Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
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giovedì 4 marzo 2021

 

IL TEMPO DI PANDEMIA C’INTERROGA E CI SFIDA

Pubblicato su “Presenza Taurisanese”, anno XXXIX, n. 3, marzo 2021, p. 13

 

L’umanità lotta ormai da molto tempo contro una pandemia, che in tutto il mondo miete ogni giorno un gran numero di vite umane, crea gravi scompensi ecologici, causa pericolose crisi nel settore socioeconomico, costringe a profondi mutamenti nelle modalità anche delle relazioni interpersonali affettive e sociali. S’attende, perciò, come una vera liberazione che, grazie soprattutto all’apporto della scienza, venga vinta questa terribile sciagura. Molti credono – e forse sperano - che ciò avvenga quanto prima, per poter ricominciare la vita “normale” di prima, interrotta bruscamente dalla virulenza della pandemia, considerata spesso solo come un brutto improvviso accadimento, che, una volta passato, lascerà tutto com’era e ognuno potrà riprendere la propria vita dal punto dove era stato costretto a fermarsi. Probabilmente, però, la situazione non è così facile come si crede e si spera. Infatti, la pandemia - che sarà stata non una violenta tempesta momentanea, ma un ciclone vorticoso che ha scompigliato ogni realtà individuale e sociale - richiede una svolta radicale nel sistema socio-economico e nel modello etico-culturale, che l’umanità s’è creati e secondo i quali è vissuta finora. E’ la sfida che la Natura e la Storia lanciano all’umanità: ripensare le linee guida dell’organizzazione dell’attuale vita individuale e sociale, mutare radicalmente i principi in base ai quali poter pensare liberamente, sentire rettamente, vivere coerentemente, in modo che siano consoni alla dignità di tutti gli esseri viventi, rispettati nella loro integralità.


Davanti allo spettacolo terribile, che la pandemia presenta oggi agli occhi di tutti, torna alla mente ciò che ha scritto, in situazioni analoghe, Martin Heidegger all’indomani della seconda guerra mondiale, alla vista degli orrendi disastri causati dalla follia bellica dell’uomo “Siamo noi forse – si domandava il filosofo - alla vigilia della più mostruosa trasformazione della terra intera e dello spazio storico-temporale a cui essa è legata? Siamo forse alla vigilia di una notte che prelude un’alba nuova? Sta sorgendo solo ora questa terra del tramonto?” (Un detto di Anassimandro, 1946). In questo nostro tempo, invaso e dominato dall’aggressività letale d’un virus emerso improvvisamente, l’umanità assiste, incredula ed esterrefatta, a fenomeni gravemente distruttivi, per cui si chiede se si stia consumando la fase terminale d’una “mostruosa trasformazione” dell’intero sistema di vita terrestre, oppure se sia l’arrivo d’una forma di vita nuova, oppure se si tratti dell’imminente tramonto d’un presente che scompare, per cedere il posto ad altro per ora del tutto sconosciuto. Il genere umano, quindi, non sa se sta assistendo semplicemente alla trasformazione del presente o al nascere d’un futuro del tutto inatteso o al crudele ghigno d’una fine definitiva. Ovviamente s’avanzano diverse ipotesi interpretative di tali fenomeni e se ne ricercano eventuali rimedi. Misconoscendo la tesi dell’insana follia del negazionismo, c’è chi nella pandemia scorge un intervento punitivo di Dio, chi vede una dura rivolta della natura che rivendica i suoi diritti violati, chi constata semplicemente interferenze casuali nell’azione dei diversi elementi, chi chiama in causa la tracotanza dell’uomo alla ricerca ossessiva di ricchezza e di potere. Probabilmente ogni risposta ha il suo fondamento condivisibile o meno, ma ragionevole.


Da parte sua, il filosofo tedesco trovava e suggeriva, a suo tempo, la via segnata dal ritrovamento dell’autenticità umana smarrita, disprezzata e tradita. Sulle orme del pensiero già di Parmenide, ripreso e sviluppato, tra gli altri, da Einstein, affermava che l’esistente umano può vivere secondo due diverse modalità: secondo la “banalità” delle apparenze, cioè impegnandosi a prendersi “cura” delle cose contingenti del mondo e vivere totalmente preoccupato per esse, e secondo la “autenticità” delle realtà sostanziali, cioè – spiega a chiare lettere - disponendosi  ad accogliere virilmente e senza riserve la prospettiva della morte, vera e indiscutibile rivelazione della finitezza umana: essa soltanto è veramente capace di far emergere e far apprezzare l’esistenza propria del vivere umano. L’individuo umano, infatti, viene e si trova in vita senza averne la minima consapevolezza, ma ha piena coscienza che tutta la sua vita si svolgerà liberamente in un arco di tempo limitato; è in suo potere, quindi, scegliere e decidere i modi e gli scopi per cui vivere nel tempo a sua disposizione. Heidegger avverte esplicitamente: non c’è scampo: bisogna risolversi a vivere o alienandosi in realtà prive di autentico senso finale oppure impegnandosi in attività di seria e indiscussa valenza morale ed etica. La prima opzione sarà fonte di lotte individualistiche tra i singoli e tra le società, a caccia di possesso e di ricchezza anche mediante lo sfruttamento a danno di tutto e di tutti; la seconda opzione sarà - nei limiti delle capacità umane - fonte e garanzia di progresso reale realizzato grazie alla sinergia dei comportamenti convergenti degli umani e della terra.

 

A questo riguardo, particolarmente incisivi e significativi sono i ripetuti interventi di Papa Francesco in tutti questi mesi. “La pandemia – ha affermato recentemente,- non è un castigo divino, ma mette in luce le false sicurezze”. La pandemia, infatti, aggredendo gli esseri umani, s’è rivelata anche e soprattutto una grave crisi storica, che - come le grandi guerre del secolo scorso - ha investito tutti e tutto; pertanto, va analizzata responsabilmente sotto ogni suo aspetto e considerata onestamente in tutti i suoi risvolti possibili, negativi ed eventualmente positivi. Per questo, porgendo gli auguri natalizi alla Curia Romana, ha sostenuto autorevolmente: “Questo flagello è stato un banco di prova non indifferente e, nello stesso tempo, una grande occasione per convertirci e recuperare autenticità”. Ciò significa che l’umanità ha smarrito l’identità del suo essere e ha perduto anche l’autenticità del suo pensare e del suo agire; si è costruito un modello culturale, in cui di fatto resta vilipesa la dignità umana e vengono calpestati e persino negati i diritti della Terra. Momenti tragici come questi - a parere del pontefice – ricorrono “ovunque e in ogni periodo della storia, coinvolgono le ideologie, la politica, l’economia, la tecnica, l’ecologia, la religione. Si tratta di una tappa obbligata della storia personale e sociale. Si manifesta come un evento straordinario, che causa sempre un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare”.

 

L’umanità di oggi sta cogliendo il messaggio, che la Natura e la Storia le stanno inviando? E’ pronta a un’autocritica generale ed è disponibile a una revisione radicale del suo sistema di vita? Dare una risposta definitiva a quest’interrogativi è azzardato, perché bisogna attendere e verificare i comportamenti umani e le relative reazioni della Natura e della Storia. Al momento, però, non si notano segnali sicuri d’una revisione dei modi di pensare degli uomini e della loro volontà di risistemare il proprio agire. La pandemia, infatti, richiede una svolta radicale e convinta. Heidegger la sognava come “alba nuova”, Papa Francesco la invoca come “con-versione”. Considerato, però, che gli uomini – e soprattutto i reggitori della cosa pubblica - sono impegnati non tanto a rifondare e revisionare la vecchia e malata concezione del mondo, quanto piuttosto ad eliminare gli ostacoli, che impediscono il ripristino di ciò che c’era prima, nasce qualche dubbio, che genera perplessità e sfiducia. Non a caso il Pontefice Romano ha esortato più volte a non stare sempre a lagnarsi, ma – come ha raccomandato nel dare gli auguri di Natale - capire che “la pandemia impone maggiore sobrietà, attenzione discreta e rispettosa dei vicini che possono avere bisogno”. Riscoprire, cioè, che non esiste solo l’io con i suoi interessi, ma anche l’altro, che per il modello della cultura in atto è solo oggetto per il consumo. Sono opportune e necessarie nuove strategie di governo, sono auspicabili interventi mirati per un’equa distribuzione delle risorse disponibili, sono encomiabili inviti ed esortazioni alla solidarietà umana e alla cooperazione internazionale; però, se tutto ciò resta compiuto nello spirito, che domina attualmente nel mondo, si otterrà solo un’imbiancatura di facciata, ma la realtà sostanziale rimarrà immutata. Per un vero cambiamento di rotta è necessario preliminarmente una profonda metanoia dell’animo umano.

lunedì 2 novembre 2015

VATICANO, PAPA BERGOGLIO E LE SPERANZE NEL SINODO

Pubblicato su Affaritaliani il 19 ottobre 2015
 
Inizia la terza e ultima settimana dei lavori del sinodo dei vescovi, ormai divulgato come sinodo sulla famiglia. In realtà i problemi, su cui l’assemblea sinodale è chiamata a discutere e decidere, coinvolgono temi dottrinali e aspetti pastorali d’inestimabile valore per le ricadute sulla vita sia dei singoli che dei popoli. Sicuramente d’indiscusso rilievo rimane l’attenzione verso le angosce delle famiglie difficili o irregolari, che, in verità, hanno preoccupato la gerarchia cattolica sempre, ma, in modo costante e puntuale dal Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). Ora, dall’odierno sinodo si attendono valide decisioni più operative e più aderenti all’evoluzione della realtà sociale, compresa quella del riconoscimento dei diritti civili e della giustificazione etica delle coppie omosessuali. Ci si aspetta il coraggio da parte di tutti a non problematizzare l’evidente e a non creare difficoltà, dove vi sono soltanto realtà chiare, oneste e semplici. Era questo il significato anche dell’appello, che cinquant’anni fa il cardinale Suenens rivolse nella Basilica di san Pietro ai Padri del Concilio Vaticano II, proprio mentre discutevano sui problemi del matrimonio: ”Prego tutti voi, miei fratelli vescovi – implorò il Primate del Belgio -  evitiamo un nuovo caso Galilei! Uno è già sufficiente!”. Anche questa volta fa ben sperare il constatare che ben tre delle 27 Assemblee sinodali si siano concentrate sulla famiglia. 

Tuttavia, è di rilevanza davvero storica e annuncia probabili tempi meno guerreggianti e più solidali  - sia per la coesistenza delle diverse religioni e sia per le difficoltose relazioni internazionali - il comportamento “concretamente” rivoluzionario di papa Francesco, con cui ha dichiarato con semplicità e chiarezza il suo modo di concepire e gestire il “potere pontificio”, ch’egli immagina e programma non più ristretto nei termini tradizionali del primato pietrino. Rivelatore ed eloquente è stato lo scenario, che lui ha voluto offrire sabato scorso nell’Aula Nervi, in occasione della commemorazione del 50° anniversario del Sinodo, istituito da Paolo VI: si è visto non un Pontefice sul trono papale, che rivolge la sua parola a cardinali e vescovi seduti di fronte a lui ad ascoltare, ma un papa seduto intorno a un ampio tavolo, e con lui c’erano, anch’essi seduti e pronti a rivolgere la propria parola, porporati e presuli provenienti da tutte le parti del mondo.
La storia documenta come l'interpretazione radicale del decreto “Pastor aeternus”, con cui nel 1871 il Concilio Vaticano I aveva definito e stabilito l'autorità del primato del papa su tutta la terra (insieme alla sua infallibilità in materia di fede e di morale) sia stato in realtà l'ostacolo più forte, che ha impedito il dialogo fra le confessioni religiose e un rapporto positivo e costruttivo con i poteri laici delle società e degli stati. A riconoscere ciò è stato vent’anni fa lo stesso papa san Giovanni Paolo II: “La convinzione  della chiesa cattolica - scriveva nel 1995 nell’enciclica “Ut unum sint” - di aver conservato, in fedeltà alla tradizione apostolica e alla fede dei padri, nel ministero del vescovo di Roma, il segno visibile e il garante dell'unità costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani”. Ecco, allora, il paradosso, a cui papa Francesco non riesce ad arrendersi: il vescovo di Roma, da strumento e garante di unità e di pace, è stato fatto segno di divisione e di contrasti. L’umanità – non solo credente o cattolica - finalmente guarda a questo papa che, continuando sulla strada tracciata già dalla fine della seconda guerra mondiale col papato di Pio XII, sta portando a buon fine la riflessione e la soluzione del problema del rapporto tra il potere del pontefice e quello del collegio episcopale. E ciò grazie al rispetto della sinodalità codificata mezzo secolo fa da papa Montini. 
Facendo eco alle parole di papa Wojtyla, con cui esortava a “Trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova”, papa Francesco sabato scorso ha ribadito “la necessità e l’urgenza di pensare a una conversione del papato”, ricordando che “l’impegno a edificare una Chiesa sinodale è gravido di implicazioni ecumeniche”, in quanto  “Il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come battezzato tra i battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi, chiamato al contempo – come successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese”. 

Non può essere la vita reale del mondo a doversi limitare e adattarsi alle esigenze della Chiesa e della religione, ma il contrario. Non possono le leggi – anche religiose - ostacolare lo sviluppo dell’umanità, ma debbono rispettarlo, accompagnarlo, sostenerlo e guidarlo mediante un attento e continuo dialogo. Nessuno può servirsi del mondo per scopi anche nobili, ma tutti debbono essere disponibili per il conseguimento e l’accrescimento del benessere e della felicità degli uomini. E lo sottolinea ancora papa Francesco, quando, ricordando come Paolo VI prospettava un organismo sinodale che “col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato”, esorta: “Dobbiamo proseguire su questa strada (…). Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”.