Domani, 2 giugno 2015: 68° anniversario
della Festa della Repubblica Italiana e della sua Costituzione. Cioè la
Festa degli Italiani. Sarà celebrata con spettacoli solenni e manifestazioni significative,
tra cui la tradizionale deposizione della corona d’alloro all’Altare della
Patria, simbolo dell’Unità e della Libertà, come è scolpito sul marmo bianco
dei propilei del Vittoriano a commento delle due quadrighe. Giornata, quindi, di
festa, ma soprattutto di ammonimento e di riflessione per il popolo italiano, chiamato
da quest’occasione a ricordare la passione e i sacrifici con cui i Padri hanno
fatto l’Italia libera, unita, repubblicana e democratica. Un ricordo non retorico e fugace, ma ponderato e impegnato a verificare
la fedeltà e la coerenza con cui oggi esso rispetta e onora il patrimonio culturale,
morale, civile e politico da loro ricevuto in eredità.
L’Italia – dichiara
l’articolo 1 della Costituzione - è “repubblicana” e “democratica”, in quanto “fondata sul lavoro”. Infatti, durante i lavori preparatori
Giorgio La Pira aveva proposto di esplicitare maggiormente: “Il lavoro è il
fondamento di tutta la struttura sociale, e la sua partecipazione adeguata
negli organismi economici, sociali e politici è condizione del nuovo carattere
democratico”; e Palmiro Togliatti aveva dettato ancora più incisivamente: “Lo
Stato italiano è una Repubblica di lavoratori”. Dopo lunghi mesi di confronto e
di dialogo fu accolta come lettura definitiva quella proposta da Amintore Fanfani,
Aldo Moro e altri: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
I Costituenti, quindi, non hanno posto come fondamento della nostra repubblica democratica
valori universali e, quindi, facilmente condivisibili e consocianti, quali
l’uguaglianza, la fratellanza, la libertà, ma il lavoro considerato come strumento di liberazione del singolo
cittadino, il quale, però, è chiamato a inserire la sua attiva operosità
individuale nella cornice di progetti d’interesse generale per l’intera Nazione.
Per questo motivo la Costituzione afferma in primo luogo i diritti inerenti al
“pieno sviluppo della persona umana”, in quanto essi preesistono allo Stato e,
in secondo luogo, assegna alla Repubblica il dovere di realizzare tutte le
condizioni effettive di uguaglianza tra i cittadini (art. 3); in questo modo viene
consegnata una Repubblica, che mira a obiettivi veramente grandi sia di
gratificazione per il singolo e sia di servizio attento verso tutta la società.
Però, questo significa anche che, finchè non si realizzerà questo dettato della
Carta, in Italia non c’è una repubblica che si possa dire di fatto “democratica,
fondata sul lavoro”.
A queste affermazioni molti
cittadini italiani – e non solo dell’ultima generazione - avrebbero la
sensazione di sentire il racconto d’una fiaba incantevole. Ai nostri giorni,
infatti, il mondo del lavoro sembra piuttosto l’arena d’un circo, in cui si può assistere a spettacoli di scene tra l’umorismo
dell’opera buffa e la disperazione della tragedia greca. Mentre molti “attori”
dànno uno spettacolo allucinante fatto di annunci mirabolanti e rivendicazioni strabilianti,
un’immensa folla di spettatori s’accalcano, si sfidano, competono, lottano nel
tentativo fortunoso d’imbattersi in qualche generoso “donatore di lavoro”, che
conceda loro – alle sue condizioni e per un tempo sempre definito - almeno lo
stretto necessario per la sopravvivenza sua e dell’eventuale sua famiglia. Pian
piano, forse senza avvedersene, gli italiani vivono e operano in una repubblica
della precarietà, e non solo lavorativa. Ma una società precaria è necessariamente
una società ferma e senza vitalità, spesso facile ostaggio della prepotenza e
vittima sicura dell’indigenza. Il pericolo è grave, poiché è tutto l’assetto
della Repubblica e della Costituzione che perde la sua struttura portante e smarrisce
i suoi princìpi conduttori.
Per intercettare e interpretare adeguatamente il messaggio principale
della festa del 2 giugno, allora, è opportuno ripensare come nacquero la
Repubblica e la sua Costituzione. In ciò è di ausilio ciò che disse nel gennaio
1946 a un gruppo di giovani il padre costituente Piero Calamandrei: “Se volete
andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate
sulle montagne, dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono
imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per
riscattare la libertà e la dignità andate li, o giovani, col pensiero, perché
li è nata la nostra Costituzione”. E con preoccupata riconoscenza annotava: “Essi sono morti senza retorica,
senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse d’un lavoro quotidiano
da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e
dignità. Di questo lavoro si sono riservati la parte più dura e più difficile
(…). A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in
leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più
umana”.
Il testo di tutta la Costituzione è nato dalla confluenza delle tre più importanti culture
allora presenti in Italia, notevolmente diverse tra loro, ma pronte a cooperare
per la ricostruzione del Paese: la cultura cattolica, quella
liberale e quella socialista. In particolare, nella scelta di adottare una concezione
peculiare di “persona” s’evidenzia il contributo ricevuto dall’ispirazione
cristiana. E non sembra fuor di luogo, pertanto, che anche in questi nostri
tempi, si faccia ricorso alle preoccupate diagnosi e alle illuminanti esortazioni
dell’attuale papa riguardo il problema del lavoro umano. Quest’uomo fatto
venire “dall’altra parte del mondo”, in quanto vescovo di Roma guarda i
problemi italiani del lavoro; ma, in quanto responsabile universale d’una
religione diffusa in ogni continente, conosce dall’alto del suo osservatorio la
situazione del lavoro anche in prospettiva assolutamente universale. Da qui l’importanza
e il significato più vero delle sue parole pronunciate in questi ultimi trenta
giorni. Il 1° maggio scorso, infatti, intervenendo all’inaugurazione della Expo
di Milano, esortava il mondo ivi convenuto a non vivere quell’evento come un
bell’argomento, ma come preziosa opportunità per una ricognizione e un impegno comune
a prendere consapevolezza e coscienza dei “volti” di milioni di persone che
hanno fame; e sollecitava i rappresentanti delle numerose Nazioni presenti a prendere
e usare il progetto dell’Expo come mezzo per dare “piena dignità al lavoro di
chi produce e di chi ricerca (…). Che nessun pane – scandiva con energico
convincimento – sia frutto di un lavoro indegno dell’uomo! E che non manchi il
pane e la dignità del lavoro a ogni uomo e donna”. Il successivo 23 maggio, poi,
ricevendo i militanti delle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, dopo
aver evidenziato la globalizzazione della gravità dei problemi del lavoro,
senza paura di divenire bersaglio di critiche e motivo di scandalo, ma
imperterrito accusava: “L'estendersi della precarietà, del lavoro nero e del
ricatto malavitoso fa sperimentare, soprattutto tra le giovani generazioni, che
la mancanza di lavoro toglie dignità, impedisce la pienezza della vita umana e
reclama una risposta sollecita e vigorosa”. E senza alcuna considerazione di
prudenza, accusava a volto aperto e a chiare lettere la vera radice prima della
mancanza di lavoro e dello sfruttamento dei lavoratori: “Troppo spesso – constatava - il lavoro è succube (…) di nuove
organizzazioni schiavistiche, che opprimono i più poveri; in particolare, molti
bambini e molte donne subiscono un’economia che obbliga a un lavoro indegno”.
Sa di non fare alcuna invasione di campo ed è forte della sua quotidiana testimonianza
personale di altruismo solidale e gratuito: senza parlare, ma coi gesti e coi
fatti, dimostra ogni giorno che l’unico Dio è di tutti gli uomini, per cui
tutti debbono vivere a immagine e somiglianza divine. E per primi ammonisce i
“suoi”; pochi giorni prima, infatti, incontrando gli aderenti alle ‘Comunità di vita cristiana’ aveva
detto: “Impegnatevi in politica, ma non a un partito, perchè è realmente
convinto che non è nella natura e nei compiti della Chiesa essere o fare
partito, ma che l’uomo anche cattolico deve fare politica, ma come servizio umile e dovuto, “come De Gasperi e
Shuman, che hanno fatto politica pulita, senza sporcarsi”.
E’ una voce, di cui tutti gli
uomini, in quanto uomini, hanno immenso bisogno soprattutto oggi. In tempi di
smarrimento culturale e di confusione etica, di fronte a esempi privati e
pubblici d’insensibilità umana e di gretto egoismo, davanti al vuoto di valide
guide e di esempi illuminanti, bisogna salutare davvero provvidenziale ogni
luce di speranza che viene offerta all’umanità.
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