Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

lunedì 26 aprile 2021

 

«NEL GRANDE SILENZIO»

Soliloquio di Nietzsche nell’«immensa impossibilità di parlare»

Pubblicato in Iuncturae il 30 aprile 2021


Friedrich Nietzsche (1844-1900) – interprete di una delle più radicali revisioni culturali dell’Occidente – in «Aurora» (1881) intitola il pensiero n.423 «Nel grande silenzio». E’ uno scritto breve ed essenziale, ma nella sua stringatezza denso di messaggi eloquenti, con i quali il filosofo manifesta il suo animo combattuto da opposte istanze e prefigura non pochi esiti del suo pensiero nichilista, indovinati ed efficaci anche per i tempi che ci è dato vivere.

Allontanatosi dalla ressa e dai frastuoni della «città» - confida il filoso - trova rifugio in riva al mare in un luogo solitario, che conciliava la meditazione sul senso immediato e finale del vivere cosmico e sulla destinazione dell’operosità e dei travagli degli uomini. La serena limpidezza dell’aria e la trasparente luminosità dei luoghi placavano il suo spirito stanco e sollecitavano la sua mente a meditare su problemi di vario interesse. Abbandonatosi completamente alla pace di quell’ambiente, il filosofo si sciolse da ogni reticenza e fuse i moti del suo essere con le palpitazioni della Natura, alla quale si rivolse con parole echeggianti un’antica intima frequentazione, amichevole e familiare: «Ecco il mare – le rivolse amabilmente soddisfatto -, qui possiamo dimenticare la città». Tutti, infatti, provati e stanchi per le vicissitudini della quotidianità, cercano un quieto riposo rigenerante, che favorisca l’oblio delle avversità e consenta lo scambio reciproco di confidenze di felicità e di sofferenza, di conquista e di fallimento.  

A chi accostarsi con fiducia e chiedere sostegno e conforto? Da chi aspettarsi chiarimenti e rassicurazioni sui destini umani? A chi affidare i segreti del proprio animo? Egli aveva già chiuso le porte a ogni tentativo metafisico, aveva demolito ogni realtà trascendente ed inoltre aveva annunciato la «morte di Dio», rivendicato dalle religioni quale fondamento e garante d’ogni forma di al di là e al di sopra di questo mondo. Ed era giunto a tali conclusioni con un percorso di pensiero meditato e sofferto, anche se complesso e apparentemente contraddittorio, soprattutto nei confronti della religione ricevuta dai genitori. Figlio, infatti, di un pastore protestante, egli stesso formatosi nella cultura del cristianesimo calvinista, con estrema onestà intellettuale e con esemplare coerenza morale aveva dovuto aderire ai dettami dell’esperienza della sua vita e alle risultanze per lui evidenti della ragione. «A chi -scrive senza esitazione – oggi mi si rivela ambiguo nei riguardi del cristianesimo non do neppure la mano. C’è solo un modo di essere onesto in proposito: un no assoluto» (Frammenti 1887-189, Postumi, KSA, 13, p. 416). Ma significativamente Karl Jaspers, introduce i suoi studi sul filosofo tedesco con un chiaro avvio, solidamente documentato: «La lotta di Nietzsche contro il cristianesimo nasce dalla sua propria essenza cristiana» (K. Jaspers, Nietzsche e il Cristianesimo, trad. it, Marinotti Edizioni, Milano 2008, p. 41).  Per le sue conversazioni intime, quindi, a Nietzsche non rimaneva che il dialogo franco e sincero con la Natura.  

Nietzsche, quindi, raggiunge la riva del mare. Domina l’ampio spazio circostante un silenzio profondo, interrotto, però, proprio in quel momento dallo «strepitare delle campane dell’Ave Maria […] ma solo per un istante ancora!»; era, infatti, soltanto il «sussurro - cupo e folle, eppur dolce - al crocicchio del giorno e della notte». L’animo del filosofo si riverbera sulla natura: lo «strepitare» delle campane non è percepito come un disturbo molesto, ma come l’amabile «sussurro cupo e folle, eppur dolce», che  al calar del sole accompagna e quasi protegge l’ostinato alternarsi delle ore e l’inesorabile consumarsi dei giorni della vita umana. Suono breve e rapido quello delle campane vespertine, ma carico di note sentimentali e di rimembranze emotive: «cupo e folle» come la mente degli uomini alla ricerca di senso e giustificazione alle scelte fatte sotto la tirannia del bisogno «folle» di dare ad esse fondamento e scopo ultraterreni; suono, però, anche «dolce», perché giunge come balsamo alle loro sofferenze inespresse, ma strazianti. Cessata la voce delle campane,  «ora tutto tace». La vasta distesa delle acque marine si offre tutta scintillante alla vista di chi la sta contemplando, ma «non può dire parola»; la volta celeste mostra il suo eterno spettacolo di luce e di colori, ma anch’esso «non può dire parola»; anche gli scogli, che vanno lentamente declinando verso le acque del mare calmo alla ricerca di un luogo ancor più appartato e solitario, «non possono dire parola». Tutti i protagonisti, concordemente, covano – e sembra frenino a fatica - un forte desiderio represso di emettere voci sinora soffocate e proferire parole risolute e chiare sinora trattenute. Nello stesso tempo i luoghi dintorno vibrano smorzati e palpitano sommessamente sotto il misterioso fitto velo del silenzio, e pare che tutto voglia esprimere un pensiero taciuto: «Questa immensa impossibilità di parlare, che ci coglie all’improvviso, è bella e agghiacciante: ne è gonfio il cuore». Mare, cielo, terra – e anche l’uomo - appaiono accomunati da un’unica esperienza esistenziale: sono tutti impediti di esprimersi chiaramente e di manifestarsi apertamente; tutti sembrano vittime e prede di forze ignote e comunque superiori, ch’essi subiscono mestamente, ma ne rispettano il potere coercitivo.

A questo punto il filosofo, come scosso da un guizzo di lucida razionalità e quasi sospinto dal risveglio della propria dignità, rompe ogni argine di misura e di riservatezza e dà libero sfogo all’impeto della rinvigorita volontà di potenza umana. Si strappa e butta via la maschera della finzione e – sapendo «Perché l’uomo non vede le cose? Perché vi ha interposto se stesso: egli nasconde le cose» (Aurora, Pensiero 438) – sbotta tra rabbia, sarcasmo e cinismo: «O ipocrisia di questa muta bellezza! Quanto bene saprebbe parlare, quanto male, anche, se volesse!».  La natura, però, non dà né ha alcun segno di reazione; resta muta, impassibile, impenetrabile. Il filosofo, tuttavia, avendo conosciuto per esperienza personale che le «Nature flemmatiche possiamo entusiasmarle  solo fanatizzandole» (Aurora, Pensiero 222) gioca d’astuzia, ricorrendo anche all’oltraggio fino all’irrisionee e allo scherno: «Il nodo della mia lingua e la sua dolorosa felicità nel viso – manifesta ironicamente alla natura che, a suo dire, poco prima l’aveva inebriato - è una malizia per deridere la consonanza del tuo sentire!». Era del tutto incomprensibile il mutismo ostinato della Natura. In fondo il filosofo non aveva chiesto la rivelazione di alcuna verità nascosta né aveva voluto estorcere lo svelamento di qualche segreto misterioso. Andava solo alla ricerca di qualche senso al vivere dell’uomo e del mondo; la stessa Hannah Arendt, peraltro, impegnata a decifrare l’animo di uomini malvagi, sosterrà che «Il bisogno di cercare una ragione non deriva dal desiderio di verità, ma dal desiderio di trovare un significato».

Nietzsche si rammarica, ma non si vergogna né si pente di questo suo comportamento e soprattutto d’essersi fatto zimbello di forze ignote; della Natura, invece, prova profonda compassione, perché essa è costretta a non parlare, «anche se – insiste quasi incattivito il filosofo, rivolgendosi rudemente alla Natura - è soltanto la tua malvagità ad annodarti la lingua: sì, io ti commisero a cagione della tua malvagità!». Il silenzio, però, si fa ancor più profondo e il cuore si gonfia nuovamente, perché «lo atterrisce una nuova verità: neppure esso può dire parola». Anch’esso con malvagità non parla e, insensibile quale simulacro marmoreo, con ghigno beffardo sembra irridere a ogni tentativo di comunicazione, per cui: «Il parlare, anzi il pensare – confessa tristemente il filosofo - mi è odioso: non odo forse, dietro ogni parola, ridere l’errore, l’immaginazione, lo spirito dell’illusione? Non devo irridere la mia pietà? Irridere la mia irrisione?».  Il mare, che con la sua tranquillità e la sua possente distesa d’acqua, aveva ispirato sentimenti di tenacia nella speranza, ora si mostra elemento imbelle e servile, quindi da irridere; la sera, che col suo regolare e progressivo scandire ore di luce e ore di tenebra, aveva confermato la realtà dell’eterno ritorno del tutto, ora getta l’animo nel dubbio e nell’incertezza, quindi da irridere; il cielo, che con la meraviglia inimitabile del suo cangiante manto variopinto, aveva infuso pensieri di eternità, ora si rivela terribile doloroso inganno, quindi da irridere. Mare, sera e cielo, «Voi – accusa il filosofo deluso e amareggiato - siete cattivi maestri! Voi insegnate all’uomo a cessare di essere uomo!». Non è, non può e non deve essere come la Natura presume e pretende insegnare: l’uomo, dotato di spirito apollineo unitamente all’energia dionisiaca, non si abbandona alla forza dell’istinto, vivendo «pallido, scintillante, muto, immenso, riposante su se steso». No! Ecco, allora, l’ammonimento del filosofo: «Conviene alla natura umana di un maestro, mettere i propri discepoli in guardia contro se stesso» (Aurora, Pensiero 447).

 

mercoledì 21 aprile 2021

 

CHI E’ IL POPOLO NELLA DEMOCRAZIA?

Pubblicato in Presenza Taurisanese a. aprile 2021,n. 327, pp. 13-14 

                                             Pubblicato in Iuncurae  il 30 aprile 2021

Non c’è società umana, organizzata civilmente e strutturata politicamente in un ben definito ordine giuridico, che non contempli il legittimo detentore della sovranità, riconosciuto e condiviso da tutti i cittadini. Anche nelle società organizzate e governate secondo la forma democratica, quindi, c’è il titolare della sovranità; ed è il démos, cioè il “popolo”, che, in quanto sovrano, non riconosce nulla e nessuno superiore a sé, a meno che non venga derubato e svuotato del suo potere. Ma chi è il popolo in una democrazia? Non certo quello di uno stato retto da una monarchia, in cui è costituito da sudditi devoti al re; o da una plutocrazia, in cui è costituito da consumatori al servizio del mercato; o da una oligarchia, in cui è costituito da anonimi individui divenuti muto gregge al seguito del padrone; o da una partitocrazia, in cui è costituito da miliziani scelti al servizio del leader.

Chi è, allora, il popolo d’una democrazia? Lungi dal porsi solamente come una moltitudine indistinta d’individui coabitanti nello stesso luogo, esso è un insieme di persone, tutte di pari dignità, unite tra di loro – con l’obiettivo finale di perseguire, accrescere e fruire del maggior bene comune possibile - da un rapporto di collaborazione costruttiva e strutturata in un complesso di tradizioni, consuetudini e norme, divenuto col tempo fonte e fondamento d’una propria Costituzione Nazionale.  Infatti, in uno dei Principi Fondamentali, sui quali si regge tutto l’articolato della Costituzione della Repubblica Democratica Italiana, si proclama solennemente che il popolo italiano  è la totalità dei cittadini, i quali “Hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). A ben riflettere, quindi, un Paese che voglia ritenersi, vivere e agire da “Paese Democratico” – come cittadinanza e come insieme ordinato di istituzioni statuali – si fonda preliminarmente e opera sostanzialmente nell’ottica d’una propria specifica visione generale del mondo, dell’uomo e delle loro storie. Pertanto, la democrazia di per sé non è semplicemente una tra le tante forme di governo, bensì prima di tutto ed essenzialmente una grande idea regolativa sia antropologica sia cosmologica, in quanto presuppone e si nutre d’una visione generale della realtà, nella quale non ci sono diversità e gradualità di valori, ma solo molteplicità e varietà di funzioni, tutte da rispettare e onorare secondo i principi di proporzionalità e necessarietà: in questa prospettiva di democrazia non esistono un centro e delle periferie economico-sociali-culturali, ma ogni singola realtà è contemporaneamente centro e periferia d’un’unica totalità  multicentrica.

Solo nella democrazia così definita radica e prospera la libertà civile e politica dei singoli cittadini e delle istituzioni che li governano; e solo nella libertà e con la libertà ha senso e concretezza la formula adottata ormai da secoli da tutti gli organi governativi democratici: “In nome del popolo sovrano”. Questa espressione, infatti, sintetizza e racchiude felicemente la coincidenza di Stato, in quanto organizzazione della comunità, e di Governo, in quanto organismo responsabile delle scelte politiche, e li correda di un valore, oltre che socio-economico, anche etico-politico, per cui divengono contemporaneamente fonti d’incremento culturale e gestori di potere “sovrano”, ma non nell’accezione di sovranismo o autoritarismo, bensì come concreta manifestazione e chiara espressione d’una volontà “democratica”, in quanto sono la voce indiscussa della volontà libera del popolo e, quindi, volontà democratica nel suo significato autentico e profondo: la democrazia è libertà dello spirito e delle intenzioni d’un popolo, che si realizzano nel concreto agire umano, cioè  nella vita e nell’azione politica.

Nasce, a questo punto, il problema di come il popolo eserciti materialmente la sua sovrana e libera volontà e di come la traduca concretamente ed efficacemente in azioni governative. La via della democrazia diretta – largamente usata in alcune città dell’antica Grecia - si rivela per i nostri tempi utopia e inganno per almeno due motivi principali. In primo luogo per  il  grande numero di cittadini delle odierne nazioni democratiche: basti pensare che lo stesso Jean Jacques Rousseau, già due secoli e mezzo fa, nello stendere le  Considerazioni sul Governo della Polonia  (pubblicate nel l 1782), proprio a causa della grandezza numerica della cittadinanza polacca, credette necessario, rifacendosi al suo precedente Progetto di Costituzione della Corsica (scritto nel 1768), suddividere la grande  nazione  della Polonia in piccoli stati tra di loro confederati. In secondo luogo, perché la democrazia diretta - nonostante l’utilizzo dei mezzi messi a disposizione dalla tecnologia più avanzata - di fatto, esclude il popolo dalla partecipazione attiva e consapevole alla vita politica nazionale. Infatti, nel mondo attuale della globalizzazione e dell’internalizzazione si richiedono, con urgenza sempre più pressante, velocità e decisionismo, tanto che da più parti si sente talora denunciare la lentezza e addirittura l’inutilità del voto e, quindi, dei Parlamenti, da sostituire ormai – senza alcun confronto di idee e senza un vero dialogo con i cittadini - con alcuni individui scelti col sorteggio, senza alcuna considerazione per le specifiche capacità amministrative, per  le necessarie doti morali e l’indiscutibile sensibilità  etica. L’importante è che siano pronti a decidere e svelti nel tagliare i tempi del profitto e dell’efficienza. In breve e in sostanza si celebra il trionfo del pragmatismo - attivo, operoso e sempre vincente - di pochi e, nello stesso tempo, si esclude il popolo e si condanna a morte la democrazia. La democrazia, infatti, è inclusione, riflessione e mediazione, e opera sempre al fine di ascoltare le voci di tutte le persone, di coinvolgere e tutelare tutti i cittadini, senza la presunzione di formulare arbitrariamente e proporre arrogantemente programmi ritenuti validi e proficui, ma che in effetti lasciano inascoltati e irrisolti i problemi reali di larga parte di cittadini,

Come via da percorrere rimane quella della democrazia rappresentativa, in cui il popolo - che evidentemente non può governare direttamente la “Res Publica” - delega, attraverso il voto, a propri eletti di governare, di fatto, in suo nome. In molte democrazie compiute della Terra – grazie proprio al voto popolare – si designano gli eletti (cioè, i deputati), alcuni a proporre, decidere e governare, e altri a correggere, suggerire, controllare quelli che governano: sono le cosiddette “maggioranza e minoranza”, che, ciascuna nel proprio ruolo, collaborano insieme – coerentemente con il significato etimologico e lo spirito autentico della democrazia, che è “servizio” di ciascuno verso tutti - al miglior governo possibile della cosa pubblica e per il bene comune. E’ il bipolarismo, per cui maggioranza e minoranza lavorano sinergicamente per il benessere e il progresso della nazione. Le cose cambiano, quando la “democrazia”, da governo voluto dal voto popolare, si tramuta in “potere” di partito o di partiti. Allora al posto della formula “in nome del popolo sovrano” si sostituisce di fatto l’altra “in nome del partito o della coalizione di partiti”, che sovrani non sono né possono essere. A questo punto la Democrazia è umiliata, tradita e annichilita: svuotata, infatti, dei suoi veri valori etici e privata dei suoi contenuti sociali e politi, viene ridotta ad asettico contenitore informe, disponibile ad accogliere qualunque mistificazione di realtà di privati o di comunità particolari o di piccole collettività.

La Democrazia, però, muore, perché non viene più alimentato il fuoco della fucina, nella quale – oltre che nella famiglia e nella scuola - si forgiano uomini probi, cittadini e lavoratori onesti, professionisti e imprenditori coraggiosi e, soprattutto si preparano e si cimentano amministratori responsabili e capaci, cioè i partiti politici.  Questi costituivano una fitta rete capillare di piccoli centri (le sezioni), che si diramavano da tutte le parti del Paese e confluivano tutti verso la capitale. In ogni “sezione” arrivavano quotidianamente i giornali organo d’ogni partito, con i quali si proponeva l’interpretazione dei fatti consona alle diverse visioni politiche, che i cittadini discutevano e commentavano talora animatamente e con sentita passione, espressione della aderenza e della fedeltà al proprio credo politico. Era un pulsare vivo di confronti di idee, che, arricchite del contributo di tante diverse opinioni, da ogni periferia giungevano ai deputati, che a loro volta recepivano e vagliavano nelle sedi parlamentari. Nelle “sezioni” di partito, infatti, s’incontravano cittadini d’ogni ceto sociale, s’accoglieva il contributo pronto e valido del movimento femminile e dei giovani, si approfondiva la reciproca conoscenza, si prendeva consapevolezza dei vari ruoli politici, s’apprendeva l’arte d’amministrare la cosa pubblica e, gradualmente e a tempo opportuno, si veniva designati – in base alle capacità e al merito - per i vari incarichi pubblici. Era l’applicazione e la realizzazione del dettato costituzionale: “Tutti i cittadini – sancisce l’articolo 49 - hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Quanto diverse - per natura, metodo, contenuti e finalità - le cosiddette “scuole di formazione politica” degli odierni partiti. Da circa un trentennio la Costituzione è disattesa. I partiti si sono svuotati di ideali e si sono riempiti di interessi personali e di parte, condividendo un umico denominatore            comune: acquistare e accrescere a qualunque costo potere e ricchezza. Ovviamente con la compagnia del séguito coerente di tutte le logiche conseguenze naturali, tra le quali non ci saranno né quella di bene comune né quella di rispetto del popolo,   (C.S.)