*Pubblicato in Prsenza Taurisaneze, a. XXXVIII, , n. 320, , maggio-giugno 2020, pp. 13-14.
La
produzione letteraria, filosofica e politica di Luigi Corvaglia è pervasa da un
sentimento di perenne fede razionale, che si sostanzia del convincimento che il
reale costituisce un’infinita Totalità indivisibile sia della natura e sia
dell’umanità. Nelle sue opere, infatti, prevale una visione dell’uomo e del
mondo, che affonda le radici nel naturalismo antropocentrico del XV e XVI
secolo, il quale a sua volta aggiorna e reinterpreta il panvitalismo dell’antica
filosofia greca, soprattutto del neoplatonismo. Privati di questa solidità
speculativa, gli scritti corvagliani rischiano di non essere compresi in modo
veritiero ed esaustivo, e addirittura d’essere fraintesi. In tutte le sue opere
– Commedie, Romanzo, Scritti Politici – Corvaglia dissemina affermazioni e
riflessioni sull’infinito universale, di cui ogni realtà individuale è parte
viva e indispensabile. Nella commedia “Tantalo”,
alla vista d’una processione di monaci benedettini cantilenanti tristi nenie, l’Autore
chiosa: “Anime penanti sono. Hanno il vero infinito e lo vogliono
vivisezionare. Creati all’infinito si studian di porlo sotto chiave,
illudendosi di poter dire ‘l’Infinito è mio’. Mentre è di tutti. Anzi è in
tutti! In un punto che si chiama io (…). Sfugge il senso dell’universale. Fuori
di quell’infinito mancherà il senso della nostra destinazione immanente (“Tantalo”,
Fratelli Carra Editori, ,Matino, 1929, p. XXXVIII). Nel romanzo “Finibusterre” afferma
per bocca del suo alter ego, don Paolo Santacroce, che l’uomo durante la vita
terrena deve rimanere saldo come roccia, perché è parte dell’infinito e
“l’impronta del divino, una volta impressa, non si cancella più” (Finibusterre,
Editrice Dante Alighieri, Roma,1936, p. 326).
Per
il Corvaglia questa concezione “panica” è condizione pregiudiziale e
preliminare per la conoscenza della realtà cosmica e per la padronanza della vita
dell’uomo e di tutta la sua storia, in quanto è essa a dare il senso a ogni
esistenza particolare, indicandone l’ideale e il fine. E’ una verità di fatto, indiscutibile
e inviolabile, per cui assume il carattere impresso della sacralità, senza la
quale qualunque realtà perde pregnanza di senso e di valore. L’uomo, allora, ha
una propria collocazione storico-temporale e una propria destinazione socio-culturale,
finalizzate al progresso e al miglioramento
delle condizioni dell’umanità; è nelle sue capacità comprendere pienamente
e realizzare responsabilmente il proprio ruolo per il concreto e retto cammino dell’Umanità.
Pensare altrimenti e sostenere idee diverse significa illudere le menti, dissacrare
il vero, impoverire lo spirito e fuorviare o impedire del tutto i percorsi
storici. Da qui la denuncia di Corvaglia dei pericoli, che presentavano alcuni cattivi
maestri del suo tempo: “Come vi sono dei poeti
maledetti vi hanno dei dottrinarii
maledetti”, scrive nel 1944, riferendosi a certi, che, spacciandosi per seguaci
di Nietzsche, ma in realtà sulla base della loro “grossolana interpretazione”,
predicavano che “l’uomo non deve abituarsi più a vivere come uomo del gregge e,
per
raggiungere ciò, deve distruggere in sé la morale cristiana, il romanticismo e
l’idealismo” (Quaderni mazziniani, n. 3”, Carra Editori, pp.. 7-8). La verità,
invece, è l’opposto. All’eroismo dell’azione eccezionale e alla grandiosità del
superomismo in voga in quegli anni bisogna opporsi con decisione, propugnando
idee nobili e degne dell’uomo e coltivando il valore vero della vita quotidiana,
comune, onesta e laboriosa, con cui si realizzano – mediante il lavoro onesto,
tenace e assiduo e corrispondente alle capacità e ai legittimi desideri di
ciascuno – concrete opere straordinarie e durature, come attesta “la gente
seria, umile e operosa del Salento” (Quaderni mazziniani, n. 3”, op. cit., pag.
52).
I
fondamenti essenziali più significativi del pensiero politico di Corvaglia – che
s’ispira allo spiritualismo francese soprattutto di Robert de Lamennais e rimane
sempre coerente con il pensiero mazziniano – sono la dottrina socio-politica di
popolo e l’idea religiosa d’un’unica suprema divinità. Il popolo – argomenta il
Corvaglia – è la totalità di tutti gli umani esistenti, uguali per natura,
diversi per abilità, ma di pari dignità. Essi nel loro insieme costituiscono un
organismo morale, in cui, similmente a un organismo fisico, i singoli organi,
pur differenti per costituzione, attività e funzione, operano tutti in sintonia
armonica per la salute dell’intero organismo. Sarebbe innaturale e assurdo un conflitto
tra di loro, in quanto ciò condurrebbe fatalmente alla reciproca distruzione. Analogamente
dovrebbe pensarsi del corpo sociale. Da qui discendono due corollari: il
rigetto d’ogni forma di lotta sociale e di classe e il rifiuto d’ogni
materialismo. “Diciamolo con fermezza – sostiene decisamente il Corvaglia, marcando
nel 1944 i confini con il neonato Partito d’Azione, che ipotizzava alleane con
partiti marxisti -. Noi (mazziniani) non siamo socialisti. Noi non possiamo
esserlo, perché mazziniani. Noi non siamo comunisti. E’ vano cercar di
spiritualizzare questi materialismi
con temperamenti. Se essi tollerano tali
rinfianchi, non sono più né socialismo né comunismo. Sono il loro contrario.
Debbono cercarsi lealmente in altre correnti dottrinarie denominazioni
appropriate. Se non li tollerano, è vano travestirli con paludamenti, più vano
ancora se coi mazziniani” (Quaderni
mazziniani, Carra Editori, numero 1, p.17). L’opposizione di Corvaglia ai
“socialismi”, quindi, non è preconcetta o ideologica. L’uomo è materia e
spirito in reciproca interdipendenza, ma con indiscutibile priorità dello
spirito, che può e deve guidare e indirizzare le esigenze anche della materialità.
I problemi dell’uomo sono innanzitutto di natura morale e spirituale, per cui,
ridurli a problemi materiali e sociali e cercarne le soluzioni in chiave
economico-sociale, significa non solo lasciarli incompresi e irrisolti, ma addirittura
aggravarli. E‘ necessario, allora, da una parte “educare” il popolo, perché abbia
coscienza dei suoi veri bisogni e, dall’altra parte, trovarvi concreti e adeguati
rimedi. E - sulle tracce di Giuseppe Mazzini – sottolinea la necessità di
educare il popolo al senso del dovere, insieme alla difesa dei diritti: ciò per
due motivazioni. In primo luogo, perché l’assolvimento dei doveri è legato alla
responsabilità solidale propria di ciascuno, mentre la fruizione dei propri
diritti dipende dalla coerenza morale degli altri; ed è utopico pensare di
poter imporre agli altri il senso del dovere con strumenti legislativi o
comunque coercitivi. In secondo luogo, la formazione del senso del dovere
genera la cultura della reciproca integrazione, mentre il puntare sulla
rivendicazione di diritti non può che determinare situazioni culturali e
sociali di conflittualità, destinate solo a creare nuove forme d’ingiustizia, che scateneranno nuove lotte.
Perché
queste prospettive non restino solo ideali a cui tendere, ma si concretizzino,
è indispensabile che la società si doti d’una forma di governo, che contempli e
favorisca le legittime esigenze del cittadino di giustizia e di libertà. E
questa non può essere certo la forma monarchica, come testimoniano le vicende
del suo “maestro” Mazzini, perseguitato dalla monarchia sabauda e perpetuo
esule per le sue idee antimonarchiche.
Nelle monarchie s’affievolisce fino all’estinzione la capacità di pensare autonomamente
e di volere liberamente: non si è mai cittadini, ma solo e sempre sudditi. In “
Finibusterre” Orfano, rivoluzionario della setta dei “Decisi”, di fronte alle
sventure di Pietro, sbotta: “Bisogna farlo giusto il destino (..), E sai di chi è la colpa? Dei governi. Dei
Birboni specialmente. Se fosse Repubblica, si comanderebbe a turno, un po’ per
uno, oggi io, domani tu, e il pane si spartirebbe a once, secondo la fatica,
ché tutti fratelli siamo” (Finibusterre, op. cit., pp. 133-134).
Non
meno incisivo e chiaro è il suo pensiero riguardo la religione, la cui
interpretazione, però, non è né facile né agevole. Certamente egli non credeva
in una religione che postulasse forme di verità rivelate, né tanto meno accettava
una religione istituzionalizzata e organizzata in chiese. La sua fede religiosa
si può definire un deismo immanentistico; quindi, una ferma convinzione dell’esistenza
d’una divinità sempre presente e sempre operante nella storia degli uomini e
nelle vicende universali del mondo. Questo spiega il suo sofferto ma fermo sdegno
per le forme solo esteriori di culto, vuote d’ogni autentico sentimento
interiore di devozione. “Non sono io che
nego Dio – ribatte il professor Tito all’accusa rivoltagli - . Io sento di custodire Dio in me. In forma
meno gretta e personale di quella che è in moda. Effigie per monete false. Dio
è svuotato ormai. N’è rimasto il fantoccio” (La casa di Seneca”, Fratelli Carra
Tipografia, Matino, 1926, p. 82). Particolarmente significativa
rimane una pagina del “Viaggio in Ispagna”. Alla vista della facciata
della cattedrale di Burgos, esclama: “Ebbi un tuffo nel
sangue. Veniva a galla l’uomo, con la sua benedetta natura sentimentale e con
quel groppo che mi piglia alla gola (…), quando mi trovo dinnanzi alle forme
del divino (…). M’echeggiava dentro la rampogna ‘Ubi est Deus tuus? Che ne hai
fatto? Straziante nostalgia di questo divino epico che ha parlato, così
potentemente, al cervello e al cuore dei nostri padri, da renderli capaci di
creare forme di bellezza sovrumane, mentre s’è spento in noi (…). Queste cose
vive eroiche eterne, impastate di lagrime, di sangue, di fede, l’abbiamo create
noi dall’eterno che era in noi, nella nostra famiglia universale di credenti”.(Introduzione a S.
Teresa e Aldonzo, pp. 8-9).
Questo sentimento religioso – insieme al senso di
solidarietà umana – è uno dei grandi valori, che dominano la coscienza morale del
Corvaglia e dànno significato autentico al suo pensiero e ai suoi scritti. Per
lo scrittore melissanese, infatti, la religione è la difesa del sacro, cioè dell’intoccabile
e dell’inviolabile; non è, quindi, un momento della storia della coscienza umana, ma un
elemento costitutivo e, perciò, organico della struttura stessa della coscienza. L'esperienza del sacro –
sottolinea spesso il Corvaglia mediante il comportamento e le convinzioni
soprattutto di don Paolo Santacroce - è totalmente connessa allo sforzo che
l’uomo compie per costruire un mondo che abbia un senso. Secondo il nostro
filosofo, quindi, il significato della realtà non è un dato oggettivo che si
trova e si accetta, ma un valore che l’uomo proietta e pone in realtà, che
percepisce come vuote e “insensate”. Il senso del mondo, quindi, è quasi una
proiezione della totalità della persona umana integralmente vissuta e
realizzata in continua unione collaborativa con la divinità e con l’orecchio
sempre teso, per intercettare ogni messaggio proveniente dal mondo.
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