Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
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giovedì 21 maggio 2020

NOTE SUL PENSIERO POLITICO IN LUIGI CORVAGLIA Popolo Sacralità Religiosità




*Pubblicato in Prsenza Taurisaneze, a. XXXVIII, , n. 320, , maggio-giugno 2020, pp. 13-14.

La produzione letteraria, filosofica e politica di Luigi Corvaglia è pervasa da un sentimento di perenne fede razionale, che si sostanzia del convincimento che il reale costituisce un’infinita Totalità indivisibile sia della natura e sia dell’umanità. Nelle sue opere, infatti, prevale una visione dell’uomo e del mondo, che affonda le radici nel naturalismo antropocentrico del XV e XVI secolo, il quale a sua volta aggiorna e reinterpreta il panvitalismo dell’antica filosofia greca, soprattutto del neoplatonismo. Privati di questa solidità speculativa, gli scritti corvagliani rischiano di non essere compresi in modo veritiero ed esaustivo, e addirittura d’essere fraintesi. In tutte le sue opere – Commedie, Romanzo, Scritti Politici – Corvaglia dissemina affermazioni e riflessioni sull’infinito universale, di cui ogni realtà individuale è parte viva e indispensabile.  Nella commedia “Tantalo”, alla vista d’una processione di monaci benedettini cantilenanti tristi nenie, l’Autore chiosa: “Anime penanti sono. Hanno il vero infinito e lo vogliono vivisezionare. Creati all’infinito si studian di porlo sotto chiave, illudendosi di poter dire ‘l’Infinito è mio’. Mentre è di tutti. Anzi è in tutti! In un punto che si chiama io (…). Sfugge il senso dell’universale. Fuori di quell’infinito mancherà il senso della nostra destinazione immanente (“Tantalo”, Fratelli Carra Editori, ,Matino, 1929, p. XXXVIII). Nel romanzo “Finibusterre” afferma per bocca del suo alter ego, don Paolo Santacroce, che l’uomo durante la vita terrena deve rimanere saldo come roccia, perché è parte dell’infinito e “l’impronta del divino, una volta impressa, non si cancella più” (Finibusterre, Editrice Dante Alighieri, Roma,1936, p. 326).

Per il Corvaglia questa concezione “panica” è condizione pregiudiziale e preliminare per la conoscenza della realtà cosmica e per la padronanza della vita dell’uomo e di tutta la sua storia, in quanto è essa a dare il senso a ogni esistenza particolare, indicandone l’ideale e il fine. E’ una verità di fatto, indiscutibile e inviolabile, per cui assume il carattere impresso della sacralità, senza la quale qualunque realtà perde pregnanza di senso e di valore. L’uomo, allora, ha una propria collocazione storico-temporale e una propria destinazione socio-culturale, finalizzate al progresso e al miglioramento delle condizioni dell’umanità; è nelle sue capacità comprendere pienamente e realizzare responsabilmente il proprio ruolo per il concreto e retto cammino dell’Umanità. Pensare altrimenti e sostenere idee diverse significa illudere le menti, dissacrare il vero, impoverire lo spirito e fuorviare o impedire del tutto i percorsi storici. Da qui la denuncia di Corvaglia dei pericoli, che presentavano alcuni cattivi maestri del suo tempo: “Come vi sono dei poeti maledetti vi hanno dei dottrinarii maledetti”, scrive nel 1944, riferendosi a certi, che, spacciandosi per seguaci di Nietzsche, ma in realtà sulla base della loro “grossolana interpretazione”, predicavano che “l’uomo non deve abituarsi più a vivere come uomo del gregge e,  per raggiungere ciò, deve distruggere in sé la morale cristiana, il romanticismo e l’idealismo” (Quaderni mazziniani, n. 3”, Carra Editori, pp.. 7-8). La verità, invece, è l’opposto. All’eroismo dell’azione eccezionale e alla grandiosità del superomismo in voga in quegli anni bisogna opporsi con decisione, propugnando idee nobili e degne dell’uomo e coltivando il valore vero della vita quotidiana, comune, onesta e laboriosa, con cui si realizzano – mediante il lavoro onesto, tenace e assiduo e corrispondente alle capacità e ai legittimi desideri di ciascuno – concrete opere straordinarie e durature, come attesta “la gente seria, umile e operosa del Salento” (Quaderni mazziniani, n. 3”, op. cit., pag. 52).

I fondamenti essenziali più significativi del pensiero politico di Corvaglia – che s’ispira allo spiritualismo francese soprattutto di Robert de Lamennais e rimane sempre coerente con il pensiero mazziniano – sono la dottrina socio-politica di popolo e l’idea religiosa d’un’unica suprema divinità. Il popolo – argomenta il Corvaglia – è la totalità di tutti gli umani esistenti, uguali per natura, diversi per abilità, ma di pari dignità. Essi nel loro insieme costituiscono un organismo morale, in cui, similmente a un organismo fisico, i singoli organi, pur differenti per costituzione, attività e funzione, operano tutti in sintonia armonica per la salute dell’intero organismo. Sarebbe innaturale e assurdo un conflitto tra di loro, in quanto ciò condurrebbe fatalmente alla reciproca distruzione. Analogamente dovrebbe pensarsi del corpo sociale. Da qui discendono due corollari: il rigetto d’ogni forma di lotta sociale e di classe e il rifiuto d’ogni materialismo. “Diciamolo con fermezza – sostiene decisamente il Corvaglia, marcando nel 1944 i confini con il neonato Partito d’Azione, che ipotizzava alleane con partiti marxisti -. Noi (mazziniani) non siamo socialisti. Noi non possiamo esserlo, perché mazziniani. Noi non siamo comunisti. E’ vano cercar di spiritualizzare questi materialismi con temperamenti. Se essi tollerano tali  rinfianchi, non sono più né socialismo né comunismo. Sono il loro contrario. Debbono cercarsi lealmente in altre correnti dottrinarie denominazioni appropriate. Se non li tollerano, è vano travestirli con paludamenti, più vano ancora se coi mazziniani” (Quaderni mazziniani, Carra Editori, numero 1, p.17). L’opposizione di Corvaglia ai “socialismi”, quindi, non è preconcetta o ideologica. L’uomo è materia e spirito in reciproca interdipendenza, ma con indiscutibile priorità dello spirito, che può e deve guidare e indirizzare le esigenze anche della materialità. I problemi dell’uomo sono innanzitutto di natura morale e spirituale, per cui, ridurli a problemi materiali e sociali e cercarne le soluzioni in chiave economico-sociale, significa non solo lasciarli incompresi e irrisolti, ma addirittura aggravarli. E‘ necessario, allora, da una parte “educare” il popolo, perché abbia coscienza dei suoi veri bisogni e, dall’altra parte, trovarvi concreti e adeguati rimedi. E - sulle tracce di Giuseppe Mazzini – sottolinea la necessità di educare il popolo al senso del dovere, insieme alla difesa dei diritti: ciò per due motivazioni. In primo luogo, perché l’assolvimento dei doveri è legato alla responsabilità solidale propria di ciascuno, mentre la fruizione dei propri diritti dipende dalla coerenza morale degli altri; ed è utopico pensare di poter imporre agli altri il senso del dovere con strumenti legislativi o comunque coercitivi. In secondo luogo, la formazione del senso del dovere genera la cultura della reciproca integrazione, mentre il puntare sulla rivendicazione di diritti non può che determinare situazioni culturali e sociali di conflittualità, destinate solo a creare nuove forme  d’ingiustizia, che scateneranno nuove lotte.

Perché queste prospettive non restino solo ideali a cui tendere, ma si concretizzino, è indispensabile che la società si doti d’una forma di governo, che contempli e favorisca le legittime esigenze del cittadino di giustizia e di libertà. E questa non può essere certo la forma monarchica, come testimoniano le vicende del suo “maestro” Mazzini, perseguitato dalla monarchia sabauda e perpetuo esule per le sue idee  antimonarchiche. Nelle monarchie s’affievolisce fino all’estinzione la capacità di pensare autonomamente e di volere liberamente: non si è mai cittadini, ma solo e sempre sudditi. In “ Finibusterre” Orfano, rivoluzionario della setta dei “Decisi”, di fronte alle sventure di Pietro, sbotta: “Bisogna farlo giusto il destino (..),  E sai di chi è la colpa? Dei governi. Dei Birboni specialmente. Se fosse Repubblica, si comanderebbe a turno, un po’ per uno, oggi io, domani tu, e il pane si spartirebbe a once, secondo la fatica, ché tutti fratelli siamo” (Finibusterre, op. cit., pp.  133-134).
Non meno incisivo e chiaro è il suo pensiero riguardo la religione, la cui interpretazione, però, non è né facile né agevole. Certamente egli non credeva in una religione che postulasse forme di verità rivelate, né tanto meno accettava una religione istituzionalizzata e organizzata in chiese. La sua fede religiosa si può definire un deismo immanentistico; quindi, una ferma convinzione dell’esistenza d’una divinità sempre presente e sempre operante nella storia degli uomini e nelle vicende universali del mondo. Questo spiega il suo sofferto ma fermo sdegno per le forme solo esteriori di culto, vuote d’ogni autentico sentimento interiore di devozione.  “Non sono io che nego Dio – ribatte il professor Tito all’accusa rivoltagli  - . Io sento di custodire Dio in me. In forma meno gretta e personale di quella che è in moda. Effigie per monete false. Dio è svuotato ormai. N’è rimasto il fantoccio” (La casa di Seneca”, Fratelli Carra Tipografia, Matino, 1926, p. 82). Particolarmente significativa rimane una pagina del “Viaggio in Ispagna”. Alla vista della facciata della cattedrale di Burgos, esclama: “Ebbi un tuffo nel sangue. Veniva a galla l’uomo, con la sua benedetta natura sentimentale e con quel groppo che mi piglia alla gola (…), quando mi trovo dinnanzi alle forme del divino (…). M’echeggiava dentro la rampogna ‘Ubi est Deus tuus? Che ne hai fatto? Straziante nostalgia di questo divino epico che ha parlato, così potentemente, al cervello e al cuore dei nostri padri, da renderli capaci di creare forme di bellezza sovrumane, mentre s’è spento in noi (…). Queste cose vive eroiche eterne, impastate di lagrime, di sangue, di fede, l’abbiamo create noi dall’eterno che era in noi, nella nostra famiglia universale di credenti”.(Introduzione a S. Teresa e Aldonzo, pp. 8-9).

Questo sentimento religioso – insieme al senso di solidarietà umana – è uno dei grandi valori, che dominano la coscienza morale del Corvaglia e dànno significato autentico al suo pensiero e ai suoi scritti. Per lo scrittore melissanese, infatti, la religione è la difesa del sacro, cioè dell’intoccabile e dell’inviolabile; non è, quindi, un momento della storia della coscienza umana, ma un elemento costitutivo e, perciò, organico della struttura stessa della coscienza. L'esperienza del sacro – sottolinea spesso il Corvaglia mediante il comportamento e le convinzioni soprattutto di don Paolo Santacroce - è totalmente connessa allo sforzo che l’uomo compie per costruire un mondo che abbia un senso. Secondo il nostro filosofo, quindi, il significato della realtà non è un dato oggettivo che si trova e si accetta, ma un valore che l’uomo proietta e pone in realtà, che percepisce come vuote e “insensate”. Il senso del mondo, quindi, è quasi una proiezione della totalità della persona umana integralmente vissuta e realizzata in continua unione collaborativa con la divinità e con l’orecchio sempre teso, per intercettare ogni messaggio proveniente dal mondo.





martedì 14 aprile 2020

LA PANDEMIA DI COVID-19 Aggressione della Natura e rinascita del senso dell’Umanità

L’umanità all’improvviso è stata risvegliata da un sonno profondo, che le conquiste della scienza moderna, i progressi della tecnologia e la floridezza dei mercati economico-finanziari  le avevano promesso lungo e tranquillo. A riportarla coi piedi per terra nel mondo concreto della realtà, sono stati l’insorgere repentino e il rapido diffondersi d’una pandemia imprevista, causata dalla diffusione d’un virus finora sconosciuto, che ha già mietuto un sorprendente numero di vite. Gli uomini, che si credevano possessori e dominatori invincibili della terra, improvvisamente hanno visto la terra rivoltarsi tacitamente e costringerli a prendere coscienza della loro fragile piccolezza e soprattutto della loro mortalità naturale, che li rende solo abitanti pellegrini sul pianeta Terra e di cui di cui non dovrebbero mai dimenticarsi.

L’ottimistica serenità d’animo degli uomini non è, tuttavia, da attribuire totalmente a una loro maldestra superficialità o a una loro colpevole ignoranza, ma anche e soprattutto all’influsso del periodo storico e culturale, in cui hanno vissuto nei decenni del secondo dopoguerra. Lo sfruttamento senza scrupoli delle risorse naturali, l’inquinamento crescente d’ogni ambiente, la corsa all’arricchimento scandaloso di alcuni e l’indifferenza per la povertà di molti, la supremazia dell’economia e della finanza costituivano una pericolosa minaccia e creavano sempre più problemi enormi e visibili, ma che le nazioni e i popoli non coglievano a tempo debito né risolvevano adeguatamente, perché costantemente sovrastati dal pericolo della guerra fredda (1947-1991), che con la sua minaccia sempre incombente “alienava” le menti e gli animi degli uomini, riducendoli a ingranaggi di Stati ideologizzati. Il mondo era diviso – e di fatto anche dominato - sostanzialmente dagli interessi di due “imperialismi”: quello economico dell’Occidente e quello ideologico dell’Oriente, che si fondavano (e continuano a fondarsi) su due concezioni dell’uomo e del mondo, opposte, ma paradossalmente convergenti nella corsa verso il progressivo stravolgimento della Natura e l’inesorabile sbriciolamento dell’inviolabile dignità della Persona umana, fino alla loro completa distruzione. In entrambe queste forme d’imperialismo, infatti, la Natura è qualcosa solo da sfruttare e l’uomo non è soggetto titolare di propri diritti inalienabili, e soprattutto non è dotato d’una propria finalità esistenziale, ma vale solo come mezzo per il raggiungimento di scopi a lui estranei e imposti arbitrariamente dal altri. E’ l’uomo unidimensionale, come aveva consapevolmente accusato Herbert Marcuse già nel 1964,

In quest’ultimo trentennio, poi, l’intenso dinamismo  della vita individuale e collettiva ha consolidato a poco a poco lo stato di fiducia illimitata e di sicuro benessere economico, per cui - ingannando la ragione e seducendo le speranze soprattutto dei ceti agiati e dei responsabili della cosa pubblica – l’evolvere del tempo, grazie all’intervento della “mano invisibile” già preconizzata da Adam Smith, avrebbe sistemato qualche eventuale carattere sfavorevole e tutto sarebbe proceduto verso il meglio: gli uomini potevano disporre a loro piacimento di tutto ciò che offriva la natura con le sue risorse minerarie e con tutte le sue dotazioni di flora e di fauna. A confermarli in questo convincimento hanno contribuito decisamente, tra l’altro, il diffondersi e il consolidarsi della democrazia contemporanea come forma si Stato  e di Governo. Agli inizi, in verità, a reggere i governi - a ogni livello e d’ogni dimensione - venivano chiamate  personalità di sicura competenza, di profondo senso dello Stato e di radicata coscienza civica. Accanto a loro, però,  spuntavano e mettevano sempre più piede, alcuni che faticavano a comprendere e ad accettare il ruolo, che compete a un governante “democratico”, cioè di “servitore dello Stato” al servizio del bene comune. Questa distorsione concettuale gradualmente ha deformato e cancellato quasi del tutto l’anima stessa della democrazia, in cui è nato l’odierno “uomo democratico”, che perlopiù coltiva e persegue, quale ultima finalità del vivere e dell’agire umano il profitto individuale e di parte, da ottenere a qualunque costo e con qualunque patto, perché si sente libero da pastoie giuridiche, morali ed etiche. Non solo nei rapporti con gli esseri umani a lui simili e uguali, ma anche nei riguardi della Natura. Ha dimenticato, però, l’accorto ammonimento dello scienziato-filosofo Francesco Bacone: “La natura non la si vince, se non ubbidendole”.

La pandemia in atto porge all’uomo – quale quadro complessivo delle conseguenze documentarie del suo comportamento disinvolto nei riguardi della Terra e dell’Umanità -  la rappresentazione d’una la realtà planetaria drammatica e dolorosa, ch’egli mai avrebbe potuto immaginare. In quale stato di decadimento s’andava riducendo il pianeta Terra, stava e sta davanti agli occhi di tutti, ma nessuno ne intuiva tutta la gravità e ne prevedeva gli esiti funesti e orribili. Quando, però, gli uomini, ammutoliti, hanno dovuto assistere alla lunga e triste teoria di camion militari col carico di salme destinate alla cremazione; quando, increduli, hanno visto dormire stese sull’asfalto d’un ampio parcheggio, antistante ad alberghi di lusso vuoti nell’opulenta città d’un grande Stato, decine di senzatetto; quando, attoniti, hanno assistito al seppellimento in fosse comuni di cadaveri di persone umane, allora i loro occhi si sono aperti e, ascoltando gl’impressionanti “numeri” quotidiani delle vittime e dei contagiati in Europa e nel mondo, hanno riflettuto: dietro ognuno di quei numeri c’erano una vita umana spenta, una famiglia smembrata e depauperate di affetti per lei vitali, energie fisiche, doti intellettive e morali sottratte prematuramente a tutto il genere umano. Allora hanno cominciato a chiedersi cosa stesse succedendo e perché; e soprattutto hanno cercato di capire cosa si potesse fare, anzi cosa si dovesse fare.

Il mondo degli scienziati, del governanti e della politica ha messo subito in moto tutte le conoscenze di cui disponeva; essendo, per, un’epidemia del tutto sconosciuta, sta andando alla ricerca, per scoprire terapie, che possano debellare il contagio. E pare che c’è qualche indizio che induce a ben sperare. E, quindi, soprattutto governanti e politici e forze sociali hanno cominciato a prefigurare e programmare un futuro possibile e sicuro per l’avvenire dei singoli popoli e dell’umanità intera. A ragione e doverosamente si occupano concretamente di ripresa del lavoro, di blocco della occupazione, di garanzie per la salute, di sviluppo dell’economia, di tutela della finanza: insomma di tutto ciò che occorre perché la vita degli uomini possa “ripartire”. Ed è a questo punto che nascono non poche perplessità e riserve. Si tratta, infatti, d’interventi necessari e urgenti, ma insufficienti e destinati al fallimento, se privi della condizione sostanziale e indispensabile. Infatti, interpretando rigorosamente il significato dell’evento che sta stravolgendo la vita umana, è richiesta la rinascita della coscienza morale degli uomini, che debbono essere chiamati non a “ripartire”, per proseguire, come se nulla fosse successo, per le vecchie strade, ma debbono spronati e convinti a “svoltare”, cambiando totalmente e decisamente la loro ragione e i loro sentimenti. 

Michail Gorbaciov. in un congresso tenuto a Milano nel 1995, volle svelare il suo stato d’animo nell’intraprendere nel 1985 da neo segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, il difficile e insidioso cammino della sua Perestroika: convinto, infatti della necessità di curare prima le anime e poi i corpi per “svolte” imposte dalla storia, “In fin dei conti – disse - la fonte dei problemi contemporanei non è all’esterno, ma dentro di noi, nel nostro rapporto reciproco, nel rapporto verso la società e verso la natura. Tutto il resto è un derivato. E dobbiamo innanzitutto cambiare noi stessi”(Costruire la pace, Comunità S. Egidio, Milano, 1996, p. 40).                  

mercoledì 21 novembre 2018

COMPITO DELLA CULTURA NELLA POLITICA DI OGGI



Proporre analisi o suggerire rimedi in termini culturali alle prassi politiche d’oggi, a qualunque livello esse operino, potrebbero suscitare risate umoristiche o addirittura apparire uno stravagante scherzo ironico. Politici, storici, economisti, infatti, gareggiano d’ingegno nell’individuare le cause prossime e remote dei tanti disordini sociali, che serpeggiano in ogni parte del mondo, dalle ribellioni dei cittadini contro i poteri costituiti fino ai sanguinosi conflitti armati tra le nazioni e i diversi popoli. In queste analisi, quasi sempre, vengono analizzati gli aspetti esteriori di tali fatti, per i quali - con logica conseguenza – si indicano come rimedi risolutivi, mutamenti esteriori: o ordinamenti giuridici più severi o sistemi politici opportunamente aggiornati o strategie e tattiche di marketing tempestivamente rinnovate o confederazioni di popoli nuove e validamente strutturate. E’ chiaro che in questa prospettiva tutto viene ridotto a problema giuridico e socio-economico, nel cui campo non s’intravede e non si assegna alcun ruolo attivo ed efficace alla cultura. D’altra parte, quale aiuto o aspettativa ci si potrebbe aspettare dalla cultura, dal momento che gli eventi s’inseguono così rapidamente che non concedono alcun intervallo da dedicare alla riflessione e alla valutazione: vengono a mancare così sia la necessaria e pacata lucidità della ragione sia la vigile e tenace vigoria della volontà, presupposti indispensabili per ogni valutazione oggettiva dei fatti e per ogni intervento lungimirante.


Chiunque, però, voglia e sappia scrutare le cause profonde delle insensibilità disumane, che generano divisioni e lotte, ingiustizie e aggressività, povertà e miseria tra gli uomini e tra i popoli in questi tempi, non può non riconoscere che non si tratta solo di degenerazione di alcuni organi istituzionali e di corruzione di alcune funzioni private e pubbliche, bensì di depravazione - nell’intero organismo sociale – di ciò che esso ha di sostanziale e di più profondo, per cui non a torto – sembrerebbe - gli uomini di cultura hanno spesso dubitato e dubitano tuttora che la loro presenza attiva nella vita politica (vista dai più come sontuoso paludamento dei politici’ scaltri, ma priva di vera e fattiva rilevanza) potrebbe essere considerata e concretamente usata solo come una collaborazione di “utili idioti”, per cui prendono poca parte nell’attività politica, in cui palesemente non s’ascolta la correttezza d’un parere, ma s’incorona col successo chi segue le tendenze e si getta nell’oscurità e nell’indifferenza chi vi s’oppone.

Ai nostri giorni, però, s’impone la necessità d’un supplemento di cultura nei “popoli” e nei loro “governanti”, cioè nella vita politica nel suo complesso. E’ più che sufficiente osservare la qualità e i toni della lingua generalmente usata per esprimere valutazioni su amici e nemici (pare n esista più “l’avversario” politico) e per lanciare giudizi su tutto e su tutti: tanta è la virulenza e il sarcasmo che non è dato quasi mai distinguere il vero dal falso. E questo è nocivo per tutti i cittadini. Già quindici anni or sono Norberto Bobbio scriveva: “Non vi è cultura senza libertà, ma non vi è neppure cultura senza spirito di verità. Le più comuni offese alla verità consistono nelle falsificazioni di fatti o nelle storture di ragionamenti”. Affermazione che fa meditare con preoccupazione.

 A questo male non si ripara, però, facendo ricorso all’intervento nella politica dei cosiddetti ‘tecnici’. Questi vengono richiesti dagli apolitici, che pretendono di separare politica e tecnica, benché siano consapevoli che il tecnico non avrà mai le competenze necessarie per capire e risolvere il tanto decantato bene comune. E nuovamente ci ammonisce Bobbio: “Tecnica apolitica vuol dire in fin dei conti tecnica pronta a servire qualsiasi padrone, purché questi lasci lavorare e, s'intende, assicuri al lavoro più o meno onesti compensi; tecnica apolitica vuol dire soprattutto che la tecnica è forza bruta, strumento, e come tale si piega al volere e agli interessi del primo che vi ponga le mani. Chi si rifugia, come in un asilo di purità, nel proprio lavoro, pretende di essere riuscito a liberarsi dalla politica, e invece tutto quello che fa in questo senso altro non è che un tirocinio alla politica che gli altri gli imporranno, e quindi alla fine fa della cattiva politica”. Dietro le parvenze del tecnico apolitico Bobbio intravedeva il politico incompetente, che è privo delle conoscenze necessarie, per cui non sa come procurarsele e in genere resta solto un politicante. Un tema, come si vede, di chiara attualità nel dibattito politico: si deve rendere la politica consapevole dell'importanza della conoscenza accurata dei fatti e del rigore nell'argomentazione. Cioè della cultura.






venerdì 10 luglio 2015

2 GIUGNO: LA FIABA DEL DIRITTO AL LAVORO

Pubblicato su Affaritaliani il 01.06.2015

Domani, 2 giugno 2015: 68° anniversario della Festa della Repubblica Italiana e della sua Costituzione. Cioè la Festa degli Italiani. Sarà celebrata con spettacoli solenni e manifestazioni significative, tra cui la tradizionale deposizione della corona d’alloro all’Altare della Patria, simbolo dell’Unità e della Libertà, come è scolpito sul marmo bianco dei propilei del Vittoriano a commento delle due quadrighe. Giornata, quindi, di festa, ma soprattutto di ammonimento e di riflessione per il popolo italiano, chiamato da quest’occasione a ricordare la passione e i sacrifici con cui i Padri hanno fatto l’Italia libera, unita, repubblicana e democratica. Un ricordo non retorico e fugace, ma ponderato e impegnato a verificare la fedeltà e la coerenza con cui oggi esso rispetta e onora il patrimonio culturale, morale, civile e politico da loro ricevuto in eredità.

 

L’Italia – dichiara l’articolo 1 della Costituzione - è “repubblicana” e “democratica”, in quanto “fondata sul lavoro”. Infatti, durante i lavori preparatori Giorgio La Pira aveva proposto di esplicitare maggiormente: “Il lavoro è il fondamento di tutta la struttura sociale, e la sua partecipazione adeguata negli organismi economici, sociali e politici è condizione del nuovo carattere democratico”; e Palmiro Togliatti aveva dettato ancora più incisivamente: “Lo Stato italiano è una Repubblica di lavoratori”. Dopo lunghi mesi di confronto e di dialogo fu accolta come lettura definitiva quella proposta da Amintore Fanfani, Aldo Moro e altri: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. I Costituenti, quindi, non hanno posto come fondamento della nostra repubblica democratica valori universali e, quindi, facilmente condivisibili e consocianti, quali l’uguaglianza, la fratellanza, la libertà, ma il lavoro considerato come strumento di liberazione del singolo cittadino, il quale, però, è chiamato a inserire la sua attiva operosità individuale nella cornice di progetti d’interesse generale per l’intera Nazione. Per questo motivo la Costituzione afferma in primo luogo i diritti inerenti al “pieno sviluppo della persona umana”, in quanto essi preesistono allo Stato e, in secondo luogo, assegna alla Repubblica il dovere di realizzare tutte le condizioni effettive di uguaglianza tra i cittadini (art. 3); in questo modo viene consegnata una Repubblica, che mira a obiettivi veramente grandi sia di gratificazione per il singolo e sia di servizio attento verso tutta la società. Però, questo significa anche che, finchè non si realizzerà questo dettato della Carta, in Italia non c’è una repubblica che si possa dire di fatto “democratica, fondata sul lavoro”.

 

A queste affermazioni molti cittadini italiani – e non solo dell’ultima generazione - avrebbero la sensazione di sentire il racconto d’una fiaba incantevole. Ai nostri giorni, infatti, il mondo del lavoro sembra piuttosto l’arena d’un circo, in cui si può assistere a spettacoli di scene tra l’umorismo dell’opera buffa e la disperazione della tragedia greca. Mentre molti “attori” dànno uno spettacolo allucinante fatto di annunci mirabolanti e rivendicazioni strabilianti, un’immensa folla di spettatori s’accalcano, si sfidano, competono, lottano nel tentativo fortunoso d’imbattersi in qualche generoso “donatore di lavoro”, che conceda loro – alle sue condizioni e per un tempo sempre definito - almeno lo stretto necessario per la sopravvivenza sua e dell’eventuale sua famiglia. Pian piano, forse senza avvedersene, gli italiani vivono e operano in una repubblica della precarietà, e non solo lavorativa. Ma una società precaria è necessariamente una società ferma e senza vitalità, spesso facile ostaggio della prepotenza e vittima sicura dell’indigenza. Il pericolo è grave, poiché è tutto l’assetto della Repubblica e della Costituzione che perde la sua struttura portante e smarrisce i suoi princìpi conduttori.

 

Per intercettare e interpretare adeguatamente il messaggio principale della festa del 2 giugno, allora, è opportuno ripensare come nacquero la Repubblica e la sua Costituzione. In ciò è di ausilio ciò che disse nel gennaio 1946 a un gruppo di giovani il padre costituente Piero Calamandrei: “Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate sulle montagne, dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità andate li, o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione”. E con preoccupata riconoscenza annotava: “Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse d’un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservati la parte più dura e più difficile (…). A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana”.

 

Il testo di tutta la Costituzione è nato dalla confluenza delle tre più importanti culture allora presenti in Italia, notevolmente diverse tra loro, ma pronte a cooperare per la ricostruzione del Paese: la cultura cattolica, quella liberale e quella socialista. In particolare, nella scelta di adottare una concezione peculiare di “persona” s’evidenzia il contributo ricevuto dall’ispirazione cristiana. E non sembra fuor di luogo, pertanto, che anche in questi nostri tempi, si faccia ricorso alle preoccupate diagnosi e alle illuminanti esortazioni dell’attuale papa riguardo il problema del lavoro umano. Quest’uomo fatto venire “dall’altra parte del mondo”, in quanto vescovo di Roma guarda i problemi italiani del lavoro; ma, in quanto responsabile universale d’una religione diffusa in ogni continente, conosce dall’alto del suo osservatorio la situazione del lavoro anche in prospettiva assolutamente universale. Da qui l’importanza e il significato più vero delle sue parole pronunciate in questi ultimi trenta giorni. Il 1° maggio scorso, infatti, intervenendo all’inaugurazione della Expo di Milano, esortava il mondo ivi convenuto a non vivere quell’evento come un bell’argomento, ma come preziosa opportunità per una ricognizione e un impegno comune a prendere consapevolezza e coscienza dei “volti” di milioni di persone che hanno fame; e sollecitava i rappresentanti delle numerose Nazioni presenti a prendere e usare il progetto dell’Expo come mezzo per dare “piena dignità al lavoro di chi produce e di chi ricerca (…). Che nessun pane – scandiva con energico convincimento – sia frutto di un lavoro indegno dell’uomo! E che non manchi il pane e la dignità del lavoro a ogni uomo e donna”. Il successivo 23 maggio, poi, ricevendo i militanti delle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, dopo aver evidenziato la globalizzazione della gravità dei problemi del lavoro, senza paura di divenire bersaglio di critiche e motivo di scandalo, ma imperterrito accusava: “L'estendersi della precarietà, del lavoro nero e del ricatto malavitoso fa sperimentare, soprattutto tra le giovani generazioni, che la mancanza di lavoro toglie dignità, impedisce la pienezza della vita umana e reclama una risposta sollecita e vigorosa”. E senza alcuna considerazione di prudenza, accusava a volto aperto e a chiare lettere la vera radice prima della mancanza di lavoro e dello sfruttamento dei lavoratori: “Troppo spesso – constatava - il lavoro è succube (…) di nuove organizzazioni schiavistiche, che opprimono i più poveri; in particolare, molti bambini e molte donne subiscono un’economia che obbliga a un lavoro indegno”. Sa di non fare alcuna invasione di campo ed è forte della sua quotidiana testimonianza personale di altruismo solidale e gratuito: senza parlare, ma coi gesti e coi fatti, dimostra ogni giorno che l’unico Dio è di tutti gli uomini, per cui tutti debbono vivere a immagine e somiglianza divine. E per primi ammonisce i “suoi”; pochi giorni prima, infatti, incontrando gli aderenti alle ‘Comunità di vita cristiana’ aveva detto: “Impegnatevi in politica, ma non a un partito, perchè è realmente convinto che non è nella natura e nei compiti della Chiesa essere o fare partito, ma che l’uomo anche cattolico deve fare politica, ma come servizio umile e dovuto, “come De Gasperi e Shuman, che hanno fatto politica pulita, senza sporcarsi”.

 

E’ una voce, di cui tutti gli uomini, in quanto uomini, hanno immenso bisogno soprattutto oggi. In tempi di smarrimento culturale e di confusione etica, di fronte a esempi privati e pubblici d’insensibilità umana e di gretto egoismo, davanti al vuoto di valide guide e di esempi illuminanti, bisogna salutare davvero provvidenziale ogni luce di speranza che viene offerta all’umanità.

domenica 12 ottobre 2014

FERMARE LA GUERRA

Pubblicato da "Affari Italiani" Domenica, 14 settembre 2014 - 11:34:00

Il Papa: “Fermare la guerra”. L'analisi del filosofo Scarcella

Il Papa: la guerra distrugge, è follia. E il filosofo Cosimo Scarcella sceglie Affaritaliani.it per commentare le parole del pontefice: "La novità terrificante dell’ultimo intervento è stata la sua aperta e chiara accusa che la guerra è scelta e decisa dalla libera volontà di alcuni uomini. Le guerre sono possibili – ha detto – “perché oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere". La storia del passato e le esperienze del presente documentano, infatti, che le guerre sono generate o dal fondamentalismo religioso o dalla brama di potere economico e politico, ma..."

La pace sembra essere la chimera degli ottimisti utopici; la guerra la realtà tragica, ma necessaria e inevitabile. “Fermare la guerra” aveva già gridato il papa qualche giorno fa; e, con lo sguardo rivolto sulle tombe dei caduti in guerra, ha ripetuto: “Dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale si si può parlare di una terza guerra combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni”. La novità terrificante dell’ultimo intervento è stata la sua aperta e Chiara accusa che la guerra è scelta e decisa dalla libera volontà di alcuni uomini: le guerre sono possibili – ha detto – “perché oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante!”. La storia del passato e le esperienze del presente documentano, infatti, che le guerre sono generate o dal fondamentalismo religioso o dalla brama di potere economico e politico. Negli ultimi tempi in campo religioso abbiamo assistito a numerose concrete iniziative di dialogo e di riavvicinamento. Non si può dire la medesima cosa nel campo politico, in cui indubbiamente anche i “grandi” si riuniscono, ma per trovare equilibri di dominio e di ricchezza, Il loro dialogo si fonda sul compromesso politico e sul ricatto economico; unico argomento da discutere è sempre quale profitto si possa trarre dal diniego o dall’accettazione di una proposta. Ed è terrificante leggere che si è giunti persino alla conclusione (condivisa) di promuovere delle guerre per spegnerne delle altre e addirittura dell’opportunità di “inviare armi per vendicare stragi”. Non a caso lo stesso pontefice alcuni giorni prima aveva dovuto sottolineare: “Ho detto ‘fermare’ e non ‘bombardare’ la guerra!”. Sono gli uomini a decidere la guerra e la pace: quindi possono scegliere di perseverare o cambiare rotta.

Molto significativo è stato l’aver puntato il dito sulla “industria delle armi, che sembra essere tanto importante!”. Affermazione questa, che ci rimanda a circa settanta anni fa, quando Pio XII, sfidando la “follia” del nazismo e del fascismo, leggeva e trasmetteva i radiomessaggi natalizi degli anni 1940-1942, che rappresentarono – secondo il giudizio dell’ambasciatore tedesco di allora, Von Weizsäcker, "un manuale completo per il ritorno alla ragione internazionale". Rivolgendosi direttamente ai responsabili della guerra, il pontefice, elenca i principi su cui doveva nascere dalle macerie della guerra il nuovo ordine: vincere l’odio serpeggiante tra i popoli, ridare dignità al diritto internazionale, eliminare la priorità dell’utilitarismo, controllando le divergenze in economia mondiale, eliminare lo squilibrio tra un esagerato armamento degli Stati potenti e il deficiente armamento dei deboli, scendere a un ampio e proporzionato limite nella fabbricazione e nel possesso di armi offensive; nel messaggio del 1942, infine, il papa si spinse oltre, concentrandosi soprattutto sui principi sociali e morali che dovevano essere "il sostrato e il fondamento di norme e leggi immutabili per costruzioni sociali di interna solida consistenza".

Quei messaggi allora non furono accolti benevolmente da parte di tutti. Il sacerdote modernista Ernesto Bonaiuti, per esempio, notò che il Natale, occasione propizia per riflettere sui lutti dell’umanità, serviva al papa per “ammannire dalla radio vaticana una lezione di diritto internazionale”; il cattolico fascista Giovanni Papini giunse a scrivere: “Il papa somiglia a uno che dinanzi a una metropoli in fiamme faccia saggi discorsi, per dimostrare che ai bambini non vanno affidate le scatole di fiammiferi". Ed è risaputo il sarcasmo di Benito Mussolini: “Il Vicario di Dio – disse - non dovrebbe mai parlare: dovrebbe restare tra le nuvole".

Oggi tutti si augurano che I responsabili del governo dei popoli e delle nazioni diano ascolto al dolore del papa, che avverte: “E’ proprio dei saggi riconoscere gli errori, provarne dolore, pentirsi, chiedere perdono e piangere”. Sperano che a questo Papa, che si appresta a parlare nell’aula dell’Unione Europea, non accada ciò che accadde con papa Giovanni XXIII, che nella crisi di Cuba, grazie anche a queste precedenti posizioni della chiesa cattolica, poté rivolgersi alle due massime potenze, che minacciavano di far precipitare il mondo nel baratro di un conflitto nucleare: “Noi supplichiamo – disse - tutti i governanti a non restare sordi a questo grido dell'umanità. Che facciano tutto quello che è in loro potere per salvare la pace”. Fu ascoltato. Ma fa riflettere ciò che il russo Anatoly Krasikov riferisce nella biografia di Giovanni XXIII: "Resta curioso il fatto che negli Stati cattolici non si riesca a trovare traccia di una reazione ufficiale positiva, all'appello papale alla pace, mentre l'ateo Kruscev non ebbe il più piccolo momento di esitazione per ringraziare il papa e per sottolineare il suo ruolo primario per la risoluzione di questa crisi che aveva portato il mondo sull'orlo dell’abisso".

domenica 7 luglio 2013

UNA “POLITICA DI SERVIZIO” PER IL “BENE COMUNE”


L’uomo è da sempre alla ricerca della sua dimensione esistenziale. Individuo catapultato a caso nei vortici assurdi d’una realtà ignota e incomprensibile, oppure esistente partecipe d’un cosmo ordinato e razionalmente governato? Individuo collocato accanto ad altri individui, tra loro estranei e addirittura in lotta continua tra loro per il predominio o per la sola sopravvivenza, oppure persona protesa per sua natura verso altre persone, tutte in uguale tensione alla reciproca integrazione? Vale a dire, gli uomini sono singolarità intrinsecamente indipendenti e diverse oppure individualità autonome sì, ma anche aperte agli altri, col cui ausilio ciascuno realizzerà la propria realtà e il proprio progetto esistenziale? Insomma, cos’è veramente l’essere umano in sè e per sè? In che rapporto stanno gli uomini e il mondo, il singolo e gli altri, l’individuo e la società.
 
L’uomo ha sentito sempre il bisogno di trovare risoluzioni adeguate e soddisfacenti a questo problema; e, al fine di soddisfarlo, ha fatto ricorso a procedimenti logici, s’è servito della ragione e delle sue argomentazioni, ha invocato il sostegno dell’esperienza e l’autorevolezza della tradizione. E, tuttavia, ha trovato raramente risposte veramente appaganti. La sete conoscitiva dell’uomo, infatti, non s’estingue con i risultati del solo intelletto, ma esige il coinvolgimento e il sostegno della totalità della natura umana. Spesso, invece, l’uomo si limita a ragionare, s’aggrappa all’evidenza della sola logica astratta, ricorre a congetture personali, formulate secondo parametri soggettivi. Ma ogni realtà va scrutata e accettata così com’essa si mostra oggettivamente. Ora, anche le dimensioni vere della sociabilità dell’uomo non pare possano attingersi con la sola razionalità, ma necessitano della totalità della natura umana e, quindi, senza facili e comodi ricorsi a eventuali realtà sovrumane e soprannaturali.
 
L’uomo, allora, ponendosi da questa prospettiva e avvalendosi dell’ausilio d’ogni risorsa a sua disposizione, s’intuirà come immerso in una realtà dialettica, di cui dovrà cogliere e accogliere anche innegabili contrasti e opposizioni. Si sentirà, infatti, partecipe d’un universo multiforme e armonico, ma nello stesso tempo pervaso da strane inspiegabili contraddizioni e da assurde incongruenze. All’uomo, però, manca talora l’ardire di guardare in faccia questa realtà con la distaccata freddezza, necessaria per coglierne e accoglierne le verità ch’essa svela e che, quindi, l’uomo non può farsi a modo suo, ma deve solo accettare nella cruda oggettività, compresi, quindi, anche i tratti incomprensibili e gli aspetti persino misteriosi. Proprio come si comporta l’uomo saggio al cospetto del sole splendente nel cielo: egli non argomenta nè congettura nè dimostra la presenza del sole, si limita solo a sollevare gli occhi, guardare, narrare quello che gli si presenta davanti. Dovrebbe essere questo il comportamento da tenere anche riguardo la realtà del mondo e dell’umanità: conoscere veramente il mondo significa accoglierlo nella sua integralità costituita da finalità proprie, palesi o celate.

A fondamento d’ogni scelta teoretica e d’ogni opzione etica si deve preporre, quindi, innanzitutto una concezione antropologica e socio-politica globale e integrale, entro cui trovi e abbia senso il problema delle responsabilità, che ricadono sui singoli, sui popoli e sull’umanità intera. Di conseguenza, gli uomini debbono optare non solo e non tanto per alcuni valori anziché per altri, ma debbono prima e soprattutto ricercare e accogliere con responsabilità una concezione chiara e condivisibile di uomo e di mondo, su cui fondare e giustificare il senso delle scelte storicamente concrete: si tratta, quindi, d’una scelta preliminare e globale.
 
Ogni scelta storica, infatti, interessa indubbiamente il destino del singolo, ma nello stesso tempo coinvolge anche le sorti dell’evoluzione del mondo e la qualità della vita della società di cui è parte e, in prospettiva cosmopolita, dell’intera umanità. Questa naturale vocazione alla responsabilità verso l’altro (inteso come cosmo e come umanità) non può essere né affidata agli umori dei singoli né lasciata in balia degli interessi dei popoli e nemmeno delegata all’arbitrio di eventuali governanti non sempre animati da autentico spirito umano. Si rischierebbero molti pericoli. Per questo s’impone la necessità d’un’adeguata “legislazione”, cioè d’un insieme saggiamente strutturato di principi e di precetti, che determinino il fine verso cui indirizzare ogni iniziativa, definendone tempi e modalità d’attuazione. Il compito delle leggi e delle norme, infatti, è di indicare l’ideale, cioè di orientare verso il “dover essere”, vero regno dei fini, cui gli uomini possono ragionevolmente e debbono moralmente aspirare. Le leggi e le norme non limitano né condizionano, ma salvaguardano e concretizzano libertà e dovere del singolo, moralità ed eticità delle nazioni e dei popoli. I diritti e i doveri così sanciti non provengono, quindi, dall’esterno della natura e della storia dell’uomo, bensì risiedono dentro di esse e ne sono elementi costitutivi.

Ora, è certo che non si può mai misconoscere e tanto meno trascurare il legame, che unisce norma e morale, diritto ed etica; è un nesso essenziale, che s’impone, però, con maggiore forza in tempi, in cui nelle scelte dei singoli e negli orientamenti dei popoli e delle nazioni, prevale talmente l’affannosa ricerca dell’interesse dei privati e dei gruppi che restano sovrastati e talora addirittura annichiliti il naturale sentimento dell’altruismo e la coscienza delle comuni responsabilità. In questi periodi è più che mai necessario rinverdire, se non addirittura rifondare, una concezione dell’uomo il più integrale possibile, evitando chiusure concettuali preconcette e aprendosi a comportamenti ispirati alla vera dignità dell’uomo.

Infatti, concezioni parziali, anche se legittime, sarebbero insufficienti e, quindi, necessariamente non del tutto esatte ed esaustive. Non pare, perciò, possano ritenersi accettabili le teorie dell’individualismo e del collettivismo, che considerano l’uomo rispettivamente o individuo autosufficiente ed egocentrico (quasi atomo insignificante d’un mondo caoticamente strutturato) oppure parte significativa solo nel necessitante nesso col tutto (quasi tessera d’un immenso misterioso mosaico cosmico). Non sembra fuor di luogo, pertanto, il suggerimento di ripensare le proposte antropologiche e socio-politiche avanzate da dottrine ”integrali “ antiche e contemporanee e di diversa matrice culturale, quali il pensiero umanistico di Erasmo da Rotterdam e del latitudinarismo in generale, l’induismo di Mahatma Gandhi aperto al buddismo e al cristianesimo, il  personalismo cattolico soprattutto  di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain, il principio di responsabilità degli ebrei Huns Jonas e Emmanuel Lévinas, ovviamente senza disattendere le esigenze espresse anche dalle contemporanee teorie della filosofia sia continentale che analitica. L’obiettivo finale cui aspirare è di ritrovare quelle motivazioni etiche prima che giuridiche, capaci di offrire vitalità nuova alla convivenza pacifica e costruttiva tra gli uomini, in una rafforzata visione del dovere civile e morale dell’impegno anche politico, che incombe su ogni uomo e, in primo luogo, su chiunque scelga di dedicare – a tempo e comunque finchè ne sia richiesto - le sue energie al governo della cosa pubblica.

Ecco, a questo punto, l’urgenza di affiancare al politico di professione una nuova generazione di politici “di vero e solo servizio”, che possano convivere, nella reciproca stima, con i primi. Si tratterebbe di persone dedite ordinariamente ad un mestiere o a una professione, che scelgono di dare la propria disponibilità per un loro impegno nella politica attiva e, qualora ne sia il caso, di assumere impegni, in cui porre a disposizione di tutti le proprie competenze ed esperienze, ma sempre con il formale e pubblico impegno ad una partecipazione “solo a tempo” nelle istituzioni.

Sembra ormai inevitabile che una politica, che si proponga d’essere espressione di valori fondati sull’innegabile primato della persona umana, debba riprendere con urgenza indicazioni di elevato spessore umano e sociale, tali che innalzino il livello del confronto politico, spostandolo dalla mortificante combinazione di interessi materiali alla più vasta visione di obiettivi di portata generale, capaci di orientare la condivisione e la partecipazione anche di tutti i cittadini. Per questo è richiesta la presenza di personalità d’indiscussa esperienza, in grado di individuare gli interessi reali sottesi alle varie proposte politiche, dedicandosi con saggezza e prudenza  alla ricerca di soluzioni sempre aggiornate dei problemi specifici, ma nello stesso tempo tenendo sempre presente che bisogna costruire nuove stagioni di rifioritura etica e sociale nella vita sia tra i cittadini e  sia tra e nelle istituzioni. E’ un progetto certamente faticoso, ma è forse l’unico per ridare  senso alla partecipazione del “cittadino” all’impegno pubblico per il bene comune. E’ una proposta che richiede spirito di fiducia e di speranza: si tratta di gestire il presente, ma senza rimanere  oppressi dalla logica dell’imminente; è questo che si richiede a una società efficacemente partecipativa nelle vicende reali della vita comune. E soprattutto nei nostri giorni, quando la crisi dell'etica pubblica è sotto gli occhi di tutti.