Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

sabato 29 dicembre 2018

Dicembre 2018 – Brogliaccio Salentino, Gigi Montonato recensisce “La poetica di G. C. Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo”, di L.Corvaglia, riedizione a cura di Cosimo Scarcella

Sta per concludersi a Melissano il biennio di studio su Luigi Corvaglia (Melissano 1892 – Roma 1966) per il cinquantenario della sua morte, condotto da Cosimo Scarcella.

Aperto con la pubblicazione del volume Introduzione allo studio di Luigi Corvaglia da Melissano (Tuglie, 2017), autore lo stesso Scarcella, va in epilogo con la pubblicazione di un’opera corvagliana, a cui l’Autore teneva particolarmente: La poetica di Giulio Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo, pubblicata per la prima volta nel 1959 sul “Giornale critico della filosofia italiana” di Giovanni Gentile, sessant’anni fa. Atmosfere celebrative diffuse, se consideriamo che Giulio Cesare Scaligero, nato nel 1484, morì nel 1558, dunque 460 anni fa. La sua Poetica (Poetices libri septem) vide luce a Lione, postuma, nel 1561 a cura del figlio Silvio, a cui era stata dedicata. Quando si dice le coincidenze! Anche l’opera inedita di Corvaglia sarebbe stata pubblicata dalla figlia.
Tanto, per l’aspetto editoriale dell’evento, al netto di manifestazioni preparatorie e collaterali che hanno scandito il biennio corvagliano e che si concluderanno con un convegno nazionale nell’aprile
del 2019.
L’evento celebrativo ha avuto il supporto politico e amministrativo del Comune di Melissano, proseguirà con la creazione di un Centro Studi Corvagliani, per dare carattere meno episodico alla centralità di Luigi Corvaglia nella vita culturale del natio centro salentino. Ricordiamo che nel 1986, in ricorrenza del ventennale della sua morte, Corvaglia fu ricordato dal Comune di Melissano con un convegno, cui presero parte Donato Valli, Luigi Scorrano, Gino Pisanò e Quintino Scozzi, e fu murata una lapide sulla facciata della sua casa. Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso fu pubblicata a sua Opera Omnia, relativamente ai suoi studi vaniniani, a cura della figlia Maria e di Gino Pisanò (Galatina, 1990-1994).

Corvaglia fu anche uomo del suo tempo e del suo luogo. Profuse molto del suo impegno militante in opere politiche, che andrebbero riproposte e studiate; in opere letterarie, che contribuiscono come poche a definire quella che chiamiamo identità salentina; e in materiali documentali. Mi riferisco al suo romanzo Finibusterre, ai suoi drammi e alla corrispondenza epistolare, da lui stesso ordinata, con tantissimi personaggi del tempo, politici e intellettuali. Né ci sembra di minore importanza affrontare l’aspetto storico del Corvaglia, di cui si sa ancora poco, con un profilo biografico più rispondente a più approfondite finalità d studio.

Nella circostanza editoriale dell’Opera Omnia, oltre alle due opere del Vanini, furono pubblicati i suoi famosi inediti, quelli del terzo volume (poi terzo e quarto) degli studi vaniniani, che Corvaglia non potette pubblicare da vivo per diversi motivi, ampiamente spiegati dai curatori. Rimase fuori da quell’edizione – non è chiaro perché – il saggio sulla Poetica dello Scaligero, autore a cui pure è dedicato il secondo tomo del terzo volume, il più corposo. Forse perché quell’opera non era tra le fonti utilizzate dal Vanini e poteva non entrare organicamente in un’impresa editoriale dal titolo molto preciso: Le opere di Giulio Cesare Vanini e le loro fonti.

Quel saggio riappare oggi a cura di Scarcella, con un prodromo di Alessandro Conte (Sindaco di Melissano) e con la presentazione di Fabio D’Astore (Neviano, Musicaos, 2018, pp. 132).
Operazione azzeccata e di molta utilità per quanti si avvicinino alla conoscenza e allo studio di Corvaglia, uomo e filosofo. Scarcella ha colto un aspetto del rapporto Corvaglia-Scaligero che illumina non poco gli studi corvagliani sul filosofo veronese, fino ad evidenziare affinità caratteriali e biografiche fra i due. Nota Scarcella: “Nel leggere le singole parole con cui il melissanese descrive la psicologia dello Scaligero, viene spontaneo immaginare, per chi ha avuto relazioni amicali o di semplice conoscenza col Corvaglia in vita, ch’egli stesse descrivendo Scaligero, ma pensando a se stesso” (p. 33).
Scaligero e Corvaglia si somigliano: sono collerici, violenti, polemizzano come gladiatori, sono entrambi valetudinari. Corvaglia, estrapola dal suo studio scaligeriano la parte della Poetica e decide di affidarla al Gentile per pubblicarla perché presente di morire senza poter pubblicare l’intera monografia, a cui teneva tantissimo.

Fu facile profeta di se stesso. La sua grande monografia scaligeriana sarebbe rimasta incompiuta e inedita. Ecco perché volle almeno compiere un atto di simpatia umana e di riconoscimento all’autore della sua vita, che evidentemente non era Vanini, come si crede per altri motivi, ma proprio Scaligero. E se avesse potuto dimostrarlo, portando a compimento l’impresa, sarebbe stato il meritato coronamento del suo lungo lavoro di studioso. Volle pubblicare la genesi e lo sviluppo della Poetica, quasi in risposta a quanti avevano rilevato mende importanti nel lavoro dello Scaligero, a volte anche malevolmente e senza dare supporti critici necessari. Corvaglia, senza dare giudizi ma col suo solito metodo, quasi avvocatesto, smonta l’opera scaligeriana fino a ridurla alle sue componenti costitutive, ne analizza i contenuti con rimandi storici e filologici puntuali e con le funzionalità tecniche e dottrinarie di ognuna di esse nell’insieme.

La cornice storica e l’apparato critico che aggiunge Scarcella allo scritto corvagliano conferiscono completezza e danno risalto all’opera e al suo contesto.

domenica 9 dicembre 2018

L’UOMO E’ UNO SCOLARO, E IL DOLORE E’ IL SUO MAESTRO

L’UOMO E’ UNO SCOLARO, E IL DOLORE E’ IL SUO MAESTRO

 “L’uomo – sentenziava il Mahatma Gandhi - è uno scolaro, e il dolore è il suo maestro”. La massima, ovviamente, non significa pessimisticamente che la vita umana sia sempre e solo dolore e sofferenza; è  solo la constatazione realistica che solo il dolore e la sofferenza plasmano l’essere umano forte e maturo, forgiandone tenacemente l’intelletto, l’anima, la coscienza e la volontà. Gli eventi dolorosi nel camminare per i sentieri impervi e bui dello scorrere del tempo e i tormenti strazianti delle scelte periodiche richieste improvvisamente dal corso dell’esistenza umana sono come dure e forti martellate, con cui il dolore proprio della vita scalpella il marmo informe della natura umana, ricavandone forme mirabili di vigore e sculture di rara sublime dignità. Non è certo con le morbidezze d’un petalo di rosa, che accarezza dolcemente un batuffolo di lana, che si possono incidere marmi e pietre vive. Figuriamoci caratteri vivi, decisi, fermi e stabili: capaci, cioè, di avviarsi per il cammino ignoto e imprevedibile della vita  con decisioni lucide e nette e con scelte radicali e definitive. E questo essere martellati comporta, di necessità, uno stato di vita interiore di perenne sofferenza e lotta con se stessi. Una lotta, però, che, mentre fa sanguinare le fibre più intime dell’animo, germina il sorriso sulle labbra e la tranquillità nell’anima. 

L’essere umano, infatti, agogna la tranquillità e la serenità; e si sforza di raggiungerle e di ottenerle, rimuovendo attentamente dalla sua vita quotidiana ogni ostacolo che gli si presenta e ogni occasione di contrasto, in quanto è convinto che i suoi turbamenti e le sue sofferenze siano generati soprattutto dal mondo a lui esterno e, in primo luogo, dalla rete intricata e confusa delle sue relazioni sociali. Ma, avvertiva ancora il Mahatma Gandhi, “serenità è quando ciò che dici, ciò che pensi, ciò che fai, sono in perfetta armonia”. Bisogna avere il coraggio, quindi, di scoprire fino in fondo chi siamo davvero noi, senza paura di riconoscerlo e di accettarlo nella sua totalità. Anche perché tu e io – si dicono spesso le persone che pensano d’amarsi - non siamo che una cosa sola. Di conseguenza, non posso fare a te  del male senza, nello stesso tempo, colpire anche me. E nessuno può farci più male di quello che noi facciamo a noi stessi. 

Pertanto, è necessario, per una vita che abbia senso di realtà e di verità, vivere nel momento concreto, ma nutrire nel cuore sogni alti, anche se possono sembrare assurdità e follia: solo in questo modo si vive da esseri umani. Senza covare sogni nutriti gelosamente e sperati fortemente, si smarrisce il senso della vita, che diviene così un continuo girovagare insensato dello spirito: il senso del vivere quotidiano  si trova dove collochiamo il nostro cuore, non dove risiede il nostro corpo. E il cuore non pulsa soltanto, ma parla e comunica: non con urla che tutti possono udire, non con sussurri che sentono solo i vicini, ma col silenzio – sempre tormentato e spesso doloroso - che sente solo chi ci ama. 

Questo insegna il dolore: esperto maestro di chiunque voglia essere suo scolaro attento.




mercoledì 28 novembre 2018

IL “POPOLO” E’ IL SOVRANO SEMPRE AFFIDABILE E GIUSTO?


Si esprimono queste riflessioni, con l’ausilio del pensiero e della testimonianza di personalità del passato, non per una comoda cautela nell’esprimere palesemente nostri convincimenti personali e nemmeno con la mira d’accattivarci il consenso altrui, bensì perché possa sollecitare efficacemente la riflessione critica e la valutazione serena di molte situazioni, in cui oggi si vive, in Italia e non solo. Per questo richiamiamo il pensiero di Platone e di Cicerone: il primo, voce esperta e autorevole della cultura greca; il secondo, audace testimone e solutore acuto di non poche crisi della vita politica della Roma del suo tempo; entrambi contrari a forme governative di natura autoritaria e favorevoli a forme, che oggi chiameremmo democratiche.
Premesso che le forme di governo di quei tempi avevano senso, modalità e nomi diversi da quelli odierni, si possono, tuttavia, individuare alcune concezioni e alcune funzioni comuni a quelli dei nostri giorni: come “sovrano e sudditi”, “governanti e governati”, “giustizia sociale e libertà individuale”, “diritti e doveri”, cioè, alcuni capisaldi d’ogni dottrina politica, morale privata, etica pubblica, convivenza civile. Ora, nel quadro politico delle nazioni e degli stati odierni si dà  quasi per scontato – eccetto per i governi palesemente tirannici e dittatoriali - che i governi siano generalmente ispirati a “democrazia”, in quanto di dà per acquisito che la fonte e la garanzia d’ogni autorità sia il “popolo” nelle modalità più disparate. 
Platone, già due millenni e mezzo or sono, manifestava molte perplessità sulla democrazia, poiché dubitava della reale capacità del popolo “governato” di dettare con saggezza e di controllare con giustizia l’azione dei governanti. E documentava il suo atteggiamento con due considerazioni d’ordine generale. Primo, ogni sistema democratico – come testimoniano i fatti della storia - è destinato o a corrompersi in demagogia (oggi si direbbe “populismo”) o a far germinare nel suo stesso seno  la “malerba della tirannia” (oggi molto diffusa, anche se in modo camuffato e sfrontatamente negato). Secondo, il popolo è un’astrazione; nella realtà è un insieme eterogeneo di soggetti, che vanno formati con responsabilità per tutto il corso della loro esistenza e orientati saggiamente nelle diverse congiunture. E rimane sempre, comunque, un attore fallibile, come dimostrarono largamente le vicende occorse al suo maestro Socrate, il quale - primo vero martire della democrazia  - fu condannato a morte, ufficialmente per le accuse (infondate e smentire) di corrompere i giovani e di incitare all’ateismo, ma in realtà perchè politicamente nemico della democrazia appena nata in Atene. Fu condannato da giudici designati democraticamente proprio dal popolo, il quale però, riconosciuto subito dopo il proprio errore, condannò e punì gli stessi giudici che prima aveva ritenuto capaci e competenti. 
A questo punto il filosofo greco cerca di trovare i motivi per cui il popolo, che ha tanto lottato per conquistare la democrazia, fa quasi di tutto per farsela strappare. E ritiene di giungere a questa conclusione:  In un ambiente, in cui il maestro teme ed lusinga gli scolari e gli scolari non tengono in alcuna considerazione i maestri; in cui tutto si rimescola e si confonde; in cui chi comanda, (per poter comandare sempre di più), finge  di mettersi al servizio di chi è comandato e ne blandisce tutti i vizi, per poterli sfruttare meglio; in cui i rapporti tra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle rispettive convenienze nelle rispettive tolleranze (…) la democrazia, per sete di libertà e per l’incompetenza dei suoi capi, precipita nella corruzione e nella paralisi. Allora la gente si separa da coloro, cui attribuisce la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla: prima coi sarcasmi, poi con la violenza. Così la democrazia muore: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo (La Repubblica, cap. VIII). In questo senso Platone si rivela molto moderno: i giovani vogliono apparire più preparati degli anziani e spesso pensano che con l’urlare dimostrano la maggiore validità del proprio pensiero; gli alunni spesso deridono gli insegnanti, i quali, per non esser considerati troppo autoritari e fuori moda, accontentano le loro richieste, non preoccupandosi di trasmettere loro cultura sostanziata di valori e di regole. Gli alunni, invece, che si mostrano ligi ai doveri nel rispetto delle norme, vengono esclusi dal gruppo, divenendo talora vittime di bullismo.  
Ogni popolo – si sentenzia   - ha il governo che si merita. E’ probabile. Ma, se ciò è vero, è molto più vero che ogni popolo è il risultato dell’educazione umana e della formazione politica, che i governanti gli hanno consentito d’acquisire. Ciò che è certo ce lo documenta la storia: in tutti i tempi molti potenti sono sorti e si sono retti sulla “ignoranza” dei cittadini, ai quali viene negata tutta o in parte la verità. Populismi e statalismi nascono e si sostengono sulla progettata carenza di cultura del popolo.  Di conseguenza, quando un cittadino non è tempestivamente educato al senso d’appartenenza e al sentimento di solidarietà corresponsabile, accade che, mirando solo a vivere bene, non s’interessa più al bene comune, ma al bene proprio anche a danno dell’altro. Perdendo la propria libertà, in quanto divenuto “schiavo” del suo egoismo asfittico.
“La libertà – interviene, infatti, Cicerone - non consiste nell'avere un padrone giusto, ma nel non averne alcuno” (De Re Publica, II, 23). Non avere alcun padrone significa, però, essere padroni di se stessi, sviluppando, controllando e gestendo ogni dimensione propria dell’essere umano. E questo richiede la formazione dell’uomo e del cittadino. L’uomo non nasce essere umano, ma lo diventa gradualmente mediante lo sviluppo della propria personalità in tutti i suoi aspetti, primo fra tutti il senso della socialità, cioè del bisogno dell’altro per una vera completa umanità. L’altro non sminuisce né frena la nostra totalità, anzi è l’elemento necessario grazie al quale possiamo dirci ed essere partecipi del genere umano.
Il bambino nasce nella famiglia, cresce nella famiglia e nella scuola, si prepara ad affrontare la vita nella società. La adulterazione di uno di questi ambienti comporta, di necessità, la carenza di umanità nell’adulto futuro. Per non cadere nel gioco dello scaricabarile, è sufficiente che ciascun ambiente adempia al suo compito. Certo, dovremmo immaginare famiglia, scuola, società ideali, e l’ideale non è e non può mai divenire  reale. Ma l’ideale è la forza motrice dell’agire umano, in quanto indica e illumina, regolandola, la meta verso cui dirigersi. Forse, oggi, queste tre istituzioni basilari indicano ben altri ideali. E l’uomo e l’umanità marciano verso di essi, il cui esito finale è difficile prevedere.


mercoledì 21 novembre 2018

COMPITO DELLA CULTURA NELLA POLITICA DI OGGI



Proporre analisi o suggerire rimedi in termini culturali alle prassi politiche d’oggi, a qualunque livello esse operino, potrebbero suscitare risate umoristiche o addirittura apparire uno stravagante scherzo ironico. Politici, storici, economisti, infatti, gareggiano d’ingegno nell’individuare le cause prossime e remote dei tanti disordini sociali, che serpeggiano in ogni parte del mondo, dalle ribellioni dei cittadini contro i poteri costituiti fino ai sanguinosi conflitti armati tra le nazioni e i diversi popoli. In queste analisi, quasi sempre, vengono analizzati gli aspetti esteriori di tali fatti, per i quali - con logica conseguenza – si indicano come rimedi risolutivi, mutamenti esteriori: o ordinamenti giuridici più severi o sistemi politici opportunamente aggiornati o strategie e tattiche di marketing tempestivamente rinnovate o confederazioni di popoli nuove e validamente strutturate. E’ chiaro che in questa prospettiva tutto viene ridotto a problema giuridico e socio-economico, nel cui campo non s’intravede e non si assegna alcun ruolo attivo ed efficace alla cultura. D’altra parte, quale aiuto o aspettativa ci si potrebbe aspettare dalla cultura, dal momento che gli eventi s’inseguono così rapidamente che non concedono alcun intervallo da dedicare alla riflessione e alla valutazione: vengono a mancare così sia la necessaria e pacata lucidità della ragione sia la vigile e tenace vigoria della volontà, presupposti indispensabili per ogni valutazione oggettiva dei fatti e per ogni intervento lungimirante.


Chiunque, però, voglia e sappia scrutare le cause profonde delle insensibilità disumane, che generano divisioni e lotte, ingiustizie e aggressività, povertà e miseria tra gli uomini e tra i popoli in questi tempi, non può non riconoscere che non si tratta solo di degenerazione di alcuni organi istituzionali e di corruzione di alcune funzioni private e pubbliche, bensì di depravazione - nell’intero organismo sociale – di ciò che esso ha di sostanziale e di più profondo, per cui non a torto – sembrerebbe - gli uomini di cultura hanno spesso dubitato e dubitano tuttora che la loro presenza attiva nella vita politica (vista dai più come sontuoso paludamento dei politici’ scaltri, ma priva di vera e fattiva rilevanza) potrebbe essere considerata e concretamente usata solo come una collaborazione di “utili idioti”, per cui prendono poca parte nell’attività politica, in cui palesemente non s’ascolta la correttezza d’un parere, ma s’incorona col successo chi segue le tendenze e si getta nell’oscurità e nell’indifferenza chi vi s’oppone.

Ai nostri giorni, però, s’impone la necessità d’un supplemento di cultura nei “popoli” e nei loro “governanti”, cioè nella vita politica nel suo complesso. E’ più che sufficiente osservare la qualità e i toni della lingua generalmente usata per esprimere valutazioni su amici e nemici (pare n esista più “l’avversario” politico) e per lanciare giudizi su tutto e su tutti: tanta è la virulenza e il sarcasmo che non è dato quasi mai distinguere il vero dal falso. E questo è nocivo per tutti i cittadini. Già quindici anni or sono Norberto Bobbio scriveva: “Non vi è cultura senza libertà, ma non vi è neppure cultura senza spirito di verità. Le più comuni offese alla verità consistono nelle falsificazioni di fatti o nelle storture di ragionamenti”. Affermazione che fa meditare con preoccupazione.

 A questo male non si ripara, però, facendo ricorso all’intervento nella politica dei cosiddetti ‘tecnici’. Questi vengono richiesti dagli apolitici, che pretendono di separare politica e tecnica, benché siano consapevoli che il tecnico non avrà mai le competenze necessarie per capire e risolvere il tanto decantato bene comune. E nuovamente ci ammonisce Bobbio: “Tecnica apolitica vuol dire in fin dei conti tecnica pronta a servire qualsiasi padrone, purché questi lasci lavorare e, s'intende, assicuri al lavoro più o meno onesti compensi; tecnica apolitica vuol dire soprattutto che la tecnica è forza bruta, strumento, e come tale si piega al volere e agli interessi del primo che vi ponga le mani. Chi si rifugia, come in un asilo di purità, nel proprio lavoro, pretende di essere riuscito a liberarsi dalla politica, e invece tutto quello che fa in questo senso altro non è che un tirocinio alla politica che gli altri gli imporranno, e quindi alla fine fa della cattiva politica”. Dietro le parvenze del tecnico apolitico Bobbio intravedeva il politico incompetente, che è privo delle conoscenze necessarie, per cui non sa come procurarsele e in genere resta solto un politicante. Un tema, come si vede, di chiara attualità nel dibattito politico: si deve rendere la politica consapevole dell'importanza della conoscenza accurata dei fatti e del rigore nell'argomentazione. Cioè della cultura.






mercoledì 7 novembre 2018

L'EUROPA NON E' SOLO DEMOCRAZIA


Vale la pena dedicare alcuni minuti, per leggere e riflettere su alcuni stralci della “Opinione”, che Maurizio Ferrera ha pubblicato sull’odierno “Corriere della Sera”, con l’auspicio che sia fatto oggetto di un sereno “dialogo” fra cittadini europei.

L’EUROPA NON È SOLO BUROCRAZIA di Maurizio Ferrera

Le elezioni europee del prossimo maggio avranno luogo alla fine di un vero e proprio «decennio orribile» per la Ue. Prima il terremoto finanziario importato dagli Usa, poi quello del debito sovrano. La Grande Recessione, con i suoi costi sociali. E, ancora, gli attentati terroristici, la crisi dei rifugiati, lo tsunami dell’immigrazione, la Brexit. Un’inedita sequenza di choc, che hanno fatto vacillare le fondamenta dell’Unione. Eppure l’edificio non è crollato. Al contrario, sono stati intrapresi alcuni passi verso una maggiore integrazione economica, avviando un delicato percorso di condivisione dei rischi. Non si è fatto abbastanza, certo, e su alcuni fronti (ad esempio la dimensione sociale) si è persino tornati un po’ indietro. Ma nel suo complesso l’Unione ha saputo resistere alle enormi tensioni. Anche se insicurezza e paure non sono scomparse, la stragrande maggioranza dei cittadini europei (Regno Unito escluso) ha recuperato oggi fiducia nella Ue. A dispetto delle varie tempeste, quella che potremmo chiamare l’«Europa di tutti i giorni» ha continuato imperterrita a funzionare (…).

Nel grande dibattito sulla Ue, nessuno considera questa Europa di tutti i giorni. La ragione è semplice: fa così parte del nostro mondo che abbiamo smesso di percepirla. Siamo diventati come i «bambini viziati» di cui parlava il filosofo spagnolo Ortega y Gasset negli anni Trenta del secolo scorso. Così come la democrazia liberale, diamo ormai per scontata anche l’Europa integrata: i suoi benefici, le sue opportunità quotidiane. Della Ue i media e i politici parlano in genere come un’entità astratta e lontana, tendono a vederne gli aspetti che non funzionano. Per sentire parole di apprezzamento e ammirazione dobbiamo attraversare i confini esterni, entrare in contatto con chi vive sotto un regime oppressivo (…).

Sottolineare la vitalità e i pregi dell’Europa di tutti i giorni non significa disconoscerne i difetti come sistema istituzionale. Al contrario, è una ragione in più per dispiacersene e per spronare chi ci governa a correggerli. Ortega y Gasset diceva che sono proprio le élite a dover difendere tutto ciò che i «bambini viziati» danno per scontato. I sondaggi rivelano che esiste ancora un vasto potenziale elettorale per un rilancio del progetto d’integrazione. Le indagini sugli orientamenti delle classi politiche nazionali sono meno confortanti. A questo livello prevale una percezione «strumentale»: la Ue è un bene solo se è vantaggiosa per il proprio Paese, è un sistema di regole da usare finché conviene. Non lo dicono solo i leader sovranisti (che giocano a fare i «bambini arrabbiati») ma anche segmenti importanti dei popolari e, seppur in misura inferiore, di socialisti e democratici. Le prime comunità europee furono create da Padri Fondatori responsabili e lungimiranti. La Ue di oggi sembra invece un’orfana lasciata a se stessa.

L’infrastruttura dell’Europa di tutti i giorni ha dato prova di robustezza e può procedere col pilota automatico. Ma non a lungo. In vista delle elezioni di maggio, abbiamo un disperato bisogno di élite capaci di far leva sul tessuto «banale» di connessioni a livello economico e sociale per smorzare i conflitti politici. Servono nuovi leader che emergano dal basso, espressione di quelle maggioranze silenziose che si trovano a proprio agio in una Unione sempre più stretta. E che proprio per questo vorrebbero che la Casa Europa diventasse meno litigiosa, più solida e resistente alle inevitabili intemperie della globalizzazione.

Maurizio Ferrera