Chiuse le urne e sfogliate le schede elettorali, tutti i partiti sono
impegnati a fare i conti e tracciare bilanci, concentrati a indovinare a favore
di chi sta girando il vento. Comunque, può ritenersi chiuso il tempo della
campagna elettorale per le consultazioni amministrative (dai toni non sempre
raffinati e dalla qualità spesso mediocre); ed è giunto il tempo di
dedicarsi alla conoscenza seria e alla valutazione ponderata delle problematiche
inerenti al referendum costituzionale, che si terrà in ottobre e con cui i
cittadini italiani sono interpellati se approvare o respingere la riforma
voluta dal governo in carica.
Il testo di legge - lungo e piuttosto complicato – comprende contenuti notevoli
e destinati a cambiare in maniera significativa il funzionamento dello Stato
e delle sue Istituzioni. Se approvato, la “Repubblica Democratica” italiana
non sarà governata più dal Parlamento composto da due Camere con ruoli uguali e
competenze ripetitive; il suo Governo sarà investito del suo Potere Esecutivo
mediante la fiducia della sola Camera dei Deputati; il Senato avrà composizione
e ruolo del tutto inediti; nuove norme regoleranno i rapporti tra il Governo
Nazionale e le Assemblee dei vari Enti Locali; saranno introdotte importanti
novità riguardo la procedura dell’elezione del Presidente della Repubblica e
nuovi criteri per la designazione dei componenti della Corte Costituzionale.
Si tratta, insomma, d’un documento legislativo, con cui si propone una serie
di modifiche ed emendamenti, che darà un volto radicalmente innovativo
all’intera organizzazione governativa dell’Italia del XXI secolo. Per questo ci
sarà bisogno sia d’un popolo diligentemente informato e responsabilmente
coinvolto, e sia d’una classe politica dalle competenze adeguate e
disponibile ai frequenti e tempestivi aggiornamenti, che richiederanno sia l’evolvere
talora repentino delle situazioni e sia la sempre maggiore necessità di efficienza
operativa dell’intera macchina politico-amministrativa del Paese. Si tratta,
quindi, d’una svolta politica decisiva, che richiede, oltre alle ovvie
dotazioni tecniche e giuridiche, anche e soprattutto una generale formazione
culturale rinnovata, grazie alla quale l’intera Nazione sappia intercettare e accogliere
ogni emergente istanza del nuovo, innestandola - con l’indispensabile “prudenza
politica” – sull’eredità del passato (che va sempre e comunque valutato e
rispettato) e armonizzandola col presente e nella prospettiva del futuro, cui
ogni generazione vuole legittimamente ambire.
Appare subito chiaro che la partita in gioco è di estrema importanza:
si tratta, infatti, di scelte decisive, che determineranno la qualità
della vita del popolo italiano di oggi e di domani. Per questo è assolutamente
prioritario che agli elettori siano illustrati i contenuti della legge oggetto del referendum
con spirito di collaborazione costruttiva, in modo sincero e veritiero,
con opportuna pacatezza di argomentazioni e con la dignità di linguaggio richiesta
dall’argomento; senza timore di esplicitare ogni intenzione (anche non
immediatamente palese), di riconoscere possibili contraddizioni in cui si è
dovuti cadere, anzi, evidenziando probabili rischi, cui sarà possibile (o anche
necessario) incorrere, pur di perseguire obiettivi reali di progresso e di bene
comune. Essere disponibili al confronto e al dialogo, difendere le proprie idee
riconoscendone pregi e difetti, accogliere suggerimenti utili per miglioramenti
evidenti è sempre e comunque dimostrazione di maturità etica e prova di saggezza
politica.
Quello, invece, che viene offerto ai cittadini in questa circostanza appare
uno scenario molto diverso e comunque molto lontano da quello che serve. Si
ha la sensazione che si voglia trattare l’elettorato alla stregua di tifoserie
calcistiche da ben organizzare e istruire. Da una parte, infatti, è
stato stilato l’appello dei cosiddetti “costituzionalisti contrari alla riforma
costituzionale” (immediatamente e aprioristicamente definiti – proprio da chi
forse dovrebbe rimanere al di sopra delle parti - “archeologi che credono di difendere il
codice di Hammurabi”), dall’altra parte è stato contrapposto e diffuso
il “manifesto delle ragioni del sì”, sottoscritto da un nutrito gruppo di
costituzionalisti e intellettuali, che si presenta come chi, “dopo anni e anni
di sforzi vani (…), affronta efficacemente alcune fra le maggiori emergenze
istituzionali del nostro Paese”. Leggendoli entrambi, per la genericità
aleatoria del contenuto, per il tono sconveniente all’elevatezza dell’argomento
e poco riguardoso dell’intelligenza dei cittadini, fanno rimpiangere i
“Manifesti” degli intellettuali fascisti e antifascisti di novant’anni fa
(1925), che pure non brillarono molto per imparzialità dottrinale e
lungimiranza politica, nonostante la riconosciuta autorevolezza dei loro
promotori. Tanto può fare la “passione
politica”, se incontrollata.
Oggi, però,
i cittadini italiani non sono chiamati a sostenere e far trionfare una di due
proposte opposte, ma a “contribuire democraticamente” a creare l’unico
documento necessario e utile per la più onesta e più efficace strutturazione del governo della
società. Ai cittadini interessa sostanzialmente che siano salvaguardate la
sovranità popolare (essenziale per una “democrazia” e come sancito nell’articolo
1 della Costituzione) e la libertà personale
e collettiva (conquistata e donata loro dai propri padri). La graduale usurpazione
di questi due valori fondamentali e irrinunciabili ha allontanato molti (circa
la metà degli elettori non più votanti!) dalla politica, in quanto si sono visti
deprivati – in maniera progressiva, ma sostanziale e talora con
ingannevoli tatticismi partitici - della loro sovranità, affidata all’esercizio
del voto “personale ed eguale, libero e segreto” (articolo 48 della Costituzione),
essendo stati ridotti di fatto ad avalli, rituali e obbligati, di scelte decise
da pochi e al di fuori dal popolo, anche quando si proclamava da tutte le parti
di agire per il bene del popolo. Senza sovranità sostanziale non ci può essere concreta
pienezza di libertà né di pensiero né di azione.
Dal momento, quindi, che la prossima riforma costituzionale regolerà l’intera
vita futura del popolo italiano, è essenziale che a deciderla
definitivamente sia il popolo, coinvolto il più direttamente possibile e mediante
procedimenti condivisibili e rispondenti alla forma “Repubblicana-Democratica”
dello Stato e del Governo. E non si può fingere di non sapere che il mutamento
della forma dello Stato e del Governo si può perseguire in tanti modi. Mutando,
per esempio, qualche formale, ma significativa “sovrastruttura” funzionale, di
fatto resta modificata anche la “struttura essenziale e sostanziale” della
Carta. Certo, nel contesto politico europeo e intercontinentale, è risibile sentir
paventare la “deriva autoritaria” o, all’opposto, veder brandire il fantasma della
“palude”. Così come è assurdità
istituzionale e contraddizione politica legare il destino d’un Potere Esecutivo
e addirittura il futuro d’un Premier a un esito referendario. A meno che non si
vogliano nascondere biasimevoli forme ricattatorie. La Costituzione va
aggiornata, perché ne ha bisogno, secondo anche l’avvertimento del Calamandrei,
che già novant’anni fa, in occasione della festa della Repubblica, affermava che
si celebrava la “festa dell’incompiuta”.
Il popolo
sovrano è chiamato ad esprimersi non sull’opinabilità di messaggi più o meno veritieri e opportuni, ma su
temi vitali e ben definiti. A tal fine, è necessaria una sola cosa:
abbandonare ogni interesse privato e ogni settarismo partitico e spiegare al popolo,
in maniera “schietta e popolare”, quanta verità certa e quanti sottintesi
pericolosi sono contenuti nella riforma costituzionale proposta, dileguando le
ombre che oscurano soprattutto alcune questioni nevralgiche, come le innegabili
ripercussioni del combinato disposto di riforma costituzionale-legge
elettorale.
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