Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
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martedì 16 settembre 2014

L'uomo e il cielo stellato


Pubblicato da Affari Italiani (affaritaliani.it) mercoledì, 30 luglio 2014 - 15:10:00

Il filosofo Scarcella alza lo sguardo dai "deliri del mondo" e regala ad Affari le sue riflessioni

Disastri aerei, complotti che minacciano gli equilibri mondiali. In Libia l'esplosione di un razzo ha devastato la capitale e il conflitto di Gaza fa sentire in tutto il mondo l'odore del sangue. Anche seguendo le piccole, ma per noi tanto grandi, vicende italiane si ha la sensazione che il mondo non dia tregua. Non lasci più tempo per riflettere, osservare, magari sperare. C'è invece chi, proprio partendo dallo sguardo disincantato di quello che accade, si ferma un momento e contemplando il cielo, da sempre musa di idee e scoperte per l'animo umano, si lascia andare alla riflessione più libera e pura, profonda e a tratti poetica. Si tratta di un filosofo, Cosimo Scarcella (http://cosimoscarcella.blogspot.it/), esperto di Condorcet e studioso di dottrine politiche e filosofiche applicate alle concrete situazioni storiche, che "regala" ai lettori di Affaritaliani.it due pagine che riportano l'attenzione sul pensiero, quell'attività oggi quasi dimenticata.


Il mese d'agosto è ormai alle porte e gli occhi degli uomini si voltano più spesso a guardare in alto verso il cielo, per intercettare (per ricerche scientifiche o per curiosità o anche solo per superstizione) l'improvviso luccichio di qualche "stella cadente". Nelle notti, soprattutto in alcuni momenti, sembra davvero di assistere a una pioggia di stelle: da alcuni interpretata come malinconico pianto di partecipazione alle cupe calamità terrestri, da altri vissuta come presagio di luce e di fiducia. "C'è chi si fissa a vedere solo il buio. Io - confida Victor Hugo - preferisco contemplare le stelle". La contemplazione del cielo - in qualunque stagione dell'anno, di giorno o di notte, terso o nuvoloso, sereno o tempestoso - invita alla riflessione, genera commozione, nutre speranza. La riflessione è esigenza della razionalità, la commozione è frutto dell'umana sensibilità, la speranza è figlia della verità. La verità che rende liberi: non la verità voluta e difesa come unica e assoluta, ma quella consentita alle umane capacità. La smisurata volta celeste, però, è icona anche di verità che l'uomo vorrebbe raggiungere, ma invano. "L'ultimo passo della ragione - ammonisce prudentemente Pascal - è il riconoscere che ci sono un'infinità di cose che la sorpassano"; e il grande matematico suggerisce: "I movimenti degli astri sono un canto ininterrotto per molte voci, percepito non dall'orecchio, ma dalla mente; una melodia figurata, che traccia dei punti di riferimento nell'incommensurabile fluire del tempo".

Punti di riferimento L'uomo guarda e interroga il cielo: non sa chi lo abbia messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né che cosa sia lui stesso. Si sente invaso da un'ignoranza spaventosa. Vede quegl'infiniti spazi celesti e si smarrisce: si sente rinchiuso in un piccolissimo angolo, e non sa nè perché né per quanto tempo vi rimarrà nell'eternità che l'ha preceduto e che lo seguirà. L'uomo! Essere germinato dalla Terra o disceso dal Cielo? Inerte frammento d'una zolla di terra governata dall'assurdo gioco di movimenti atomici, oppure splendido ritaglio di luce inviato dalle stelle e destinato ad essere riassorbita nello splendore dell'energia dell'eterna vita cosmica?

Rilegge nel Testo Sacro la promessa di Javè ad Abramo: i suoi discendenti sarebbero stati numerosi come le stelle. Il cielo stellato, allora, non resta al di sopra dell'uomo, ma gli sta a fianco; non è indifferente alle vicende degli uomini, ma ne partecipa, vivendo insieme a loro. L'uomo e il cielo stellato non sono coinquilini estranei in un cosmo ignoto, e nemmeno reciproci accompagnatori ipocritamente disponibili. Sono fatti l'uno per l'altro. Uomini e stelle sono in tensione reciproca: uomini che si rivolgono e dialogano con le stelle, e stelle che sorridono e rispondono agli uomini, con un silenzio profondo che sa di sacro. Sempre il medesimo cielo guardato perennemente dai medesimi figli dell'uomo, i quali pudicamente gli confidano dubbi e ansie, gioie e dolori, progetti e delusioni, sperando senza stanchezza un qualche svelamento d'arcani misteri. Nasce, allora, e cresce a poco a poco, un intimo puro totale amplesso dell'uomo con il cielo: amplesso che sublima, emoziona, commuove, penetra, permea le profondità dell'animo. Attimi eterni, come quelli vissuti dal Leopardi, quando confida: "E quando miro in cielo arder le stelle, dico fra me pensando: a che tante facelle? Che fa l'aria infinita? E quel profondo infinito sereno? Che vuol dir questa solitudine immensa? Ed io che sono?".

All'uomo superficiale, che è certo di tutto e a tutto ha pronta la risposta, Montale, straordinario interprete dei recessi dell'animo umano, svela: "Forse un mattino … vedrò compirsi il miracolo … Ma sarà troppo tardi: ed io me ne andrò zitto, tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto". Rispettiamo il segreto del poeta, ma per l'uomo responsabile e pensoso non è difficile indovinare alcune gravi e serie domande. Si vorrebbe comprendere le reali motivazioni e le vere aspirazioni di tante scelte libere o condizionate; si vorrebbe afferrare il senso di tante vicende personali. Se la vita degl'individui, dell'umanità, del cosmo - si dicono uomo e cielo - non è frutto del caso, ma risultato di una qualche Ragione ordinatrice, perché l'ordine che si manifesta nelle leggi fisiche non è presente pure nella vita dell'Uomo e dell'Umanità, dominata dalla paura e dalla violenza? Perché dilagano disordine morale e sociale, confusione individuale e ingiustizia generale? Perché dominano egoismi e disonestà, perché divampano guerre e si commettono massacri? Di fronte a fatti veramente incredibili, l'uomo, anche lontano da sensibilità religiosa e vicino a convinto agnosticismo, talora invoca e addirittura, quasi per un impulso innato, attende un qualche intervento del cielo; anzi giunge a meravigliarsi del non intervento del cielo. Certo potrebbe essere impudente presunzione dell'uomo credersi centro del cosmo, intorno al quale dovrebbe ruotare tutto; ma è "umano" attendere un qualcosa di straordinario, quasi un miracolo. Basti pensare che lo stesso Kant, noto per il suo rigorismo razionale, ritiene che non si può escludere un evento straordinario; sicuramente è un atteggiamento "unphilosophisch" (antifilosofico), ma tuttavia dettato da profondo "sentimento umano". Certo - avverte il filosofo tedesco - non bisogna contare su quest'interventi sovrumani; è sempre preferibile attenersi all'ordine razionale, che impone di vivere senza mai sacrificare "la diligenza e l'onestà" alla speranza d'un aiuto superiore: cioè, si deve vivere secondo la legge della nostra coscienza, sede vivente del "divino" che è nell'uomo. Nel contemplare la volta celeste, allora, l'animo dell'uomo si allarga fino ad abbracciare gli estremi confini dell'universo e si concede, con meravigliosa donazione illimitata, all'armonia vivente del Cosmo. Anche il cielo, allora, corrisponde e abbraccia la terra e i suoi abitatori. Sembra che esso di giorno voglia nascondere e salvaguardare il suo prezioso manto stellato, per poi svelarlo e offrirlo la notte agli occhi e all'animo dell'uomo, che lo aspetta con gioiosa fedeltà, per potergli confidare i segreti sigillati nell'inaccessibile scrigno del proprio animo. E tutto ciò in estrema misteriosa fusione, in totale sovrumano silenzio: perché "il piacere di amare senza osare dirlo - annota Pascal - ha i suoi tormenti, ma anche le sue dolcezze".

Queste riflessioni potrebbero apparire solitarie meditazioni poetiche: belle, ma poco utili per la comprensione e la soluzione dei problemi reali degli uomini, che debbono guardare attentamente per terra, per non cadere in qualche pericoloso fosso come accadde a Talete. Oggi molta scienza pretende di conoscere ogni cosa attraverso le sempre aggiornate acquisizioni scientifiche e il vertiginoso progresso tecnologico; molte teologie formulano questioni anche importanti, deducendone, però, conclusioni indiscutibili; molta "classe politica" si vanta di trovare "regole" sempre nuove, confondendo spesso novità per validità vera e a dimensione d'uomo; molti reggitori di popoli e di nazioni sfoggiano forza militare e ostentano potere economico, per perseguire giustizia e pace. Uno sguardo alla storia, però, farebbe dubitare molto e inviterebbe alla prudenza. Giovanni Keplero giunse alla scoperta delle leggi dell'astronomia fisica, contemplando la "Armonia del Mondo"; in quel periodo la teologia del latitudinarismo irenico sanò molte piaghe causate dalle trentennali guerre di religione; Marco Aurelio consolidò e pose ordine all'impero romano, mettendo in pratica gl'insegnamenti della filosofia stoica; più vicino a noi, il Mahatma Gandhi conquistò l'indipendenza della sua nazione e ottenne numerosi diritti civili e politici, conducendo una vita semplice e umile, convinto che "non aveva nulla di nuovo da insegnare al mondo, in quanto la verità e la nonviolenza sono antiche come le montagne". Figure eloquenti, per smitizzare la pretesa di alcuni di poter indirizzare secondo le proprie opinioni la natura, la realtà e persino tutta la storia degli uomini. Guardando il cielo è facile osservare come ciascuna stella è solo una minuscola parte, sempre identica a se stessa e diversa da tutte le altre; la Totalità armonica delle loro infinite diverse individualità crea e garantisce ordine e felicità.

sabato 5 ottobre 2013

FEDELTA’ E COERENZA DURANTE LA VITA


Nel corso dell’esistenza umana si sperimenta e, quindi, necessariamente si deve riconoscere e accettare che la vita in ogni suo aspetto (personale e familiare, sociale e relazionale, professionale e lavorativo) non è mai staticità e inerzia; infatti, non sarebbe vita, ma morte. La vita, di conseguenza, comporta inevitabilmente cambiamenti, che richiedono adeguati mutamenti talora sostanziali.

 
L’uomo è chiamato a comprendere con decisione questa verità effettuale, se ha l'intenzione di ricercare realmente il senso vero delle varie situazioni, che si susseguono e investono casi positivi e gratificanti, ma anche momenti avversi e infelici. Ben fermo, allora, nella sua onestà morale e saldamente ancorato sulla sua saggia fedeltà, egli opera scelte coerenti, che sono spesso fondamentali, decisive e talora anche difficili. Sono, infatti, scelte, che spesso richiedono coraggio e pesano moltissimo, e tuttavia destinate a dare senso nuovo e vero al proprio esistere. Se non si ha la forza di allargare lo sguardo oltre l’orizzonte d’un proprio presente tranquillo e confortevole, per scrutare un oltre per lo più misterioso e temuto, si rischia di rimanere irretiti e schiacciati da un presente ormai privo d’ogni consistenza. Non si può restare attaccati ai più o meno ampi confini d’un’esistenza pacifica perché immobile e immutata, a meno che non ci s’illuda d’attribuire un peso anche all’inconsistente e un significato all’impossibile e, proprio per questo, assurdo e insensato. Tutto scorre; anche il tempo scorre. Scorre anche ogni giorno della vita umana. Ciascun uomo ha ogni giorno l’opportunità o di scolpire, come su dura pietra, quotidiani documenti imperituri di vita autenticamente vissuta oppure di scribacchiare, come su fogli cartacei marcescibili, casuali scarabocchi degni solo del macero.


Verità certamente facile a dirsi, forse anche difficile a comprendersi, ma sicuramente molto arduo a realizzarsi. Non è eccessivo paragonare i momenti di questi stati d’animo ai dolori del partorire: senza dolore lacerante non viene alla luce una vita nuova, che sarà poi anch’essa un’avventura di luce e di buio, di bello e di brutto, di bene e di male, di gioia e di dolore, d’entusiasmo e di sfiducia, di voglia di vivere e di tentazioni di odio verso tutto e tutti.

 
Il percorso della vita si realizza, quindi, in continui cambiamenti determinati dal mutare dei convincimenti personali  e delle situazioni sociali e culturali: si tratta, quindi, di mutamenti sollecitati dall’evolvere sia della propria personalità e sia del mondo esterno. Se si trattasse, però, di alternative ricorrenti normalmente, non nascerebbe alcuna difficoltà; i problemi nascono, invece, quando i dettami del proprio animo e le richieste della storia e del mondo socio-culturale sono differenti se non addirittura opposti. E’ in questi casi che nasce il grave interrogativo: cosa sono la coerenza e la fedeltà?

 
Viene subito incontro l’ammonimento di Mahatma Gandhi: “Meglio un milione di volte sembrare infedeli agli occhi del mondo che esserlo verso noi stessi”. La fedeltà e la coerenza, infatti, sono sostanzialmente il segno e la manifestazione del benessere interiore personale. E' una condizione di equilibrio, di serenità e di contentezza, in cui ci si sente esattamente come si desidera essere e in cui si ha proprio ciò che si desidera avere: “Solo chi è fedele in se stesso – avverte Erich Fromm - può essere fedele agli altri”; quegli “altri”, che a volte – anche pensando onestamente e comportandosi in buonafede, addirittura mossi da zelo sincero e persino sollecitati e confermati da elementi apparentemente indiscutibili – corrono il rischio di fraintendere verità personali e obiettive e di snaturare realtà individuali e collettive. Anche in questa circostanza, però, la serenità e la contentezza interiori possono essere solo lambite da brevi momenti di tristezza morale causata da equivoci, confusioni e ambiguità, ma giammai turbate nella loro essenza.

 
QuestauestaQ condizione di benessere interiore, però, non è da confondere con la chimera della felicità (pura aspirazione dell’uomo d’ogni età) e non è caratterizzata dalla quantità di esperienze positive e gratificanti, in quanto in essa permangono tutti gli elementi di fatica, di tedio, di dolore. Ogni avvenimento in qualunque ambito accada - purchè ponderatamente deciso e definito dentro l’orizzonte di fedeltà e di coerenza alla totalità della propria personalità - comporta sempre un arricchimento e produce crescita, benché s’accompagni sempre a stati d’animo di turbamento: i logici motivi della ragione non sempre sono in sintonia con gli umani sentimenti dell’animo; e riorganizzare le nuove modalità di vita richieste dalla propria fedeltà e coerenza è impresa non facile, ma delicata e talora lunga e difficoltosa.

 
Di conseguenza, fedeltà e coerenza in qualunque ambito non sono un valore in sè e per sè, ma sono sempre agganciate a una scelta di vita, che abbia valore in sé e che ne fondi la validità: coerenza e fedeltà scaturiscono sempre da una scelta personale di fondo e sono indirizzate al raggiungimento d’un obiettivo motivato interiormente e giustificato da situazioni storicamente concrete. Nel corso della vita sono molte le strade che si presentano, ma una sola è quella veramente giusta: si  tratta di capire quale sia, fra tutte le altre: cosa non sempre agevole, perché può essere fra quelle meno comode e invitanti; anzi, può presentarsi addirittura sbarrata dai rovi e soffocata da una densa vegetazione, che ne rendono arduo il cammino. E tuttavia un richiamo misterioso, segreto, irresistibile spinge verso di essa, se si è capaci di fare un po' di silenzio nell'animo. Fedeltà e coerenza, pertanto, non sono due facce del comportamento umano, bensì due elementi sostanziali, che costituiscono l’intero spessore vitale d’ogni uomo, racchiuso in un progetto globale dettato dalle spinte della totalità umana: ragione, mente, esperienza, cuore, sentimento, sostenuti sempre da una volontà tenace e soprattutto da una personalità umile e dignitosa, perché libera da tutti e da tutto, anche da se stessa (altrimenti si trasformerebbe in idolo che schiavizza subdolamente).


Percorrere con perseveranza il cammino della vita con fedeltà e coerenza ai convincimenti del proprio animo è difficile, anzi significa rasentare l’eroismo etico. Chiunque, infatti lo testimoni, è uno straniero nel mondo e un anormale nella storia (o almeno così è guardato quasi sempre). Chiunque cammini per le strade della città senza indossare la maschera della finzione e dell’ipocrisia è additato come un fenomeno strano e inquietante dai più, i quali, invece, non se la tolgono mai. In verità, ogni essere umano resta sempre uno straniero per gli altri, in quanto ciascuno porta in sè il proprio mistero e la propria solitudine e cova nell’intimità del proprio animo suoi interrogativi, che nessuno conoscerà mai e ai quali egli stesso forse non saprà dare mai una risposta. A quest’isolamento costitutivo della natura umana s’aggiunge, però, un altro isolamento, forse più amaro: quello cui è condannato chiunque si sforzi d’essere autentico in qualunque circostanza, senza piegarsi alla direzione da cui soffia il vento della convenienza egoistica e del calcolo privato; è l’isolamento cui lo condannano spesso l'indifferenza proprio degli “altri”, la sorda ostilità del vicino e, dolorosamente, la noncuranza dell’amico.

 

 

 

lunedì 5 agosto 2013

IMMORTALITA’ DELL’UOMO E RELIGIOSITA’


Socrate, rivolgendosi ai giudici che gli avrebbero confermato la sentenza di condanna a morte, faceva loro notare ch’egli era ormai molto vecchio, per cui riteneva di non doversi affliggere della sorte che l’attendeva, in quanto non gli sarebbe rimasto comunque molto altro tempo da vivere sulla terra. Ma li avvertiva di una conseguenza certa. Essi, condannandolo a morte, sarebbero stati immortalati dalla fama d’aver ucciso un uomo sapiente; egli, invece, nonostante non si ritenesse sapiente, sarebbe sopravvissuto come martire e sarebbe stato non solo perpetuato, ma anche imitato da molti discepoli e amici. La conseguenza, quindi, era inevitabile: se fino allora il fastidioso fustigatore dei vizi dei potenti era stato uno solo, in seguito si sarebbero moltiplicati. Gli uomini virtuosi, saggi e onesti non muoiono mai del tutto, ma vivono in eterno: la virtù e la rettitudine rendono immortale. E Socrate, infatti, è tuttora vivo, e tale resterà proprio grazie all’integrità conservata fino all’ultimo, fino agli estremi d’ogni umana possibilità. Primo martire della filosofia occidentale, egli non solo non invoca pietà, ma non usa nemmeno parole di suadenti lusinghe per impietosire o false argomentazioni per fuorviare i giudici; si rimette totalmente al loro giudizio qualunque esso sarà; rimane calmo nella serenità propria dell’uomo giusto e onesto. Vissuto nella rettitudine e nella giustizia, è profondamente convinto che può attendersi solo il bene e la felicità anche dall’eventuale condanna a morte, ch’egli immagina o un amabile profondo sonno o un felice ritrovarsi nel regno degli inferi con i grandi eroi d’ogni tempo. E conclude verso i giudici: “Vedo che è tempo ormai di andar via, io a morire, voi a vivere. Chi di noi avrà sorte migliore, è a tutti ignoto, tranne che al nume”.

 

In queste parole conclusive di Socrate resta scolpito l’interrogativo che s’è posto da sempre e continuerà a porsi l’uomo d’ogni tempo: cos’è la vita e cos’è la morte. Interrogativo senza risposta umanamente certa: nessun essere mortale, infatti, ha mai saputo veramente cosa sia quello che si considera “vita” e quello che si definisce “morte”; lo stesso Socrate si limita solo a rappresentarsi due congetture, che scaturiscono dal profondo della sua anima, mentre sta vivendo momenti di rara sublimità. “Quasi per sua natura – scrive a proposito l’Anonimo autore del Sublime - l’anima si esalta e, prendendo non so quale generoso slancio, si riempie di gioia e d’orgoglio (…); il sublime non porta alla persuasione, ma all’esaltazione, perché il sublime è l’eco della grandezza interiore (…); tutti partecipano di un moto d’animo collettivo che genera un’esperienza di vita e un’iniziazione, una comunicazione alta di concetti e di valori, che conduce quasi inevitabilmente a una vita migliore”. Solo affidandosi a simili stati d’animo di “sublimità”, l’uomo giungerà, riguardo al suo essere, a qualche risultato confortante e capace di liberarlo dall’angoscia forse ingiustificata, ma non per questo meno dolorosa, poiché è causa d’un’insopportabile oppressione di paure e di superstizioni.

 

A questo proposito ritorna alla memoria il poeta latino Lucrezio, quando, momentaneamente quasi dimentico delle sue ben salde convinzioni atomistiche e meccanicistiche che sta esponendo nel De rerum natura, inaspettatamente sembra cedere a una forma d’insolito realismo, armonicamente mescolato a una complicità quasi affettiva. Immerso in uno stato d’animo di empatia universale, dà vita a versi intensamente umani, nei quali, dopo aver evocato alla nostra considerazione tutti gli esseri animati e inanimati, con un colpo d’occhio istantaneo ci protende all’infinito fino a trasportarci in un’avventura meravigliosa, che ci innalza fino alla magnificenza e al silenzio degli spazi celesti: “Quando – s’interroga - leviamo lo sguardo agli spazi celesti dell’immenso cosmo, e più in alto ancora all’etere trapunto di astri splendenti, e ci vengono in mente le vie della luna e del sole, allora un’angoscia coperta nel cuore dagli altri dolori comincia a destarsi e anch’essa a levare la testa: forse si sta mostrando un immenso potere divino, che volge le stelle luccicanti nei loro molteplici moti?”.

L’uomo assiste ogni momento all’ineluttabile ciclo che scandisce la vita d’ogni essere abitatore della terra: nascita, crescita, maturazione, declino, morte: guarda questa legge universale con fredda audacia, senza mai sfidarla, talora forse la teme, ma sa benissimo che è comune destino inevitabile. E tuttavia non vi si rassegna mai del tutto. Nel suo profondo percepisce una misteriosa esigenza di sopravvivenza. Non è vile paura di morte né arrogante anelito all’eternità tra i viventi. E’ una nascosta ma forte, arazionale ma umana, inspiegabile ma insopprimibile esigenza d’immortalità. Parte di una Totalità, intuisce, senza saperselo spiegare, che egli non può essere del tutto transeunte e contingente. E spera solo che sia un’esigenza che poggi sul fondamento di qualche realtà immanente come lui, ma nello stesso che lo superi e lo trascenda.

 
E’ la convinzione nutrita anche da Socrate e da Lucrezio. Un nascosto “nume” onnisciente, un ignoto “immenso potere divino” reggono e guidano – forse - il cosmo: è questo il punto d’approdo dei due pensatori così lontani nel tempo e diversi per cultura e sensibilità, ma così in sintonia davanti ai supremi misteri, che avvolgono la vita dell’uomo e la realtà del mondo. E molti secoli più tardi, dopo le conquiste del rinascimento e i progressi delle scienze alla vigilia dell’illuminismo, al loro pensiero s’unirà, tra gli altri, Giambattista Vico con l’arduo pensiero tramandatoci nella Scienza nuova: l’uomo – annota - contemplando il mondo e considerando il magnifico misterioso avvicendamento dei suoi aspetti, viene assalito e dominato da molti sentimenti diversi, di ammirazione e di stupore, ma anche di paura e di sbigottimento, tanto da essere indotto a invocare qualcosa o qualcuno come suo aiuto o comunque come forza amica, che ne garantisca la sopravvivenza e l’immortalità. Si origina allora nell’animo umano il sentimento della “divina provvidenza”, che poi la ragione indagherà e la volontà accoglierà o respingerà. Secondo il Vico, infatti, l’innato desiderio d’immortalità è spiegabile solo da un principio superiore: “Pur gli uomini – sostiene - hanno essi fatto questo mondo di nazioni (...), ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si avevan proposti”.
 
La vera “ordinatrice del mondo delle nazioni” è, dunque, la provvidenza: “Ché senza un Dio provvedente, non sarebbe nel mondo altro stato che errore, bestialità, bruttezza, violenza, fierezza, marciume e sangue; e, forse senza forse, per la gran selva della terra orrida e muta oggi non sarebbe genere umano”; e all’inizio dell’opera aveva avvertito prudentemente e con sagacia: “Il diritto naturale delle nazioni egli è certamente nato coi comuni costumi delle medesime: né alcuna giammai al mondo fu nazione d’atei, perché tutte incominciarono da una qualche religione. E le religioni tutte ebbero gittate le loro radici in quel desiderio che hanno naturalmente tutti gli uomini di vivere eternamente; il qual comune desiderio della natura umana esce da un senso comune, nascosto nel fondo dell’umana mente, che gli animi umani sono immortali; il qual senso, quanto è riposto nella cagione, tanto produce quello effetto: che, negli estremi malori di morte, desideriamo esservi una forza superiore alla natura per superargli, la quale unicamente è da ritrovarsi in un Dio che non sia essa natura ma ad essa natura superiore, cioè una mente infinita ed eterna; dal qual Dio gli uomini diviando, essi sono curiosi dell’avvenire”.
 
Il Vico assicura che la potenza del desiderio d’immortalità è proprio della natura umana, ma avverte che non deve divenire e tanto meno cedere alla tentazione d’onnipotenza. E ne indica il rimedio. L’uomo – assicura - ha sempre e comunque il potere e la responsabilità di decidere il cammino suo e dell’umanità; tuttavia, davanti a fenomeni d’enorme potenza ineluttabile, come la morte, sente nascere in sé il bisogno di pensare e d’invocare un “Dio” che lo soccorra nella sua finitezza e rimedi alla sua mortalità.
 
Certo, anche di recente Martin Heidegger in Essere e Tempo avvertiva, dopo le tragedie delle dittature, che “solo un Dio ci può salvare”: ma finiva per sprofondare in antichi sonni dogmatici, dai quali ci aveva svegliato definitivamente Immanuel Kant. Il Vico, invece, anticipando il filosofo del criticismo, aveva portato l’umanità fuori dallo “stato di minorità”, perché non cedeva a qualunque forma di dogmatismo (tanto in metafisica quanto nella stessa fisica). Il bisogno d’immortalità fa invocare un “Dio” superiore a tutto, ma è assolutamente privo d’ogni carattere di antropomorfismo. Vico, inoltre, si discosta dal demiurgo di Platone, dal “sommo Padre Architetto” di Pico della Mirandola e di Isaac Newton; si avvicina e accoglie, invece, il “Dio della Legge” degli antenati, immanente e nello stesso tempo trascendente la mente umana, tale che illumina e guida le scelte d’ogni essere umano nei confronti di se stesso e del cosmo intero. Il Vico, quindi, propone una divinità, che nasce dal desiderio umano e che è vissuto come l’unico sommo “provvedente di tutte le nazioni”, il garante dei valori della “natura umana tutta dispiegata e riconosciuta uguale in tutti”. Per Vico questa è “la sola luce” che fa capire che “il mondo delle gentili nazioni egli è stato pur certamente fatto dagli uomini”, ma nello stesso tempo svela anche “due gran princìpi di vero: uno, che vi sia provvidenza divina che governi le cose umane; l’altro, che negli uomini sia la libertà d’arbitrio, per lo quale, se vogliono e vi si adoperano, possono schivare ciò che, senza provvederlo, altrimenti loro apparterrebbe”.
 
 Ritornare a queste riflessioni di filosofi anche del passato potrebbe sembrare superfluo, poiché la cultura come minimo degli ultimi due secoli ha sancito senza incertezze non solo la mortalità dell’uomo, ma anche la morte di Dio stesso. Nietzsche, infatti, in “Aurora” (1881) derideva coloro che sognavano l’immortalità dell’uomo: “A questa bella vostra coscienza di voi stessi augurate, dunque, una 'eterna durata’? Non è un’insolenza? Non pensate a tutte le altre cose, che dovrebbero sopportarvi per tutta l'eternità, come vi hanno sopportato fino a oggi?”; e qualche anno dopo, nella “Gaia Scienza” e in “Così parlò Zaratustra” annunciava trionfalmente anche la “morte di Dio”. E in verità, se si riflette sulle vicende solo del secolo passato, non si può nascondere un senso di smarrimento: le guerre mondiali, le dittature e le tirannie, i successivi eventi deludenti delle neonate democrazie, le crisi globali non solo e non tanto dell’economia, ma anche e soprattutto delle ideologie e di molti modelli valoriali, non farebbero davvero pensare diversamente e sperare meglio. Preferibile, quindi, rinverdire pensieri e speranze di chi ci ha preceduto.
 
A meno che non ci si voglia rifugiare nell’affascinante profetico progetto della neonata filosofia dell’immortalità, rappresentata soprattutto da Raymond Kurzweil, il quale, rifacendosi al Wittgenstein e alle sue ramificazioni neopositivistiche, nutre grande fiducia, se non addirittura la certezza, di scoprire e garantire entro pochi decenni l’immortalità umana, grazie alle scoperte del trinomio Genetica-Nanotecnolgia-Robotica. A questo riguardo, però, sarebbe augurabile dare ascolto ai prudenti e sofferti messaggi di Huns Jonas: è certamente necessario dimostrare ampia apertura verso la dignità e la libertà di ricerca, la quale deve poter compiere il suo compito, ma non si deve mai dimenticare di verificare le reali capacità conoscitive della ragione umana. Certo, l’allungamento della vita dell’uomo è un fatto evidente, ed è una considerevole conquista incontestabile della ricerca scientifica; allo stesso modo, è anche ragionevole prevedere che altri progressi ridurranno ancora i tempi dell’invecchiamento e della mortalità. Ma è lecito chiedersi, comunque, fino a che età si potrà vivere in futuro e se si potrà raggiungere davvero l’immortalità. A quel punto, però, bisognerà chiedersi anche se il bisogno di una divinità scomparirà realmente oppure sarà solo rimpiazzato dall’onnipotenza dell’uomo. Alle porte di questo evento, comunque, potrebbe stare in agguato e attenderci il destino prefigurato dall’onnipotente Kirillov de “I demoni” di Dostoevskij: l’uomo realizzerà e dimostrerà la sua onnipotenza, solo quando sarà capace di vincere e distruggere tutto: compreso, quindi, se stesso. L’onnipotenza dell’uomo coinciderà con il nulla totale.

 

domenica 7 luglio 2013

UNA “POLITICA DI SERVIZIO” PER IL “BENE COMUNE”


L’uomo è da sempre alla ricerca della sua dimensione esistenziale. Individuo catapultato a caso nei vortici assurdi d’una realtà ignota e incomprensibile, oppure esistente partecipe d’un cosmo ordinato e razionalmente governato? Individuo collocato accanto ad altri individui, tra loro estranei e addirittura in lotta continua tra loro per il predominio o per la sola sopravvivenza, oppure persona protesa per sua natura verso altre persone, tutte in uguale tensione alla reciproca integrazione? Vale a dire, gli uomini sono singolarità intrinsecamente indipendenti e diverse oppure individualità autonome sì, ma anche aperte agli altri, col cui ausilio ciascuno realizzerà la propria realtà e il proprio progetto esistenziale? Insomma, cos’è veramente l’essere umano in sè e per sè? In che rapporto stanno gli uomini e il mondo, il singolo e gli altri, l’individuo e la società.
 
L’uomo ha sentito sempre il bisogno di trovare risoluzioni adeguate e soddisfacenti a questo problema; e, al fine di soddisfarlo, ha fatto ricorso a procedimenti logici, s’è servito della ragione e delle sue argomentazioni, ha invocato il sostegno dell’esperienza e l’autorevolezza della tradizione. E, tuttavia, ha trovato raramente risposte veramente appaganti. La sete conoscitiva dell’uomo, infatti, non s’estingue con i risultati del solo intelletto, ma esige il coinvolgimento e il sostegno della totalità della natura umana. Spesso, invece, l’uomo si limita a ragionare, s’aggrappa all’evidenza della sola logica astratta, ricorre a congetture personali, formulate secondo parametri soggettivi. Ma ogni realtà va scrutata e accettata così com’essa si mostra oggettivamente. Ora, anche le dimensioni vere della sociabilità dell’uomo non pare possano attingersi con la sola razionalità, ma necessitano della totalità della natura umana e, quindi, senza facili e comodi ricorsi a eventuali realtà sovrumane e soprannaturali.
 
L’uomo, allora, ponendosi da questa prospettiva e avvalendosi dell’ausilio d’ogni risorsa a sua disposizione, s’intuirà come immerso in una realtà dialettica, di cui dovrà cogliere e accogliere anche innegabili contrasti e opposizioni. Si sentirà, infatti, partecipe d’un universo multiforme e armonico, ma nello stesso tempo pervaso da strane inspiegabili contraddizioni e da assurde incongruenze. All’uomo, però, manca talora l’ardire di guardare in faccia questa realtà con la distaccata freddezza, necessaria per coglierne e accoglierne le verità ch’essa svela e che, quindi, l’uomo non può farsi a modo suo, ma deve solo accettare nella cruda oggettività, compresi, quindi, anche i tratti incomprensibili e gli aspetti persino misteriosi. Proprio come si comporta l’uomo saggio al cospetto del sole splendente nel cielo: egli non argomenta nè congettura nè dimostra la presenza del sole, si limita solo a sollevare gli occhi, guardare, narrare quello che gli si presenta davanti. Dovrebbe essere questo il comportamento da tenere anche riguardo la realtà del mondo e dell’umanità: conoscere veramente il mondo significa accoglierlo nella sua integralità costituita da finalità proprie, palesi o celate.

A fondamento d’ogni scelta teoretica e d’ogni opzione etica si deve preporre, quindi, innanzitutto una concezione antropologica e socio-politica globale e integrale, entro cui trovi e abbia senso il problema delle responsabilità, che ricadono sui singoli, sui popoli e sull’umanità intera. Di conseguenza, gli uomini debbono optare non solo e non tanto per alcuni valori anziché per altri, ma debbono prima e soprattutto ricercare e accogliere con responsabilità una concezione chiara e condivisibile di uomo e di mondo, su cui fondare e giustificare il senso delle scelte storicamente concrete: si tratta, quindi, d’una scelta preliminare e globale.
 
Ogni scelta storica, infatti, interessa indubbiamente il destino del singolo, ma nello stesso tempo coinvolge anche le sorti dell’evoluzione del mondo e la qualità della vita della società di cui è parte e, in prospettiva cosmopolita, dell’intera umanità. Questa naturale vocazione alla responsabilità verso l’altro (inteso come cosmo e come umanità) non può essere né affidata agli umori dei singoli né lasciata in balia degli interessi dei popoli e nemmeno delegata all’arbitrio di eventuali governanti non sempre animati da autentico spirito umano. Si rischierebbero molti pericoli. Per questo s’impone la necessità d’un’adeguata “legislazione”, cioè d’un insieme saggiamente strutturato di principi e di precetti, che determinino il fine verso cui indirizzare ogni iniziativa, definendone tempi e modalità d’attuazione. Il compito delle leggi e delle norme, infatti, è di indicare l’ideale, cioè di orientare verso il “dover essere”, vero regno dei fini, cui gli uomini possono ragionevolmente e debbono moralmente aspirare. Le leggi e le norme non limitano né condizionano, ma salvaguardano e concretizzano libertà e dovere del singolo, moralità ed eticità delle nazioni e dei popoli. I diritti e i doveri così sanciti non provengono, quindi, dall’esterno della natura e della storia dell’uomo, bensì risiedono dentro di esse e ne sono elementi costitutivi.

Ora, è certo che non si può mai misconoscere e tanto meno trascurare il legame, che unisce norma e morale, diritto ed etica; è un nesso essenziale, che s’impone, però, con maggiore forza in tempi, in cui nelle scelte dei singoli e negli orientamenti dei popoli e delle nazioni, prevale talmente l’affannosa ricerca dell’interesse dei privati e dei gruppi che restano sovrastati e talora addirittura annichiliti il naturale sentimento dell’altruismo e la coscienza delle comuni responsabilità. In questi periodi è più che mai necessario rinverdire, se non addirittura rifondare, una concezione dell’uomo il più integrale possibile, evitando chiusure concettuali preconcette e aprendosi a comportamenti ispirati alla vera dignità dell’uomo.

Infatti, concezioni parziali, anche se legittime, sarebbero insufficienti e, quindi, necessariamente non del tutto esatte ed esaustive. Non pare, perciò, possano ritenersi accettabili le teorie dell’individualismo e del collettivismo, che considerano l’uomo rispettivamente o individuo autosufficiente ed egocentrico (quasi atomo insignificante d’un mondo caoticamente strutturato) oppure parte significativa solo nel necessitante nesso col tutto (quasi tessera d’un immenso misterioso mosaico cosmico). Non sembra fuor di luogo, pertanto, il suggerimento di ripensare le proposte antropologiche e socio-politiche avanzate da dottrine ”integrali “ antiche e contemporanee e di diversa matrice culturale, quali il pensiero umanistico di Erasmo da Rotterdam e del latitudinarismo in generale, l’induismo di Mahatma Gandhi aperto al buddismo e al cristianesimo, il  personalismo cattolico soprattutto  di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain, il principio di responsabilità degli ebrei Huns Jonas e Emmanuel Lévinas, ovviamente senza disattendere le esigenze espresse anche dalle contemporanee teorie della filosofia sia continentale che analitica. L’obiettivo finale cui aspirare è di ritrovare quelle motivazioni etiche prima che giuridiche, capaci di offrire vitalità nuova alla convivenza pacifica e costruttiva tra gli uomini, in una rafforzata visione del dovere civile e morale dell’impegno anche politico, che incombe su ogni uomo e, in primo luogo, su chiunque scelga di dedicare – a tempo e comunque finchè ne sia richiesto - le sue energie al governo della cosa pubblica.

Ecco, a questo punto, l’urgenza di affiancare al politico di professione una nuova generazione di politici “di vero e solo servizio”, che possano convivere, nella reciproca stima, con i primi. Si tratterebbe di persone dedite ordinariamente ad un mestiere o a una professione, che scelgono di dare la propria disponibilità per un loro impegno nella politica attiva e, qualora ne sia il caso, di assumere impegni, in cui porre a disposizione di tutti le proprie competenze ed esperienze, ma sempre con il formale e pubblico impegno ad una partecipazione “solo a tempo” nelle istituzioni.

Sembra ormai inevitabile che una politica, che si proponga d’essere espressione di valori fondati sull’innegabile primato della persona umana, debba riprendere con urgenza indicazioni di elevato spessore umano e sociale, tali che innalzino il livello del confronto politico, spostandolo dalla mortificante combinazione di interessi materiali alla più vasta visione di obiettivi di portata generale, capaci di orientare la condivisione e la partecipazione anche di tutti i cittadini. Per questo è richiesta la presenza di personalità d’indiscussa esperienza, in grado di individuare gli interessi reali sottesi alle varie proposte politiche, dedicandosi con saggezza e prudenza  alla ricerca di soluzioni sempre aggiornate dei problemi specifici, ma nello stesso tempo tenendo sempre presente che bisogna costruire nuove stagioni di rifioritura etica e sociale nella vita sia tra i cittadini e  sia tra e nelle istituzioni. E’ un progetto certamente faticoso, ma è forse l’unico per ridare  senso alla partecipazione del “cittadino” all’impegno pubblico per il bene comune. E’ una proposta che richiede spirito di fiducia e di speranza: si tratta di gestire il presente, ma senza rimanere  oppressi dalla logica dell’imminente; è questo che si richiede a una società efficacemente partecipativa nelle vicende reali della vita comune. E soprattutto nei nostri giorni, quando la crisi dell'etica pubblica è sotto gli occhi di tutti.

domenica 9 giugno 2013

LA NON ESISTENZA DI DIO. LA DIMOSTRA DAVVERO LA “PROVA ETICA”?


 

“Il vero scoglio è la prova etica”: così titolava a caratteri cubitali la ‘Domenica’ de “Il Sole24Ore” del 12 maggio scorso (n. 128, pag. 35) il contenuto della conferenza tenuta da Arif Ahmed, docente di filosofia a Cambridge, giovedì 18 aprile 2013 alla Scuola Normale Superiore di Pisa, su invito del Centro di Filosofia della Scuola.

L’assunto mira a provare il fallimento d’ogni dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio. E questa è dottrina saldamente sostenuta e saldamente dimostrata già da numerosi pensatori fin dall’antichità. Poco fondate e convincenti appaiono, invece, alcune deduzioni che si vuole far discendere dall’assunto. Sembrerebbe, infatti, che l’incapacità della ragione di dimostrare l’esistenza di Dio ne comproverebbe, al contrario e simultaneamente, l’inesistenza. Questa conclusione, però, rimanendo nei limiti dei procedimenti puramente razionali, sarebbe incomprensibile: è, infatti,  contraddizione palese affermare che la ragione umana, incapace di dimostrare l’esistenza di Dio, sia in grado, poi, di dimostrarne l’inesistenza. Ma, a parere dell’autore, a ciò supplisce adeguatamente la testimonianza inconfutabile dei “fatti” storici compiuti nei diversi secoli dalle “chiese”. Sono questi a costituire il solido “scoglio della prova etica”, grazie al quale resterebbe finalmente smascherato il vero volto d’ogni “religione”: “C’è - si chiede sin dall’inizio l’autore - una qualche religione che è vera o che abbia qualche valore?”; e prosegue senza alcuna esitazione, asserendo: “Il modo migliore per affrontare questa domanda è mettere da parte le proprie convinzioni e cercare di guardare in modo spassionato alle prove disponibili”. E quali “prove” più inconfutabili della predicazione ingannevole della creazione d’un cosmo in sé ordinato e finalizzato alla vita degli uomini, dell’egoismo fratricida dominante nel mondo dei credenti, delle guerre di religione o comunque fatte spesso in nome di Dio, degli ibridi connubi delle chiese con i potenti di turno d’ogni tempo? E ciò proverebbe l’inesistenza di Dio.

Questi fatti sono registrati dalla storia: ma, oltre a provare dolorosamente l’incoerenza delle chiese e degli uomini di chiesa, hanno alcun valore riguardo anche la religiosità dell’uomo e la possibile esistenza di una realtà che trascenda la finitudine spazio-temporale e tenga vive le speranze d’un “aldilà della terra” e di un “oltre l’uomo”? Veramente sarebbero sufficienti alcuni eventi storici, opportunamente scelti e adeguatamente presentati, a documentare non solo la miseria delle chiese (soprattutto cattolica), ma anche l’inesistenza di un Dio? Sì, l’inesistenza di Dio; infatti, il problema della dimostrabilità razionale diventa immediatamente problema dell’esistenza stessa di un Dio. Sembra che si giunga alla negazione dell’esistenza di Dio, pur di poter denunciare la nociva inutilità e addirittura la “criminalità” delle chiese, e innanzitutto della chiesa cattolica: “Forse il crimine maggiore della chiesa cattolica – è scritto espressamente - è quello di offrire una falsa speranza a milioni di persone,inclusi i più poveri e gli oppressi, che inganna in modo che concedano credito a storie fantastiche e il loro denaro per i palazzi dorati dei vescovi”. E questa convinzione è talmente ferma da far confessare all’autore: “Sono convinto che qualsiasi persona non animata da pregiudizio, dopo aver esaminato i dati addotti come prova, debba concludere che la religione è priva di verità e di valore, che è una malattia originata dalla paura e una fonte di inaudita sventura per l’umanità”.

Si tralasci il dubbio se il “Divus Epicurus” accettasse nel suo Giardino chi nutrisse una simile convinzione sulla religiosità degli uomini; si tralasci pure la perplessità che nasce di fronte al pensiero che tantissimi esseri razionali in tanti lunghi secoli di ricerca siano stati sempre talmente “animati da pregiudizio” da essere incapaci di una propria pur minima autonomia di giudizio. Certo, dev’essere sempre costante il rispetto del pensiero degli altri; ma non si può nemmeno essere timidi e accoglierlo acriticamente, e nemmeno moralmente indifferenti per non segnalarne probabili conseguenze inesatte teoreticamente e imprudenti praticamente.

A sostegno della sua tesi l’autore avanza – talora anche con toni irridenti - la testimonianza che “la ragione umana si è mostrata sufficientemente ostinata da trovare fallaci tutti gli argomenti dei teologi, da Tommaso d’Aquino fino ai nostri giorni”; e si citano filosofi degli ultimi quattro secoli, tra cui Immanuel Kant, i quali “hanno detto più di quanto fosse necessario per stabilire, oltre ogni dubbio, che ben lungi dal guidare la ragione a Dio, questi argomenti  sono incapaci di reggere a uno scrutinio della ragione”. Kant, però, non azzarda coinvolgere questa debolezza della conoscenza umana con la cattiva condotta dell’uomo né tanto meno riduce la “razionalità” propria della natura umana alla sola attività gnoseologica.  La capacità conoscitiva dell’uomo, essendo finita, non può né deve oltrepassare i propri confini, senza cadere nelle favole della metafisica: quindi, saggiamente e onestamente professa un “agnosticismo” metafisico, che investe le “Totalità” del mondo creato, dell’anima umana e di Dio. L’agnosticismo gnoseologico non è, però, assoluta impotenza dell’umana razionalità, in quanto essa si attua proseguendo anche nella pratica della “volontà libera” e si conclude nell’armonia del “sentimento” che riflette ogni totalità, superandone e conciliandone ogni apparente contraddizione.

Kant, chiude definitivamente e inesorabilmente le porte a ogni forma di metafisica, ma apre e accoglie le sollecitazioni della “Totalità umana”. Del resto, per Kant la confutazione delle prove dell’esistenza di Dio fu opera facile, proprio perchè ebbe il coraggio di ammettere che un'esperienza religiosa basata su "prove teoriche" ha un valore molto relativo. Se dio, per poter essere creduto, va preventivamente "dimostrato", allora non è più grande dell'uomo che lo pensa e lo dimostra. Dio va “postulato” e rispettato per quello che la legge morale detta. Nella Prefazione della prima “Critica” (1781) scriveva: “La ragione umana (...) ha il destino particolare di essere tormentata da problemi che non può evitare, perché le son posti dalla natura della stessa ragione, ma dei quali non può trovare la soluzione, perché oltrepassano ogni potere della ragione umana”. Indubbiamente, quindi, s'egli fosse stato convinto del tutto delle sole “ragioni” della fede, non avrebbe scritto un'opera monumentale che lo vide impegnato ben 35 anni, al fine di cercare di risolvere umanamente quelle contraddizioni razionalmente insostenibili. E, infatti, il filosofo prosegue la sua speculazione, animato dall’umana ragionevole speranza di trovare appagamento a quell’esigenza. E lo fa senza paura di dissacrazioni o violazioni, ma non ricorrendo a metodologie di sapore pragmatico. Nella medesima prefazione, infatti, annota: “Il tempo nostro è proprio il tempo della critica, cui tutto deve sottostare. Vi si vogliono comunemente sottrarre la religione per la santità sua e la legislazione per la sua maestà: ma così esse lasciano adito a giusti sospetti, e non possono pretendere quella manifesta stima, che la ragione concede solo a ciò che ha saputo resistere al suo libero e pubblico esame”.

Sarebbe, così, “illusione comune” pensare che senza religione e senza Dio gli uomini sarebbero “soltanto macchine organiche” prive di qualunque senso e destinate a una fine totale. Nessuno ha mai risolto con razionale certezza il problema della preesistenza e dell’immortalità dell’anima umana, nemmeno ricorrendo alla teoria della “doppia verità” propugnata da certa filosofia araba e utilizzata infelicemente anche da alcuni pensatori; tuttavia sembra eccessivo asserire che “numerosi adulti possono trovare il proprio significato nella vita, mediante un lavoro creativo, o l’impegno politico o allevando figli. Il significato di questa vita è situato all’interno di essa, non in un qualsiasi magico regno dopo la vita”. E’ vero; ma forse è illusorio e rassicurante andare a trovarlo nelle occupazioni dell’operosità quotidiana. La vita non pare possa essere ridotta a uno spazio più o meno lungo di tempo da “riempire” con opere valide o imprese mirabili, che ne darebbero valore e significato; probabilmente è il contrario: è dal senso “della” propria vita che derivano le vere motivazioni e la nobiltà delle scelte e dell’operare dell’uomo, il quale prova certamente un vero tremore metafisico nel ricercare, trovare e accogliere il profondo senso “della” sua vita nella finitudine spazio-temporale. L’uomo probabilmente non è l’insieme delle sue azioni, ma – forse - le sue azioni sono la manifestazione e la concretizzazione di quello che lui è in sé e per sè. Qui interviene nuovamente con saggia prudenza Kant, che addita nelle “idee” la via regolativa per l’uomo. Nella “Analitica Trascendentale” ricorda agli uomini le idee platoniche, annotando con triste malinconia: se gli uomini, anziché deridere le idee di Platone, sapessero contemplarle e agire secondo il loro dettame, essi sarebbero più felici e il mondo diverrebbe sempre migliore. E’ chiaro che le idee non diventeranno mai completamente realtà, altrimenti non sarebbero più idee; ma è grazie ad esse che gli uomini possono vivere esistenze sempre meno infelici e più degne della loro natura. Per e nel rispetto di queste “idee” dovrebbe dedicarsi e agire la religiosità umana, talora travisata da certe chiese e strumentalizzata da alcune pseudo-religioni. Forse Platone, nel proporre all’uomo la purezza trascendente delle “idee”, aveva presente l’insegnamento del maestro Socrate, primo martire della filosofia occidentale, che con la morte ha testimoniato fin dove può e deve spingersi il coraggio della coerenza con i grandi “ideali”. Oggi tanto necessari per tutti, ma soprattutto per le nuove generazioni.

 

mercoledì 23 gennaio 2013

CASUALITÀ, DESTINO O LIBERTÀ?


L’intera durata dell’esistenza di ciascun vivente (soprattutto) umano, breve o lunga che sia, può essere interpretata e spiegata in maniere diverse, ma tutte ugualmente credibili e valide, perché tutte ugualmente dettate da intimi sinceri bisogni dell’animo e suggerite da profonde intense aspirazioni dell’umana sensibilità. La vita, pertanto, può essere intuita come un naturale spontaneo ininterrotto fluire di momenti e, di conseguenza, può essere vissuta come un regolare succedersi di accadimenti necessitati e imprevedibili. Oppure può essere concepita come un mosaico di fattura straordinaria, ma misteriosa e oscura, composta da tessere del tutto slegate e tra di loro indipendenti, collocate in un punto particolare per puro gioco del caso oppure  costrette dall’ignoto causale agire di forze sfuggenti a ogni possibilità di comprensione e, pertanto, imprevedibili, incontrollabili, ingovernabili da parte dell’uomo. A questi due principali e comuni modi d’intendere  il problema della vita umana, non si può non aggiungere almeno un altro, in apparenza poco rilevante e, quindi, non meritevole di considerazione; esso, però, è abbastanza diffuso e non sempre è riconducibile a superficialità di riflessione, a faciloneria di valutazione, a negligenza nelle scelte morali. Quest’ultima concezione consiste nell’inconfessata sfiducia in ogni agire umano, per cui si traduce in atteggiamenti di stanca resistenza e d’indolente disinteresse: si offusca il significato del proprio vivere, s’indeboliscono le virtù fondamentali, s’inaridisce la linfa vitale, che alimenta progetti esaltanti e vivifica scelte audaci; un’indolenza diffusa penetra pian piano nell’anima, permeando ogni fibra dell’essere umano, talora diventato passivo abulico spettatore d’ogni evento.

Certo, il dilemma esistenziale non è nuovo, né investe solo le menti più pensose o gli spiriti più riflessivi. E’ un problema che coinvolge tutti gli esseri razionali indistintamente e in maniera più o meno consapevole, qualunque cultura abbiano, qualunque sensibilità posseggano, qualunque situazione esistenziale vivano. Ed è un problema che trova sempre e comunque soluzioni differenti.

Perché io, in questo momento e in questo luogo, con queste doti positive e con questi caratteri negativi, con queste attitudini e con queste  aspirazioni, con queste simpatie e antipatie? Sono tanti interrogativi, che covano muti e inesorabili nel profondo dell’essere umano. Continuamente in agguato, ora balenano all’improvviso sogghignanti, per poi scomparire immediatamente e dileguarsi, qual guizzo fulmineo d’un fuoco fatuo; ora s’ergono e s’impongono, possenti e inesorabili, con piglio vigoroso e, qual giudici implacabili, pretendono con ostinata tenacia una qualche soddisfacente risposta. E ancora, a livello meno individuale, ci si chiede: chi o che cosa è il motore del cosmo? Chi ne assegna i traguardi? Chi ne decide la direzione? Chi muove le vicende del mondo e dell’umanità? Chi determina il cammino delle civiltà e dei popoli? Chi stabilisce le scelte dei singoli uomini e ne indica gli itinerari? Come si muove l’universo? E’ finito o infinito? E’ determinato o indeterminato? E’ vero, è reale che, tra tutti gli esseri viventi e non, l’uomo occupa un posto privilegiato o, comunque, particolare? Caso, caos, un Tutto architettato bene o congegnato male: cos’è quest’immenso universo conosciuto solo in minima parte dalla pur millenaria capacità conoscitiva dell’uomo?

Dove e come sia possibile attingere una risposta che appaghi, se non tutte, almeno qualcuna di queste domande è impresa molto faticosa e, comunque, non agevole. La tradizione, infatti, da parte sua, custodisce e lascia in eredità spiegazioni certamente plausibili e spesso anche seducenti, che hanno costellato il corso dei secoli e dei millenni: e tuttavia lasciano tutte, sempre, ampi aloni fitti di triste insoddisfazione. Le conquiste culturali e i progressi della scienza e della tecnica attuali, da parte loro, non solo non placano aneliti e non dissipano dubbi, ma addirittura ne accrescono la vastità e ne incrementano il vigore. Infatti, mentre s’arricchiscono senza sosta le conquiste della scienza e della tecnica al servizio d’un sempre più produttivo funzionamento delle attività dell’uomo, poco o nulla contribuisce a spiegarne le motivazioni e a comprenderne le giustificazioni. La cultura contemporanea, soprattutto occidentale, si affida sempre più esclusivamente ai poteri della ragione e della scienza, rincorrendo i miti della funzionalità e della praticità, per cui svaluta e spesso abbandona del tutto ogni altra componente della natura umana. Quest’eccesso di razionalismo inaridisce l’umanità, le strappa la gioia della totalità della vita e la priva della possibilità di provare il sapore della felicità autentica. Ecco, allora, la necessità di riappropriarsi della totalità dell’essere umano, costituito anche di sensazioni, impressioni, percezioni, sentimenti, emozioni, affetti, passioni: quella totalità che le culture antiche – particolarmente quella greca – definivano “eros”, cioè il fondamento dell’essere dell’uomo, la fonte della sua ragion d’esistere, la meta ultima, cui tendere ogni giorno in ogni azione. E’ quell’eros che ha originato il cosmo, che lo vivifica, che ne incrementa la vitalità e ne ripara gli errori; quell’eros che – se non censurato e limitato dalla prepotenza assolutizzante d’un ingiustificato razionalismo – dovrebbe ispirare le azioni dei singoli in sintonia sublime e dovrebbe indicare le scelte anche dei popoli, tra loro diversi, ma identici per natura e dignità.

"Noi – avvertiva già Socrate nel ‘Simposio’ - stacchiamo dalla totalità di Eros una determinata faccia: le attribuiamo il nome del complesso e la chiamiamo eros. Per le altre facce usiamo dei diversi nomi”; ma eros è una ‘passione’ che ha valenza universale, in quanto il suo fine, in definitiva, è raggiungere il bene, in modo continuativo, per essere felici. In definitiva, eros è l'espressione del nostro desiderio di trascendenza. Trattandosi di un ideale, può essere considerato come utopia, la quale però dà una direzione coerente alla nostra vita nella direzione della crescita e della trascendenza.

Meta grande e astratta? “La grandezza dell'uomo – sussurra Heidegger - si misura in base a quel che cerca e all'insistenza con cui egli resta alla ricerca”. Mezzo secolo prima, Nietzsche non aveva esitato nel dichiarare: “Si possono concepire i filosofi come persone che compiono sforzi estremi, per sperimentare fino a che altezza l'uomo possa elevarsi”. Senza mai dimenticare, comunque, il sofferto umano consiglio, che aveva suggerito Kant: “La ragione umana viene afflitta da domande che non può respingere, perché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, e a cui però non può neanche dare risposta, perché esse superano ogni capacità della ragione umana”.

 

 

 

 

 

domenica 8 aprile 2012

DEMOCRAZIA IN CRISI. DIGNITA’ UMANA E GIUSTIZIA SOCIALE

La “democrazia”, prima che una dottrina politica e una forma di governo, è una visione generale dell’uomo e del mondo, fondata su valori propri e caratterizzata da princìpi consolidati e storicamente sperimentati. La concezione ideale normalmente condivisa di democrazia è riassumibile nella formula “governo del popolo, da parte del popolo, per il bene del popolo”. Si tratta di un trinomio inseparabile, tale, cioè, che in mancanza di uno solo dei tre termini, la sostanza dello spirito democratico rimane incompiuta, falsata e tradita. Ogni popolo ha bisogno di una guida e, quindi, deve poter contare su un “buon governo”. Ad accollarsi questo peso e a caricarsi questa responsabilità debbono essere, perciò, guide esperte, sagge e prudenti; chiunque si gravi della responsabilità di governare un popolo deve possedere competenze adeguate, conoscenze ampie e idonee, doti morali d’indiscussa trasparenza, princìpi etici solidi ed esemplari. Il “governante”, che voglia essere e agire “democraticamente”, si deve astenere da ogni tornaconto personale o da qualunque interesse esclusivo di qualche gruppo, dedicandosi, al contrario, esclusivamente ad amministrare quale delegato da tutto il popolo e per il bene di tutto il popolo. Questo significa che egli, almeno per tutto il tempo in cui è responsabile della cosa pubblica, cessa d’essere cittadino “privato” o “di parte” e diventa “pubblico”, cioè di tutti; come tale deve sottoporsi a continua verifica da parte del popolo, in modo da potersi proporre a tutti come “modello” di onestà, di probità, di altruismo disinteressato e gratuito. Solo così sarà e mostrerà a tutti d’essere testimonianza di democrazia autentica: questa, infatti, è servizio rivolto a tutti e reso con impegno e disinteresse; servizio, cioè, che rigetta qualunque forma di attaccamento al potere e rifiuta ogni tentativo d’asservimento del potere a obiettivi personali o di parte.

La democrazia, di conseguenza, non resta mai una pura idea astratta, ma s’incarna nelle persone concrete che la gestiscono e si traduce in regole operative quotidiane, che ispirano e dirigono i comportamenti concreti sia dei governanti sia dei governati. E i caratteri fondamentali dello stile democratico risultano l’altruismo, la coerenza, l’integralità, la testimonianza. Grazie alla condotta suggerita da questi valori, il sistema democratico persegue e garantisce lo sviluppo materiale e morale dei singoli e dei popoli, in quanto permette di capire e di gestire il presente nel massimo rispetto del passato e nella ragionevole proiezione del futuro. Quando, invece, il sistema d’un governo e il modo concreto d’operare d’una democrazia s’allontanano dagli ideali democratici o addirittura ne tradiscono i valori fondamentali, s’apre inevitabilmente il precipizio delle crisi, che generano demagogie e sfociano in populismi più o meno camuffati.

Una delle conseguenze che nascono dalla crisi della democrazia è il dilagare dell’ingiustizia in ogni sua forma: da quella giuridica a quella politica, da quella sociale a quella economica. Ora, è innegabile che nei nostri tempi s’assiste a gravi casi d’indebolimento della democrazia e, in qualche caso, addirittura di un suo sostanziale tradimento. E, quando ciò accade, è perchè comincia a venir meno soprattutto il terzo termine del “trinomio democratico”; cioè, perché si dimentica il “bene di tutto popolo”, si trascura e si misconosce il “primato del bene comune”; e, siccome questo è il fondamento dell’intero sistema democratico, resta necessariamente compromesso l’intero assetto della società, che viene sommersa dalle macerie di quello stesso stato, che avrebbe dovuto tenerla riparata e tutelata.

Il segno più evidente di una democrazia in crisi è il graduale distacco tra governanti e governati: i primi diventano sempre più insensibili e sordi alle giuste esigenze dei secondi, i quali, sentendosi misconosciuti e vedendosi trascurati, perdono la fiducia in chi dovrebbe governarli, per cui ricercano direttamente vie più o meno traverse o imboccano scorciatoie forse criticabili, ma certamente per loro efficaci. Questa situazione, però, determina il rovesciamento del potere democratico, perché ne snatura l’essenza: esso, infatti, non è più servizio generoso e gratuito verso gli altri, ma diventa asservimento disumano degli altri agli interessi propri e di parte. Diventa, allora, normale, anzi legittimo e addirittura necessario il beffeggiare chi concepisce e compie l’impegno politico come “dovere morale” e, all’opposto, si sbandiera come naturale e giusta la pretesa di chiunque di disporre di un chimerico (e tuttavia arrogante e pericoloso) “diritto di fare politica” (intesa come ‘possesso del potere’), come se il governare un popolo possa essere uno dei tanti lavori, cui dedicarsi, per tener occupato piacevolmente il tempo della propria vita. Ovviamente in questo clima si creano gruppi di cittadini avversari, che si vivono non come compagni d’una stessa sorte, ma come rivali e addirittura nemici, che debbono combattersi reciprocamente, rivendicando ciascuno esclusivamente i propri bisogni. Attecchisce e prospera, così, la triste pianta dell’egoismo individuale e di gruppo, su cui s’innestano e prosperano demagogia e populismo capeggiati dall’astuto agitatore di turno.

Cosa aspettarsi da un simile stato di cose, se non il proliferare delle ingiustizie, naturalmente propagandate come necessarie premesse per successive conquiste di benessere di tutti? Ecco, allora, la gravità dei problemi generati da ogni crisi della democrazia. Problemi che possono essere risolti, almeno in parte, solo riscoprendo nella vita sociale la dignità della persona umana e riproponendo di fatto nel governo dei cittadini la centralità dei loro diritti e dei loro doveri in quanto persone tutte d’uguale valore. Questo significa creare e mantenere sistemi politici e governativi costruiti sulla “reciprocità”. Non è più pensabile, infatti, una società “gerarchica”, nella quale i cittadini siano divisi in classi diverse e, quindi, la distribuzione di diritti e di doveri sia “giusta”, solo se rispetta la “proporzione gerarchica”. Le società dei nostri giorni, invece, sono “egalitarie”, per cui si riconoscono tutti i cittadini di pari valore e di uguale dignità: di conseguenza, ogni cittadino, in quanto persona, gode degli stessi diritti e degli stessi doveri, indipendentemente dalla scala sociale di appartenenza. Questa concezione dell’uomo e della politica è quella proposta dal personalismo cristiano, secondo cui l’uomo è unità integrale di corpo e di spirito, aperto alla dimensione della socialità: cioè, è “persona” dotata di razionalità e di conoscenza, di volontà, di sentimento, di libertà e, quindi, di responsabilità, cui non può né deve rinunciare.

martedì 7 giugno 2011

GIOVANI, MORALE E FELICITÀ

Il mondo dei giovani d’oggi è una realtà complessa e mutevole e, proprio per questo, non si presenta come un sistema immediatamente e chiaramente riconoscibile. Esso è, piuttosto, come un universo aperto, nel quale s’incontrano e si scontrano inclinazioni diverse, talora contraddittorie. Questo potrebbe far pensare che è problematico formulare e presentare una proposta morale fatta su misura delle necessità dei giovani. Infatti, da una parte, negli ultimi decenni sono intervenuti mutamenti così rapidi e profondi che è quasi impossibile fare un confronto con il passato anche recente; dall’altra parte, le diversità del presente sono così importanti che non consentono di fare riferimento a modelli culturali certi. Ciò non toglie, però, che nel comportamento dei giovani dei nostri giorni esistano e si possano rintracciare tratti caratteristici, ai quali riferirsi, per sviluppare una proposta di morale. Questa proposta, però, non dovrà solo puntare a prescrivere precetti dettagliati e precisi, ma dovrà anche (e soprattutto) mirare a illuminare il campo della libertà dei giovani, offrendo loro la possibilità d’autonomia di giudizio e di responsabile autodeterminazione.

Sotto quest’aspetto si rileva subito un elemento significativo e importante: cioè la forte aspirazione dei giovani a ricercare la felicità, a soddisfare i loro bisogni, a migliorare la qualità della loro vita. Allora, è quanto mai doveroso fare i conti con quest’aspirazione dei giovani, stando attenti, però, tanto a non cedere ad accondiscendenze frettolose e ingenue, quanto a non rimanere prigionieri di prevenzioni e di paure eccessive. Infatti, se è vero che il far prevalere nelle scelte la libera decisione dei singoli può condurre ai pericoli dell’indifferenza e del relativismo, è anche vero, tuttavia, che può costituire una preziosa occasione, perché il giovane conquisti una più alta forma di moralità, centrata sulla maturazione della sua coscienza e sull'assunzione concreta delle sue responsabilità.

Del resto, oggi i giovani rifiutano chiaramente e con fermezza le morali, che si fondano su leggi oppressive e su imposizioni esterne, e reclamano con decisione una morale fondata sulla coscienza personale formata ragionevolmente e sulle responsabilità assunte volontariamente. Naturalmente quest’atteggiamento può nascondere equivoci e ambiguità, in quanto talora vuol significare un volersi “liberare” da insegnamenti scomodi e da proposte impegnative, per aderire (o meglio, per “asservirsi”) a modi di pensare propri del consumismo e libertarismo. E questo è un atteggiamento molto pericoloso, perchè non permette di stabilire e rispettare una scala di valori credibili e condivisi, in quanto molti bisogni, che vengono sollecitati dalla società, hanno lo scopo di mantenere sistemi socio-economici, che coprono profonde ingiustizie e gravi sperequazioni tra gli uomini.

Questa situazione, però, ha i suoi aspetti costruttivi, che sono d’estrema importanza. Infatti, con questa loro rivendicazione i giovani (nella loro maggioranza) esprimono l’esigenza di liberarsi da divieti inutili e di sottrarsi a tradizioni ormai superate, ma imposte autoritariamente dall’esterno. Essi rivendicano il bisogno di vivere secondo una propria identità: e questo bisogno non dev’essere interpretato con superficialità come il tentativo di sfuggire ai propri doveri, ma va inteso come il segnale del loro legittimo e lodevole ricercare una morale, che sia espressione della propria coscienza, la quale, in verità, è la vera sede delle decisioni umane autentiche. E’ chiaro, comunque, che quest’esigenza dei giovani va gestita con estrema prudenza: ne va compresa e valorizzata la ricchezza dei contenuti, ma, nello stesso tempo, ne vanno previsti e neutralizzati i pericoli d’ogni eccesso.

Solo in questo contesto, però, si può collocare il problema delle regole morali per i giovani. Infatti, il pericolo del relativismo morale è generato dalla confusione tra “valori” e “norme” di comportamento, per cui è necessario intendersi sul loro significato. I “valori” sono fondati direttamente sui diritti fondamentali della persona, per cui costituiscono il punto di riferimento essenziale della condotta umana. Le “norme”, invece, hanno, per loro natura, il carattere di relatività, in quanto sono (e debbono) essere dettate dalle situazioni concrete e, come tali, sono destinate a mutare col mutare delle condizioni sociali e culturali. Pertanto, una morale della responsabilità, che faccia appello innanzi tutto alla coscienza del singolo, dev’essere per la maggior parte impostata come “morale dei valori”, senza preoccuparsi eccessivamente di somministrare “ricette” particolareggiate valide per tutte le situazioni. Sottolineare eccessivamente l’importanza delle norme dettagliate, non solo determina atteggiamenti di pura acquiescenza, ma finisce anche per rendere labile nelle coscienze il rapporto con i valori.

Di qui l'esigenza di assumere, nel campo dell'educazione morale, un atteggiamento propositivo, che punti a offrire uno stile di vita complessivo, in cui ognuno sia capace di articolare autonomamente la scala gerarchica dei valori, e tale che venga assimilato in profondità dalla coscienza dei singoli. La vita morale, cioè, non va presentata come un’astratta ipotesi di principi sganciati dall'esistenza, ma come un cammino di crescita verso una meta ideale, i cui lineamenti vanno, di volta in volta, identificati nella loro concreta possibilità di attuazione dentro la vita della quotidianità. Oggi i giovani colgono con maggiore realismo la compresenza del bene e del male nella realtà della loro vita quotidiana e vivono con sofferenza la crisi dei valori veri e la sfiducia nelle capacità umane. Possono uscire da questo stato di sofferenza, solo se ritroveranno la fiducia nella propria ragione, capace di discernere e di decidere. Il recupero del valore della coscienza individuale – se bene inteso e lealmente perseguito - può costituire un momento felice per il recupero d’una nuova morale umana.

lunedì 9 maggio 2011

I GIOVANI E I VALORI DELLA VITA

Nei confronti della condotta di molti “giovani di oggi” non è né difficile né raro sentire affermare - forse un po’ troppo semplicisticamente - che essi non hanno valori che li sostengano e li guidino, non nutrono ideali che li facciano impegnare responsabilmente, non si prefiggono mete elevate da raggiungere, soprattutto se richiedono sacrificio. Insomma, i giovani di oggi non coltiverebbero interessi validi né per se stessi nè per gli altri, in quanto sarebbero privi di valori morali veri.

A questo punto, però, sembra opportuno chiedersi se sia davvero così. E, soprattutto, domandarsi: quali sono i valori che i giovani di ieri avevano e che i ragazzi di oggi dovrebbero avere e non hanno? Quali sono gli ideali che hanno fatto sognare e vivere la generazione di ieri e di cui l’attuale generazione sarebbe priva? Quali sono gli interessi che hanno animato i giovani dei decenni passati e che il giovane dei nostri giorni non apprezzerebbe? Sforzarsi di trovare lealmente risposte a questi interrogativi è di grande importanza per il bene sia dei giovani e sia dell’intera società. Infatti, il futuro delle società e il destino di tutta l’umanità sono strettamente connessi alle scelte dei giovani, da cui dipendono inevitabilmente. Entrare in contatto con i giovani, però, non è sempre facile, soprattutto quando essi sono sommersi da messaggi, che li spingono verso visioni incerte e superficiali della morale.

Per ottenere qualche risposta credibile, allora, è necessario in primo luogo decidere che cosa sono i valori morali e qual è la loro funzione. Ora, si possono considerare “valori morali” tutte quelle regole, quei principi e quelle linee di condotta, che consentono a ciascuno di progettare la propria esistenza, di stabilire le proprie priorità, per compiere le scelte individuali ritenute appropriate al proprio progetto di vita. Questo, in verità, vale per tutti e per ogni età; ma è maggiormente importante per i giovani, i quali, man mano che crescono, debbono affrontare le difficoltà di un mondo, che spesso non conoscono bene, per cui debbono possedere validi punti di orientamento, che li illuminino nel fare le scelte giuste.

Quando, però, si va ad individuare quelli che debbono essere i “punti di riferimento” fondamentali e i “valori” veri, nasce il bisogno di capire quali sono le responsabilità e il ruolo degli adulti in tutto ciò. Infatti, non possiamo pensare di cambiare la cultura o d’influire sulle persone, se non ci impegniamo noi stessi nel dare testimonianza sicura di quei valori, che richiediamo che ci siano e che vogliamo che gli altri condividano e facciano propri. Gli adulti, quindi, non possono pretendere dai giovani una testimonianza di vita morale, senza avere prima essi stessi sviluppato e testimoniato un proprio modo di vivere morale degno d’essere presentato alle nuove generazioni.

Ora, non c’è dubbio che alle nuove generazioni si cerca di dare (o, in alcuni casi, almeno di suggerire) sin dalla prima infanzia un indirizzo etico, perché è stata sempre riconosciuta l’importanza per ogni uomo di vivere secondo un comportamento degno della natura umana. E da sempre ci si è resi conto che la vita dell’uomo non può essere ridotta ai soli bisogni del corpo (magari da soddisfare con ogni mezzo), e all’inseguimento del benessere materiale (magari da raggiungere sempre e a ogni costo). L’uomo, infatti, è dotato anche di ragione e di spirito, per cui, in quanto essere umano, è prima di tutto capacità di ragionare e di decidere cosa fare, per vivere in maniera piena la propria esistenza e convivere con gli altri in condizioni serene. È grazie alla ragione esercitata nella vita quotidiana che nasce e si sviluppa in ciascuno il senso di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, cioè, l'idea di bene e di male. Quindi, conquistare forti valori morali, a cui ispirarsi nell'agire quotidiano, significa compiere un percorso, mediante il quale, giorno per giorno, attraverso anche fallimenti e afflizioni, si giunge a capire quello che per ciascuno è veramente importante e pieno di significato per la vita propria e degli altri.

Ovviamente questo percorso non viene compiuto nell’isolamento né viene realizzato nel chiuso del recinto della propria individualità. Non si nasce da soli, non si cresce da soli, non si vive da soli. L’uomo è un essere sociale: e sono proprio le persone che lo circondano che influenzano la sua strada e gl’indicano la via che potrebbe seguire; sono le persone più vicine che, inevitabilmente, influenzano la scelta di quelli che saranno i valori di ciascuno. Quindi, è innanzitutto dalla famiglia che giungono le prime e più importanti informazioni. Una famiglia, fondata sull’altruismo generoso e quotidianamente alimentata dal senso di donazione gratuita, comunicherà ai suoi membri certamente i valori della corresponsabilità, della complementarietà, della dedizione, della generosità; una famiglia, invece, fondata sull’egoismo, preoccupata solo per i propri problemi e attenta esclusivamente al raggiungimento dei propri interessi, non potrà che inviare messaggi d’assoluta indifferenza per gli altri e infonderà sentimenti d’insensibilità, di ostilità e di cinismo morale. All’azione della famiglia seguirà l’opera della scuola. Se nella vita della scuola ci sono operatori professionalmente preparati, umanamente pronti a intuire i problemi dei giovani e capaci d’indicare loro nobili traguardi, da raggiungere con sistemi onesti, certamente vengono gettati semi di rettitudine umana e di sana solidarietà, i quali, sviluppandosi, creeranno futuri uomini adulti maturi, che sapranno separare ciò che è buono da ciò che è cattivo. Infatti, quando il giovane, a suo tempo, s’inserirà nella vita della società, porterà in essa le idee rette, i principi sani e i valori morali, ch’egli ha acquisito e fatto propri, e arricchirà così tutti quelli che lo circondano a livello culturale, morale, politico e religioso.

Un compito non facile, che hanno dovuto affrontare anche i “giovani di ieri”, ma forse con una differenza notevole: oggi, infatti, messaggi pubblicitari e società esterna hanno assunto un’influenza maggiore che in passato. Ma è comunque importante che i giovani acquisiscano una morale, e non sottovalutino il ruolo che debbono svolgere: è nella loro buona condotta che si nasconde la speranza del mondo; un futuro morale degno dell’uomo dipende solo da loro. Infatti, i comportamenti di oggi segneranno fortemente il domani. Il problema è che a volte non sono solo i giovani a non avere valori morali, ma hanno le loro responsabilità anche i “grandi”.