbi, ma addirittura
ne accrescono la vastità e ne incrementano il vigore. Infatti, mentre
s’arricchiscono senza sosta le conquiste della scienza e della tecnica al
servizio d’un sempre più produttivo funzionamento delle attività dell’uomo,
poco o nulla contribuisce a spiegarne le motivazioni e a comprenderne le
giustificazioni. La cultura contemporanea, soprattutto occidentale, si affida
sempre più esclusivamente ai poteri della ragione e della scienza, rincorrendo
i miti della funzionalità e della praticità, per cui svaluta e spesso abbandona
del tutto ogni altra componente della natura umana. Quest’eccesso di
razionalismo inaridisce l’umanità, le strappa la gioia della totalità della vita
e la priva della possibilità di provare il sapore della felicità autentica.
Ecco, allora, la necessità di riappropriarsi della totalità dell’essere umano, costituito
anche di sensazioni, impressioni, percezioni, sentimenti, emozioni, affetti,
passioni: quella totalità che le culture antiche – particolarmente quella greca
– definivano “eros”, cioè il fondamento dell’essere dell’uomo, la fonte della
sua ragion d’esistere, la meta ultima, cui tendere ogni giorno in ogni azione.
E’ quell’eros che ha originato il cosmo, che lo vivifica, che ne incrementa la
vitalità e ne ripara gli errori; quell’eros che – se non censurato e limitato dalla
prepotenza assolutizzante d’un ingiustificato razionalismo – dovrebbe ispirare
le azioni dei singoli in sintonia sublime e dovrebbe indicare le scelte anche
dei popoli, tra loro diversi, ma identici per natura e dignità.
"Noi – avvertiva già Socrate nel ‘Simposio’ - stacchiamo dalla
totalità di Eros una determinata faccia: le attribuiamo il nome del complesso e
la chiamiamo eros. Per le altre facce usiamo dei diversi nomi”; ma eros
è una ‘passione’ che ha valenza universale, in quanto il suo fine, in
definitiva, è raggiungere il bene, in modo continuativo, per essere felici. In
definitiva, eros è l'espressione del nostro desiderio di trascendenza. Trattandosi di un
ideale, può essere considerato come utopia,
la quale però dà una direzione coerente alla nostra vita nella direzione della
crescita e della trascendenza.
Meta grande e
astratta? “La grandezza dell'uomo – sussurra Heidegger - si misura in base a
quel che cerca e all'insistenza con cui egli resta alla ricerca”. Mezzo secolo
prima, Nietzsche non aveva esitato nel dichiarare: “Si possono concepire i
filosofi come persone che compiono sforzi estremi, per sperimentare fino a che
altezza l'uomo possa elevarsi”. Senza mai dimenticare, comunque, il sofferto
umano consiglio, che aveva suggerito Kant: “La ragione umana viene afflitta da
domande che non può respingere, perché le sono assegnate dalla natura della
ragione stessa, e a cui però non può neanche dare risposta, perché esse
superano ogni capacità della ragione umana”.