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mercoledì 21 aprile 2021

 

CHI E’ IL POPOLO NELLA DEMOCRAZIA?

Pubblicato in Presenza Taurisanese a. aprile 2021,n. 327, pp. 13-14 

                                             Pubblicato in Iuncurae  il 30 aprile 2021

Non c’è società umana, organizzata civilmente e strutturata politicamente in un ben definito ordine giuridico, che non contempli il legittimo detentore della sovranità, riconosciuto e condiviso da tutti i cittadini. Anche nelle società organizzate e governate secondo la forma democratica, quindi, c’è il titolare della sovranità; ed è il démos, cioè il “popolo”, che, in quanto sovrano, non riconosce nulla e nessuno superiore a sé, a meno che non venga derubato e svuotato del suo potere. Ma chi è il popolo in una democrazia? Non certo quello di uno stato retto da una monarchia, in cui è costituito da sudditi devoti al re; o da una plutocrazia, in cui è costituito da consumatori al servizio del mercato; o da una oligarchia, in cui è costituito da anonimi individui divenuti muto gregge al seguito del padrone; o da una partitocrazia, in cui è costituito da miliziani scelti al servizio del leader.

Chi è, allora, il popolo d’una democrazia? Lungi dal porsi solamente come una moltitudine indistinta d’individui coabitanti nello stesso luogo, esso è un insieme di persone, tutte di pari dignità, unite tra di loro – con l’obiettivo finale di perseguire, accrescere e fruire del maggior bene comune possibile - da un rapporto di collaborazione costruttiva e strutturata in un complesso di tradizioni, consuetudini e norme, divenuto col tempo fonte e fondamento d’una propria Costituzione Nazionale.  Infatti, in uno dei Principi Fondamentali, sui quali si regge tutto l’articolato della Costituzione della Repubblica Democratica Italiana, si proclama solennemente che il popolo italiano  è la totalità dei cittadini, i quali “Hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). A ben riflettere, quindi, un Paese che voglia ritenersi, vivere e agire da “Paese Democratico” – come cittadinanza e come insieme ordinato di istituzioni statuali – si fonda preliminarmente e opera sostanzialmente nell’ottica d’una propria specifica visione generale del mondo, dell’uomo e delle loro storie. Pertanto, la democrazia di per sé non è semplicemente una tra le tante forme di governo, bensì prima di tutto ed essenzialmente una grande idea regolativa sia antropologica sia cosmologica, in quanto presuppone e si nutre d’una visione generale della realtà, nella quale non ci sono diversità e gradualità di valori, ma solo molteplicità e varietà di funzioni, tutte da rispettare e onorare secondo i principi di proporzionalità e necessarietà: in questa prospettiva di democrazia non esistono un centro e delle periferie economico-sociali-culturali, ma ogni singola realtà è contemporaneamente centro e periferia d’un’unica totalità  multicentrica.

Solo nella democrazia così definita radica e prospera la libertà civile e politica dei singoli cittadini e delle istituzioni che li governano; e solo nella libertà e con la libertà ha senso e concretezza la formula adottata ormai da secoli da tutti gli organi governativi democratici: “In nome del popolo sovrano”. Questa espressione, infatti, sintetizza e racchiude felicemente la coincidenza di Stato, in quanto organizzazione della comunità, e di Governo, in quanto organismo responsabile delle scelte politiche, e li correda di un valore, oltre che socio-economico, anche etico-politico, per cui divengono contemporaneamente fonti d’incremento culturale e gestori di potere “sovrano”, ma non nell’accezione di sovranismo o autoritarismo, bensì come concreta manifestazione e chiara espressione d’una volontà “democratica”, in quanto sono la voce indiscussa della volontà libera del popolo e, quindi, volontà democratica nel suo significato autentico e profondo: la democrazia è libertà dello spirito e delle intenzioni d’un popolo, che si realizzano nel concreto agire umano, cioè  nella vita e nell’azione politica.

Nasce, a questo punto, il problema di come il popolo eserciti materialmente la sua sovrana e libera volontà e di come la traduca concretamente ed efficacemente in azioni governative. La via della democrazia diretta – largamente usata in alcune città dell’antica Grecia - si rivela per i nostri tempi utopia e inganno per almeno due motivi principali. In primo luogo per  il  grande numero di cittadini delle odierne nazioni democratiche: basti pensare che lo stesso Jean Jacques Rousseau, già due secoli e mezzo fa, nello stendere le  Considerazioni sul Governo della Polonia  (pubblicate nel l 1782), proprio a causa della grandezza numerica della cittadinanza polacca, credette necessario, rifacendosi al suo precedente Progetto di Costituzione della Corsica (scritto nel 1768), suddividere la grande  nazione  della Polonia in piccoli stati tra di loro confederati. In secondo luogo, perché la democrazia diretta - nonostante l’utilizzo dei mezzi messi a disposizione dalla tecnologia più avanzata - di fatto, esclude il popolo dalla partecipazione attiva e consapevole alla vita politica nazionale. Infatti, nel mondo attuale della globalizzazione e dell’internalizzazione si richiedono, con urgenza sempre più pressante, velocità e decisionismo, tanto che da più parti si sente talora denunciare la lentezza e addirittura l’inutilità del voto e, quindi, dei Parlamenti, da sostituire ormai – senza alcun confronto di idee e senza un vero dialogo con i cittadini - con alcuni individui scelti col sorteggio, senza alcuna considerazione per le specifiche capacità amministrative, per  le necessarie doti morali e l’indiscutibile sensibilità  etica. L’importante è che siano pronti a decidere e svelti nel tagliare i tempi del profitto e dell’efficienza. In breve e in sostanza si celebra il trionfo del pragmatismo - attivo, operoso e sempre vincente - di pochi e, nello stesso tempo, si esclude il popolo e si condanna a morte la democrazia. La democrazia, infatti, è inclusione, riflessione e mediazione, e opera sempre al fine di ascoltare le voci di tutte le persone, di coinvolgere e tutelare tutti i cittadini, senza la presunzione di formulare arbitrariamente e proporre arrogantemente programmi ritenuti validi e proficui, ma che in effetti lasciano inascoltati e irrisolti i problemi reali di larga parte di cittadini,

Come via da percorrere rimane quella della democrazia rappresentativa, in cui il popolo - che evidentemente non può governare direttamente la “Res Publica” - delega, attraverso il voto, a propri eletti di governare, di fatto, in suo nome. In molte democrazie compiute della Terra – grazie proprio al voto popolare – si designano gli eletti (cioè, i deputati), alcuni a proporre, decidere e governare, e altri a correggere, suggerire, controllare quelli che governano: sono le cosiddette “maggioranza e minoranza”, che, ciascuna nel proprio ruolo, collaborano insieme – coerentemente con il significato etimologico e lo spirito autentico della democrazia, che è “servizio” di ciascuno verso tutti - al miglior governo possibile della cosa pubblica e per il bene comune. E’ il bipolarismo, per cui maggioranza e minoranza lavorano sinergicamente per il benessere e il progresso della nazione. Le cose cambiano, quando la “democrazia”, da governo voluto dal voto popolare, si tramuta in “potere” di partito o di partiti. Allora al posto della formula “in nome del popolo sovrano” si sostituisce di fatto l’altra “in nome del partito o della coalizione di partiti”, che sovrani non sono né possono essere. A questo punto la Democrazia è umiliata, tradita e annichilita: svuotata, infatti, dei suoi veri valori etici e privata dei suoi contenuti sociali e politi, viene ridotta ad asettico contenitore informe, disponibile ad accogliere qualunque mistificazione di realtà di privati o di comunità particolari o di piccole collettività.

La Democrazia, però, muore, perché non viene più alimentato il fuoco della fucina, nella quale – oltre che nella famiglia e nella scuola - si forgiano uomini probi, cittadini e lavoratori onesti, professionisti e imprenditori coraggiosi e, soprattutto si preparano e si cimentano amministratori responsabili e capaci, cioè i partiti politici.  Questi costituivano una fitta rete capillare di piccoli centri (le sezioni), che si diramavano da tutte le parti del Paese e confluivano tutti verso la capitale. In ogni “sezione” arrivavano quotidianamente i giornali organo d’ogni partito, con i quali si proponeva l’interpretazione dei fatti consona alle diverse visioni politiche, che i cittadini discutevano e commentavano talora animatamente e con sentita passione, espressione della aderenza e della fedeltà al proprio credo politico. Era un pulsare vivo di confronti di idee, che, arricchite del contributo di tante diverse opinioni, da ogni periferia giungevano ai deputati, che a loro volta recepivano e vagliavano nelle sedi parlamentari. Nelle “sezioni” di partito, infatti, s’incontravano cittadini d’ogni ceto sociale, s’accoglieva il contributo pronto e valido del movimento femminile e dei giovani, si approfondiva la reciproca conoscenza, si prendeva consapevolezza dei vari ruoli politici, s’apprendeva l’arte d’amministrare la cosa pubblica e, gradualmente e a tempo opportuno, si veniva designati – in base alle capacità e al merito - per i vari incarichi pubblici. Era l’applicazione e la realizzazione del dettato costituzionale: “Tutti i cittadini – sancisce l’articolo 49 - hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Quanto diverse - per natura, metodo, contenuti e finalità - le cosiddette “scuole di formazione politica” degli odierni partiti. Da circa un trentennio la Costituzione è disattesa. I partiti si sono svuotati di ideali e si sono riempiti di interessi personali e di parte, condividendo un umico denominatore            comune: acquistare e accrescere a qualunque costo potere e ricchezza. Ovviamente con la compagnia del séguito coerente di tutte le logiche conseguenze naturali, tra le quali non ci saranno né quella di bene comune né quella di rispetto del popolo,   (C.S.)

 

 

 

 

 

 

 

lunedì 5 gennaio 2015

"ELOGIO FUNEBRE DEL REGIME PARLAMENTARE”

Pubblicato da "Affari Italiani", Sabato, 8 novembre 2014

“Noi assistiamo alle esequie di una forma di governo”, disse il 19 dicembre 1925 al Senato, nel celebre discorso di rifiuto della legge sulle prerogative del Capo del governo, Gaetano Mosca giurista, politico, senatore e membro del governo Salandra. La riforma che veniva proposta era certamente compatibile, se si guardava alla lettera dello Statuto Albertino allora in vigore, ma la sostanza, che si voleva venisse approvata, era davvero preoccupante, in quanto si sanciva che i singoli ministri non dipendevano più dal Capo dello Stato (allora il re), ma dal Capo del Governo, e si stabiliva che lo stesso Consiglio dei Ministri da “organo collegiale” diventava “organo consultivo”.

Tutto il potere, pertanto, veniva riposto nelle mani del Capo del Governo, il quale creava i ministri, poteva destituire quelli in carica, poteva modificarne le deleghe, poteva attribuirsi le decisioni su questioni di reciproca competenza e aveva perfino il potere di stabilire l’ordine del giorno delle Camere. Il punto più enigmatico, tuttavia, era il problema della fiducia che doveva reggere il Capo del Governo: egli, infatti, restava al potere non solo al di fuori del volere delle Camere, ma persino al di fuori della volontà del Capo dello Stato (allora il re). Nel disegno di legge era scritto espressamente che il Capo del Governo veniva mantenuto al potere dal “complesso di forze economiche e politiche e morali, che lo hanno portato al Governo”. Era qui che si nascondeva l’ambiguità: chi erano quelle strane forze extraparlamentari tanto potenti da non essere soggette al parere neppure del Capo dello Stato. E Gaetano Mosca – maestro di Diritto, fondatore della Scienza Politica nelle università italiane, teorico della “classe politica” – diede voto contrario.

Annunciando il proprio voto contrario, Mosca avvertiva che nei fatti, sotto l’apparenza di strumenti presentati e caldeggiati come più adatti a un governo fattivo ed efficace, si stava cambiando un intero sistema di governo, che coinvolgeva e comprometteva diritti civili, equità sociali, doveri politici e persino valori morali d’una nazione intera già in piena crisi morale ed economica del dopoguerra. Cambiamenti probabilmente non solo opportuni, ma addirittura necessari. Ma erano proprio le motivazioni e le finalità, che si diceva voler perseguire mediante tale cambiamenti che richiedevano prudente valutazione della realtà presente e saggia previsione delle possibili conseguenze future. Egli riteneva che un rinnovamento esageratamente rapido e intempestivo era un “salto nel buio” dettato dall’impulso frenetico d’una “nuova generazione, che crede di sapere tutto e di poter tutto mutare”. Terminava, perciò, le sue parole – sempre dettate con stile dimesso e umile - dichiarando che sentiva come suo “forte dovere di ammonirla”.

Consapevole di alcune reazioni prevedili, Mosca volle raffigurare i sentimenti che lo animavano nel suo comportamento e nella sua decisione, ricordando all’Assemblea l’addio di Ettore ad Astianatte: il tragico epilogo omerico d’una virtù morale e combattiva.

Sono passati circa novant’anni: forse non pochi per rileggere la nostra storia, prendendo qualche utile lezione.