Su Il
Foglio di giovedì scorso 17 marzo è stata proposta ai lettori
un’interessante e articolata “chiacchierata
con Giuliano Amato”, in cui l’ex premier e attuale giudice della Corte
Costituzionale propone un’analisi delle vicende dei partiti politici nelle
attuali situazioni sia dell’Italia e sia di altre parti del mondo; analisi in
parte condivisibile, ma in parte suscettibile di osservazioni e di necessarie puntualizzazioni.
E’ indubbio, infatti, che le società umane – proprio perché umane - mutano, che
le generazioni si susseguono con caratteristiche proprie sempre nuove, che gli ordinamenti
etici s’aggiornano, le istituzioni s’adeguano e, quindi, l’evoluzione anche dei
partiti politici non è “né buona né cattiva: è semplicemente inevitabile, è l’unico
modo per andare avanti”.
L’insigne giurista parte da un dato
oggettivo inconfutabile: in Italia e in altre nazioni europee (e non solo) si
moltiplicano formazioni politiche nuove, s’assiste a inarrestabili travasi da uno
schieramento all’altro, si stringono ibridi connubi fra forze antagoniste, divenute
d’un tratto associate nella gestione del potere: sempre, ovviamente, con la dichiarazione
di voler solo contribuire alla soluzione di problemi di “economia, di politica
estera e di riforme costituzionali”. Tradotto in termini più espliciti: nell’attuale
realtà politica delle Nazioni e degli Stati è ormai impossibile pensare a
vecchi o nuovi partiti maggioritari oppure sperare in qualche coalizione pluripartitica
stabile, cui affidare il governo. Non c’è posto, dunque, per un “centro di
governo”, ai cui lati si collocano una “destra” e una “sinistra” minoritarie e destinate
al loro ruolo insostituibile di opposizione critica e costruttiva. Il partito
politico, pertanto, non è né può essere più quello previsto dall’articolo 49
della Costituzione italiana, ma diventa quello che, captando gli umori delle varie fasce sociali del momento, propaganda
progetti e promette riforme “buone”, mirando però all’incremento del proprio
numero di elettori che andranno a votare. Calcoli, quindi, d’interesse
partitico a beneficio solo di una parte
e, perciò, avulsi dal bene comune e indifferenti ai valori umani sottesi
e alle finalità sociali da perseguire.
E’ un’analisi improntata a trasformismo
governativo e a pragmatismo politico, legittimi e rispettabili, ma che suscitano
alcune perplessità riguardo soprattutto due punti. In primo luogo, infatti, è
necessario stabilire quali sono – sempre e comunque – la ragion d’essere, la
natura e il ruolo del partito politico in una repubblica democratica. Bisogna
stabilire se esso è la risultante del libero e responsabile “concorso dei
cittadini con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (articolo
49 della Costituione) oppure il risultato variabile e transitorio dei giochi
tra i capi-partito. Preoccupano gli spettacoli quotidiani, in cui s’è costretti
a confermarsi nella convinione che i partiti odierni mirano solo a imporsi
contro tutto e contro tutti, attenti esclusivamente a demolirsi reciprocamente;
e, quando lo spettacolo è meno indegno, appaiono sempre più inequivocabili due
livelli sociali ben separati tra di loro: quello dei cosiddetti leaders che si
denigrano, scommettendo a chi offende di più, e quello del popolo laborioso e
serio, ormai disincantato e del tutto disinteressato alle umilianti e
sconcertanti beghe partitiche. E’ necessario chiarire, quindi, se i partiti
politici – nelle loro oggettive “mutazioni genetiche” storiche – si trasformano
per la spinta di nuove esigenze del bene comune oppure vengono costruiti per
calcoli settoriali e con tatticismi di dominio di alcuni settori, del tutto
estranei ai problemi dei cittadini.
In secondo luogo sembra necessario
intendersi su cosa siano “centro, destra e sinistra” nella vita politica d’una
repubblica democratica, intesa come potere del popolo, da parte del popolo, per
il raggiungimento di finalità di bene comune. Tradotto in vita pratica, la
democrazia è il “vivere insieme” nel rispetto della giustizia sociale e nella
salvaguardia della libertà individuale e collettiva. Senza assiduo, attento e
leale ascolto del popolo si rischia di “proporre e imporre” modelli di
giustizia e di libertà forse belli e affascinanti, ma non aderenti alla realtà
del popolo in un determinato momento storico e con particolari problematiche
etiche e sociali. La vita politica veramente efficace ha bisogno di un “centro”
inteso come punto di saggia e coraggiosa onvergenza delle istanze della
“destra” e della “sinistra”, che, se lasciate in balìa di se stesse, la prima
rimane puro cinismo (che può giungere a detestare la giustizia sociale e a
svilire alcuni sentimenti umani) e la seconda si rifugia in un puro irrealismo
(che – secondo l’insegnamento di Rousseau – preferisce sempre “ciò che non è a
ciò che è”).
Per quest’opera di mediazione culturale
e politica essenziale la democrazia ha bisogno dei suoi tempi e dei suoi ritmi,
che vanno sempre e comunque rispettati da chiunque sia chiamato al compito di
governare. Solo così si governa in nome e per conto di tutti i cittadini, qualunque
sia la loro fede politica. I cittadini, da parte loro, vanno necessariamente “educati
alla politica” quale loro dovere di solidarietà pubblica, per divenire attori e
protagonisti di politica e non rimanere individui “governati” perché bisognosi
di guida e di sostegno. E il luogo naturale, dove i cittadini possono educarsi
politicamente e agire attivamente nella società, è il partito politico. Non quello,
però, mutato in associazione di interessi settoriali e privati a sostegno di precarie
e mutevoli oligarchie partitiche, bensì come formazioni libere e animate da
ideali ed energie sempre nuove e disponibili a ogni mutamento richiesto da
realtà oggettive. Diversamente molti cittadini s’appartano, ma non per negligenza
politica o insensibilità etica, bensì per salvaguardare la loro lucidità
razionale e la loro libertà di pensiero: per proteggere, cioè, la propria
dignità umana dalle insidie d’una politica ridotta a furbizia messa al servizio
delle passioni di alcuni.