E’ ormai da decenni che si ostenta e si esalta il fenomeno progressivo della globalizzazione, intesa e accolta soprattutto come la realizzazione d’una meta vagheggiata e da tutti agognata dopo i tragici eventi, che avevano segnato la prima metà del secolo scorso: era finalmente possibile sentire e desiderare il globo terrestre come casa e patria comune abitata da tutti gli uomini in comunanza intenzionale di sentimenti di cooperazione attiva e intelligente. S’immaginava, così, raggiunto e realizzato il vecchio progetto prospettato e proposto a suo tempo da Immanuel Kant (1724-1804): l’umanità s’incamminava costruttivamente verso una globalizzazione anche politica, cioè s’orientava verso la realizzazione d’una bsocietà umana, che sarebbe stata sostanziata e sorretta da valori umani autentici, accolti da tutti e unanimemente rispettati e vissuti con crescente consapevolezza, in quanto sarebbero stati salvaguardati e garantiti da un’autorità politica federale planetaria, che avrebbe dato all’antico principio di sovranità nazionale senso vero e significato nuovo, tale che avrebbe permesso per tutta l’umanità grande benessere economico e sicuri percorsi di felicità anche morale. Questo auspicio formulato da Kant fu gravemente smentito dagli avvenimenti del XIX secolo, che, al contrario, vide il perseguire e il consolidarsi della sovranità nazionale dei singoli stati, intenti o a riprendersi il ruolo perduto o a inventare stratagemmi per ampliare il loro campo d’azione o anche solo per salvaguardare e consolidare il loro influsso. La storia registra e documenta gli effetti: la prima metà del secolo scorso fu teatro di due guerre disumane e del radicarsi di autoritarismi tirannici, che, auto-investitisi d’un potere dittatoriale assoluto, credettero loro missione spargere ovunque e indiscriminatamente sangue, creare e preservare la razza pura, privilegiando il superuomo, annientare ogni diversità, difendere il potere e la potenza nazionali,
Trascorso un secolo e mezzo dalla proposta kantiana e avendo
assistito ai nuovi tragici eventi, Jacques Maritain (1882-1973) riprese i
sentieri di pensiero tracciati dal filosofo tedesco e li consolidò con la propria
speculazione politica, arricchita dagli insegnamenti della storia a lui
contemporanea. Il filosofo francese tenne nel 1949 un ciclo di lezioni a
Chicago presso la “Fondazione Charles R. Walgreen”, che furono pubblicate due
anni dopo col titolo “L’uomo e lo Stato” (Chicago, University
of Chicago Press, 1951; qui si citerà dall’edizione Marietti, Milano 2003). Negli stessi anni, invero, da più parti si ricercavano e si
proponevano possibili soluzioni per il superamento della difficile situazione e
tentare la realizzazione d’un globalismo, che fosse non solo garanzia di
scambio e d’equilibrio economico, ma anche e contemporaneamente di crescita civile
e maturazione morale, cioè, degno d’essere vissuto dagli uomini. Si ricordano,
tra gli altri, i contributi di Hans Kelsen (1881-1973) e Jürgen Habermas (1929),
propugnatori entrambi di in globalismo, fondato e affidato a un ordine
giuridico universale, accettato da tutte le nazioni; tale proposta rimarrebbe,
tuttavia, carente del necessario e adeguato potere anche coercitivo e, quindi,
in sostanza resterebbe legata alla volubilità della volontà delle singole
nazioni. Vanno ricordati, inoltre, i contributi dottrinali, le esortazioni pastorali
e i coraggiosi e concreti passi in avanti di papa Giovanni XXIII con la
rivoluzionaria enciclica ”Pacem in terris” del 1963 e del suo successore Paolo
VI con la “Populorum Progressio Del 1967.
Nel panorama
culturale di questo periodo s’inserisce il contributo di Jacques Maritain, che alla
fine della seconda guerra mondiale fu scelto personalmente da Charles De Gaulle
per dirigere l’ambasciata francese presso la Santa Sede e si trovò proiettato
in un’esperienza difficile nuova. Veramente tra
papa Paolo VI e Maritain correva un’amicizia personale sin dal 1928, quando il giovane Gianbattista Montini –
assistente presso la Pontificia Università Gregoriana, esponendosi a un grave
rischio personale - tradusse e curò la pubblicazione dell’opera maritainiana “I
tre riformatori”; d’allora i due stettero costantemente in contatto anche durante
l’intero svolgimento del Concilio Ecumenico Vaticano II; di questa reciproca
stima s’era capito quando Paolo VI consegnò al filosofo-amico, l’8 dicembre
1965, uno dei messaggi del concilio con queste parole: “La Chiesa vi è
riconoscente per il lavoro di tutta la vostra vita”.
La mente e l’animo di
Maritain non restarono mai insensibili ai gravi problemi, che tormentavano
l’Europa e il mondo, e in diverse occasioni era intervenuto per denunciarvi cause
e proporre adeguati rimedi di natura giuridica, etica e politica. Nel 1936, con
“Umanesimo integrale”, metteva in guardia dalla massificazione e dalla spersonalizzazione
implicite nelle dottrine marxiste-comuniste; nel 1965, con “Il contadino della
Garonna”, avvisava e denunciava la forza subdola e disumanante dell’individualismo
borghese proprio delle idee del liberalismo e dei modelli dell’economa liberista.
L’invito americano del 1949 gli diede l’opportunità d’esplicitare ordinatamente
le sue preoccupazioni e di formulare coerentemente le sue proposte di rimedio. “L’uomo
e lo Stato” costituisce, quindi, uno dei più importanti e completi documenti
della sua visione della problematica politica.
Lo svolgimento
delle lezioni americane si conclude con la delineazione d’un progetto di unificazione
politica di tutte le nazioni del mondo, ossia della creazione d’una società politica mondiale, fondata sulla responsabilità
solidale dei popoli e delle nazioni, dotata di suoi organismi strutturali
e affidata a un’autorità mondiale costituita e rispettata da tutti, tenendo nel
giusto conto che il globalismo - come processo
graduale anche di “globalizzazione politica”, è un dato di fatto, in quanto il genere umano,
essendo unico e uguale per natura, è di per sé globalità. Solo che i dilaganti messaggi e le allettanti prospettive dell’individualismo
borghese di quegli anni – oggi vestiti con i paludamenti dell’uomo democratico,
attento solo al proprio interesse privato e alla propria visibilità sia pure
fugace – oscuravano e oscurano tuttora la realtà vera, e inventano, raccontano e
insistono sulle differenze artificiosamente spiegate e giustificate, dando
libero campo e facile vittoria ai sentimenti disumani di rabbia e di odio.
La
formulazione della proposta maritainiana si differenzia dalla soluzione politica
di Kant: infatti, l’universalismo umano non è un’idea regolativa della ragione
degli uomini, ma l’ideale storico da perseguire e realizzare concretamente grazie alla graduale maturazione
morale degli uomini. Maritain ritiene che le istituzioni e le leggi possono
ostacolare e impedire alcuni comportamenti umani, ma sono impotenti a far
germinare l’intima convinzione e la totale adesione al bene comune esteso
quanto il genere umano. Si tratta certamente d’un processo lungo e lento, ma di
sicure conquiste.
Il discorso
di Maritain si fonda su due presupposti, esposti nei primi due capitoli
dell’opera. In primo luogo, la distinzione tra Stato e Società Politica, per rimarcare
la preminenza e l’anteriorità della società sullo stato: lo Stato - puntualizza
- non esaurisce la totalità della Società, ma ne è solo parte. In secondo
luogo, la critica radicale del concetto di sovranità come progettato nei tempi
moderni da Bodin, Hobbes e Rousseau e la definizione d’un nuovo schema di relazioni
internazionali, in cui non c’è più posto per lo Stato, che non riconosce né
accetta alcuna superiorità di potere o di
legge. I rapporti tra gli Stati moderni – argomenta il Maritain - si fondano
sulla ragion di Stato, che si traduce e coincide con il piccolo interesse
particolare di uni Stato ritenuto inviolabile, perché supremo. Questo è il il
falso presupposto che interpreta lo
Stato come “Persona” superiore al corpo politico della società e produce
la propensione sventurata al potere supremo caratterizzato da una sicura e
chiara amoralità d’azione.
Le nazioni e
i governi democratici o che vogliono essere tali debbono liberarsi dal totem
della sovranità sia nei rapporti tra i propri cittadini e sia nelle relazioni
internazionali. I cittadini di un unico Stato possono tutelarsi e difendersi
dall’assoluta arbitrarietà della sovranità dei propri governanti con i limiti
previsti dalla costituzione e dalle leggi, ma i governi delle nazioni sono
costretti, quando il dialogo umano e l’arbitrato politico falliscono, a
ricorrere al “diritto di fare guerra”, che il principio di sovranità concede
loro. Oggi appare più urgente e
necessario questo percorso di globalizzazione politica, in quanto è divenuta
vitale e quasi strutturale l’interdipendenza tra le nazioni; solo che,
conservando e difendendo le sovranità nazionali, i rapporti sono più occasione di conflitti
che di collaborazione, soprattutto perché si tratta di relazioni imposte da processi tecnici ed economici e non politici.
Il 10
dicembre 1948 fu approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite la “La dichiarazione universale dei diritti umani”,
il cui articolo 1 recita: “Tutti gli
esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di
ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fraternità
vicendevole”. Guardando lo spettacolo che oggi ci fa vedere il mondo, non è
facile capire come mai siano passati più di settant’anni, senza che l’umanità
abbia lavorato per il suo progresso civile e morale. Forse non resta che continuare
a credere nella bontà dell’animo umano e sperare in uomini migliori e tempi
meno infausti. Nel frattempo facciamo nostro il consiglio che ci ha dato mezzo
secolo fa Italo Calvino nelle Le città
invisibili: “Cercare e saper riconoscere chi e che cosa - in mezzo
all’inferno - non è inferno: per farlo durare e dargli spazio”.
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