Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
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venerdì 18 dicembre 2009

Un volume di Hans Jonas: LIBERTA’ E’ DUBITARE DELL’ASSOLUTEZZA

In questi giorni è stato pubblicato, in traduzione italiana, il volume “Problemi di libertà” di Hans Jonas. In esso sono raccolte le lezioni, finora inedite, che il filosofo tenne nel 1970 a New York, e la cui lettura sollecita alcune riflessioni, che appaiono particolarmente urgenti.
Non si sa quanta fondatezza storica abbia la tradizione che tramanderebbe una relazione culturale – dialettica ma quasi amicale – tra il filosofo romano stoico Seneca e l’ebreo Paolo convertitosi alla sequela del Cristo e divenuto ‘apostolo delle genti’. E’ certo, però, che sul problema e sulla concezione della libertà li troviamo su posizioni assolutamente opposte. Ora, grazie al volume di Jonas, ritornano quanto mai attuali il confronto e la discussione delle due dottrine.
Per Seneca – e per lo stoicismo in generale – la libertà è la possibilità è di disporre di se stessi in assoluta autonomia e con piena responsabilità: cioè, la capacità personale di pensare, di volere, di sentire, di agire secondo le indicazioni della totalità del proprio essere, i suggerimenti della propria ragione, le urgenze del proprio sentimento. Lo stesso Kant, del resto, identifica la libertà con la capacità soggettiva di dare ascolto sempre e solo alla voce della propria ragione e di conformarsi ad essa; per il filosofo tedesco non c'è alcun dubbio: qualunque elemento esterno all’umana razionalità - sia esso di natura nobile o ignobile, ovvero scaturisca da fonti superiori e addirittura divine - la rende sottomessa e, quindi, non libera e non degna della natura umana. L’essere umano è anche razionale; ma la razionalità umana non coincide con la sola “ragione” intesa come facoltà di formulare pensieri astratti logicamente connessi secondo schemi linguistici e particolari convenzioni filologiche. La razionalità umana è una realtà composita e ordinata: prima e, oltre che capacità astrattiva, essa è capacità intuitiva e creativa di molteplici forme simboliche, grazie alle quali soltanto nascono le armonie della musica, le drammatizzazioni del teatro, le policrome combinazioni della pittura, le sublimi trasfigurazioni della poesia, le fantasiose costruzioni del romanzo ed anche le ricostruzioni documentarie della storia.
Invece, per san Paolo - e, quindi, per il cristianesimo - questa autosufficienza dell’uomo decreta la negazione stessa di Dio, dal quale soltanto deriva quella Legge unica, eterna e assoluta, che permette all’uomo di realizzare le sue reali dimensioni umane. Dal momento, poi, che tale Legge non solo prescrive i comportamenti esteriori, ma comanda anche i pensieri e giudica i desideri che possono e debbono albergare nell’arcano segreto dei cuori (comanda, infatti,non solo di "non commettere" adulterio, ma anche di "non desiderare" la donna di altri), essa decide il retto movimento anche delle anime. Non ci troviamo, allora, davanti a un essere umano assolutamente assoggettato a una Legge suprema, cui deve adeguarsi sempre e comunque l’essere umano?
Hans Jonas, uno dei massimi rappresentanti dell'umanesimo del secolo passato, in questo suo lavoro ci conduce, attraverso un itinerario storico e teoretico, verso l'esplorazione della rivoluzionaria idea cristiana di libertà. L'essere umano, se è libero, deve poter disporre di se stesso. Tuttavia, si trova immerso e condizionato da tutta una fitta rete di pulsioni personali, di di diritti altrui e di obblighi sociali. Il cristianesimo, da parte sua, pone sotto assedio anche quella dimensione interiore, in cui il singolo poteva credere di essere padrone, se non del mondo, almeno di se stesso. E Jonas - con arguta osservazione storica - annota: "Questo punto di vista cristiano fu formulato per la prima volta nei modi della 'Epistola ai Romani' piuttosto che in quelli di un'affermazione teoretica o come una dottrina generale".
A questo punto - accompagnati dal lucido e appassionato argomentare di Jonas - è lecito chiedersi se per il cristiano ci sia posto per una libera iniziativa dell’uomo e quale sia il ruolo della sua responsabilità nella costruzione della storia dell’umanità e del cosmo. E la domanda si mostra in tutta la sua vera valenza, quando si tenta di scoprire e capire anche quale sia veramente la fonte di questa Legge assoluta e indiscutibile, che, aldilà d’ogni tortuosità e bizantinismo possibili, di fatto governerebbe ogni forma di vita e ogni accadimento naturale e cosmico.
Si potrebbe, allora, indagare coraggiosamente, ed eventualmente riconoscere e accogliere con estrema disponibilità, la possibile esistenza d'un'autonomia umana non superficiale e di facciata, bensì sostanziata di reali dimensioni e protesa verso l'apertura alla complessità della vita esistenziale e dell'intera vicenda del mondo.

mercoledì 9 dicembre 2009

HANS KÜNG, “IN COSA CREDO”:non si crede senza capire

In Germania è stato pubblicato – con il titolo “Was ich glaube” - l’ultimo libro di Hans Küng, il celebre studioso svizzero; in Italia ne è prevista la diffusione con i caratteri Rizzoli e con il titolo “In cosa credo”. Il volume si pone come la logica conclusione di tutto il pensiero e dell’intera vita del Küng. Egli, infatti, è stato (e continua ad essere tuttora) talmente coerente con la propria mente e con la propria anima da aver saputo accettare tutte le difficoltà e aver voluto superare tutte le avversità, che ha incontrato durante il corso della sua vita: anche quando, nel 1978, dopo aver pubblicato il suo “Dio esiste”, gli fu revocata l’autorizzazione all’insegnamento della teologia cattolica. Fu un passaggio molto penoso, che, comunque, non ha mai indebolito il suo impegno di meditazione teologica, di riflessione filosofica e di interesse nei confronti anche delle scienze sperimentali, da lui sempre stimate e rispettate nei loro metodi e nelle loro conquiste.
La preoccupazione dominante e l’intento ultimo dell’intera attività speculativa – teologica e filosofica - di Hans Küng sono stati il ricercare la possibilità concreta d’un’etica universale fondata sulla comprensione sincera e sul rispetto reale degli “altri”, i quali vengono considerati e trattati effettivamente come tali, quando sono considerati e trattati concretamente nella loro individuale dignità di singola persona umana: l’altro, quindi, è ciascun essere umano, qualunque differenza etnica e morale egli presenti, qualunque pensiero filosofico condivida, a qualunque fede religiosa aderisca (non esclusi l’agnosticismo e l’ateismo).
“La mia spiritualità – dichiara Hans Küng in questo suo ultimo libro – ha sempre avuto a che fare più con la razionalità che con la sensibilità. Non ho mai voluto semplicemente ‘credere’, ma anche ‘capire’. Come teologo mi sono sempre ritenuto anche filosofo, ho studiato filosofia e l’ho praticata”. Ed esprime pacatamente, con umile semplicità ma anche con sostenuta convinzione, la sua certezza d’aver contribuito a colmare una grave lacuna che presenta l’attuale pensiero filosofico, da ormai lungo tempo impoverito di quella ricchezza, che è apportata dalla riflessione sui problemi della metafisica: “Forse che con la mia teologia – scrive con fiducioso ottimismo – io riesca a porre rimedio a quella dimenticanza di Dio sopravvenuto nella filosofia e a quella dimenticanza della filosofia avvenuta nella teologia?”. E animato proprio da questa fiducia ha voluto (e saputo) unire al metodo del razionalismo cartesiano l’incessante e pressante “voce del cuore” invocata da Pascal: l’essere umano - secondo Hans Küng - non è solo ragione, ma possiede tutto un complesso e ricco patrimonio di umanità profonda, costituita anche da emozioni e intuizioni: “Ci sono tanti fenomeni specificamente umani, come l’arte, la musica, l’umore, il riso, e certo il dolore, l’amore, la fede e la speranza, che non si lasciano cogliere in maniera critico-razionale nelle loro varie dimensioni, bensì che è possibile avvertire solamente nella loro pienezza”.
La totalità dell’essere umano richiede analisi ardite e risposte approfondite. Non ci si può fermare all’approssimazione e alla superficialità: “Come filosofo e teologo – afferma Hans Küng – non posso accontentarmi della problematicità superficiale del nostro mondo secolarizzato e ridotto solo a razionalità e funzionalità, bensì debbo cercare di penetrare nella sua dimensione più profonda. Come si può altrimenti trovare una risposta alla domanda sul fondamento della vita?”.
La lettura di questo scritto “autobiografico” di Hans Küng sembra essere particolarmente adatta per la nostra umanità, specialmente in questo periodo, in cui essa appare essere dominata dal pragmatismo e dall’utilitarismo, imperanti ormai in ogni campo della vita individuale e degli assetti sociali. Convincimenti e atteggiamenti, questi, che pretendono di tutto giustificare e tutto rendere “normale”, condannando al progressivo decadimento intellettuale le menti e alla lenta insensibilità morale i cuori dell’essere umano.

lunedì 10 novembre 2008

EDUCAZIONE ALL’ INVECCHIAMENTO

La “geragogia” (termine usato per la prima volta nel 1973 da Angiolo Sordi) oggi non è solo un’autonoma scienza teorica con un proprio oggetto di ricerca, ma è anche una forte esigenza reclamata dalla dignità della vita dell’uomo tanto nella limitata dimensione del singolo individuo quanto nelle più vaste relazioni della società umana. La geragogia, infatti, è la branca della gerontologia, che si propone di trovare, studiare e proporre un insieme organico d’insegnamenti volti al perseguimento d’un’organica educazione all’invecchiamento, quale preparazione per una vecchiaia attiva e vitale.
Si sa che nel futuro (che in alcuni aspetti si sta già vivendo) vi sarà un numero sempre maggiore di persone, che invecchieranno in maniera migliore sia dal punto di vista fisico che psichico; e tuttavia, però, con la sola triste previsione di vivere da “pensionati” per un numero considerevole di anni, talora notevolmente maggiore che nel passato.
Ora, non è concepibile che questi “nuovi anziani” siano destinati a vivere un periodo ragguardevole di vita senza un proprio ruolo sociale ben definito e connotato da idoneità reali. Non solo non è concepibile, ma è addirittura disumano e funesto, perché un uomo senza un ruolo autonomo di valori veri è necessariamente destinato all’emarginazione e, quindi, all’isolamento. E’compito primario della geragogia, quindi, chiedersi quale ruolo o funzione possa e debba avere l’anziano di oggi nelle strutture della società contemporanea, che cambia con ritmi vertiginosi, provocando numerosi meccanismi emarginanti.
Le trasformazioni degli ultimi decenni, infatti, hanno certamente generato non pochi benefici, ma hanno anche causato situazioni sfavorevoli, che hanno interessato i più deboli e in primo luogo gli anziani. L’industrializzazione del lavoro non ha bisogno più della creatività del singolo, perché si basa esclusivamente su lavori meccanizzati, ripetitivi e legati alla produttività e all’efficienza (quando non alla carriera): l’obiettivo primario è maggiore ricchezza e maggiore prestigio sociale; e quello che serve è una conoscenza operativa, bisognosa sempre e solo di nuovi aggiornamenti tecnici e metodologici. Non c’è alcun posto per l’esperienza acquisita (magari nel corso d’un’intera vita) anche come patrimonio di valori. Quell’esperienza propria che detiene l’anziano.
Anche il modello di famiglia “nucleare” è incapace di proteggere e valorizzare le potenzialità degli anziani, in quanto – data, appunto, la struttura del lavoro industrializzato – non ha la possibilità di accoglierli nel suo interno e tanto meno di garantire loro una qualche forma di assistenza.
L’età della pensione coincide con l’inizio di un ruolo improduttivo dal punto di vista economico e sociale: lo stabiliscono norme giuridiche, anche se a decidere (liberamente?) il passaggio dalla produttività all’improduttività è ciascun individuo.
Volendo esprimere questa realtà con espressione forse brutale, ma vera, si potrebbe dire: la vecchiaia, un tempo età di saggezza venerata e tenuta in gran conto per le sue potenzialità “produttive” in termini di guida, ora è sostanzialmente età d’attesa che la vita finisca, cessando di essere un peso per gli altri e un tormento per se stessi, condannati all’isolamento e all’emarginazione.
La geragogia si faccia carico di questi aspetti umani e, affrontando indagini impietose sulla realtà effettiva del vecchio oggi, fornisca indicazioni “oggettive” per un’adeguata educazione all’invecchiamento degno dell’uomo.

mercoledì 12 marzo 2008

UN MODO DI SCRIVERE "VALIDO"

Non è raro né difficile imbattersi in libri scritti con perizia formale, incisività stilistica e padronanza di contenuti.
E’ anche frequente, però, trovarsi a sfogliare pagine scritte con sciatta disattenzione e approssimazione linguistica.
E’ auspicabile, comunque, l’incremento di libri godibili e , nello stesso tempo, capaci di scardinare i clichés della società dei consumi, gli infingimenti dei media, le ipocrisie della retorica politica.

Per perseguire tale scopo, è quanto mai indicato l’uso dell’web: chi scrive non deve niente a nessuno, e nessuno deve niente a chi scrive. L’web, quindi, dà e garantisce piena libertà. Il libero accesso, infatti, consente a chi non piace o non condivide uno scritto di allontanarsene con un clic senza lasciare traccia. E consente, d’altra parte, a chi scrive d’intervenire anche successivamente su un testo. L’opera, così, è perennemente incompleta; e, anche se non è un cantiere aperto, permette di fare piccoli cambiamenti.

Un’opportunità, quindi, da utilizzare al massimo per una scrittura e una lettura libere: a dimensione della libertà intellettuale e morale propria dell’uomo.

lunedì 25 febbraio 2008

L'ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE, ovvero ILPRIMATO DI CHI?

Che la vita concreta ormai insediata e stabilizzata sul globo terrestre sia determinata dalle dimensioni dell’uomo “democratico” è un dato ormai indiscutibile e, quindi, acquisito e accettato da quasi tutti i protagonisti della storia attuale.

Forse meno condiviso è l’altro fatto pure indiscutibile: cioè, che il problema delle relazioni internazionali deve scegliere tra due posizioni, cioè quella del cosmopolitismo e quella del realismo o dello statismo.

Il cosmopolitismo rivendica la pari dignità di ogni essere umano, in qualunque parte del globo abiti e a qualunque idea aderisca: caduti i confini geografici e demolite le dighe ideologiche, l’uomo può veramente vivere dimensioni universali di uguaglianza giuridica e di diritti politici.
Lo statismo rivendica la sovranità di ciascuno stato, che ha il compito fondamentale di difendere la propria identità e la propria sovranità.

Ora, è facile comprendere come il cosmopolitismo in realtà si riduce a semplice dichiarazione di buona volontà: dal momento che lo Stato è la fonte del diritto, senza uno “stato” non c’è concreta possibilità di uguaglianza e di libertà. E così, d’altra parte, è evidente l’astrattismo di ogni stato che pretenda di difendere sempre e comunque la sua individuale identità, dimentico che l’evoluzione del mondo globalizzato ha dei risvolti radicali in campo economico, politico e culturale.

Si può immaginare un cosmopolitismo che si confronti con i problemi reali della legalità e della politica e, nello stesso tempo, di uno statismo che si apra a confronti nuovi e più realisticamente efficaci?

Non si dimentichi, comunque, che nel frattempo l’umanità desidera e attende il riconoscimento concreto e l’attuazione pratica di diritti uguali e di dignità a vera dimensione di uomo!

martedì 15 gennaio 2008

INVOLUZIONE DI UN CONCETTO E CORRUZIONE DI UNA PRATICA

Per “Politica” si è intesa – sin dalle culture più antiche – una concezione di indiscusso contenuto etico, generalmente appannaggio di persone probe e di chiara moralità anche privata.

Di conseguenza, la pratica della “Politica” era pensabile solo come attività da affidare solo a delle personalità capaci di “guidare” la “città” soprattutto grazie al patrimonio morale della loro vita coerente ed onesta, tale da essere esempio a tutti e, massimamente alle nuove generazioni: la politica era, quindi, la maestra e l’educatrice dei popoli e dei singoli, che apprendevano così le tradizioni virtuose e i valori fondamentali mirati alla reciproca crescita globalmente umana.

Tali personalità, ovviamente, venivano richieste di dedicare un po’ della loro vita alla cosa pubblica: ed esse accettavano coerentemente ai loro principi di “servizio”. Mai avrebbero rivendicato un proprio “diritto di fare politica”, e tanto meno di costituire una “classe politica” esperta e capace.

Dopo il servizio “regalato” alla propria comunità, si ritiravano senza nulla pretendere, soddisfatti solo di “aver fatto politica”: e così contenti, assistevano alla vita pubblica della loro “città” guidata da altre persone ugualmente idonee e disponibili a “regalare un pò della loro vita alla cosa pubblica: ed esse accettavano coerentemente ai loro principi di servizio”.

Chissà su quale pianeta sono andati a finire questi uomini veri, destinati dalla storia a vivere in tempi in cui era possibile una vita umana e sociale veramente a dimensione d’uomo!

martedì 20 settembre 2005

QUALCHE OPINIONE SU ALEXIS DE TOCQUEVILLE.

"Non è affatto un ammiratore soddisfatto della società americana: nel suo intimo conserva una gerarchia di valori che assume dalla sua classe, l'aristocrazia francese” (Raymond Aron).

Diviso fra ammirazione e inquietudine per la democrazia e devozione e sollecitudine per la libertà, il dissidio egli lo portava dentro di sé” (Norberto Bobbio).

La Democrazia in America, il miglior libro mai scritto sugli Stati Uniti, si basava su un viaggio durato non più di nove mesi” (Eic Hobsbawn).

I moderni teorici della democrazia politica non sono interessati alla fondamentale condizione sociale di uguaglianza che Tocqueville aveva in mente” (Ralf Dahrendorf).

lunedì 12 settembre 2005

COSA CI FANNO GLI ESSERI VIVENTI SULLA TERRA? LA RISPOSTA CE LA RIVELA DIO O CE LA FORNISCE DARWIN?

E’ stato pubblicato il volume di Orlando Franceschelli dal titolo Dio e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione (Donzelli Editore). L’autore, prendendo le distanze dagli estremismi sia dei naturalisti che dei creazionisti, ritiene plausibile l’ipotesi evoluzionista accanto a quella di un Dio che interagisce con le leggi dell’evoluzione. Vuole, quindi, lasciare aperta la porta per un dialogo tra scienza e religione, e tentare di eliminare il pericolo di una scienza presuntuosa e smaniosa di onnipotenza, da una parte, e di una religione intollerante che trasforma le credenze religiose in strumento di potere.

E’ inutile, però, illudersi! I termini del dialogo tra scienza e religione sono uniti tra loro da ponti molto sottili. Veramente molto sottili, soprattutto quando non vertono su problemi “forti” (quali la finalità del mondo, il fine della vita, i concetti di vita e di morte, l’essenza e l’esistenza dell’uomo), ma debbono misurarsi su terreni poco esplorati, anche se fertilissimi, delle scienze fisiche e biologiche in generale (quali il creazionismo e l’evoluzionismo) e neurologiche in particolare (il rapporto, ad esempio, tra cervello e mente). Questo “sottile” dialogo dà vita, a volte a collaborazione e a nuovi filoni di confronto, a volte (più frequenti) a polemiche inconcludenti, quando non oziose.

Non c’è da meravigliarsi. Il dialogo fra scienza e religione è bello e interessante, ma si realizza tra persone che hanno un approccio alla conoscenza molto diverso. E’ un dialogo veramente interessante! Basta non fare finta di avere molti terreni in comune. Oggi è un’abitudine, per motivi intellettuali, intendersela sempre e comunque con esponenti religiosi, che possiedono e propongono le loro idee, che sono sicuramente nobilissime.
Il problema è che, per le religioni, la divergenza con il metodo scientifico sta nell’approccio. La divergenza, quindi, sta a monte. Tutte le scienze postulano e accettano solo la precisione delle misure e il rigore del linguaggio; tutte le religioni, invece, fanno dell’ambiguità del linguaggio il loro punto di forza e la loro stessa ragion d’essere.

sabato 30 luglio 2005

IL DIALOGO TRA TEOLOGI E FISICI E' VERAMENTE POSSIBILE?

Contro lo gnosticismo del passato e quello del presente, che tendono a considerare la natura come un sottoprodotto della Creazione, il pensiero teologico esclude ogni dualismo tra corpo e spirito, osserva Lino Conti, docente di Storia del pensiero scientifico all'università di Perugia. E cita un testo dimenticato, ma fondamentale in alcune sue parti: la Theologia naturalis del catalano Raimondo Sebunde, il quale affermava: il libro della natura, "digito Dei scriptum", contiene la dimostrazione scientifica dell'esistenza del Creatore. Così, è ancora più "forte e innovativo" il dialogo tra teologi da un lato e fisici, astronomi, informatici, filosofi , dall'altro. "Sono lontani i tempi della contrapposizione anche virulenta: ora le nostre idee dell'uomo e del cosmo non sono più alternative", constata Giuseppe Lorizio, professore di Teologia fondamentale alla Lateranense. Il "libro della natura" permette un contatto strategico tra scienza e teologia. Perché, spiega Conti, "occuparsi del libro della natura vuol dire occuparsi della scienza dei fatti e delle opere di Dio. Nella natura Dio si manifesta, è leggibile". E ha dato grande impulso alla ricerca scientifica questo "libro della natura", che è all'origine una metafora biblica.

Due studenti, però, che leggano il medesimo libro e ne comprendano il significato in modo diverso o addirittura opposto, vengono valutati sempre allo stesso modo dal loro "docente", oppure a uno si dà il massimo e all'altro il minimo dei voti? E comunque, un libro che si presti a letture così diverse, non deve essere poi il frutto di una mente veramente eccelsa, a meno che non venga letto da menti …dementi. O anche: a meno che non si impedisca la lettura "oggettivamente" vera". E questo è un altro discorso; il discorso che ricerca i nessi tra verità e potere.

Nel dialogo proprio della ricerca culturale "libera", l'incontro è l'ignoto punto d'arrivo di lunghi e spesso tormentati itinerari, e mai il punto di partenza, inizialmente proposto e conclusivamente imposto da una delle parti dialoganti.

venerdì 15 luglio 2005

ISAAC NEWTON: DALL'ARTE SACRA ALLA RICERCA SCIENTIFICA?

Michael Wite dedica una biografia al padre della gravitazione universale: Newton. L'ultimo mago. Sir Isaac - secondo la "rivelazione" dello storico inglese - oltre a scoprire i principi che danno forma al mondo, fu anche mago e alchimista. Il geniale fisico, infatti, "aveva passato più tempo assorbito nelle sue ricerche alchemiche che nell'esplorazione delle limpide acque della scienza". Si impegnò a lungo allo studio della cronologia della Bibbia, dell'astrologia e della numerologia, esaminò profezie, si dedicò alla magia cercando di rivelarne i segreti ermetici (la prisca sapientia) "e forse anche alla pratica dell'occultismo e della magia nera". La prova? il milione (circa) di parole sull'alchimia, che lasciò dietro di sé e in gran parte inedite. Il creatore della moderna teoria meccanica, insomma, più che il primo scienziato dell'età della ragione, appare piuttosto come l'ultimo dei grandi maghi. "Le ricerche di Newton nel campo dell'alchimia - è la conclusione di White - esercitarono un influsso fondamentale sulle scoperte scientifiche con cui egli cambiò il mondo".

Forse più correttamente, però, come scrive Michaela Pereira nel suo nuovo Arcana Sapienza, fu proprio in seguito ai lunghi studi nel campo dell'alchimia che "Newton dovette in qualche modo riconoscere che queste ricerche non lo avrebbero portato mai là dove aveva sperato di giungere". Trovò la luce , in sostanza, proprio perché scelse di abbandonare un tunnel che si perdeva nel buio. Dall'Arte Sacra, insomma, difficilmente si poteva arrivare alla legge di gravità.

martedì 21 giugno 2005

CADE ANCHE PER LA STORIA DELLA SCIENZA UNO STEREOTIPO CULTURALE: MEDIOEVO “OSCURANTISTA” CONTRO RINASCIMENTO “LUMINOSO”

Quasi tre secoli fa, Isaac Newton diceva di sé: «Io mi vedo come un fanciullo che gioca sulla riva del mare, e di tanto in tanto si diverte a scoprire un ciottolo più levigato o una conchiglia più bella del consueto, mentre davanti mi si stende, inesplorato, l'immenso oceano della verità».

A quel che Newton chiamava “divertimento”, noi siamo soliti dare il nome di scienza.

L'autunno del Medioevo fu tutt'altro che cupo e oscuro. Fu in quel momento che vennero poste le basi della “rivoluzione scientifica” di solito attribuita a Copernico, Galileo, Keplero, Newton. Sembra che certi studi sul concetto di moto o sulla teoria della materia che stanno all'origine delle ricerche della fisica moderna in realtà fossero già avviati nel tardomedioevo.

Cade anche per la storia della scienza uno stereotipo culturale, che si impose nel secondo Ottocento e che Burckardt nel suo saggio sulla “Civiltà del Rinascimento” codificò storiograficamente: medioevo "oscurantista" contro rinascimento "luminoso", tempo della ragione sovrana che dissipa ogni credulità o superstizione. Erano passi compiuti già in altri campi da storici come Huizinga e Kristeller, ma uno studioso americano, Edward Grant, sostiene che questa svolta nella interpretazione della storia della scienza risale agli inizi del Novecento con i quindici volumi pubblicati da Pierre Duhem sulla scienza nel Medioevo: “Fu il primo studioso a vagliare una quantità di manoscritti medievali restati a lungo sotto la polvere e inesplorati. Dopo questa ricerca Duhem poté sostenere che la Rivoluzione scientifica che normalmente viene associata ai nomi di Copernico, Galileo, Keplero, Cartesio, Newton fu in realtà lo sviluppo di premesse scientifiche già formulate nel trecento, in particolare dai maestri parigini”. come nota Grant nel libro ora pubblicato da Einaudi, Le origini medievali della scienza moderna, questa tesi fu ampiamente contestata dallo storico Alexandre Koyré, che negava la continuità tra la scienza medievale e quella moderna. E questo suo rifiuto poggiava sull'idea di un cambiamento sostanziale di quello che un altro epistemologo celebre, Thomas Kuhn, ha definito il “paradigma” che distingue le epoche culturali e, in questo caso, scientifiche. Questo libro di Grant è una miniera di dati, di nomi e di curiosità che ad un tempo affascina e atterrisce. Spiegare come siamo arrivati a scoprire le galassie e la nascita delle stelle, o come siamo diventati di casa con anatomia e composti chimici è parte di questo intrigante libro di storia e di scienza, e indirettamente anche di filosofia e teologia. Grant è docente emerito all'Indiana University, negli Usa.

lunedì 21 marzo 2005

QUANDO IL “SILENZIO” NON E’ CONSENSO (SPESSO SERVILE), MA DIFESA (SPESSO EROICA) DELLA LIBERTA’, FONDAMENTO DELLA DIGNITA’ UMANA

Il 28 marzo 1926 si aprivano, a Milano, i lavori del VI congresso filosofico nazionale, promosso dalla Società Filosofica Italiana. Il congresso era stato organizzato dal filosofo Piero Martinetti, il quale, presidente d’allora della Società Filosofica Italiana, lo inaugurò solennemente con un discorso, che fu stampato postumo col titolo I congressi filosofici e la funzione sociale e religiosa della filosofia (in “Rivista di Filosofia”, 1944, n. 3-4, pp. 101-109; ora in Saggi filosofici e religiosi, a cura di Luigi Pareyson, Torino, Bottega d’Erasmo 1972, pp. 37-44).

Al congresso erano stati invitati tutti, senza distinzione d’orientamenti dottrinali e di credo religiosi; ma non vi fu l’adesione dei gentiliani né la partecipazione dei cattolici.

Il 29 marzo teneva la sua relazione Benedetto Croce su La filosofia italiana da Campanella a Vico; il 30 marzo Francesco De Sarlo pronunciava – tra molti applausi – la sua relazione su L’alta coltura e la libertà; il giorno successivo avrebbe dovuto parlare Ernesto Buonaiuti su La religione nel mondo dello spirito: ma il congresso fu sospeso e sciolto con l’intervento autoritario del commissario di polizia. Anche la “Società Filosofica Italiana” fu soppressa e sostituita dal “Regio Istituto Filosofico Italiano” sovvenzionato dallo Stato e retto da un organo ufficiale, la cui presidenza era affidata per nomina governativa.

Eugenio Garin, riferendosi a questi avvenimenti, evidenzia come Martinetti, difendendo la ragione quale sicura salvaguardia dell’autentica libertà, si veniva a trovare in comunione con “pensatori tra loro lontani”, e proprio per questo – sottolinea – non fu certamente un “fiore retorico” l’affermazione di Martinetti a proposito della “presenza dello scomunicato Buonaiuti e del ritiro dei cattolici: “non potevo rendermi esecutore di un decreto di scomunica io, filosofo, cittadino di un mondo nel quale non vi sono né persecuzioni né scomuniche” (Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana, Bari, Laterza 1966, p. 390).

Qualche anno dopo, nel 1933, il Martinetti fu uno dei dodici professori universitari – su circa dodicimila – che si rifiutò di prestare il giuramento richiesto autoritariamente dall’allora governo fascista: preferì la difesa della dignità umana e professionale, e scelse la libertà della ragione, rinunciando “dignitosamente” alla vita accademica e alla cattedra universitaria, che si era conquistato con il valore dei suoi studi e che aveva onorato con la ricchezza speculativa del suo pensiero e delle sue opere. Si ritirò a vita privata, disdegnando la ribalta e rifiutando ogni forma di ostentazione. Senza mai mettersi in mostra, continuò i suoi studi al riparo da ricatti miserevoli e da condizionamenti spregevoli. Dal santuario della solitudine della sua casa continuò a essere maestro di libertà morale e civile, esempio indiscusso di coerenza profonda e umile. Rimase totalmente fedele e assolutamente libero nell’intimità del suo spirito, imponendosi – suo malgrado - come perenne rimprovero vivente a chiunque aveva barattato (e continuava a farlo) la dignità dell’essere umano per ottenere o conservare carriere, onori e potere.

venerdì 7 gennaio 2005

LIBERISMO: SOTTO LA FACCIATA DELLA "SOLIDARIETA'", MANCA L’"ETICA DELLA RESPONSABILITA’"?

Su “Apulia”, Rassegna trimestrale della Banca Popolare Pugliese, sono apparsi recentemente (nel numero IV, dicembre 2004). due interventi di due autorevoli personalità, che,se letti in maniera comparata, costringono le menti più pensose a considerazioni non certo di scarsa rilevanza o di spessore trascurabile. Si tratta di interventi che - a nostro modo di vedere - sono da analizzare, meditare e valutare; e comunque sono da tenere costantemente presenti nel corso dell’anno che è appena cominciato.

Il primo è di JEREMY RIFKIN, Premio Nobel per l’Economia:

“Il Sogno Americano è troppo centrato sul progresso materiale personale e troppo poco preoccupato del benessere generale dell’umanità per continuare ad avere fascino e importanza in un mondo caratterizzato dal rischio, dalla diversità e dall’indipendenza: è diventato un Sogno vecchio, intriso di una mentalità legata ad una frontiera che è stata chiusa tanto tempo fa. E mentre lo “Spirito Americano” guarda stancamente al passato, nasce un Sogno Europeo, più adatto ad accompagnare l’umanità nella prossima tappa del suo percorso: un Sogno che promette di portare l’uomo verso una consapevolezza globale, all’altezza di una società sempre più interconnessa e globalizzata. Il Sogno Europeo mette l’accento sulle relazioni comunitarie più che sull’autonomia individuale, sulla diversità culturale più che sull’assimilazione, sulle qualità della vita più che sull’accumulazione di ricchezza, sullo sviluppo sostenibile più che sull’illimitata crescita materiale, sul ‘gioco profondo’ più che sull’incessante fatica, sui diritti umani universali e su quelli della natura più che sui diritti di proprietà, sulla cooperazione globale più che sull’esercizio unilaterale del potere (…). Per quanto io sia visceralmente legato al Sogno Americano, e soprattutto alla sa incrollabile fede della preminenza dell’individuo e della responsabilità personale, la speranza per il futuro mi spinge verso il Sogno Europeo, che esalta la responsabilità collettiva e la consapevolezza globale. Il nascente Sogno Europeo rappresenta le più alte aspirazioni dell’umanità a un futuro migliore” (Ma il futuro è nel Sogno Europeo, Ivi, pp. 13-15).

Il secondo è di SAMUEL HUNTINGTON, Docente di Scienze politiche all’Università di Harvard, che dieci anni fa scrisse per “Foreign affairs” il noto saggio “Scontro di civiltà”, pubblicato nel 1996 in forma di libro e tradoto in 32 lingue:

“L’Islam non è sanguinario di fondo. Ci sono più fattori in gioco. Uno è il sentimento storicamente condiviso fra i musulmani di essere stati soggiogati e sfruttati dall’Occidente. Un altro è il rancore per forme concrete della politica occidentale, soprattutto per il sostegno che l’America dà allo Stato di Israele. Il terzo fattore è il ‘rigonfiamento demografico’ nel mondo arabo (…). Per quel che riguarda l’ostilità islamica nei confronti di idee occidentali, quali l’individualismo, il liberalismo, il costituzionalismo, i diritti umani, la pari dignità fra i sessi, in una parola, la democrazia, dobbiamo distinguere fra varie correnti e gruppi. Naturalmente esistono musulmani che condividono questi valori occidentali (…). La domanda allora è: perché non esiste democrazia nei Paesi islamici? Forse il motivo è culturale (…). Il fatto è che gli interessi di molti si riferiscono a un avversario comune, gli Stati Uniti. Forse anche all’Occidente in blocco. La politica di potere non si esaurisce mai: viene rafforzata dalla cultura e dalla religione, sebbene queste non riescano a spiegare tutto. Si veda l’alleanza fra Ankara e Gerusalemme. E si legga bene la storia della Russia (…). Ecco: la cosa interessante dell’ex blocco sovietico è che la democratizzazione e la riforma economica si muovono lungo linee culturali molto precise. Tutti i Paesi che appartengono all’Europa centrale oggi manifestano grandi progressi. Le culture ortodosse di Bulgaria, Bielorussia e Ucraina sono invece più lente nei processi riformatori. Ma l’Albania musulmana e i Paesi dell’Asia centrale sono ancora molto più lontani dal raggiungere successi di riforma minimi”. (E’ tempo di guerre asimmetriche, Ivi, pp. 32-33).

C’è davvero materia su cui riflettere.

Ovviamente per chiunque – capace di mirare all’animo umano e di decifrarne i sentimenti nascosti – intenda puntare sui “valori”, quelli veri; e per chiunque si proponga di agire da uomo, ma da uomo veramente e senza infingimenti. Soprattutto per chiunque creda davvero nei giovani: ma in maniera che sappia occupare nel mondo il posto che la propria età gli consente, e accettare nella vita sociale il ruolo che gli viene assegnato in base all’esperienza del passato e alle novità progettate per il futuro.

mercoledì 3 novembre 2004

GRANDEZZA E VALORE DELL’UOMO

Due frammenti di Giacomo Leopardi – considerati con attenzione e unitamente – sembrano quanto mai adatti a capire molti “uomini”, e soprattutto molti di quelli che guidano le sorti umane, sia di comunità locali che di nazioni piccole e grandi. Leggiamoli:

a) “I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto”.
b) “E’ curioso a vedere che quasi tutti gli uomini che valgono molto, hanno le maniere semplici; e che quasi sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco valore”.
Intelligenza e cuore non possono essere mai separati; anzi, devono essere tenuti sempre uniti. Anche nel considerare e valutare il mondo “globalizzato” che si vuole sia sempre più dominato dal libero mercato. La grandezza e il valore della dignità dell’uomo, infatti, non possono essere esclusi dalla legge del liberismo “totale”. Anche Leopardi, a suo tempo, aveva avvisato i contemporanei dei rischi d’un’eccessiva fiducia nella “meccanizzazione”. Un volto cupo e tormentato non è sempre espressione di pensiero profondo, anzi spesso nasconde angoscia e tormento; così come un volto disteso e modesto, non è necessariamente segno d’incapacità e di paura, ma spesso nasconde la audacia vera e il coraggio “umano”.

L'UOMO E LA SUA DIMESIONE NEL FUTURO

L'uomo per sua essenza corre verso il futuro:
un futuro non solo esistenziale e storico,
ma anche come custode di senso pieno,
che trascende e attira a sé.
La sensazione non è di estraneità;
anzi, è di riconoscimento di un luogo quasi familiare,
totalmente corrispondente alla propria natura più profonda.
La pace che dà gioia serena.
Il futuro, però, è vissuto come un luogo ancora lontano.
Ed è veramente ancora lontano:
da attendere, da costruire, da compiere.
Sempre.
Questo è il senso proprio d’ogni umano anelito.
Questa è la causa dell’umana sete d’approdo
.

lunedì 25 ottobre 2004

LIBERTA’ VERA DI UNA COSCIENZA MORALE AUTENTICA

Ricordo che circa quarant’anni fa lessi con sentimenti di fiducia immensa e di luminosa speranza alcune parole che il filosofo Jacques Maritain – figura di primo piano nella chiesa cattolica d’allora e grande artefice d’importanti decisioni conciliari – scrisse, con coraggio ed entusiasmo, nel 1965 a conclusione dei lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II. Eccole:

“Si esulta al pensiero che è stata ora proclamata la libertà religiosa. Ciò che così si chiama non è la libertà che io avrei di credere o di non credere secondo le mie disposizioni del momento e di crearmi arbitrariamente un idolo, come se non avessi un dovere primordiale verso la Verità. E’ la libertà che ogni persona umana ha, di fronte allo Stato o a qualsiasi potere temporale, di vigilare sul proprio destino eterno, cercando la verità con tutta l’anima e conformandosi ad essa quale la conosce, di ubbidire secondo la propria coscienza a ciò che ritiene vero riguardo alle cose religiose. La mia coscienza non è infallibile, ma io non ho mai il diritto di agire contro di essa”. (Il contadino della Garonna, trad. it., Brescia 1965, p. 11).

Le rileggo oggi. Guardo con occhi disincantati l’uomo del nostro tempo: la fiducia tende a scomparire; e talora s’affievolisce anche la speranza!