Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

mercoledì 16 settembre 2020

QUINTINO SCOZZI Le sue opere custodiscono la memoria storica di Melissano

 

Pubblicato su “Presenza Taurisanese”, anno XXXVIII, n. 8, agosto / settembre2020, pp. 10-11]

 

 

A Quintino Scozzi, appassionato ricercatore e studioso della storia di Melissano,  la spinta decisiva ad affrettare i tempi e a intensificare gli sforzi nel portare a termine tanti dei suoi lavori fu data da un avvenimento tanto paradossale quanto grave, in quanto artefice ne era proprio la pubblica Amministrazione Comunale del momento [dei beni culturali difensore per suo compito naturale e protettore per suo dovere istituzionale], avallata dalla «massima indifferenza della popolazione [ugualmente colpevole e complice, perché noncurante delle proprie memorie], presa da ben altri interessi e soprattutto ignara  del valore storico  e artistico dell’antico monumento»[1]. Infatti, intorno al 1950 Quintino Scozzi aveva dovuto assistere – ancor giovane e disarmato – all’abbattimento del trecentesco Castello appartenuto agli Amendolia e dopo qualche decennio a Orso Minutolo, per giungere nel 1723 nelle mani dei Conti Caracciolo. Pertanto, unica testimonianza superstite delle origini del trecentesco Casale di Melessano rimaneva la cinquecentesca chiesa parrocchiale dedicata al protettore Sant’Antonio da Padova. Questa in seguito alla permuta decisa dalla Curia Vescovile di Nardò, nel novembre 1978 era divenuta proprietà del Comune di Melissano, il quale subito ne decretava – tra l’assoluta indifferenza dei cittadini[2] -  la demolizione, onde ricavare spazi per parcheggi. Quintino Scozzi, ormai uomo maturo e di un’apprezzabile cultura, si muove presso tutte le Autorità competenti, - Soprintendente alle Belle Arti di Bari,  Vescovo di Nardò, Prefetto di Lecce, Sindaco, Parroco e Cittadinanza di Melissano - perché fosse evitato quell’oltraggio incivile e dissacratorio, e il 28 febbraio 1979 pubblica una Lettera Aperta, nella quale dichiara le motivazioni del suo gesto:  «Mosso – scrive - da un sentimento fatto di rispetto, di pietà e di venerazione, chiesi e chiedo ancora oggi  alle Autorità competenti che l’antica chiesa sia recuperata in tutta la sua interezza – in omaggio al passato  al futuro, alla vita dell’arte – al culto dei fedeli così come i padri l’affidarono ai loro figli. […]. Si provveda, dunque, al restauro, col contributo di quanti hanno a cuore i monumenti onusti di antichità  e palpitanti di vita secolare»[3]. I contenuti della lagnanza dettagliatamente documentata e l’afflato umano  e religioso della perorazione conclusiva sono incontestabile documento di raro senso civico e di profondo religioso rispetto delle proprie radici morali ed etiche: «Quella chiesa – conclude lo Scozzi - che in passato generazioni di melessanesi per educarli al bene e avvertirli che  tutto viene, tutto passa , tutto ritorna a Dio; quella chiesa accolse i vagiti dei neonati, le preghiere dei credenti, le speranze dei giovani, la letizia degli sposi, i lamenti dei sofferenti; quella chiesa, infine, in cui giacciono scheletri di lontani predecessori in un’atmosfera ovattata di arcano silenzio, possa riprendere il suo antico fulgore per continuare ad accogliere i figli dei figli in solenne, affettuoso, materno amplesso»[4]. L’antico monumento fu salvato e già da un quarto di secolo è divenuto la sede decorosa ed efficiente del Centro Culturale a lui intitolato, come è stato pubblicato su questo stesso Giornale[5]. Prima dell’inizio dei lavori per il restauro del monumento Scozzi non mancò di tracciarne la storia e di descriverne l’esistente, comprese le cinque splendide pale d’altare, di cui ora non è rimasta traccia[6].

 

Dedicatosi alla ricerca, allo studio e alla divulgazione d’ogni utile documento inerente alle vicende storiche, ai costumi morali, alle consuetudini sociali e alle tradizioni popolari di Melissano[7], Quintino Scozzi spese le sue energie migliori nella stesura di due pregevoli volumi, unici nel loro genere; il primo il già citato  Un Paese del Sud. Melissano del 1981 e il secondo La morale attraversi i detti popolari del 1987[8]. Nel primo ci consegna una ricca e delicata tavolozza di 65 affreschi narranti – in una lingua semplice ma accurata, appropriata ma scorrevole, mai ricercata o ambigua - fatti e personaggi artefici delle tappe dell’evoluzione del Paese, a partire dal XIV secolo fino ai suoi giorni. A prevenire eventuali osservazioni da parte dei lettori, l’Autore formula espressamente tre puntualizzazioni. La prima è un’apparente giustificazione, ma in realtà è un modo discreto per sottolineare la fondatezza storica delle sue affermazioni; scrive, infatti, «Perché il lettore possa avere la sensazione di compiere un tuffo nel passato, ho largheggiato nelle citazioni, che hanno il potere di ritrarre, per il loro contenuto realistico e la suggestività, gli avvenimenti, le condizioni, le vicende, la vita , insomma, di un tempo che fu»[9]. La seconda puntualizzazione riporta i lettori - soprattutto melissanesi e salentini  - dal “tuffo nel passato” alle responsabilità, che detta il presente mediante la testimonianza e l’esempio di “tre figli di questa operosa cittadina”.  «Don Quintino Sicuro, asceta dalla fede eroica; Ferruccio Caputo, martire delle fosse ardeatine; Luigi Corvaglia, scrittore di elevato pensiero e critico di vastissima cultura»[10]. La terza puntualizzazione è rivelatrice di sentimenti intimi dell’Autore [che sente, però, di non poter né tacere né camuffare] e, nello stesso tempo, del dovuto rispetto per la coscienza religiosa dei Melissanesi [che in quegli anni aggredivano le dottrine e contestavano le condotte predicate dalla Religione Cattolica]. Scrive, infatti, «Convinto che la storia di un paese è fondata anche sui sentimenti, sulla devozione, sulla tradizione, sulla fede religiosa della sua gente e che l’eliminazione, anche parziale, della vita ecclesiale equivarrebbe alla distruzione del patrimonio storico-religioso del luogo, ho inteso descrivere  tutti i fatti riguardanti la vita della Parrocchia che è, appunto, quella del paese »[11].

 

Nel secondo volume Quintino Scozzi ci regala un prezioso mosaico di 448 tessere di elegante e mirabile fattura. In esso, infatti, si leggono, suddivisi in gruppi (nell’ordine delle le lettere dell’alfabeto),  448 proverbi, ivi comprese alcune espressioni dialettali e qualche frase metaforica. Per ogni proverbio viene riportata la dizione in dialetto melissanese, la sua traduzione letterale in lingua italiana, e un commento, in cui è conservato e tramandato il senso morale intrinseco. Abbiamo, quindi, conservati e tramandati i modi di intendere e di vivere propri del melissanese, oggi forse ignaro del valore degli insegnamenti dei propri progenitori e all'oscuro delle sue radici sociali e morali. A evidenziare i pregi di quest’opera, rimane l’autorevole giudizio del compianto Donato Valli, che scrive all’Autore: «Ho letto con interesse e con divertita adesione il Suo libro sui detti popolari melissanesi. Quel che più ha sollecitato la mia curiosità di lettore non è la raccolta in sé (fenomeno oggi molto diffuso), ma il garbato commento che accompagna i proverbi e che è anch’esso documento di popolare saggezza conservatasi intatta attraverso il mutare dei costumi. Al pari del proverbio descritto, il commento ci riporta al tempo perenne dell’infanzia dell’anima, ai miti incorrotti della nostra cultura contadina e paesana, ricca di semplicità, di fede, di certezze. E’ commovente pensare come lei abbia saputo  mantenere intatto  il bagaglio di tali valori: prenderne coscienza significa anche contribuire alla salvaguardia dell’uomo»[12].

 

\Suonino di monito le parole pronunciate da papa Francesco il 14 giugno ultimo scorso: «E’ essenziale ricordare il bene ricevuto.  Senza farne memoria, diventiamo estranei a noi stessi, passanti dell’esistenza. Senza memoria ci sradichiamo dal terreno che ci nutre, e ci lasciamo portare via come foglie dal vento. Fare memoria, invece, è riannodarsi ai legami più forti, è sentirsi parte di una storia, è respirare con un popolo»[13].



[1] Q. SCOZZI, Melissano. Il Circolo Vecchio. Lettera aperta del 28 febbraio 1979.

[2] Quintino Scozzi non hai scritto o proferito verbalmente un giudizio negativo su fatti accaduti e da lui narrati o su enti e persone coinvolte. L’unica eccezione è nel rilevare e documentare - davanti alla decisione dell’amministrazione comunale di demolire lo storico monumento - la totale indifferenza e ignoranza del valore storico e culturale dell’antica chiesa patronale. Indignazione lo mosse anche a a scrivere nei riguardi di di qualcuno, di cui mai rivelò il nome: «Quando si rimestano (senza umiltà) argomenti già rimestati.  Chi per scrivere (o riscrivere) su Melissano, tragga, comodamente, notizie, indicazioni, spunti, date eccetera (esumati dagli Archivi con infinita pazienza e grandi sacrifici) […] è tenuto a citare per correttezza  e serietà, i lavori consultati. Quanto sopra in conseguenza  di comportamenti vili, indecorosi (e perseguibili) tenuti da soggetto in sfrenato delirio di grandezzaCommemorazione del Servio di Dio don Quintino Sicuro, 1989, p. 9.

[3] Q. SCOZZI, Melissano. Il Circolo Vecchio. , Ibidem.

[4] Q. SCOZZI, Melissano. Il Circolo Vecchio. , Ibidem.

[5] C. SCARCELLA, L'antica Chiesa Parrocchiale e il Centro Culturale 'Quintino Scozzi' - Storia di un recupero,  In «Presenza Taurisanese», , n. 310, aprile 2019, pp. 12-13.

[6] Q. SCOZZI, Storia di una chiesa, Tipolito F.lli Amato, Cutrofiano,1982; ristampata nel 1994 presso la Tipografia di Melissano.

[7] Si ricordano i preziosi suoi interventi su aspetti specifici della storia di Melissano degni di nota, accuratamente studiati e puntualmente pubblicati e messi a disposizione dei suoi concittadini Leghisti e fascisti a Melissano nel primo dopoguerra,  Tipografia di Matino,  1983; Melissano in alcuni documenti spagnoli del 1613, Tipografia di Matino, 1984; La grotta del SS. Crocifisso,  Tipografia di Melissano, 1985; Notizie inedite su Melissano, Tipografia di Matino, 1988; Commemorazione di don Quintino Sicuro, Tipografia di Melissano, 1989; Note Melissanesi, Tipografia di Melissano, 198.

[8]  Q. SCOZZI, La morale attraverso i detti popolari, Grafo 7 Editrice, Taviano, 1987.

[9] Q. SCOZZI, Un Paese del Sud. Melissano - Storia e Tradizioni Popolari, Tipografia di Matino,  1981,  p. 9.

[10] Q. SCOZZI, Idem, Idem, pp. 9-10.

[11] Q. SCOZZI, Idem, p. 9.

[12] D. VALLI, Lettera  pubblicata nel volume di Quintino Scozzi, La morale, op. cit., p.3.

[13] PAPA FRNCESCO,  in “L’Osservatore Romano” di lunedì, 15 giugno 2020.

giovedì 23 luglio 2020

Libertà dell’Uomo. Conquista faticosa e Tremore metafisico Rileggendo in chiave critica Erik Fromm



Pubblicato in Inncturae il 23 luglio 2020

La schiavitù peggiore, che possa incatenare e dominare l’essere umano, è l’ignoranza di ciò che lo tiene schiavo. Non s’intende qui affrontare il problema d’una possibile soluzione dell’antitesi tradizionale tra «indeterminismo» e «determinismo», per fondarvi il libero volere umano, ma si vuole solo tentare di analizzare e di comprendere  - nel suo misterioso e sofferto travaglio - la dinamica della vita intima d’ogni individuo, che vada alla ricerca della possibilità d’un proprio vivere libero, perché incondizionato e, quindi,  «felice». Acquisire chiara consapevolezza e prendere piena coscienza di ciò che frena la capacità creativa dello spirito umano e debilita l’energia vitale della sua volontà attiva è impresa ardua e irta di ostacoli. Questo vale per i percorsi mirati a liberarsi sia dalle dipendenze d’origine esteriore sia dai vincoli e dai legami interiori. La vita umana, infatti, dalla nascita alla morte, è destinata a svolgersi in una rete d’inevitabili relazioni necessarie e complicate, spesso simile a una ragnatela, dalla quale ogni uomo, in certi momenti particolarmente impegnativi, vorrebbe uscire e liberarsi, al fine di ripossedersi integralmente, per riprogrammare aggiornati e vagheggiati itinerari di vita, ma spesso finisce coll’avvilupparsi in vincoli più stretti e dolorosi,  a causa proprio del suo divincolarsi talora  inconsulto e spesso anche dannoso. Ma l’uomo aspira comunque a uno stato di vita, in cui possa sentirsi e viversi in piena libertà; e in ciò pone ogni suo sforzo. Raggiungere, però, la completa liberazione da ogni forma di dipendenza introduce l’uomo, nello stesso tempo, in una situazione esistenziale tanto paradossale e assurda quanto reale e consequenziale, qual è l’insorgere del tremore metafisico proprio della «solitudine assoluta», che getta l’uomo in un insopportabile stato d’angoscia generale. Ciò converte – soprattutto negli animi incapaci di padroneggiare e di gestire le nuove e ignote responsabilità, che derivano dal riemergere della riconquistata autenticità della vita - la ricerca della libertà in ricerca d’un nuovo legame qualunque, purché sia di d’accompagnamento amichevole e di saldo sostegno.

A ben comprendere il dinamismo di questi mutamenti della vita dello spirito umano sono d’insostituibile guida tre studi di Erik Fromm (1900.1980), i quali, benché datati, rimangono tuttora molto attuali e puntuali: Fuga dalla libertà del 1941, Psicanalisi della società contemporanea del 1955 e L’Arte d’amare del 1956. Nel primo volume, scritto al culmine dello svolgimento della seconda guerra  mondiale, lo studioso tedesco osserva con disincantata e quasi scettica curiosità il comportamento socio-emotivo degli uomini del tempo e nota come essi, proprio mentre lottano contro l’assoggettamento ai regimi nazifascisti, nello stesso tempo, proiettandosi nell’immediato futuro e percependosi liberi da «regole» da seguire e da «padroni» cui obbedire, sono invasi da un’inconscia agitazione parossistica, che placano solo desiderando e sognando nuove situazioni di subalternità, capaci di far superare l’incombente stato di solitudine e di insicurezza. Erik Fromm, quindi, considerando l’uomo in simile stato, lo vede necessariamente da una parte preda d’un’appartenenza che lo blocca e lo intrappola e, dall’altra parte, sparuto frammento vivente, insignificante e sospeso su un’ampia voragine che lo terrorizza. Secondo il filosofo tedesco questo senso d’inspiegabile violenta fobia e d’insostenibile incertezza angosciante, che immobilizza mente e anima, non è sopportabile per lungo tempo, per cui ne indica le due possibili vie d’uscita: o avanzare con ferma vigoria verso una piena e solida maturazione, o ricercare opportunamente un nuovo «padrone», per il quale valga le pena continuare a vivere. Quest’ultima sembra la via scelta dalla maggior parte degl’individui sia perché socialmente più condivisa, sia perché psicologicamente meno problematica, sia perché  socialmente più gratificante, almeno in apparenza e nell’immediato. Ci sono, infatti, dipendenze ormai ritenute quasi organicamente strutturate, che orientano e addirittura guidano il comportamento di singoli e di gruppi di persone, fino a orientarne totalmente la vita. Basti pensare alle forme quasi mistiche di lavoro frenetico, in cui ci s’impegna in ritmi maniacali: più si più lavora, più si ha popolarità e potere, più si è apprezzati; o anche alla dipendenza - coltivata con camuffata umiltà e ostentata come discrezione - è la ricerca della fama a ogni costo: basta essere considerato «qualcuno», a prescindere da ogni riscontro valoriale oggettivo.

Uno dei passaggi particolarmente significativi dello studio di Erik Fromm riguarda l’indicazione delle vie da seguire per usufruire con profitto della libertà eventualmente riconquistata. L’Autore suggerisce sostanzialmente tre itinerari necessari e complementari: auto-analisi impietosa del proprio comportamento, accettazione virile dei momenti dolorosi, creatività senza mania del successo. Cioè, conoscere la propria umanità, rispettarla senza infingimenti e amarla. Lo studioso, tuttavia, dopo quindici anni si dedica ad un’attenta «Psicanalisi della società contemporanea», che – con occhio incredulo e con mente sgomenta - vede dominata da uno stato «di malattia e di sofferenza», nonostante la tempestiva ricostruzione socio-politica postbellica delle nazioni e il «miracolo della crescita economica» osannata in nome  delle teorie del capitalismo, facessero immaginare tutt’altro. Fromm ne ricerca le cause probabili. Gli uomini, anziché curare e accrescere la propria creatività, si sono dedicati alla produzione ripetitiva e per il maggior profitto soprattutto economico; essi, pertanto, si sono gradualmente alienati da sé stessi e sono divenuti, inconsapevolmente ma realmente, idolatri degli oggetti che essi stessi hanno prodotto. L’umo, quindi, da «finalità ultima» dell’agire umano, s’è trasformato in mezzo di produzione di «cose», le quali sono divenute, così, il vero fine ultimo della vita e dell’agire dell’uomo nel mondo. Il mondo è il dominio dell’uomo «reificato».

Quale la causa di questo sovvertimento di realtà e di questa confusione di valori? Fromm ne indica, tra le altre, una – ovviamente formulandola come ipotesi da verificare - nello studio pubblicato l’anno successivo, intitolato significativamente «L’arte di amare». Il messaggio generale, che il libro dovrà tramettere, è affidato all’eloquente citazione d’un aforisma dello scienziato rinascimentale Paracelso: «Colui che non sa niente, non ama niente. La maggiore conoscenza è congiunta indissolubilmente all’amore» (Citiamo dalla trad. it. di Marilena Damiani, Il Saggiatore, 1963, p. 7). Quello che oggi l’umanità non conosce è proprio la vera natura dell’amore: e fraintenderla significa «ricercare disperatamente» quell’equilibrio – ovviamente instabile, come s’addice alla natura umana -, che deriva solo da una prospettiva complessiva della vita, che con linguaggio puntuale e univoco l’italo-tedesco Romano Gardini (1885-1968) chiama «Totalità». La totalità dell’essere in generale e dell’animo umano in particolare non è comprensibile mediante sottili ragionamenti o elaborate ipotesi, così come la totalità della bellezza d’un dipinto multicolore chiuso in una stanza non è conoscibile mediante lo scambio di dotte conversazioni, ma basta aprire una finestra; la luce si fonde coi colori e la bellezza del dipinto si manifesta agli occhi dell’osservatore. Così è per la totalità della vita dell’animo umano. Basta amare con autenticità e il caos esistenziale si modificherà – gradualmente ma realmente – in un cosmo ordinato e appagante.

Ma cos’è l’amore autentico. Per rispondere a questa domanda, Fromm si sofferma prima a indicare cosa l’amore non è: non è «una piacevole sensazione», non è la ricerca dei modi  e delle tecniche «per essere amati», non è trovare una persona o un ideale cui dedicarsi, e non è una «facoltà» da coltivare. E’ un’arte, che, come l’arte medica e tutte le altre arti, va appresa e aggiornata con fatica e costanza. E perché un’arte venga sempre  più perfezionata, sottolinea Fromm, «non deve esserci al   mondo nulla di più importante. Questo vale per la musica, per la medicina, per l’amore». E «Forse - conclude  il filosofo - qui sta la risposta alla domanda perché la nostra civiltà cerca così raramente d’imparare quest’arte a onta dei suoi fallimenti; nonostante la ricerca disperata dell’amore, tutto il resto viene considerato più importante: successo, prestigio, denaro, potere; quasi ogni nostra energia è usata per raggiungere questi scopi, e quasi nessuna per conoscere l’arte dell’amore» (Ivi, p. 18).
Il disordine e l’infelicità dell’uomo contemporaneo sono causati dal caos che regna nella Totalità: prospettive allettanti ma ingannevoli, miraggi illusori pregustati come  visioni concrete e ideali aggiungibili. Per ristabilire l’ordine è necessario che l’uomo, lungi dal farsi dominare dal «tremore metafisico», si reimpossessi della sua vita e – paradossalmente – nell’intimità della sua solitudine interiore- riscopra la capacità d’amare il più e meglio possibile, rispettando la totalità nel suo insieme.






venerdì 10 luglio 2020

QUINTINO SCOZZI Lo studioso alla ricerca delle origini di Melissano


QUINTINO SCOZZI
Lo studioso alla ricerca delle origini di Melissano (1)
Pubblicato in Presenza Taurianese. anno XVIII, n. 7, luglio 2020, pp. 13-14



Quintino Scozzi (Melissano, 1928-1991). Docente di Lingua e Letteratura Francese, è stato  tenace e attento ricercatore di documenti e di testimonianze della storia e della vita di Melissano, suo Paese natale, delle cui vicende lavorative, sociali, politiche e culturali – indagate sempre con oggettività e riferite con provata attendibilità - è stato custode vigile e geloso, sempre impegnato con dedizione e responsabilità, unite a riserbo e discrezione. La produzione storico-letteraria di Quintino Scozzi occupa l’ultimo decennio della sua vita, ma i contenuti dei suoi lavori covavano già da molti anni nella sua mente e nel suo animo, cioè scovare con sicura certezza le origini e lo sviluppo della Città di Melissano, poiché era persuaso che la conoscenza storico-geografica del territorio e delle sue tradizioni gli avrebbe fatto prendere una più solida consapevolezza dei caratteri fondamentali anche del temperamento e della cultura ereditati da lui e dalla comunità dei suoi concittadini. In ogni città restano indelebilmente impresse le orme dei suoi abitanti. Convinzione, questa, manifestata espressamente già alla chiusa della Introduzione al suo primo volume pubblicato, in cui, citando Anatole France, fa dire a un’antica città: «Io sono vecchia ma bella, e i miei figli hanno ricamato sulla mia veste torri, monumenti e campanili. Io sono una mamma pia e insegno il lavoro e l’arte della pace. Io nutro i miei figli nelle braccia. Finite le loro fatiche, essi vengono ai miei piedi. Essi passano, ma io resto per conservare il loro ricordo»[1]. E’ la convivenza umana - sostiene con convinzione l’Autore -  che plasma i caratteri degli uomini, li educa alle virtù morali del bene e li guida al perseguimento collettivo della giustizia e della pace, a patto, però, che tutto si svolga nell’ossequio della memoria storica delle generazioni precedenti, fatta d’inevitabili errori e difetti (da evitare), ma anche di valori creduti e di progetti condivisi (da accogliere e proseguire). Le generazioni dei cittadini passano e passeranno, ma il loro patrimonio valoriale e culturale resterà nel futuro a beneficio comune, solo se rimarrà scritto su carte, rappresentato in opere d’arte, scolpito  su pietra,  conservato e custodito dalla città.

Da questa consapevolezza trae origine la passione tenace, che spinge Quintino Scozzi a scoprire le origini veraci di Melissano fino allora ignorate, a rintracciarne e a interpretarne sia eventuali testimonianze storico monumentali sia antichi documenti cartacei forse trascurati del tutto. Era convinto, infatti, della necessità d’approdare a una conoscenza veritiera del passato, onde si potessero fondare su basi sicure sia progetti del presente e sia speranze del futuro. E, da studioso attento e solerte, è riuscito a scovare e portare alla luce «Pagine del passato - puntualizza in Leghisti e fascisti a Melissano -, che hanno il solo scopo di far conoscere alle presenti e future generazioni vicende che suscitarono, un tempo, risentimenti e passioni, odi e polemiche, agitazioni e vendette»[2]; cioè, ha rinverdito la memoria del Casale di Melessano. La vita d’un popolo dimentico e noncurante della sua memoria avrà la possibilità solo d’un’esperienza di scampoli d’un presente di corto respiro e sarà incapace d’una prospettiva certa e ordinata di futuro: il suo potrà anche sembrare un temporaneo avanzare, ma in realtà sarà un sostanziale graduale regredire. «L’onesto uso della memoria – ha scritto autorevolmente Paolo Mieli - è il più valido antidoto all’imbarbarimento. E lo è in ogni stagione politica, in ogni momento del dibattito culturale, in ogni epoca della storia»[3]. L’interesse storiografico di Quintino Scozzi, quindi,  non è determinato da  fredde esigenze intellettive o da aspirazioni di sterile erudizione, ma da profondo senso morale, che gli detta il dovere etico – in quanto cittadino impegnato nel campo della cultura .- di acquisire salda padronanza dei primordi del suo Paese natio, per risvegliarli e condividerli con i suoi concittadini. Solo radici robuste e integre possono produrre frutti sani e salutari; infatti, è lui stesso a confidare esplicitamente: «Il vivo desiderio di conoscere le origini del paese natio e di portare alla luce quanto fosse possibile mi ha spinto a frugare  negli scritti più riposti delle biblioteche. Ciò, anche – sottolinea e puntualizza - nell’intento di far cosa utile, quindi gradita, ai miei concittadini e soprattutto a quanti amano ripercorrere attraverso la lettura, le vie del passato»[4].

Fortemente motivato in questo progetto, Quintino Scozzi valutò accuratamente e con senso di responsabilità ogni aspetto dell’ardua impresa, ricercò e individuò i probabili luoghi ove recarsi, per rinvenire fonti certe e significative; rintracciò con umiltà e con non poca fatica testimonianze verificabili, fedeli, accertate e credibili. In realtà, era ben consapevole dei pericoli, cui poteva incorrere uno storiografo e del rischio, quindi, di scrivere una storia tendenziosa e romanza al posto d’una storia oggettiva, documentata e impersonale. Ed evidenzia in più luoghi e sottolinea esplicitamente il carattere oggettivo e impersonale dei suoi lavori, in cui non c’è affermazione che non sia o documentata o dichiarata come sua ipotesi da approfondire e verificare. Uno dei problemi d’ogni storiografo, infatti, è saper conservare l’onestà intellettuale e garantire l’oggettività e la completezza dei fatti narrati, guardandosi da ogni piaggeria, astenendosi da ogni settarismo e - soprattutto - scongiurando funesti ostracismi di fatti e di persone: si falserebbe l’integrità della verità, che prima o poi riemergerà e ristabilirà il vero. E’ certamente utile, infatti, criticare, emendare e individuare contraddizioni dei tempi passati, al fine di renderli fondatamente più saldi, per poter modificare o aggiustare i progetti del presente, ma «Ben diverso (e diffuso, purtroppo) – avverte con rammarico il Mieli - è il ricorso a forzature della memoria come arma per farci tornare i conti nel presente. Un’arma usata con infinite modalità di manipolazione, che producono danni quasi irreparabili alla coscienza storica, deformano il passato, intossicano il ricordo collettivo anche dei fatti più prossimi. E che, come tale, merita di essere combattuta»[5]. Sostenuto da questi sentimenti, lo studioso  melissanese diede avvio alla sua opera e «Incominciai, così, - scrive - a consultare, con pazienza direi basiliana, atti e volumi giacenti negli archivi. Devo precisare che scarne sono risultate le fonti di indagine storica e pertanto non ho la pretesa di aver compiuto un lavoro esauriente, ma il modestissimo merito, e solo quello,  di aver scovato  e messo insieme alcune fronde sparte»[6]. E, anticipando l’obbiezione, che qualcuno avrebbe potuto rivolgergli, con senso di misura, ma con piena consapevolezza delle sue fatiche, anticipare e avverte: «A chi trovasse carente o tediosa questa anamnesis loci chiedo di non volermene: è quanto mi è stato possibile realizzare. La storia, si sa, non è un avvincente romanzo di fantasia o una divertente commedia d’intrigo, ma una esatta esposizione di fatti realmente accaduti»[7].

«La memoria – ha affermato recentemente a Bergamo il Presidente Sergio Mattarella   ci carica di responsabilità. Senza coltivala rischieremmo di restare prigionieri di inezie, di vecchi vizi da superare». Le ricerche e gli scritti di Quintino Scozzi custodiscono e tramandano la memoria  dei progenitori dei Melissanesi, i quali oggi sono caricati della responsabilità di conoscerla e onorarla.



[1] In Q. SCOZZI, in Un Paese del Sud. Melissano - Storia e Tradizioni Popolari, Tipografia di Matino,  1981, p. 11.
[2] Q. SCOZZI, Leghisti e fascisti a Melissano nel primo dopoguerra,  Tipografia di Matino,  1983, p. 7.
[3] P. MIELI, L’arma della memoria. Contro la reinvenzione del passato, Rizzoli Editore, Milano 2005. p. 13.
[4] Q. SCOZZI, Un Paese del Sud, Idem, p. 8.
[5] P. MIELI, L’arma della memoria,  Idem, p. 13.
[6]. SCOZZI, Un Q Paese del Sud, Idem, p. 10.
[7] SCOZZI, Un Q Paese del Sud, Idem, p. 11.

giovedì 21 maggio 2020

NOTE SUL PENSIERO POLITICO IN LUIGI CORVAGLIA Popolo Sacralità Religiosità




*Pubblicato in Prsenza Taurisaneze, a. XXXVIII, , n. 320, , maggio-giugno 2020, pp. 13-14.

La produzione letteraria, filosofica e politica di Luigi Corvaglia è pervasa da un sentimento di perenne fede razionale, che si sostanzia del convincimento che il reale costituisce un’infinita Totalità indivisibile sia della natura e sia dell’umanità. Nelle sue opere, infatti, prevale una visione dell’uomo e del mondo, che affonda le radici nel naturalismo antropocentrico del XV e XVI secolo, il quale a sua volta aggiorna e reinterpreta il panvitalismo dell’antica filosofia greca, soprattutto del neoplatonismo. Privati di questa solidità speculativa, gli scritti corvagliani rischiano di non essere compresi in modo veritiero ed esaustivo, e addirittura d’essere fraintesi. In tutte le sue opere – Commedie, Romanzo, Scritti Politici – Corvaglia dissemina affermazioni e riflessioni sull’infinito universale, di cui ogni realtà individuale è parte viva e indispensabile.  Nella commedia “Tantalo”, alla vista d’una processione di monaci benedettini cantilenanti tristi nenie, l’Autore chiosa: “Anime penanti sono. Hanno il vero infinito e lo vogliono vivisezionare. Creati all’infinito si studian di porlo sotto chiave, illudendosi di poter dire ‘l’Infinito è mio’. Mentre è di tutti. Anzi è in tutti! In un punto che si chiama io (…). Sfugge il senso dell’universale. Fuori di quell’infinito mancherà il senso della nostra destinazione immanente (“Tantalo”, Fratelli Carra Editori, ,Matino, 1929, p. XXXVIII). Nel romanzo “Finibusterre” afferma per bocca del suo alter ego, don Paolo Santacroce, che l’uomo durante la vita terrena deve rimanere saldo come roccia, perché è parte dell’infinito e “l’impronta del divino, una volta impressa, non si cancella più” (Finibusterre, Editrice Dante Alighieri, Roma,1936, p. 326).

Per il Corvaglia questa concezione “panica” è condizione pregiudiziale e preliminare per la conoscenza della realtà cosmica e per la padronanza della vita dell’uomo e di tutta la sua storia, in quanto è essa a dare il senso a ogni esistenza particolare, indicandone l’ideale e il fine. E’ una verità di fatto, indiscutibile e inviolabile, per cui assume il carattere impresso della sacralità, senza la quale qualunque realtà perde pregnanza di senso e di valore. L’uomo, allora, ha una propria collocazione storico-temporale e una propria destinazione socio-culturale, finalizzate al progresso e al miglioramento delle condizioni dell’umanità; è nelle sue capacità comprendere pienamente e realizzare responsabilmente il proprio ruolo per il concreto e retto cammino dell’Umanità. Pensare altrimenti e sostenere idee diverse significa illudere le menti, dissacrare il vero, impoverire lo spirito e fuorviare o impedire del tutto i percorsi storici. Da qui la denuncia di Corvaglia dei pericoli, che presentavano alcuni cattivi maestri del suo tempo: “Come vi sono dei poeti maledetti vi hanno dei dottrinarii maledetti”, scrive nel 1944, riferendosi a certi, che, spacciandosi per seguaci di Nietzsche, ma in realtà sulla base della loro “grossolana interpretazione”, predicavano che “l’uomo non deve abituarsi più a vivere come uomo del gregge e,  per raggiungere ciò, deve distruggere in sé la morale cristiana, il romanticismo e l’idealismo” (Quaderni mazziniani, n. 3”, Carra Editori, pp.. 7-8). La verità, invece, è l’opposto. All’eroismo dell’azione eccezionale e alla grandiosità del superomismo in voga in quegli anni bisogna opporsi con decisione, propugnando idee nobili e degne dell’uomo e coltivando il valore vero della vita quotidiana, comune, onesta e laboriosa, con cui si realizzano – mediante il lavoro onesto, tenace e assiduo e corrispondente alle capacità e ai legittimi desideri di ciascuno – concrete opere straordinarie e durature, come attesta “la gente seria, umile e operosa del Salento” (Quaderni mazziniani, n. 3”, op. cit., pag. 52).

I fondamenti essenziali più significativi del pensiero politico di Corvaglia – che s’ispira allo spiritualismo francese soprattutto di Robert de Lamennais e rimane sempre coerente con il pensiero mazziniano – sono la dottrina socio-politica di popolo e l’idea religiosa d’un’unica suprema divinità. Il popolo – argomenta il Corvaglia – è la totalità di tutti gli umani esistenti, uguali per natura, diversi per abilità, ma di pari dignità. Essi nel loro insieme costituiscono un organismo morale, in cui, similmente a un organismo fisico, i singoli organi, pur differenti per costituzione, attività e funzione, operano tutti in sintonia armonica per la salute dell’intero organismo. Sarebbe innaturale e assurdo un conflitto tra di loro, in quanto ciò condurrebbe fatalmente alla reciproca distruzione. Analogamente dovrebbe pensarsi del corpo sociale. Da qui discendono due corollari: il rigetto d’ogni forma di lotta sociale e di classe e il rifiuto d’ogni materialismo. “Diciamolo con fermezza – sostiene decisamente il Corvaglia, marcando nel 1944 i confini con il neonato Partito d’Azione, che ipotizzava alleane con partiti marxisti -. Noi (mazziniani) non siamo socialisti. Noi non possiamo esserlo, perché mazziniani. Noi non siamo comunisti. E’ vano cercar di spiritualizzare questi materialismi con temperamenti. Se essi tollerano tali  rinfianchi, non sono più né socialismo né comunismo. Sono il loro contrario. Debbono cercarsi lealmente in altre correnti dottrinarie denominazioni appropriate. Se non li tollerano, è vano travestirli con paludamenti, più vano ancora se coi mazziniani” (Quaderni mazziniani, Carra Editori, numero 1, p.17). L’opposizione di Corvaglia ai “socialismi”, quindi, non è preconcetta o ideologica. L’uomo è materia e spirito in reciproca interdipendenza, ma con indiscutibile priorità dello spirito, che può e deve guidare e indirizzare le esigenze anche della materialità. I problemi dell’uomo sono innanzitutto di natura morale e spirituale, per cui, ridurli a problemi materiali e sociali e cercarne le soluzioni in chiave economico-sociale, significa non solo lasciarli incompresi e irrisolti, ma addirittura aggravarli. E‘ necessario, allora, da una parte “educare” il popolo, perché abbia coscienza dei suoi veri bisogni e, dall’altra parte, trovarvi concreti e adeguati rimedi. E - sulle tracce di Giuseppe Mazzini – sottolinea la necessità di educare il popolo al senso del dovere, insieme alla difesa dei diritti: ciò per due motivazioni. In primo luogo, perché l’assolvimento dei doveri è legato alla responsabilità solidale propria di ciascuno, mentre la fruizione dei propri diritti dipende dalla coerenza morale degli altri; ed è utopico pensare di poter imporre agli altri il senso del dovere con strumenti legislativi o comunque coercitivi. In secondo luogo, la formazione del senso del dovere genera la cultura della reciproca integrazione, mentre il puntare sulla rivendicazione di diritti non può che determinare situazioni culturali e sociali di conflittualità, destinate solo a creare nuove forme  d’ingiustizia, che scateneranno nuove lotte.

Perché queste prospettive non restino solo ideali a cui tendere, ma si concretizzino, è indispensabile che la società si doti d’una forma di governo, che contempli e favorisca le legittime esigenze del cittadino di giustizia e di libertà. E questa non può essere certo la forma monarchica, come testimoniano le vicende del suo “maestro” Mazzini, perseguitato dalla monarchia sabauda e perpetuo esule per le sue idee  antimonarchiche. Nelle monarchie s’affievolisce fino all’estinzione la capacità di pensare autonomamente e di volere liberamente: non si è mai cittadini, ma solo e sempre sudditi. In “ Finibusterre” Orfano, rivoluzionario della setta dei “Decisi”, di fronte alle sventure di Pietro, sbotta: “Bisogna farlo giusto il destino (..),  E sai di chi è la colpa? Dei governi. Dei Birboni specialmente. Se fosse Repubblica, si comanderebbe a turno, un po’ per uno, oggi io, domani tu, e il pane si spartirebbe a once, secondo la fatica, ché tutti fratelli siamo” (Finibusterre, op. cit., pp.  133-134).
Non meno incisivo e chiaro è il suo pensiero riguardo la religione, la cui interpretazione, però, non è né facile né agevole. Certamente egli non credeva in una religione che postulasse forme di verità rivelate, né tanto meno accettava una religione istituzionalizzata e organizzata in chiese. La sua fede religiosa si può definire un deismo immanentistico; quindi, una ferma convinzione dell’esistenza d’una divinità sempre presente e sempre operante nella storia degli uomini e nelle vicende universali del mondo. Questo spiega il suo sofferto ma fermo sdegno per le forme solo esteriori di culto, vuote d’ogni autentico sentimento interiore di devozione.  “Non sono io che nego Dio – ribatte il professor Tito all’accusa rivoltagli  - . Io sento di custodire Dio in me. In forma meno gretta e personale di quella che è in moda. Effigie per monete false. Dio è svuotato ormai. N’è rimasto il fantoccio” (La casa di Seneca”, Fratelli Carra Tipografia, Matino, 1926, p. 82). Particolarmente significativa rimane una pagina del “Viaggio in Ispagna”. Alla vista della facciata della cattedrale di Burgos, esclama: “Ebbi un tuffo nel sangue. Veniva a galla l’uomo, con la sua benedetta natura sentimentale e con quel groppo che mi piglia alla gola (…), quando mi trovo dinnanzi alle forme del divino (…). M’echeggiava dentro la rampogna ‘Ubi est Deus tuus? Che ne hai fatto? Straziante nostalgia di questo divino epico che ha parlato, così potentemente, al cervello e al cuore dei nostri padri, da renderli capaci di creare forme di bellezza sovrumane, mentre s’è spento in noi (…). Queste cose vive eroiche eterne, impastate di lagrime, di sangue, di fede, l’abbiamo create noi dall’eterno che era in noi, nella nostra famiglia universale di credenti”.(Introduzione a S. Teresa e Aldonzo, pp. 8-9).

Questo sentimento religioso – insieme al senso di solidarietà umana – è uno dei grandi valori, che dominano la coscienza morale del Corvaglia e dànno significato autentico al suo pensiero e ai suoi scritti. Per lo scrittore melissanese, infatti, la religione è la difesa del sacro, cioè dell’intoccabile e dell’inviolabile; non è, quindi, un momento della storia della coscienza umana, ma un elemento costitutivo e, perciò, organico della struttura stessa della coscienza. L'esperienza del sacro – sottolinea spesso il Corvaglia mediante il comportamento e le convinzioni soprattutto di don Paolo Santacroce - è totalmente connessa allo sforzo che l’uomo compie per costruire un mondo che abbia un senso. Secondo il nostro filosofo, quindi, il significato della realtà non è un dato oggettivo che si trova e si accetta, ma un valore che l’uomo proietta e pone in realtà, che percepisce come vuote e “insensate”. Il senso del mondo, quindi, è quasi una proiezione della totalità della persona umana integralmente vissuta e realizzata in continua unione collaborativa con la divinità e con l’orecchio sempre teso, per intercettare ogni messaggio proveniente dal mondo.





giovedì 14 maggio 2020

ORGANIZZAZIONE DEI PARTITI E DEMOCRARAZIA IN ITALIA Ripensando la Costituzione della Repubblica Italiana


In Italia il panorama della vita politica e il tenore dei rapporti tra i partiti non sono certo rassicuranti. Specialmente in questo periodo di pandemia lo scenario presentato dalle condizioni psicologiche,  sociali ed economiche dei cittadini è davvero preoccupante, a causa anche della congiuntura sanitaria. Le programmazioni proposte dai protagonisti politici e governativi appaiono piuttosto deboli e inadeguate, attente per lo più a questioni settoriali e di breve respiro, anche se non prive di una loro intrinseca importanza; la stessa vita interna dei partiti politici non dà spettacolo né di responsabilità collettiva né di concreti contributi individuali; anche la libertà dei cittadini risulta di fatto sostanzialmente limitata. Barcollano i fondamenti della vita sia privata sia pubblica, benché siano sorretti da una ben salda tradizione. Infatti, il ritmo, con cui da ogni parte si reclamano modifiche e si rivendicano interventi di giustizia sociale, è così convulso e caotico da dominare e spaventare l’animo dei cittadini, i quali, di conseguenza, osservano con superficialità gli accadimenti, senza prendersi il tempo necessario per riflettere con pacatezza, valutare con saggezza e scegliere con cognizione di causa. In tale situazione caotica, pertanto, mancano le condizioni indispensabili per una chiara visione complessiva dei problemi, adeguata a trovarne soluzioni assennate e utili. In simili momenti difficili e confusi, infatti, vengono meno il controllo delle volontà e il dominio sugli istinti dell’egoismo e del rancore. In questi ultimi anni, inoltre, le menti dei cittadini sono offuscate e le loro coscienze sono smarrite, poiché assistono a tutti i livelli, al posto del dialogo civile e del confronto politico, a scontri passionali e a funeste lotte intestine.

Per un futuro desiderabile per il nostro Paese è necessaria, perciò, una pausa di riflessione pacata e concreta, al fine di restaurare l’unità degli spiriti e ristabilire le difese naturali dell’onestà morale, dell’etica politica e della solidarietà sociale. Conquiste, queste, tutelate soltanto dalla libertà di pensiero e dall’autonomia di giudizi critici da parte di tutti i cittadini. Quando, invece, prevale lo spirito di parte, allora emerge minaccioso il fanatismo dei singoli e dei gruppi, con tutte le sue nefaste conseguenze. Lo sviluppo dei cittadini, delle società e degli stati è il risultato del loro avanzamento soprattutto culturale, grazie al quale  da agglomerato d’individui reciprocamente sospettosi, diventino popoli, cioè  insieme di cittadini operosi e corresponsabili. Per realizzare concretamente quest’obiettivo sociale, è indispensabile riferirsi e affidarsi a un’idea di uomo oggettivamente vera e globale, e non parziale e settoriale. Ora, è universalmente condiviso che l’uomo è un essere di natura e di cultura, cioè che si nutre, che pensa e che si unisce in società. Di conseguenza, ogni modello di uomo, che neghi o sopravvaluti una qualunque delle componenti umane, non potrà mai pretendere di formare l’uomo-cittadino autentico.

Nel mondo attuale generalmente non godono di molto credito – benché in alcuni Paesi se ne tessa l’apologia e se ne tenti la pratica - le tradizionali opposte dottrine del sociologismo collettivistico e dell’individualismo borghese. Oggi, in verità, si osanna, si sostiene e si promuove - quale valido e invidiabile protagonista – il moderno uomo democratico, che, come profetizzava già due secoli or sono Alexis de Tocqueville, rivendica decisamente le proprie connotazioni: intolleranza per ogni norma e disciplina perché deprimenti, fiducia piena nello spontaneismo della natura e dell’umanità, certezza piena dell’autosoluzione d’ogni congiuntura economico-sociale. A questo punto sembra necessario indagare e verificare la possibilità d’una concezione socio-politica alternativa, che – in chiave personalistica integrale – possa dar vita a una democrazia, in cui ogni uomo sia riconosciuto e rispettato come persona di pari dignità ed escluda, in un contesto di condivisa solidarietà, le opposte pericolose soluzioni dell’omologazione e dell’esclusione.

Il popolo italiano potrebbe ritenersi già ben incamminato per questa strada, grazie all’ordine giuridico e all’ordine  politico codificati nella Carta Costituzionale, frutto della collaborazione positiva e leale delle tre grandi anime culturali, che hanno ricostruito l’Italia nell’ultimo dopoguerra: l’anima socialista, quella liberale e quella cattolica. Primo insostituibile fondamento, infatti, è l’equivalenza cittadino-lavoro, considerato come rapporto economico, ma rivendicato anche e soprattutto come valore umano; quindi, non come criterio di appartenenza a una delle classi sociali, ma come inalienabile diritto-dovere di realizzare la propria vita personale (artt. 1 e 4) e di ottemperare, come cittadini, ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” nell’ambito della nazione (art. 2) e nel contesto internazionale (art. 10). La solidarietà viene estesa, poi, a confini sempre più vasti, fino a farli coincidere con i confini del mondo: l’Italia, - fu stabilito - “in condizioni di parità con gli altri Stati, consente alle limitazioni di sovranità necessarie”, per realizzare “la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art.11). D’importanza non meno rilevante è, ancora, il riferimento al principio di solidarietà dovuta – in virtù della pari dignità dell’uomo - a proposito della tutela della salute, riconosciuta “diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività” (art.32) e a garanzia dell’istruzione universale, dichiarata come diritto a una “scuola aperta a tutti” (art.34).

Il popolo italiano - così concepito, definito, indirizzato e governato – è l’unico titolare della sovranità nazionale (art 1), che esercita sostanzialmente e concretamente in conformità del dettato del disposto combinato degli articoli costituzionali 48, 49 e 67, cioè. mediante l’associazione libera e la responsabile partecipazione attiva ai “partiti politici democraticamente fondati” al fine di “concorrere a determinare la politica nazionale”; mediante l’esercizio del voto “personale, libero, segreto”; mediante la delega al Parlamentare eletto di “rappresentare la Nazione” e di “esercitare” le funzioni del potere delegatogli per il bene comune dell’intera Nazione “senza vincolo di mandato”. I Padri Costituenti, quindi, hanno voluto individuare i limiti di competenza d’ogni soggetto coinvolto, allo scopo di definire e tutelare la sostanza e le modalità del sistema democratico italiano, con cui dev’essere governata la Nazione-Italia, tutelandola dai pericoli di perniciose trasformazioni involutive, prodromo di tentativi oligarchici e di tentazioni autoritarie. Il nerbo, quindi, della Repubblica Democratica Italiana – per esplicita risoluzione e ripetuta dichiarazione dei Padi Costituenti - è il partito politico. Microcellula che dà vitalità e legittimazione a ogni struttura governativa e a ogni funzione amministrativa, il partito è  la realtà presente e operante in ogni luogo dell’intero territorio nazionale ed è in esso che i cittadini partecipano liberamente, discutono responsabilmente e comunicano ai loro parlamentari deputati le risultanze dei loro dibattiti, propongono iniziative ritenute necessarie e indicano progetti e traguardi convergenti verso  il bene comune. Solo nel rispetto sostanziale di queste norme nel Parlamento siedono delegati del popolo, altrimenti la realtà diventa decisamente diversa, soprattutto perché la voce del popolo rimane ignorata e le sue volontà  manipolate o soffocate del tutto.

Considerando la situazione attuale della politica italiana non si fa fatica a prendere atto che l’ordine giuridico e l’ordine politico stabiliti dalla Costituzione sono stati lentamente, tacitamente, subdolamente - ma sostanzialmente -  tramutati. E’ una realtà manifesta che sta sotto gli occhi di tutti.  E con preoccupata attenzione ci soccorre quanto ha scritto nelle “Leggi” più di due millenni orsono” Cicerone, uno dei  “Padri salvatori della Repubblica Romana”.  “La Legalità – scrive perentoriamente - è elemento Morale, che corrisponde a un’idea di Giustizia; la mente, l’anima, la ragione, l’intelligenza di una comunità, tutto è basato sulle Leggi”. A constatare, invece, che a bistrattare la Costituzione – origine sicura e garanzia provata d’ogni Legge - spesso sono organismi governativi e a disattendere le leggi sono quelli che dovrebbero, dopo averle scritte, anche applicarle e rispettarle, ci soccorrono le avvertenze dateci due millenni e mezzo fa da Platone nel VI libro della Repubblica: “In una nave – si legge - i marinai ignoranti tengono incamerato il  capitano Demos, che è un uomo più grande e più forte, anche se un  po’ sordo e dalla vista cagionevole; i marinai,  si contendono il timone; se non riescono a ottenerlo con le preghiere, ammazzano o buttano fuori bordo i concorrenti, o drogano il capitano. Ed esaltano chi li aiuta in queste loro iniziative, trattandolo come un esperto, anche perché, pur essendo privi di conoscenze tecniche e di pratica, pensano che l'arte del pilota si acquisisca semplicemente prendendo il governo della nave, mentre viene trattato come un inutile chiacchierone con la testa fra le nuvole il pilota competente, che  sa molto bene che ci si deve preoccupare dell'anno e delle stagioni, del cielo e degli astri”.

Per una vita politica d’una società veramente all’altezza e coerente con la dignità degli uomini, sono richieste saggezza e prudenza, competenza ed equilibrio, saper riconoscere e accettare ciò che i singoli momenti richiedono senza la presunzione di poter orientare il corso degli eventi da soli, senza il confronto disponibile all’ascolto e il dialogo   pacato e ragionevole. Per evitare il doppio opposto errore della cattiva politica, è quanto mai opportuno, nei momenti di crisi, riflettere sull’insegnamento, che ha lasciato per i posteri di tutti i tempi il vecchio Platone: "Quando un Popolo – avverte nell’VIII libro della Repubblica - divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere come capo alcuni coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, allora accade che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati reazionari e tiranni.
E avviene pure che colui che si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito uomo senza carattere e servo, che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffa di lui e lo contestano, che i giovani pretendono gli stessi diritti, la stessa considerazione dei vecchi, e questi per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo né rispetto per nessuno.
In mezzo a tanta licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia".




martedì 14 aprile 2020

LA PANDEMIA DI COVID-19 Aggressione della Natura e rinascita del senso dell’Umanità

L’umanità all’improvviso è stata risvegliata da un sonno profondo, che le conquiste della scienza moderna, i progressi della tecnologia e la floridezza dei mercati economico-finanziari  le avevano promesso lungo e tranquillo. A riportarla coi piedi per terra nel mondo concreto della realtà, sono stati l’insorgere repentino e il rapido diffondersi d’una pandemia imprevista, causata dalla diffusione d’un virus finora sconosciuto, che ha già mietuto un sorprendente numero di vite. Gli uomini, che si credevano possessori e dominatori invincibili della terra, improvvisamente hanno visto la terra rivoltarsi tacitamente e costringerli a prendere coscienza della loro fragile piccolezza e soprattutto della loro mortalità naturale, che li rende solo abitanti pellegrini sul pianeta Terra e di cui di cui non dovrebbero mai dimenticarsi.

L’ottimistica serenità d’animo degli uomini non è, tuttavia, da attribuire totalmente a una loro maldestra superficialità o a una loro colpevole ignoranza, ma anche e soprattutto all’influsso del periodo storico e culturale, in cui hanno vissuto nei decenni del secondo dopoguerra. Lo sfruttamento senza scrupoli delle risorse naturali, l’inquinamento crescente d’ogni ambiente, la corsa all’arricchimento scandaloso di alcuni e l’indifferenza per la povertà di molti, la supremazia dell’economia e della finanza costituivano una pericolosa minaccia e creavano sempre più problemi enormi e visibili, ma che le nazioni e i popoli non coglievano a tempo debito né risolvevano adeguatamente, perché costantemente sovrastati dal pericolo della guerra fredda (1947-1991), che con la sua minaccia sempre incombente “alienava” le menti e gli animi degli uomini, riducendoli a ingranaggi di Stati ideologizzati. Il mondo era diviso – e di fatto anche dominato - sostanzialmente dagli interessi di due “imperialismi”: quello economico dell’Occidente e quello ideologico dell’Oriente, che si fondavano (e continuano a fondarsi) su due concezioni dell’uomo e del mondo, opposte, ma paradossalmente convergenti nella corsa verso il progressivo stravolgimento della Natura e l’inesorabile sbriciolamento dell’inviolabile dignità della Persona umana, fino alla loro completa distruzione. In entrambe queste forme d’imperialismo, infatti, la Natura è qualcosa solo da sfruttare e l’uomo non è soggetto titolare di propri diritti inalienabili, e soprattutto non è dotato d’una propria finalità esistenziale, ma vale solo come mezzo per il raggiungimento di scopi a lui estranei e imposti arbitrariamente dal altri. E’ l’uomo unidimensionale, come aveva consapevolmente accusato Herbert Marcuse già nel 1964,

In quest’ultimo trentennio, poi, l’intenso dinamismo  della vita individuale e collettiva ha consolidato a poco a poco lo stato di fiducia illimitata e di sicuro benessere economico, per cui - ingannando la ragione e seducendo le speranze soprattutto dei ceti agiati e dei responsabili della cosa pubblica – l’evolvere del tempo, grazie all’intervento della “mano invisibile” già preconizzata da Adam Smith, avrebbe sistemato qualche eventuale carattere sfavorevole e tutto sarebbe proceduto verso il meglio: gli uomini potevano disporre a loro piacimento di tutto ciò che offriva la natura con le sue risorse minerarie e con tutte le sue dotazioni di flora e di fauna. A confermarli in questo convincimento hanno contribuito decisamente, tra l’altro, il diffondersi e il consolidarsi della democrazia contemporanea come forma si Stato  e di Governo. Agli inizi, in verità, a reggere i governi - a ogni livello e d’ogni dimensione - venivano chiamate  personalità di sicura competenza, di profondo senso dello Stato e di radicata coscienza civica. Accanto a loro, però,  spuntavano e mettevano sempre più piede, alcuni che faticavano a comprendere e ad accettare il ruolo, che compete a un governante “democratico”, cioè di “servitore dello Stato” al servizio del bene comune. Questa distorsione concettuale gradualmente ha deformato e cancellato quasi del tutto l’anima stessa della democrazia, in cui è nato l’odierno “uomo democratico”, che perlopiù coltiva e persegue, quale ultima finalità del vivere e dell’agire umano il profitto individuale e di parte, da ottenere a qualunque costo e con qualunque patto, perché si sente libero da pastoie giuridiche, morali ed etiche. Non solo nei rapporti con gli esseri umani a lui simili e uguali, ma anche nei riguardi della Natura. Ha dimenticato, però, l’accorto ammonimento dello scienziato-filosofo Francesco Bacone: “La natura non la si vince, se non ubbidendole”.

La pandemia in atto porge all’uomo – quale quadro complessivo delle conseguenze documentarie del suo comportamento disinvolto nei riguardi della Terra e dell’Umanità -  la rappresentazione d’una la realtà planetaria drammatica e dolorosa, ch’egli mai avrebbe potuto immaginare. In quale stato di decadimento s’andava riducendo il pianeta Terra, stava e sta davanti agli occhi di tutti, ma nessuno ne intuiva tutta la gravità e ne prevedeva gli esiti funesti e orribili. Quando, però, gli uomini, ammutoliti, hanno dovuto assistere alla lunga e triste teoria di camion militari col carico di salme destinate alla cremazione; quando, increduli, hanno visto dormire stese sull’asfalto d’un ampio parcheggio, antistante ad alberghi di lusso vuoti nell’opulenta città d’un grande Stato, decine di senzatetto; quando, attoniti, hanno assistito al seppellimento in fosse comuni di cadaveri di persone umane, allora i loro occhi si sono aperti e, ascoltando gl’impressionanti “numeri” quotidiani delle vittime e dei contagiati in Europa e nel mondo, hanno riflettuto: dietro ognuno di quei numeri c’erano una vita umana spenta, una famiglia smembrata e depauperate di affetti per lei vitali, energie fisiche, doti intellettive e morali sottratte prematuramente a tutto il genere umano. Allora hanno cominciato a chiedersi cosa stesse succedendo e perché; e soprattutto hanno cercato di capire cosa si potesse fare, anzi cosa si dovesse fare.

Il mondo degli scienziati, del governanti e della politica ha messo subito in moto tutte le conoscenze di cui disponeva; essendo, per, un’epidemia del tutto sconosciuta, sta andando alla ricerca, per scoprire terapie, che possano debellare il contagio. E pare che c’è qualche indizio che induce a ben sperare. E, quindi, soprattutto governanti e politici e forze sociali hanno cominciato a prefigurare e programmare un futuro possibile e sicuro per l’avvenire dei singoli popoli e dell’umanità intera. A ragione e doverosamente si occupano concretamente di ripresa del lavoro, di blocco della occupazione, di garanzie per la salute, di sviluppo dell’economia, di tutela della finanza: insomma di tutto ciò che occorre perché la vita degli uomini possa “ripartire”. Ed è a questo punto che nascono non poche perplessità e riserve. Si tratta, infatti, d’interventi necessari e urgenti, ma insufficienti e destinati al fallimento, se privi della condizione sostanziale e indispensabile. Infatti, interpretando rigorosamente il significato dell’evento che sta stravolgendo la vita umana, è richiesta la rinascita della coscienza morale degli uomini, che debbono essere chiamati non a “ripartire”, per proseguire, come se nulla fosse successo, per le vecchie strade, ma debbono spronati e convinti a “svoltare”, cambiando totalmente e decisamente la loro ragione e i loro sentimenti. 

Michail Gorbaciov. in un congresso tenuto a Milano nel 1995, volle svelare il suo stato d’animo nell’intraprendere nel 1985 da neo segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, il difficile e insidioso cammino della sua Perestroika: convinto, infatti della necessità di curare prima le anime e poi i corpi per “svolte” imposte dalla storia, “In fin dei conti – disse - la fonte dei problemi contemporanei non è all’esterno, ma dentro di noi, nel nostro rapporto reciproco, nel rapporto verso la società e verso la natura. Tutto il resto è un derivato. E dobbiamo innanzitutto cambiare noi stessi”(Costruire la pace, Comunità S. Egidio, Milano, 1996, p. 40).                  

martedì 31 marzo 2020

GLOBALIZZAZIONE POLITICA E E SOVRANITA’ NAZIONALI Utopia o Ideale Storico Concreto secondo Jacques Maritain*

* Pubblicato in "Presenza Taurisanese", a. XXXVIII, marzo-aprile, 2020, n. 319

E’ ormai da decenni che si ostenta e si esalta il fenomeno progressivo della globalizzazione, intesa e accolta soprattutto come la realizzazione d’una meta vagheggiata e da tutti  agognata dopo i tragici eventi, che avevano segnato la prima metà del secolo scorso: era finalmente possibile sentire e desiderare il globo terrestre come casa e patria comune abitata da tutti gli uomini in comunanza intenzionale di sentimenti di cooperazione attiva e intelligente. S’immaginava, così, raggiunto e realizzato il vecchio progetto prospettato e proposto a suo tempo da Immanuel Kant (1724-1804): l’umanità s’incamminava costruttivamente verso una globalizzazione anche politica, cioè s’orientava verso la realizzazione d’una bsocietà umana, che sarebbe stata sostanziata e sorretta da valori umani autentici, accolti da tutti e unanimemente rispettati e vissuti con crescente consapevolezza, in quanto sarebbero stati salvaguardati e garantiti da un’autorità politica federale planetaria, che avrebbe dato all’antico principio di sovranità nazionale senso vero e significato nuovo, tale che avrebbe permesso per tutta l’umanità grande benessere economico e sicuri percorsi di felicità anche morale. Questo  auspicio formulato da Kant fu gravemente smentito dagli avvenimenti del  XIX secolo, che, al contrario,  vide il perseguire e il consolidarsi della sovranità nazionale dei singoli stati, intenti o a riprendersi il ruolo perduto o a inventare stratagemmi per ampliare il loro campo d’azione o anche solo per salvaguardare e consolidare il loro influsso. La storia registra e documenta gli effetti: la prima metà del secolo scorso fu teatro di  due guerre disumane e del radicarsi di autoritarismi tirannici, che, auto-investitisi d’un potere dittatoriale assoluto, credettero loro missione spargere ovunque e indiscriminatamente sangue, creare e preservare la razza pura, privilegiando il superuomo, annientare ogni diversità, difendere il potere e la potenza nazionali,
Trascorso un secolo e mezzo dalla proposta kantiana e avendo assistito ai nuovi tragici eventi, Jacques Maritain (1882-1973) riprese i sentieri di pensiero tracciati dal filosofo tedesco e li consolidò con la propria speculazione politica, arricchita dagli insegnamenti della storia a lui contemporanea. Il filosofo francese tenne nel 1949 un ciclo di lezioni a Chicago presso la “Fondazione Charles R. Walgreen”, che furono pubblicate due anni dopo col titolo  L’uomo e lo Stato” (Chicago, University of Chicago Press, 1951; qui si citerà dall’edizione Marietti, Milano 2003). Negli stessi anni, invero, da più parti si ricercavano e si proponevano possibili soluzioni per il superamento della difficile situazione e tentare la realizzazione d’un globalismo, che fosse non solo garanzia di scambio e d’equilibrio economico, ma anche e contemporaneamente di crescita civile e maturazione morale, cioè, degno d’essere vissuto dagli uomini. Si ricordano, tra gli altri, i contributi di Hans Kelsen (1881-1973) e Jürgen Habermas (1929), propugnatori entrambi di in globalismo, fondato e affidato a un ordine giuridico universale, accettato da tutte le nazioni; tale proposta rimarrebbe, tuttavia, carente del necessario e adeguato potere anche coercitivo e, quindi, in sostanza resterebbe legata alla volubilità della volontà delle singole nazioni. Vanno ricordati, inoltre, i contributi dottrinali, le esortazioni pastorali e i coraggiosi e concreti passi in avanti di papa Giovanni XXIII con la rivoluzionaria enciclica ”Pacem in terris” del 1963 e del suo successore Paolo VI con la “Populorum Progressio Del 1967.
Nel panorama culturale di questo periodo s’inserisce il contributo di Jacques Maritain,  che alla fine della seconda guerra mondiale fu scelto personalmente da Charles De Gaulle per dirigere l’ambasciata francese presso la Santa Sede e si trovò proiettato in un’esperienza difficile nuova. Veramente tra papa Paolo VI e Maritain correva un’amicizia personale sin dal  1928, quando il giovane Gianbattista Montini – assistente presso la Pontificia Università Gregoriana, esponendosi a un grave rischio personale - tradusse e curò la pubblicazione dell’opera maritainiana “I tre riformatori”; d’allora i due stettero costantemente in contatto anche durante l’intero svolgimento del Concilio Ecumenico Vaticano II; di questa reciproca stima s’era capito quando Paolo VI consegnò al filosofo-amico, l’8 dicembre 1965, uno dei messaggi del concilio con queste parole: “La Chiesa vi è riconoscente per il lavoro di tutta la vostra vita”.
La mente e l’animo di Maritain non restarono mai insensibili ai gravi problemi, che tormentavano l’Europa e il mondo, e in diverse occasioni era intervenuto per denunciarvi cause e proporre adeguati rimedi di natura giuridica, etica e politica. Nel 1936, con “Umanesimo integrale”, metteva in guardia dalla massificazione e dalla spersonalizzazione implicite nelle dottrine marxiste-comuniste; nel 1965, con “Il contadino della Garonna”, avvisava e denunciava la forza subdola e disumanante dell’individualismo borghese proprio delle idee del liberalismo e dei modelli dell’economa liberista. L’invito americano del 1949 gli diede l’opportunità d’esplicitare ordinatamente le sue preoccupazioni e di formulare coerentemente le sue proposte di rimedio. “L’uomo e lo Stato” costituisce, quindi, uno dei più importanti e completi documenti della sua visione della problematica politica.
Lo svolgimento delle lezioni americane si conclude con la delineazione d’un progetto di unificazione politica di tutte le nazioni del mondo, ossia della creazione d’una società politica mondiale, fondata sulla responsabilità solidale dei popoli e delle nazioni, dotata di suoi organismi strutturali e affidata a un’autorità mondiale costituita e rispettata da tutti, tenendo nel giusto conto che il globalismo - come processo graduale anche di “globalizzazione politica”, è un dato di fatto, in quanto il genere umano, essendo unico e uguale per natura, è di per sé globalità. Solo che i dilaganti messaggi e le allettanti prospettive dell’individualismo borghese di quegli anni – oggi vestiti con i paludamenti dell’uomo democratico, attento solo al proprio interesse privato e alla propria visibilità sia pure fugace – oscuravano e oscurano tuttora la realtà vera, e inventano, raccontano e insistono sulle differenze artificiosamente spiegate e giustificate, dando libero campo e facile vittoria ai sentimenti disumani di rabbia e di odio.
La formulazione della proposta maritainiana si differenzia dalla soluzione politica di Kant: infatti, l’universalismo umano non è un’idea regolativa della ragione degli uomini, ma l’ideale storico da perseguire e realizzare  concretamente grazie alla graduale maturazione morale degli uomini. Maritain ritiene che le istituzioni e le leggi possono ostacolare e impedire alcuni comportamenti umani, ma sono impotenti a far germinare l’intima convinzione e la totale adesione al bene comune esteso quanto il genere umano. Si tratta certamente d’un processo lungo e lento, ma di sicure conquiste.
Il discorso di Maritain si fonda su due presupposti, esposti nei primi due capitoli dell’opera. In primo luogo, la distinzione tra Stato e Società Politica, per rimarcare la preminenza e l’anteriorità della società sullo stato: lo Stato - puntualizza - non esaurisce la totalità della Società, ma ne è solo parte. In secondo luogo, la critica radicale del concetto di sovranità come progettato nei tempi moderni da Bodin, Hobbes e Rousseau e la definizione d’un nuovo schema di rela­zioni internazionali, in cui non c’è più posto per lo Stato, che non riconosce né accetta alcuna superiorità di  potere o di legge. I rapporti tra gli Stati moderni – argomenta il Maritain - si fondano sulla ragion di Stato, che si traduce e coincide con il piccolo interesse particolare di uni Stato ritenuto inviolabile, perché supremo. Questo è il il falso presupposto che interpreta lo  Stato come “Persona” superiore al corpo politico della società e produce la propensione sventurata al potere supremo caratterizzato da una sicura e chiara amoralità d’azione.
Le nazioni e i governi democratici o che vogliono essere tali debbono liberarsi dal totem della sovranità sia nei rapporti tra i propri cittadini e sia nelle relazioni internazionali. I cittadini di un unico Stato possono tutelarsi e difendersi dall’assoluta arbitrarietà della sovranità dei propri governanti con i limiti previsti dalla costituzione e dalle leggi, ma i governi delle nazioni sono costretti, quando il dialogo umano e l’arbitrato politico falliscono, a ricorrere al “diritto di fare guerra”, che il principio di sovranità concede loro. Oggi appare più urgente e necessario questo percorso di globalizzazione politica, in quanto è divenuta vitale e quasi strutturale l’interdipendenza tra le nazioni; solo che, conservando e difendendo le sovranità nazionali,  i rapporti sono più occasione di conflitti che di collaborazione, soprattutto perché si tratta di relazioni imposte  da processi tecnici  ed economici e non politici.
Il 10 dicembre 1948 fu approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite la “La dichiarazione universale dei diritti umani”, il cui articolo 1 recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fraternità vicendevole”. Guardando lo spettacolo che oggi ci fa vedere il mondo, non è facile capire come mai siano passati più di settant’anni, senza che l’umanità abbia lavorato per il suo progresso civile e morale. Forse non resta che continuare a credere nella bontà dell’animo umano e sperare in uomini migliori e tempi meno infausti. Nel frattempo facciamo nostro il consiglio che ci ha dato mezzo secolo fa Italo Calvino nelle Le città invisibili: “Cercare e saper riconoscere chi e che cosa - in mezzo all’inferno - non è inferno: per farlo durare e dargli spazio”.






mercoledì 20 novembre 2019

Introduzione allo studio di Luigi Corvaglia da Melissano


di Cosimo Scarcella

"Noi salentini, noi italiani tutti, abbiamo un debito morale con Luigi Corvaglia, l'nsigne pensatore, che ci ha lasciato un pingue patrimonio culturale, in gran parte ancora inedito. Per il valore intrinseco dell'opera del nostro grande Gigi, potremmo forse ripetere la pittoresca definizione che Vincenzo Monti ebbe per quella di Giambattista Vico: irta di rupi e gravida di diamanti. Un'opera che doveva fatalmente condannare il pensatore di Melissano alla solitudine e all'incomprensione: ma anche incitare i posteri, soprattutto i giovani, a scavare nella sua miniera".
Alfredo De Donno, Da Giuseppe Libertini a Luigi Corvaglia, in Apulia, 1975, n. 2, Archivio

"L'umanesimo laico e mazziniano del dopoguerra, quale il Corvaglia a se stesso presento, se da una parte lo riporta ai lontani anni liceali e universitari in Galatina e a Pisa, dall'altra suggella natura e sostanza dei suoi studi come predilezioni e carattere dell'uomo. L'unità è qui. La lezione sua più valida è qui. Il fraintendimento
nasce nel distinguere l'opera scritta dall'azione pratica, gli scritti letterari e filosofici dal pensiero politico e civile. Gli uni e gli altri hanno invece la stessa matrice. Gli uni e gli altri nascono in un unico atto di meditazione e di ricerca"
Aldo Vallone, Profilo di Luigi Corvaglia attraverso scritti inediti, in 'La Zagaglia XIII, n. 50, 1971.