Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
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mercoledì 19 febbraio 2014

PER UNA POLITICA AL SERVIZIO DEL BENE COMUNE

Il cammino, che percorre la vita dei singoli e delle nazioni, è sempre determinato dagli orientamenti decisi di volta in volta dalle libere scelte degl’individui e dalle responsabili gestioni da parte dei governanti chiamati o comunque posti a guida dei popoli. Certo, non si possono svalutare e men che mai misconoscere gl’indirizzi di pensiero, che sostengono la dottrina del fatalismo o la concezione del determinismo; sembra, però, forse più consono alla dimensione razionale propria dell’uomo attribuire l’accadere degli eventi anche al libero e responsabile intervento degli uomini. Si tratterà indubbiamente d’interventi storicamente condizionati e, comunque, sempre commisurati alla facoltà volitiva dei singoli, alla capacità decisionale dei reggitori degli Stati e, non ultimo, supportati dal grado di maturità morale e di autonomia politica di ciascun popolo. Ogni tempo, pertanto, è tempo fatto di scelte alternative, tutte ugualmente legittime e possibili, ma fatte – ci si augura - con valutazione seria e prudente delle necessità reali, delle possibilità concrete di realizzazione e delle utilità ipotizzabili. Da qui la necessità d’una visione complessiva dei problemi politici, che permetta scelte in grado di garantire il destino dei popoli. E non solo dell’Occidente. Oggi, infatti, tempo della globalizzazione anche dei doveri e dei diritti, ricade su tutti la responsabilità di rinvenire e condividere una concezione antropologica ed etica, su cui edificare progetti validi di vita comunitaria, indubbiamente diversificati, ma sempre e comunque garanti e salvaguardia della dignità dell’uomo d’ogni cultura e d’ogni angolo dell’universo.

Questa esigenza non pare, però, sia avvertita da tutti e nel modo più adeguato. Si constata spesso, infatti, come da molte parti, anche da esponenti del mondo dell’economia, della politica e della stessa cultura, si faccia quasi a gara a individuare e denunciare le cause presunte dei disordini, che serpeggiano nelle varie nazioni e nei diversi settori della vita sociale; quasi sempre, tuttavia, sembra prevalere in loro la preoccupazione di valutare ed evidenziare le manifestazioni esteriori delle crisi indagate, senza almeno considerare prima di tutto le radici vere di tali sintomi. Sviati, pertanto, da questo fraintendimento, ricercano e suggeriscono come rimedio interventi di natura pragmatica, funzionali a situazioni particolari e settoriali, che toccano soprattutto il governo politico e l’equilibrio economico. Il complesso delle attività umane d’un popolo, però, non è fatto da una molteplicità di attività separate e giustapposte, ma è costituito in sistema unitario e organico, nel quale ogni attività s’accorda e si armonizza nella totalità del corpo sociale, secondo la gradualità del valore intrinseco di ciascuna. E’ questa totalità organica che nel suo insieme unitario deve tendere verso un unico sommo scopo: il bene comune. La vita d’una società, infatti, è simile a quella d’un organismo vivente, per cui il mal funzionamento d’un solo organo compromette la sanità dell’intero organismo. Nelle odierne situazioni di crisi sociali globali non è in causa il pervertimento di organi della società e di funzioni dello Stato, ma prima di tutto il deterioramento dell’intero tessuto sociale e politico, che determina e alimenta comportamenti dannosi. La diagnosi e la terapia, di conseguenza, debbono essere condotte secondo criteri di giudizio richiesti dal male da curare e non proposti e azzardati alla luce d’interpretazioni personali più o meno fondate o interessate; e debbono riguardare l’intero organismo sociale in ciò che esso contiene di più essenziale ed intimo, e non solo qualche settore più o meno evidente. E’ urgente, pertanto, ritrovare una visione culturale e politica integrale, che offra un’antropologia universale, nel senso che nessuna creatura pensante ne sia esclusa.

Gli uomini, però, nonostante ricerchino continuamente quale sia la loro vera dimensione esistenziale, tuttavia trovano raramente risposte veramente appaganti; forse perché non si ha il coraggio di prendere atto e di accettare la realtà sociale e politica per quello che essa è e si mostra oggettivamente. Ma solo in questo modo può concepirsi fondatamente e perseguire fattivamente il progetto d’una decorosa convivenza di uomini tra uomini, capaci di costruirsi la città: cioè, di fare politica ciascuno secondo le proprie risorse e capacità. Questa responsabilità etica verso il futuro anche degli altri non può essere, ovviamente, né affidata agli umori dei singoli governanti né lasciata in balia degli interessi dei diversi popoli e nemmeno delegata all’arbitrio di eventuali dirigenti non sempre animati da principi validi e nobili. Si rischierebbero molti pericoli. Per evitarli, è necessario provvedere un adeguato ordine giuridico, che determini il fine verso cui indirizzare ogni iniziativa e ne definisca tempi e modalità d’attuazione. Le leggi – secondo un’utile convinzione già del Rousseau – salvaguardano dall’eventuale volubilità del governante di turno, in quanto è autorità propria delle leggi e dell’intero ordine giuridico indicare l’ideale, cioè il vero regno delle finalità, cui gli uomini possono ragionevolmente e debbono moralmente aspirare. Le leggi, pertanto, salvaguardano e concretizzano libertà e doveri dei singoli, moralità ed eticità degli Stati. Diritti e doveri, dunque, non risultano stabiliti, concordati o elargiti dall’esterno della natura umana e della storia, ma sono insiti in esse. Lo stesso Giovanni Gentile, trascendendo il rigore logico del suo attualismo, ha scritto arditamente che “la società è dentro l’uomo”.

Ecco, allora, il legame, che unisce diritto ed etica; legame affidato, nella realtà, alla responsabilità di tutti, ma in primo luogo di chi sceglie o accetta di farsi carico del governo della cosa pubblica. Il nesso politica-diritto-morale è stato ed è essenziale in ogni tempo e in ogni situazione, ma s’impone con maggiore forza in tempi, in cui nelle scelte e negli orientamenti delle nazioni, l’affannosa ricerca dell’interesse privato e dei gruppi particolari prevale talmente che il sentimento dell’altruismo e la coscienza delle comuni responsabilità restano sovrastati e talora addirittura annichiliti. Non sembra fuor di luogo, pertanto, l’opportunità di ripensare le proposte antropologiche e socio-politiche avanzate da dottrine ”integrali “ del passato e del presente e di diversa matrice culturale, quali il pensiero umanistico di Erasmo da Rotterdam, gli sforzi dei movimenti ispirati al latitudinarismo e all’irenismo in generale e del XVII secolo in particolare, i messaggi dell’induismo di Mahatma Gandhi aperto al buddismo e al cristianesimo, il personalismo cristiano e in particolare cattolico soprattutto di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain, il principio di responsabilità altruistica degli ebrei Huns Jonas e Emmanuel Lévinas, ovviamente senza disattendere le esigenze espresse e proposte anche da teorie contemporanee della filosofia sia continentale che analitica. Questi pensatori - ciascuno con specificità proprie e nel contesto storico d’appartenenza – intuiscono e ammoniscono sostanzialmente che la politica reale, cioè il costruire fattivamente la città, non è assemblare attività staccate, ma strutturare un intero integrale di attività all'altezza di veicolare l’orizzonte di universalità in ciascuna società, in modo da consentire il graduale superamento dei limiti economici ed individualistici. Dal momento che la società è un organismo eminentemente etico, consegue che lo Stato dev’essere affidato in primo luogo a uomini testimoni e difensori della dignità integrale dell’uomo e del cittadino, e non gestito soltanto da professionisti dell’arte del governo e da tecnici esperti dei meccanismi economici e sociologici. Non si può, infatti, ritenere (come sembrano fare alcune concezioni di democrazia, già rappresentate in modo esemplare nella figura di “homo democraticus” da Alexis de Tocqueville in “La democrazia in America”), da una parte di esaltare la singolarità della natura umana, come pretenderebbe il liberalismo o, dall’altra parte, di sopravvalutarne la dimensione sociale, secondo il dettato del sociologismo sulle tracce del pensiero, tra gli altri, di Auguste Comte, Karl Marx, Emile Durkeim. Tanto l’irripetibilità dell’individuo quanto la sua dimensione sociale vanno sottratte ugualmente alla glorificazione dell’assoluta libertà del singolo, alla boria d’orgogli nazionali e, soprattutto, alle spesso dissennate richieste di mercato. La creazione e il mantenimento della società vanno restituiti al gesto libero e consapevole dell’uomo. Non si tratta di capovolgere le possibilità di relazioni singolo-società, ma solo di reinterpretarle in maniera che si salvino sempre e contemporaneamente la singolarità d’ogni cittadino e le indiscutibili esigenze di convivenza. Bisogna in ogni caso riscattare il responsabile intervento del cittadino nella società: egli, non una volta per tutte, ma momento per momento, quando e se lo vuole, deve poter decidere e lavorare per la costruzione della società, cui sceglie di partecipare.

L’obiettivo finale cui aspirare, pertanto, è di ritrovare le motivazioni etiche prima che giuridiche, capaci di offrire vitalità sempre nuova alla convivenza pacifica e costruttiva tra gli uomini, in una crescente visione del dovere civile e morale dell’impegno anche politico. Il quadro spesso davvero desolato del mondo contemporaneo, però, denuncia la carenza di queste istanze, poiché talora si preferisce ubbidire a qualcuno e sottomettersi a qualcosa piuttosto che affrontare le difficoltà per conquistare la propria formazione umana totale e, quindi, anche politica. L’attuale scena politica fa assistere a “politici di professione”, che all’occorrenza si fanno affiancare anche da “tecnici” per la soluzione di particolari situazioni sociali ed economiche. Questa collaborazione è lodevole ed esemplare. Però, a considerare bene i fatti, nascono dubbi e perplessità, quando si analizzano più a fondo le motivazioni, che determinano le scelte dei tecnici e dei politici di professione. Entrambe le figure operano senza dubbio legittimamente entro la propria logica professionale e politica; ma non si sa quanto integralmente umana. Non si sa, insomma, quanto la loro azione sia ispirata a motivazioni umane generali e non dettata, invece, da contingenze particolari.

Ecco, a questo punto, l’opportunità di affiancare al politico e al tecnico una generazione di “politici di solo servizio alla politica”, che possano collaborare, nella reciproca stima, con i primi. Si tratterebbe di persone dedite ordinariamente ad un mestiere o a una professione, che danno la propria disponibilità per un loro impegno nella politica attiva e, qualora ne sia il caso, anche di assumere impegni, in cui porre a disposizione le proprie competenze ed esperienze, sempre con la pubblica e vincolante promessa di una partecipazione solo a tempo e a titolo di gratuità. Cosa forse non facile. Queste persone, infatti, hanno non pochi motivi per tenersi distanti dalla vita politica. Le ambizioni di molti, nella realtà, renderebbero vana la loro opera; e il modo di pensare comune, convalidato dal corso dei fatti, attesta che il successo spesso premia l’andazzo ed emargina nell’indifferenza e nel silenzio chiunque s’opponga. Certo, questa proposta potrebbe suonare come una nostalgica aspirazione suggerita da rimpianti d’un passatismo mesto e sterile. E’ difficile a dirsi, quindi, se possa essere obiettivo realizzabile o chimera destinata a restare nel mondo degli ideali, come sogno bello o utopia vana. E’ un dubbio, comunque, che aveva assillato già Immanuel Kant, il quale, però, senza assumere alcuna aria di sufficienza ma speranzoso nell’umana ragione, si rispondeva che importante non è che l’ideale si realizzi, ma che l’uomo viva come se lo fosse; e ai suoi contemporanei, che deridevano le idee platoniche da lui riproposte, ribatteva che se, anziché deriderle, si dedicassero al loro possibile raggiungimento, tutto il mondo sarebbe andato certamente meglio.

Non c’è bisogno, allora, di una serie di soluzioni, ma di una soluzione unica e globale, cioè perseguire una politica, che si proponga di esprimere i valori propri della persona umana, riprendendo serie indicazioni d’elevato spessore etico, tali che innalzino il livello del confronto politico, spostandolo dalla mortificante combinazione di interessi parziali a una più vasta visione di obiettivi di portata generale. Per questo è opportuno il coinvolgimento di personalità d’indiscussa esperienza, ma anche in grado di individuare gli interessi generali. E’ un progetto certamente lungo e faticoso; ma forse è l’unico capace di ridare senso alla partecipazione politica del cittadino. E’ un progetto che richiede principalmente fiducia e speranza: si tratta, infatti, di gestire il presente, ma senza rimanere oppressi dalla logica dell’immediato, soprattutto se si considera la vera essenza della democrazia, che è una visione globale dell’uomo e del mondo e uno stile di vita privata e pubblica prima e più che una forma o una tecnica di governo. Essa, se inadeguatamente intesa e perseguita, corre il rischio di rimanere seriamente tradita nella sua stessa ragion d’essere di “governo del popolo, da parte del popolo, per il bene del popolo”, e può diventare dominio del numero più grande (non necessariamente sempre dei migliori) sul numero minore di cittadini (non necessariamente sempre dei meno buoni). E questo vale soprattutto nei nostri giorni, quando la crisi dell'etica pubblica è sotto gli occhi di tutti.

domenica 7 luglio 2013

UNA “POLITICA DI SERVIZIO” PER IL “BENE COMUNE”


L’uomo è da sempre alla ricerca della sua dimensione esistenziale. Individuo catapultato a caso nei vortici assurdi d’una realtà ignota e incomprensibile, oppure esistente partecipe d’un cosmo ordinato e razionalmente governato? Individuo collocato accanto ad altri individui, tra loro estranei e addirittura in lotta continua tra loro per il predominio o per la sola sopravvivenza, oppure persona protesa per sua natura verso altre persone, tutte in uguale tensione alla reciproca integrazione? Vale a dire, gli uomini sono singolarità intrinsecamente indipendenti e diverse oppure individualità autonome sì, ma anche aperte agli altri, col cui ausilio ciascuno realizzerà la propria realtà e il proprio progetto esistenziale? Insomma, cos’è veramente l’essere umano in sè e per sè? In che rapporto stanno gli uomini e il mondo, il singolo e gli altri, l’individuo e la società.
 
L’uomo ha sentito sempre il bisogno di trovare risoluzioni adeguate e soddisfacenti a questo problema; e, al fine di soddisfarlo, ha fatto ricorso a procedimenti logici, s’è servito della ragione e delle sue argomentazioni, ha invocato il sostegno dell’esperienza e l’autorevolezza della tradizione. E, tuttavia, ha trovato raramente risposte veramente appaganti. La sete conoscitiva dell’uomo, infatti, non s’estingue con i risultati del solo intelletto, ma esige il coinvolgimento e il sostegno della totalità della natura umana. Spesso, invece, l’uomo si limita a ragionare, s’aggrappa all’evidenza della sola logica astratta, ricorre a congetture personali, formulate secondo parametri soggettivi. Ma ogni realtà va scrutata e accettata così com’essa si mostra oggettivamente. Ora, anche le dimensioni vere della sociabilità dell’uomo non pare possano attingersi con la sola razionalità, ma necessitano della totalità della natura umana e, quindi, senza facili e comodi ricorsi a eventuali realtà sovrumane e soprannaturali.
 
L’uomo, allora, ponendosi da questa prospettiva e avvalendosi dell’ausilio d’ogni risorsa a sua disposizione, s’intuirà come immerso in una realtà dialettica, di cui dovrà cogliere e accogliere anche innegabili contrasti e opposizioni. Si sentirà, infatti, partecipe d’un universo multiforme e armonico, ma nello stesso tempo pervaso da strane inspiegabili contraddizioni e da assurde incongruenze. All’uomo, però, manca talora l’ardire di guardare in faccia questa realtà con la distaccata freddezza, necessaria per coglierne e accoglierne le verità ch’essa svela e che, quindi, l’uomo non può farsi a modo suo, ma deve solo accettare nella cruda oggettività, compresi, quindi, anche i tratti incomprensibili e gli aspetti persino misteriosi. Proprio come si comporta l’uomo saggio al cospetto del sole splendente nel cielo: egli non argomenta nè congettura nè dimostra la presenza del sole, si limita solo a sollevare gli occhi, guardare, narrare quello che gli si presenta davanti. Dovrebbe essere questo il comportamento da tenere anche riguardo la realtà del mondo e dell’umanità: conoscere veramente il mondo significa accoglierlo nella sua integralità costituita da finalità proprie, palesi o celate.

A fondamento d’ogni scelta teoretica e d’ogni opzione etica si deve preporre, quindi, innanzitutto una concezione antropologica e socio-politica globale e integrale, entro cui trovi e abbia senso il problema delle responsabilità, che ricadono sui singoli, sui popoli e sull’umanità intera. Di conseguenza, gli uomini debbono optare non solo e non tanto per alcuni valori anziché per altri, ma debbono prima e soprattutto ricercare e accogliere con responsabilità una concezione chiara e condivisibile di uomo e di mondo, su cui fondare e giustificare il senso delle scelte storicamente concrete: si tratta, quindi, d’una scelta preliminare e globale.
 
Ogni scelta storica, infatti, interessa indubbiamente il destino del singolo, ma nello stesso tempo coinvolge anche le sorti dell’evoluzione del mondo e la qualità della vita della società di cui è parte e, in prospettiva cosmopolita, dell’intera umanità. Questa naturale vocazione alla responsabilità verso l’altro (inteso come cosmo e come umanità) non può essere né affidata agli umori dei singoli né lasciata in balia degli interessi dei popoli e nemmeno delegata all’arbitrio di eventuali governanti non sempre animati da autentico spirito umano. Si rischierebbero molti pericoli. Per questo s’impone la necessità d’un’adeguata “legislazione”, cioè d’un insieme saggiamente strutturato di principi e di precetti, che determinino il fine verso cui indirizzare ogni iniziativa, definendone tempi e modalità d’attuazione. Il compito delle leggi e delle norme, infatti, è di indicare l’ideale, cioè di orientare verso il “dover essere”, vero regno dei fini, cui gli uomini possono ragionevolmente e debbono moralmente aspirare. Le leggi e le norme non limitano né condizionano, ma salvaguardano e concretizzano libertà e dovere del singolo, moralità ed eticità delle nazioni e dei popoli. I diritti e i doveri così sanciti non provengono, quindi, dall’esterno della natura e della storia dell’uomo, bensì risiedono dentro di esse e ne sono elementi costitutivi.

Ora, è certo che non si può mai misconoscere e tanto meno trascurare il legame, che unisce norma e morale, diritto ed etica; è un nesso essenziale, che s’impone, però, con maggiore forza in tempi, in cui nelle scelte dei singoli e negli orientamenti dei popoli e delle nazioni, prevale talmente l’affannosa ricerca dell’interesse dei privati e dei gruppi che restano sovrastati e talora addirittura annichiliti il naturale sentimento dell’altruismo e la coscienza delle comuni responsabilità. In questi periodi è più che mai necessario rinverdire, se non addirittura rifondare, una concezione dell’uomo il più integrale possibile, evitando chiusure concettuali preconcette e aprendosi a comportamenti ispirati alla vera dignità dell’uomo.

Infatti, concezioni parziali, anche se legittime, sarebbero insufficienti e, quindi, necessariamente non del tutto esatte ed esaustive. Non pare, perciò, possano ritenersi accettabili le teorie dell’individualismo e del collettivismo, che considerano l’uomo rispettivamente o individuo autosufficiente ed egocentrico (quasi atomo insignificante d’un mondo caoticamente strutturato) oppure parte significativa solo nel necessitante nesso col tutto (quasi tessera d’un immenso misterioso mosaico cosmico). Non sembra fuor di luogo, pertanto, il suggerimento di ripensare le proposte antropologiche e socio-politiche avanzate da dottrine ”integrali “ antiche e contemporanee e di diversa matrice culturale, quali il pensiero umanistico di Erasmo da Rotterdam e del latitudinarismo in generale, l’induismo di Mahatma Gandhi aperto al buddismo e al cristianesimo, il  personalismo cattolico soprattutto  di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain, il principio di responsabilità degli ebrei Huns Jonas e Emmanuel Lévinas, ovviamente senza disattendere le esigenze espresse anche dalle contemporanee teorie della filosofia sia continentale che analitica. L’obiettivo finale cui aspirare è di ritrovare quelle motivazioni etiche prima che giuridiche, capaci di offrire vitalità nuova alla convivenza pacifica e costruttiva tra gli uomini, in una rafforzata visione del dovere civile e morale dell’impegno anche politico, che incombe su ogni uomo e, in primo luogo, su chiunque scelga di dedicare – a tempo e comunque finchè ne sia richiesto - le sue energie al governo della cosa pubblica.

Ecco, a questo punto, l’urgenza di affiancare al politico di professione una nuova generazione di politici “di vero e solo servizio”, che possano convivere, nella reciproca stima, con i primi. Si tratterebbe di persone dedite ordinariamente ad un mestiere o a una professione, che scelgono di dare la propria disponibilità per un loro impegno nella politica attiva e, qualora ne sia il caso, di assumere impegni, in cui porre a disposizione di tutti le proprie competenze ed esperienze, ma sempre con il formale e pubblico impegno ad una partecipazione “solo a tempo” nelle istituzioni.

Sembra ormai inevitabile che una politica, che si proponga d’essere espressione di valori fondati sull’innegabile primato della persona umana, debba riprendere con urgenza indicazioni di elevato spessore umano e sociale, tali che innalzino il livello del confronto politico, spostandolo dalla mortificante combinazione di interessi materiali alla più vasta visione di obiettivi di portata generale, capaci di orientare la condivisione e la partecipazione anche di tutti i cittadini. Per questo è richiesta la presenza di personalità d’indiscussa esperienza, in grado di individuare gli interessi reali sottesi alle varie proposte politiche, dedicandosi con saggezza e prudenza  alla ricerca di soluzioni sempre aggiornate dei problemi specifici, ma nello stesso tempo tenendo sempre presente che bisogna costruire nuove stagioni di rifioritura etica e sociale nella vita sia tra i cittadini e  sia tra e nelle istituzioni. E’ un progetto certamente faticoso, ma è forse l’unico per ridare  senso alla partecipazione del “cittadino” all’impegno pubblico per il bene comune. E’ una proposta che richiede spirito di fiducia e di speranza: si tratta di gestire il presente, ma senza rimanere  oppressi dalla logica dell’imminente; è questo che si richiede a una società efficacemente partecipativa nelle vicende reali della vita comune. E soprattutto nei nostri giorni, quando la crisi dell'etica pubblica è sotto gli occhi di tutti.

domenica 8 aprile 2012

DEMOCRAZIA IN CRISI. DIGNITA’ UMANA E GIUSTIZIA SOCIALE

La “democrazia”, prima che una dottrina politica e una forma di governo, è una visione generale dell’uomo e del mondo, fondata su valori propri e caratterizzata da princìpi consolidati e storicamente sperimentati. La concezione ideale normalmente condivisa di democrazia è riassumibile nella formula “governo del popolo, da parte del popolo, per il bene del popolo”. Si tratta di un trinomio inseparabile, tale, cioè, che in mancanza di uno solo dei tre termini, la sostanza dello spirito democratico rimane incompiuta, falsata e tradita. Ogni popolo ha bisogno di una guida e, quindi, deve poter contare su un “buon governo”. Ad accollarsi questo peso e a caricarsi questa responsabilità debbono essere, perciò, guide esperte, sagge e prudenti; chiunque si gravi della responsabilità di governare un popolo deve possedere competenze adeguate, conoscenze ampie e idonee, doti morali d’indiscussa trasparenza, princìpi etici solidi ed esemplari. Il “governante”, che voglia essere e agire “democraticamente”, si deve astenere da ogni tornaconto personale o da qualunque interesse esclusivo di qualche gruppo, dedicandosi, al contrario, esclusivamente ad amministrare quale delegato da tutto il popolo e per il bene di tutto il popolo. Questo significa che egli, almeno per tutto il tempo in cui è responsabile della cosa pubblica, cessa d’essere cittadino “privato” o “di parte” e diventa “pubblico”, cioè di tutti; come tale deve sottoporsi a continua verifica da parte del popolo, in modo da potersi proporre a tutti come “modello” di onestà, di probità, di altruismo disinteressato e gratuito. Solo così sarà e mostrerà a tutti d’essere testimonianza di democrazia autentica: questa, infatti, è servizio rivolto a tutti e reso con impegno e disinteresse; servizio, cioè, che rigetta qualunque forma di attaccamento al potere e rifiuta ogni tentativo d’asservimento del potere a obiettivi personali o di parte.

La democrazia, di conseguenza, non resta mai una pura idea astratta, ma s’incarna nelle persone concrete che la gestiscono e si traduce in regole operative quotidiane, che ispirano e dirigono i comportamenti concreti sia dei governanti sia dei governati. E i caratteri fondamentali dello stile democratico risultano l’altruismo, la coerenza, l’integralità, la testimonianza. Grazie alla condotta suggerita da questi valori, il sistema democratico persegue e garantisce lo sviluppo materiale e morale dei singoli e dei popoli, in quanto permette di capire e di gestire il presente nel massimo rispetto del passato e nella ragionevole proiezione del futuro. Quando, invece, il sistema d’un governo e il modo concreto d’operare d’una democrazia s’allontanano dagli ideali democratici o addirittura ne tradiscono i valori fondamentali, s’apre inevitabilmente il precipizio delle crisi, che generano demagogie e sfociano in populismi più o meno camuffati.

Una delle conseguenze che nascono dalla crisi della democrazia è il dilagare dell’ingiustizia in ogni sua forma: da quella giuridica a quella politica, da quella sociale a quella economica. Ora, è innegabile che nei nostri tempi s’assiste a gravi casi d’indebolimento della democrazia e, in qualche caso, addirittura di un suo sostanziale tradimento. E, quando ciò accade, è perchè comincia a venir meno soprattutto il terzo termine del “trinomio democratico”; cioè, perché si dimentica il “bene di tutto popolo”, si trascura e si misconosce il “primato del bene comune”; e, siccome questo è il fondamento dell’intero sistema democratico, resta necessariamente compromesso l’intero assetto della società, che viene sommersa dalle macerie di quello stesso stato, che avrebbe dovuto tenerla riparata e tutelata.

Il segno più evidente di una democrazia in crisi è il graduale distacco tra governanti e governati: i primi diventano sempre più insensibili e sordi alle giuste esigenze dei secondi, i quali, sentendosi misconosciuti e vedendosi trascurati, perdono la fiducia in chi dovrebbe governarli, per cui ricercano direttamente vie più o meno traverse o imboccano scorciatoie forse criticabili, ma certamente per loro efficaci. Questa situazione, però, determina il rovesciamento del potere democratico, perché ne snatura l’essenza: esso, infatti, non è più servizio generoso e gratuito verso gli altri, ma diventa asservimento disumano degli altri agli interessi propri e di parte. Diventa, allora, normale, anzi legittimo e addirittura necessario il beffeggiare chi concepisce e compie l’impegno politico come “dovere morale” e, all’opposto, si sbandiera come naturale e giusta la pretesa di chiunque di disporre di un chimerico (e tuttavia arrogante e pericoloso) “diritto di fare politica” (intesa come ‘possesso del potere’), come se il governare un popolo possa essere uno dei tanti lavori, cui dedicarsi, per tener occupato piacevolmente il tempo della propria vita. Ovviamente in questo clima si creano gruppi di cittadini avversari, che si vivono non come compagni d’una stessa sorte, ma come rivali e addirittura nemici, che debbono combattersi reciprocamente, rivendicando ciascuno esclusivamente i propri bisogni. Attecchisce e prospera, così, la triste pianta dell’egoismo individuale e di gruppo, su cui s’innestano e prosperano demagogia e populismo capeggiati dall’astuto agitatore di turno.

Cosa aspettarsi da un simile stato di cose, se non il proliferare delle ingiustizie, naturalmente propagandate come necessarie premesse per successive conquiste di benessere di tutti? Ecco, allora, la gravità dei problemi generati da ogni crisi della democrazia. Problemi che possono essere risolti, almeno in parte, solo riscoprendo nella vita sociale la dignità della persona umana e riproponendo di fatto nel governo dei cittadini la centralità dei loro diritti e dei loro doveri in quanto persone tutte d’uguale valore. Questo significa creare e mantenere sistemi politici e governativi costruiti sulla “reciprocità”. Non è più pensabile, infatti, una società “gerarchica”, nella quale i cittadini siano divisi in classi diverse e, quindi, la distribuzione di diritti e di doveri sia “giusta”, solo se rispetta la “proporzione gerarchica”. Le società dei nostri giorni, invece, sono “egalitarie”, per cui si riconoscono tutti i cittadini di pari valore e di uguale dignità: di conseguenza, ogni cittadino, in quanto persona, gode degli stessi diritti e degli stessi doveri, indipendentemente dalla scala sociale di appartenenza. Questa concezione dell’uomo e della politica è quella proposta dal personalismo cristiano, secondo cui l’uomo è unità integrale di corpo e di spirito, aperto alla dimensione della socialità: cioè, è “persona” dotata di razionalità e di conoscenza, di volontà, di sentimento, di libertà e, quindi, di responsabilità, cui non può né deve rinunciare.