Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

venerdì 10 luglio 2015

2 GIUGNO: LA FIABA DEL DIRITTO AL LAVORO

Pubblicato su Affaritaliani il 01.06.2015

Domani, 2 giugno 2015: 68° anniversario della Festa della Repubblica Italiana e della sua Costituzione. Cioè la Festa degli Italiani. Sarà celebrata con spettacoli solenni e manifestazioni significative, tra cui la tradizionale deposizione della corona d’alloro all’Altare della Patria, simbolo dell’Unità e della Libertà, come è scolpito sul marmo bianco dei propilei del Vittoriano a commento delle due quadrighe. Giornata, quindi, di festa, ma soprattutto di ammonimento e di riflessione per il popolo italiano, chiamato da quest’occasione a ricordare la passione e i sacrifici con cui i Padri hanno fatto l’Italia libera, unita, repubblicana e democratica. Un ricordo non retorico e fugace, ma ponderato e impegnato a verificare la fedeltà e la coerenza con cui oggi esso rispetta e onora il patrimonio culturale, morale, civile e politico da loro ricevuto in eredità.

 

L’Italia – dichiara l’articolo 1 della Costituzione - è “repubblicana” e “democratica”, in quanto “fondata sul lavoro”. Infatti, durante i lavori preparatori Giorgio La Pira aveva proposto di esplicitare maggiormente: “Il lavoro è il fondamento di tutta la struttura sociale, e la sua partecipazione adeguata negli organismi economici, sociali e politici è condizione del nuovo carattere democratico”; e Palmiro Togliatti aveva dettato ancora più incisivamente: “Lo Stato italiano è una Repubblica di lavoratori”. Dopo lunghi mesi di confronto e di dialogo fu accolta come lettura definitiva quella proposta da Amintore Fanfani, Aldo Moro e altri: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. I Costituenti, quindi, non hanno posto come fondamento della nostra repubblica democratica valori universali e, quindi, facilmente condivisibili e consocianti, quali l’uguaglianza, la fratellanza, la libertà, ma il lavoro considerato come strumento di liberazione del singolo cittadino, il quale, però, è chiamato a inserire la sua attiva operosità individuale nella cornice di progetti d’interesse generale per l’intera Nazione. Per questo motivo la Costituzione afferma in primo luogo i diritti inerenti al “pieno sviluppo della persona umana”, in quanto essi preesistono allo Stato e, in secondo luogo, assegna alla Repubblica il dovere di realizzare tutte le condizioni effettive di uguaglianza tra i cittadini (art. 3); in questo modo viene consegnata una Repubblica, che mira a obiettivi veramente grandi sia di gratificazione per il singolo e sia di servizio attento verso tutta la società. Però, questo significa anche che, finchè non si realizzerà questo dettato della Carta, in Italia non c’è una repubblica che si possa dire di fatto “democratica, fondata sul lavoro”.

 

A queste affermazioni molti cittadini italiani – e non solo dell’ultima generazione - avrebbero la sensazione di sentire il racconto d’una fiaba incantevole. Ai nostri giorni, infatti, il mondo del lavoro sembra piuttosto l’arena d’un circo, in cui si può assistere a spettacoli di scene tra l’umorismo dell’opera buffa e la disperazione della tragedia greca. Mentre molti “attori” dànno uno spettacolo allucinante fatto di annunci mirabolanti e rivendicazioni strabilianti, un’immensa folla di spettatori s’accalcano, si sfidano, competono, lottano nel tentativo fortunoso d’imbattersi in qualche generoso “donatore di lavoro”, che conceda loro – alle sue condizioni e per un tempo sempre definito - almeno lo stretto necessario per la sopravvivenza sua e dell’eventuale sua famiglia. Pian piano, forse senza avvedersene, gli italiani vivono e operano in una repubblica della precarietà, e non solo lavorativa. Ma una società precaria è necessariamente una società ferma e senza vitalità, spesso facile ostaggio della prepotenza e vittima sicura dell’indigenza. Il pericolo è grave, poiché è tutto l’assetto della Repubblica e della Costituzione che perde la sua struttura portante e smarrisce i suoi princìpi conduttori.

 

Per intercettare e interpretare adeguatamente il messaggio principale della festa del 2 giugno, allora, è opportuno ripensare come nacquero la Repubblica e la sua Costituzione. In ciò è di ausilio ciò che disse nel gennaio 1946 a un gruppo di giovani il padre costituente Piero Calamandrei: “Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate sulle montagne, dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità andate li, o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione”. E con preoccupata riconoscenza annotava: “Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse d’un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservati la parte più dura e più difficile (…). A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana”.

 

Il testo di tutta la Costituzione è nato dalla confluenza delle tre più importanti culture allora presenti in Italia, notevolmente diverse tra loro, ma pronte a cooperare per la ricostruzione del Paese: la cultura cattolica, quella liberale e quella socialista. In particolare, nella scelta di adottare una concezione peculiare di “persona” s’evidenzia il contributo ricevuto dall’ispirazione cristiana. E non sembra fuor di luogo, pertanto, che anche in questi nostri tempi, si faccia ricorso alle preoccupate diagnosi e alle illuminanti esortazioni dell’attuale papa riguardo il problema del lavoro umano. Quest’uomo fatto venire “dall’altra parte del mondo”, in quanto vescovo di Roma guarda i problemi italiani del lavoro; ma, in quanto responsabile universale d’una religione diffusa in ogni continente, conosce dall’alto del suo osservatorio la situazione del lavoro anche in prospettiva assolutamente universale. Da qui l’importanza e il significato più vero delle sue parole pronunciate in questi ultimi trenta giorni. Il 1° maggio scorso, infatti, intervenendo all’inaugurazione della Expo di Milano, esortava il mondo ivi convenuto a non vivere quell’evento come un bell’argomento, ma come preziosa opportunità per una ricognizione e un impegno comune a prendere consapevolezza e coscienza dei “volti” di milioni di persone che hanno fame; e sollecitava i rappresentanti delle numerose Nazioni presenti a prendere e usare il progetto dell’Expo come mezzo per dare “piena dignità al lavoro di chi produce e di chi ricerca (…). Che nessun pane – scandiva con energico convincimento – sia frutto di un lavoro indegno dell’uomo! E che non manchi il pane e la dignità del lavoro a ogni uomo e donna”. Il successivo 23 maggio, poi, ricevendo i militanti delle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, dopo aver evidenziato la globalizzazione della gravità dei problemi del lavoro, senza paura di divenire bersaglio di critiche e motivo di scandalo, ma imperterrito accusava: “L'estendersi della precarietà, del lavoro nero e del ricatto malavitoso fa sperimentare, soprattutto tra le giovani generazioni, che la mancanza di lavoro toglie dignità, impedisce la pienezza della vita umana e reclama una risposta sollecita e vigorosa”. E senza alcuna considerazione di prudenza, accusava a volto aperto e a chiare lettere la vera radice prima della mancanza di lavoro e dello sfruttamento dei lavoratori: “Troppo spesso – constatava - il lavoro è succube (…) di nuove organizzazioni schiavistiche, che opprimono i più poveri; in particolare, molti bambini e molte donne subiscono un’economia che obbliga a un lavoro indegno”. Sa di non fare alcuna invasione di campo ed è forte della sua quotidiana testimonianza personale di altruismo solidale e gratuito: senza parlare, ma coi gesti e coi fatti, dimostra ogni giorno che l’unico Dio è di tutti gli uomini, per cui tutti debbono vivere a immagine e somiglianza divine. E per primi ammonisce i “suoi”; pochi giorni prima, infatti, incontrando gli aderenti alle ‘Comunità di vita cristiana’ aveva detto: “Impegnatevi in politica, ma non a un partito, perchè è realmente convinto che non è nella natura e nei compiti della Chiesa essere o fare partito, ma che l’uomo anche cattolico deve fare politica, ma come servizio umile e dovuto, “come De Gasperi e Shuman, che hanno fatto politica pulita, senza sporcarsi”.

 

E’ una voce, di cui tutti gli uomini, in quanto uomini, hanno immenso bisogno soprattutto oggi. In tempi di smarrimento culturale e di confusione etica, di fronte a esempi privati e pubblici d’insensibilità umana e di gretto egoismo, davanti al vuoto di valide guide e di esempi illuminanti, bisogna salutare davvero provvidenziale ogni luce di speranza che viene offerta all’umanità.

giovedì 4 giugno 2015

LA RIFORMA DELLA SCUOLA VA AL SENATO

Pubblicato su Affaritaliani, Giovedì, 21 maggio 2015

La Camera dei Deputati congeda e invia all’esame del Senato il testo della riforma scolastica dal governo indicata come “Buona scuola”, ma osteggiata come “esecrabile” da docenti e studenti sostenuti da famiglie, forze politiche e sindacali. I senatori, quindi, hanno come compito primario esaminare quali potrebbero essere stati (e se continuano ad esserci tuttora) i motivi d’un così opposto giudizio.

In verità, per tanti decenni nell’Italia repubblicana s’è tentata una riforma della scuola, che ne segnasse davvero una svolta storica; ma s’è concluso sempre col produrre qualche ritocco marginale e talora persino negativo, a causa di resistenze in parte condivisibili, ma in parte biasimevoli, e che ora, in quest’ultima circostanza, sarebbe opportuno che anche Palazzo Madama ponderasse con imparzialità e decisione. La “Buona scuola” sostanzialmente contiene come princìpi ispiratori alcuni temi caldi: le competenze dei dirigenti da verificare periodicamente, la valutazione dell’operato dei docenti per un oggettivo riconoscimento anche economico, l’assunzione definitiva dei molti e diversi precari.

E’ appurato che la natura e il ruolo della scuola ne fanno una realtà atipica, composita e del tutto speciale, per cui richiede un approccio prudente e adeguato da parte di tutti: famiglia, società, politica, sindacati. Non si può fare a meno, comunque, di chiedersi, in prima istanza, chi e perché dovrebbero allarmare gli interventi proposti dal governo. E’ normale che il dirigente d’ogni struttura abbia l’incarico di decidere un progetto e scegliere almeno alcuni strumenti operativi con procedure appropriate e il più possibile condivise, al fine del perseguimento più sicuro degli obiettivi. Si pensi, tra l’altro, a un direttore sanitario, a un manager d’impresa, a un agente di eventi culturali: in tanto saranno chiamati a rispondere del proprio operato, in quanto sono essi stessi almeno corresponsabili della scelta e della gestione delle risorse economiche e umane a disposizione. Ogni componente del gruppo di lavoro, d’altra parte, s’interesserà certamente che vengano riconosciuti e valutati i propri meriti e demeriti con le ovvie conseguenze di successi professionali e di estimazione umana. Esitazioni per una qualche forma di valutazione potrebbe significare disistima personale, sfiducia negli altri, senso d’inferiorità.

Certo in questi termini si rappresenta la scuola ideale e si delineano le figure di dirigenti, docenti e operatori scolastici ipotetici, preparati professionalmente, corretti eticamente, integri moralmente, per cui sembrerebbe un discorso bello, ma vuoto d’ogni concretezza e utilità pratica. Eppure in ogni campo prefigurare l’ideale costituisce il primo passo concreto da cui partire, decisi a percorrere poi per intero il cammino necessario. Si tratta, allora, di prevedere pericoli e distorsioni. In primo luogo s’impone urgente l’adeguato investimento strutturale ed economico per la formazione professionale integrale anche in itinere sia dei dirigenti che dei docenti. E a questo riguardo bisognerebbe porre mano a non poche dinamiche delle università italiane. In secondo luogo è fondamentale individuare e fissare - ovviamente con metodi ispirati a democrazia e acquisiti nel massimo rispetto reciproco - norme precise di reclutamento, criteri oggettivi di selezione e di valutazione, per evitare i pericoli non infondati di discrezionalità, clientelismi e favoritismi.

Ma una periodica palese valutazione dell’attività e dei risultati della vita della scuola è assolutamente necessaria e doverosa nei confronti delle famiglie, che affidano i loro figli, e della società che impegna risorse di varia natura. Ora, osservando l’attuale realtà della scuola italiana è innegabile che negli ultimi decenni s’è assistito a un suo graduale e spesso radicale discredito. L’insegnamento è stato recepito sempre più come un generalizzato ripiego occupazionale soprattutto femminile, gli insegnanti sono stati descritti in molte sedi anche pubbliche come inadeguati, inoperosi, recalcitranti a ogni forma di rinnovamento e aggiornamento. Opinioni avvalorate, forse tacitamente ma sempre efficacemente, dal trattamento economico davvero ai limiti d’ogni decoro. Opinioni, però - altrettanto onestamente - non sempre ingiustificate e non del tutto infondate, se si riscontrano i comportamenti di alcuni dirigenti e docenti, riguardo le abilità manageriali, la serietà della preparazione delle lezioni, l’assidua puntualità della presenza e l’esemplarità nell’assolvimento d’ogni compito connesso alla funzione educativa. Ma perché gridare allo scandalo! E’ ovvio che anche nella scuola, come in ogni altro settore, ci possono essere persone censurabili, ma che non motivano né giustificano generalizzazioni fuorvianti e offensive.

Nella scuola, infatti, a fronte di alcuni casi negativi se ne registrano innumerevoli veramente nobili e degni d’ogni rispetto: è noto, del resto, che da sempre la scuola si è retta sulla dedizione professionale e sulla abnegazione umana soprattutto degli insegnanti, che hanno saputo scindere la consapevolezza dell’importanza del loro ruolo dalla considerazione da parte della società e della politica. Non si può sottacere una preoccupazione di più ampio respiro. Nel decidere i mutamenti nella scuola, è stato dato peso eccessivo (se non esclusivo) alle problematiche di natura economica, occupazionale e lavorativa soprattutto dei giovani, trascurando gli aspetti del loro sviluppo umano completo e integrale. E’ vero che oggi la dimensione della cultura prevalente (se non unica) è quella dell’economica, cui tutto il resto dev’essere commisurato e subordinato. Ma la scuola, se deve necessariamente restare aderente alla realtà storica, non può nello stesso tempo non salvaguardare con coerenza la sua missione essenziale: deve agire per preparare operatori e clienti del mercato globalizzato, ma nello stesso tempo per formare futuri cittadini di società sempre più a dimensione della dignità umana.

ITALICUM, MATTARELLA FIRMA: IL POPOLO TORNA "SOVRANO"

Pubblicato su Affaritaliani, Mercoledì, 6 maggio 2015

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha promulgato la legge elettorale, che gli è stata presentata dal Parlamento eletto dal popolo italiano, il quale in quest'occasione ha potuto esercitare la propria sovranità "nelle forme e nei limiti della Costituzione", cioè con tutte le modificazioni spesso sostanziali cui è stata sottoposta. Comunque, la nuova legge elettorale è legge e, quindi, da onorare, qualunque possa essere il giudizio dei cittadini, almeno finchè un successivo intervento legislativo non la corregga o la cancelli del tutto: è questo un fondamento giuridico, che affonda le radici nel diritto della Roma antica, e che s'era imposto in tutta la sua valenza morale già molti secoli prima nella Grecia con la testimonianza di Socrate, primo martire del modello di guida democratica.
I cittadini italiani, quindi, ora debbono rispettare la legge promulgata; e, tuttavia debbono nello stesso tempo, vagliarne responsabilmente più a fondo i contenuti; ma non per svilirli e denigrarli, bensì per scoprire possibili ulteriori indirizzi adatti a rinforzarne i pregi ed eliminarne eventuali carenze e pericoli. Nel loro agire concreto - dato che in Italia vige il sistema di democrazia rappresentativa - essi faranno ciò nei modi consentiti nei luoghi a ciò deputati. Bisogna partire, infatti, concretamente dal prendere atto di alcune modifiche sostanziali apportate negli anni anche al dettato costituzionale, sia formalmente e sia tramite la prassi. Si pensi alla trasformazione radicale della natura e del ruolo del partito politico.
Le nuove generazioni non possono più nemmeno immaginare cosa fosse prima degli anni '90 il partito politico disposto nell'articolo 49 della Costituzione quale "diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale"; e, di conseguenza non possono capire il significato autentico dell'articolo 67, quando prescrive che "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato". I partiti politici così intesi erano guidati da "maestri" esperti e buoni, che educavano a guardare più lontano e pensare progetti di bene comune. I partiti, pertanto, pur distinguendosi tra di loro per i valori che ciascuno propugnava come più urgenti, elaboravano progetti e proponevano programmi dettati dai reciproci convincimenti, ma tutti ispirati dal bene comune. E all'interno di ciascun partito si creavano indirizzi diversi, ma ugualmente fecondi e disponibili al dialogo leale e onesto. E sempre con relazioni di reciproco rispetto, anche nei momenti di confronto e di scontro.
Quando s'afferma ciò, talvolta si ha la sensazione d'essere abitanti d'un pianeta ormai scomparso. Infatti, ripercorriamo le modalità con cui le varie forze politiche hanno discusso il testo della legge ora promulgata; oppure riconsideriamo la qualità di linguaggio e i toni usati, spesso anche pubblicamente, da alcuni notabili della classe politica; oppure rivediamo certe scene sconcertanti avvenute nelle Aule parlamentari; oppure, infine, ascoltiamo il grido di sfida lanciato lo scorso 3 maggio dal premier a Bologna a chi s'azzardava di contestarlo: "Non ci facciamo certo spaventare da tre fischi: abbiamo il compito di cambiare l'Italia e la cambieremo, di non mollare e non molleremo". Ma basterebbe leggere il tweet scritto oggi dal premier per pubblicare la foto della sua firma in calce al testo della nuova legge: "Una firma importante. Dedicata a tutti quelli che hanno creduto, quando eravamo in pochi a farlo". Si rimane confusi, e non poco. Una classe politica ha il dovere di rispettare il decoro e la dignità dei cittadini; un autorevole rappresentante del popolo deve guardare sempre e comunque al bene della Nazione, prestando maggiore considerazione alla voce soprattutto di coloro che criticano e addirittura osteggiano. E' proprio dell'uomo politico in generale e di governo in particolare distinguere e valutare..

Ora, però, la nuova legge elettorale di cui è stato dotato l'elettore italiano - comunque sia stata proposta, discussa, ostacolata, difesa, approvata - apporta novità positive, benché mescolate a qualche pericoloso rischio. Infatti, se introdurre con norma costituzionale il modello di democrazia maggioritaria a livello nazionale è stato sempre un tentativo fallito per diversi motivi, negli ultimi vent'anni, però, con le non poche elezioni che si sono succedute, in maniera indiretta ma di fatto, i cittadini sono andati quasi convincendosi d'essere davvero loro a decidere chi avrebbe li governato: cioè, il capo indicato già sulla scheda elettorale di "uno dei due raggruppamenti" in competizione. Ora, con la nuova legge elettorale sarà il capo di "una delle due liste" che, a causa dei requisiti richiesti per ottenere il premio di maggioranza, rimarranno per sfidarsi definitivamente al ballottaggio. Quindi, concretamente sarà il ballottaggio il momento decisivo, in quanto, data l'alta soglia stabilita per ottenere l'assegnazione del premio di maggioranza, difficilmente vi sarà un vincitore al primo turno.

Ecco allora l'importanza del voto del singolo cittadino. I partiti anche in occasione del ballottaggio potranno mettere in campo loro vecchie e nuove strategie, ma sarà la coscienza civica e la responsabilità politica del popolo a scegliere il più idoneo tecnicamente e il più dotato eticamente, a cui affidare il governo per un intero quinquennio. Il ballottaggio, quindi, restituisce il potere concreto ai cittadini. Saranno essi a determinare il futuro dell'Italia, e non avranno alibi per attribuire ai "vizi" altrui eventuali negatività. Questa volta vale davvero che il governo è lo specchio del popolo. Certo non è compito facile né la prospettiva è incoraggiante: la vita politica italiana ha bisogno d'un valido e creduto supplemento d'umanità integrale, aperta alla totalità dei bisogni dell'uomo e all'ordine dei valori degni d'un popolo veramente progredito e civile.

mercoledì 20 maggio 2015

COSA FANNO I PARLAMENTARI

Pubblicato su Affaritaliani martedì, 21 aprile 2015


"Noi assistiamo alle esequie di una forma di governo", disse novant'anni fa, il 19 dicembre 1925, al Senato, nel celebre discorso di rifiuto della legge sulle prerogative del Capo del governo, Gaetano Mosca, dotto giurista, esperto senatore e rispettato membro del governo Salandra. La riforma che veniva proposta, compatibile con la lettera dello Statuto Albertino allora vigente, nella sostanza era preoccupante. E gli avvenimenti degli anni che seguirono diedero ragione al "vecchio" parlamentare, dimostrando nei fatti e con chiarezza che a rinforzare il regime fascista non furono l'energia volitiva del Duce e la capacità governativa del suo Consiglio, ma la debolezza e la paura di molti Membri del Parlamento. Lo strapotere del despota non si fonda mai sulle sue doti morali e sulla sua capacità governativa, ma sempre sulla debolezza e l'inadeguatezza dei cittadini, che, tramite l'atteggiamento e le scelte dei propri deputati, si mostrano incerti nell'esporre le proprie idee, timidi nell'avanzare le proprie proposte e, soprattutto, deboli nel difendere i propri convincimenti e fiacchi nel bloccare il capo, ogni qualvolta pretenda - anche al fine encomiabile di incrementare progresso e garantire felicità - di usare irragionevolmente metodi non accettabili, perchè spesso al limite della legalità e comunque estranei al costume di una vita veramente "democratica e popolare", per cui offendono dignità umana e diritti politici.

E' deludente, quasi disarmante, assistere oggi a "delegati d'un intero popolo", che pretendono a loro volta di delegare codardamente al Presidente della Repubblica azioni e iniziative, che sanno bene che la Costituzione preclude al Capo dello Stato e impone, invece, proprio a loro che sono i detentori del Potere Legislativo. Coloro che hanno il dovere di interpretare e difendere il bene comune della Nazione, s'attardano a dichiarazioni di rito e a insensate minacce verbali spesso indegne, attendendo speranzosamente un qualche intervento dall'alto per fare ciò che solo il Parlamento - nella sua collettività e nei singoli componenti - può e deve proporre a nome del popolo e imporre per il bene del popolo! Se la maggioranza di parlamentari eletti dal popolo, secondo leggi da loro stessi approvate, consente al Governo - da essa voluto e mai sfiduciato - comportamenti arroganti e di fatto al limite d'ogni vera democrazia; se un'intera classe politica, formatasi e costituita secondo norme e procedure da se stessa create, ha dato e mantiene in vita questo Governo, non è proprio il caso che si gridi allo scandalo e s'invochi qualcuno a porre rimedio. Tocca a loro: alla classe politica prendere posizione; è dovere d'ogni parlamentare - delegato secondo la Costituzione a governare senza vincolo di mandato e in nome del popolo e per il bene del popolo - assumersi le sue responsabilità e ad agire secondo il dettato della sua ragione.

Non siamo più nella Firenze governata dai Medici, né il popolo italiano è quella massa amorfa e grezza pensata e descritta dal fiorentino Machiavelli, né i cittadini italiani sono disposti ancora oggi a stare a sopportare chi volesse governarli da capo "furbo come una volpe e forte come un leone", cambiando aspetto da situazione a situazione. Il popolo italiano non accetta più d'essere ingannato, né ha più paura di reagire alla corruzione e incapacità di chi lo governa. Solo la saggezza della ragione dei cittadini italiani e la loro responsabilità civile li sostengono ad assistere tristemente ma dignitosamente anche agli ultimi spettacoli vergognosi offerti nelle Aule Parlamentari. I cittadini aspettano che si passi dalle comparse ai fatti: non significano nulla né il lancio delle frasi indegne per tutti né il tiro dei fiori persino oltraggiati nel loro nobile e sacro significato. E "i fatti" stanno nel potere di voto d'ogni parlamentare, esercitato a viso aperto e dettato da ragione e coscienza, non da calcoli privati e ricatti nascosti.

Novant'anni fa l'ormai vecchio parlamentare Gaetano Mosca, annunciando il proprio voto contrario a una riforma proposta dal governo Salandra (di cui, peraltro, era ministro) avvertiva che mutamenti proposti come strumenti più adatti a un governo efficace, in realtà implicavano cambiamenti radicali del sistema di governo, che rischiavano di compromettere diritti civili, equità sociali, doveri politici e persino valori etici della nazione intera, già in piena crisi morale ed economica di quegli anni (non molto dissimili dai nostri). Probabilmente si trattava di cambiamenti addirittura necessari; ma erano proprio le modalità, con cui li si stava proponendo e perseguendo: procedimenti innovativi esageratamente rapidi potevano nascondere qualche "salto nel buio" dettato dall'impulso frenetico d'una "nuova generazione, che crede di sapere tutto e di poter tutto mutare". Proprio per questo, terminava le sue parole, dichiarando umilmente che sentiva come suo "forte dovere di ammonirla".

Sono passati circa novant'anni: forse non pochi perché gli "anziani" e le "nuove" generazioni del nostro tempo rileggano la nostra storia, prendendo qualche utile lezione.

lunedì 4 maggio 2015

I BENEFICI DELL'ALTRUISMO


Il Sole24Ore del 4 Maggio 2015 ha ospitato in "Commenti &Inchieste" una recensione del volume di Peter Singer "The Most Good You Can Do".
 
La trascriviamo, offrendola all'attenzione di altri. Infatti, se ne potrà condividere con felice stupore il messaggio, in considerazione della qualità dello scenario di idee e di fatti, cui oggi s'assiste in molti ambiti e a ogni livello.
 
"Gli esseri umani possono davvero sentirsi motivati dall’altruismo? Il mio nuovo libro “The Most Good You Can Do” illustra la comparsa di un nuovo movimento denominato Effective Altruism (Altruismo efficace) e mentre facevo interviste per documentarmi sono rimasto sorpreso da quanto spesso sia formulata questa domanda.

Perché dovremmo dubitare dell’agire a fini altruistici di alcune persone, quanto meno in alcune occasioni? In termini di evoluzione, possiamo comprendere facilmente l’altruismo verso un congiunto o un prossimo in grado di ricambiare l’aiuto che diamo. Pare plausibile supporre che, una volta sviluppatasi a sufficienza la nostra capacità di ragionare e riflettere per capire che anche gli sconosciuti possono soffrire e godere la vita quanto noi, almeno alcuni tra noi agiscano altruisticamente anche nei confronti degli sconosciuti.

Gallup, società di sondaggi d’opinione, ha intervistato persone di 135 paesi, chiedendo se negli ultimi mesi avessero effettuato donazioni per beneficienza, se si fossero attivati come volontari in qualche organizzazione o se avessero aiutato un perfetto estraneo. Dai risultati, raccolti per il World Giving Index 2014, risulta che quasi 2,3 miliardi di persone, un terzo della popolazione mondiale, compie almeno un’azione di puro altruismo al mese. (...)

Il movimento Altruismo Efficace è formato da persone che donano con il cuore e con il cervello. Scopo della loro donazione è ottenere il massimo possibile dalle risorse che sono disposti a mettere da parte per tale fine.

Tra queste risorse può esserci un decimo, un quarto o perfino la metà delle loro entrate. Il loro altruismo può concretizzarsi in tempo e talenti, e influenzare la loro scelta di una carriera. Per perseguire il loro scopo, usano la logica e si documentano per assicurarsi che qualsiasi risorsa loro dedichino a fare del bene sia quanto più possibile efficace.

Da numerosi studi risulta che chi è generoso in genere è più felice e più soddisfatto della propria vita rispetto a chi non fa beneficienza.

Da altre ricerche sappiamo che l’atto di donare porta ad attivare anche i circuiti cerebrali della ricompensa (le aree del cervello stimolate da cibi stuzzicanti e dal sesso).

Ciò non significa, tuttavia, che questi donatori non sono altruisti. La loro motivazione esplicita è aiutare gli altri, e donare li rende più felici soltanto in conseguenza del fatto che il loro aiuto effettivamente aiuta gli altri.

Se esistessero più persone di questo tipo, si donerebbe di più ed è questo che noi tutti vogliamo. Definire l’“altruismo” in termini così stretti, al punto che si ritiene opportuno utilizzare questa parola soltanto quando la donazione appare in contraddizione con l’interesse generale e complessivo di una persona, significa mancare completamente di centrare il punto: la situazione migliore da auspicare è quella nella quale promuovendo gli interessi degli altri si agisce in armonia per promuovere anche i propri".

Traduzione di Anna Bissanti

 

sabato 2 maggio 2015

L'INFINITO


 
L’intreccio complicato e aggrovigliato dei fili della matassa dell’esistenza individuale dell’uomo si compatta lentamente, inesorabilmente, palesemente, lucidamente man mano che scorrono i giorni dell’età umana non più verde.
 
La compattezza del groviglio si rinserra sempre più e lascia sempre meno interstizi e sfilacciamenti, spesso provvide fessure per mantenere qualche possibile contatto con le realtà esterne circostanti. Si forma sempre più distintamente un unico blocco, in cui ci si sente assolutamente chiusi e circoscritti nel proprio essere: non angoscia di vertigine, ma freddo gelido contatto con se stessi soli, interi, senza peduncoli e filamenti o appendici e legamenti con altro non voluti e comunque non graditi, ma talora convenienti per poter condividere sensazioni con altri o addossare ad altri cause del nostro vivere, riferendo loro sentimenti di piacere o di dolore.
 
Essere umano solo: unico autore dei propri giorni di vita, unico titolare delle proprie azioni positive e negative, unico e solo con se stesso. Non moti di triste rimpianto, non bisogno di respiro libero, non voglia di giustificare il passato o illuminare il presente o immaginare altri giorni di esistenza futura. Ma, immobilità ormai pronta ad accogliere l’inesorabile destino proprio dell’essere umano; coscienza chiara e solida, profonda e pacata che “questo è il mio essere”: tutto mio, solo mio. Nel passato, nel presente, nel futuro; ma non più segmenti d’una linea misteriosa e ignota, ma totalità atemporale, in cui tutto diventa concreto, indelebile, vivo e vivificante. Tutto ciò che mi ha circondato durante il tempo, come fine o come mezzo, come valore o come inciampo, come senso della vita o come negazione di virtù, tutto comincia quasi a svanire, allontanandosi e rifugiandosi in un distacco non cercato ma sopravvenuto, non desiderato ma pacificante.
 
Serenità e pace interiori, tutte proprie, che niente e nessuno potranno scorgere e che a nessuno dovranno essere comunicate. Nessuno le contaminerà né le dissacrerà. Presagio della fine? No. Possesso potente esistenziale, solo possesso totale di sé sublimante ed emozionante: in compagnia di un passato voluto o più spesso condizionato e addirittura determinato da situazioni e circostanze, tanto che si desidera con forza di volere vivere responsabilmente il proprio presente e programmare liberamente il proprio futuro. Sintomo di depressione morale? No. Bisogno, solo bisogno di possedersi tutto intero, senza attendere gli eventi e le risposte dal mondo temporale, per continuare a donare gratuitamente il proprio essere a chiunque voglia parteciparne, ma senza alcun contraccambio. Ma, nello stesso tempo, distaccarsi gradualmente, consapevolmente, volontariamente da ogni realtà fisica e spirituale, che alla fine del corso della vita, prima o poi, ci sarà tolta senza il nostro consenso. Bisogno, quindi, di fondere l’esistenza con l’essere. Finalmente. Momenti che non vanno temuti, ma amati e accarezzati; che non vanno allontanati, ma accolti e sciolti nel proprio animo. Solo allora, “naufragando” in questa indistinta immensità, ci si intuisce parte indistinta dell’Infinità. 

LA POLITICA TRA POTERE E SERVIZIO

Pubblicato su Affaritaliani martedì, 21 aprile 2015

Renzi e Pisapia due esempi, o meglio due modelli d'intendere e fare politica. Da una parte la politica di un governo che s'affanna a fare tutto, in fretta e quasi sempre da solo; dall'altra la politica di due persone che agiscono con prudente pazienza e con tempi ritmati....

giovedì 16 aprile 2015

SENZA DISTINZIONE NON C'E' VERITA'

Pubblicato su Affaritaliani col titolo “Le sentenze un po’ grossolane di Matteuccio”. Martedì. 24 marzo 2015
 
Nel discorso rivolto agli studenti della LUISS oggi pomeriggio (lunedì 23 marzo), il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha parlato a tutto campo, optando con decisione per la tattica dell’attacco generalizzato. Non s’intende assolutamente mettere in dubbio la sincerità delle convinzioni del premier, che del resto ha chiesto la copertura dello stesso Montesquieu,  né d’altra parte si ha intenzione (almeno per il momento e per la natura e le  finalità di quest’intervento) di entrare nel merito del molteplice e notevole operato del suo governo. Ma solo alcune precisazioni, per evitare che la vivacità della parola e la forza trainante della retorica nascondano pericolosi fraintendimenti.
 
A ciò spinge anche l’ammonimento lanciato dal filosofo-psichiatra austriaco Victor Emil Franckl: “L’uomo non agisce solo per ciò che è, ma diviene anche per ciò che fa” e, ovviamente, anche per il modo con cui lo fa: e vale sia per i singoli individui che per i popoli interi. Le modalità con cui si decide una scelta, quindi, sono fondamentali soprattutto oggi, nell’attuale società, dominata dall’insicurezza e dall’incertezza, per cui è apprezzabile un atteggiamento ispirato a decisionalità. Decisionalità che, però, non va confusa e tanto meno identificata con il decisionismo, alimentato dalla tentazione di prendere decisioni in maniera rapida, senza la necessaria ponderazione e, soprattutto, senza adeguate consultazioni, ostentando spesso eccessiva sicurezza in se stessi, che fa rimanere chiusi nella logica del proprio pensiero e non fa ascoltare nessun altro interlocutore. Per cui si pensa d’avere sempre ragione, convincendosene sempre di più con il ripeterselo. La decisionalità è davvero efficace solo e quando si sostanzia della ponderatezza ragionevole, del dialogo disponibile, della responsabile previsione d’ogni possibile conseguenza nel medio e lungo termine, dell’onestà intellettuale di riconoscere propri eventuali errori e dell’umiltà morale di porvi rimedio. Tutte qualità difficili a trovarsi simultaneamente in uno stesso uomo e in una medesima situazione.
 
Quando il premiere afferma con convincimento per noi sospetto: “Deriva autoritaria è il nome che tali commentatori un po' stanchi danno alla loro pigrizia”, sembra confondere la “legittimazione a prendere decisioni” con le modalità proprie di quel sistema politico “democratico” che concede tale legittimazione. E certi procedimenti nel prendere decisioni segnano un confine sottilissimo con il decisionismo, che fa riemergere paure di sistemi non proprio democratici. Non sempre di “pigrizia”, quindi, si può trattare, ma talora forse di quella saggia esperienza, che già il vecchio e scaltro Cicerone attribuiva come prerogativa all’età avanzata (che mai avrebbe pensato di “rottamare”, ma certo di fruirne!).
 
E così suscita preoccupazioni l’altra affermazione del premier: "Se consentiamo di stabilire un nesso tra avviso di garanzia e dimissioni, stai dando per buono il principio per cui qualsiasi giudice può, non emettere una sentenza (che sarebbe anche comprensibile), ma iniziare un'indagine e decidere sul potere esecutivo". Esatto. Ma ci si sarebbe aspettato che il premier, nel rivendicare giustamente la “centralità della politica”, avesse aggiunto - con franca onestà e autentica libertà di pensiero - che la dignità del mondo della politica e la trasparente intaccabile moralità del politico, da parte loro, non dovrebbero dare mai adito alla magistratura di “dettare l’agenda dei governi”.