Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
mercoledì 20 novembre 2019
La poetica di Giulio Cesare Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo
di Luigi Corvaglia
Riedizione a cura di Cosimo Scarcella
Presentazione di Fabio D'Astore
"Confesso di aver concepito molti anni or sono l'ambizioso disegno di questo studio integrale, proponendomi di svolgerlo con metodo filologico, il quale, senza escludere quello che vien chiamato
intuito storico, n'è presupposto insostituibile in questo campo" (LUIGI CORVAGLIA, 1959)
"Questo saggio sullo Scaligero occupa un posto particolarmente significativo all'interno della produzione filosofica del Corvaglia, che ha dedicato molto tempo della sua vita allo studio soprattutto del conterraneo Giulio Cesare Vanini. Ed è in funzione del Vanini che Corvaglia protrasse per circa quarant'anni anche la ricerca sulla produzione dello Scaligero" (dalla nota al testo)
Musicaos editore, Neviano 2018
ISBN 978-88-94966-169
giovedì 4 aprile 2019
MELISSANO. STORIA DI UN RECUPERO
L’ANTICA CHIESA PARROCCHIALE E
IL CENTRO CULTURALE Q. SCOZZI*
Il
14 gennaio 1979, giusto quarant’anni fa, sul quotidiano cattolico «Avvenire», a
firma d’un autore sottoscritto con lo pseudonimo DABO, appariva l’articolo «Il
Circolo di Melissano è un rudere pericolante», col quale richiamava l’attenzione
sugli obblighi giuridici e morali dei neoproprietari dello stabile, cioè degli
amministratori comunali d’allora, non solo noncuranti d’informare i cittadini sullo stato del sacro edificio
acquisito in permuta di suolo pubblico edificabile, ma anche gravemente ignari
essi stessi del valore storico e culturale di quel «complesso monumentale», di
cui erano venuti in possesso: si trattava di «una delle più antiche costruzioni
melissanesi», ultima testimonianza e unico documento della memoria storica del
paese. Correva voce, perdipiù, che proprio i responsabili della pubblica
amministrazione del tempo - e pare che qualcuno ne avesse dato anche palese e
disinvolta dichiarazione - non avevano alcun problema perfino ad abbattere subito
e, quindi, a cancellare del tutto ogni traccia della vita passata del paese e l’unica testimonianza storica di quello che avevano
saputo fare gli abitanti laboriosi e devoti dell’antico paesino.
In
realtà quell’antica chiesa era rimasta chiusa già da qualche tempo. Infatti, restaurata
ultimamente nel 1910, grazie al contributo del popolo e alla generosità di
Francesco Corvaglia (zio del letterato-filosofo Luigi Corvaglia), dopo un
periodo di chiusura, fu riaperta e utilizzata, in mancanza d’un’altra sede
disponibile, come «Circolo» (da cui anche l’appellativo di «Circolo Vecchio»),
nel quale, oltre agli incontri e alle attività dei vari gruppi di Azione
Cattolica, veniva insegnato il catechismo ai bambini, si tenevano conferenze e
tavole rotonde, si allestiva durante la settimana santa il sepolcro di Cristo
morto, si rappresentavano dai giovani del paese spettacoli teatrali a carattere
sacro e anche divertenti. Col passare di alcuni anni, però, a poco a poco rimase
abbandonata completamente a se stessa, tanto che fu possibile (e facile) a mani
esperte trafugare tutte le antiche pale e frantumare gli altari laterali e
quello maggiore, che, se non erano certo di materiale prezioso, erano però il
frutto del sacrificio e della fede dei nostri progenitori. Erano necessari,
quindi, interventi di risanamento e consolidamento tempestivi e a tempo utile
per sanare le gravi condizioni dell’ex-chiesa.
In
verità, sull’argomento già da alcuni anni s’era fatto sentire - unica voce
solitaria e inascoltata nel deserto della comune indifferenza - il professore
Quintino Scozzi (Melissano,1928-1991), il quale avvertiva
- e ammoniva con dati documentati e verificabili - che, «distrutto ormai, intorno al 1949, il Castello che appartenne nel
1350 agli Amendolia, nel 1384 ad Orso Minutolo e nel 1723 ai Conti Caracciolo
di Taviano, e demoliti, nei pressi del castello stesso, alcuni abituri, sono rimaste,
quale testimonianza storica di quello che fu l’antico Melessano, la torretta
del vecchio orologio e l’ex chiesa parrocchiale, meglio nota come Chiesa
Vecchia o Circolo o Chiesa di papa Ntoni, buon parroco melissanese, esumato nel
1977 a seguito del restauro di una vecchia cappella sita nel Cimitero Comunale».
Ed è stato proprio e solo lui, con la tempestività dei suoi interventi e
col forte vigore delle sue lagnanze a voce e per iscritto, a riuscire a far bloccare
la ruspa demolitrice, già preparata per sgombrare la zona occupata dalla sacra costruzione
e spianarne il suolo, onde poter accogliere probabilmente un’area fabbricabile
o destinata addirittura a pubblico parcheggio. E’ a buon diritto, quindi, che
quell’edificio «sopravvissuto» sia stato intitolato al professore Quintino
Scozzi, quale generosa - nonché doverosa
- riconoscenza da parte di tutta la cittadinanza. Anche per questo lo stabile è
stato destinato esclusivamente a ospitare iniziative e attività culturali di
chiunque avesse voluto fruirne, dando, così, un concreto contributo per la
comune elevazione intellettuale e per l’arricchimento culturale di tutti i
cittadini, e specialmente delle nuove generazioni, quanto mai bisognose di
radicarsi nella verità storica delle loro origini e nell’umana fedeltà ai
lasciti fatti loro dagli antenati, senza smarrirli nell’odierna diffusa superficialità
di pensiero e nel pressappochismo culturale dilagante.
E’ necessario, allora, conoscere
gl’intensi momenti di lavoro febbrile dedicati da Quintino Scozzi, per riuscire
a impedire la rovina e la perdita di così significativa opera sacra e storica.
Il 2 novembre 1978 il Consiglio Comunale di Melissano approvava l’«Atto di
transazione stipulato tra il Comune e la parrocchia di M. SS.ma del Rosario»,
col quale, in buona sostanza, si ratificava la permuta, per cui il Comune diveniva padrone dell’antica
quattrocentesca chiesa parrocchiale «Sant’Antonio» e la parrocchia disponeva di
un’adeguata zona di suolo edificatorio, ove avrebbe potuto erigere un sacro
edificio. Diffusasi la notizia del proposito degli amministratori comunali di
abbattere il «sacro» stabile, centoventi giorni dopo, precisamente il 28
febbraio 1979, Quintino Scozzi diffonde una «Lettera aperta» dal titolo «’Il
Circolo Vecchio’ è un’Antica Chiesa da
Salvare», indirizzata al «Sindaco di Melissano, al Vescovo di Nardò, al
parroco di Melissano, al Soprintendente alle Antichità della Puglia, a ‘Italia
Nostra’ e alla cittadinanza». In questo pubblico documento, narrata
sinteticamente la storia plurisecolare della vecchia chiesa, dopo aver
sottolineato che non è stata «Mai dissacrata e
mai profanata, ma completamente abbandonata a se stessa», lamentava che «La
vecchia grande ammalata, invece di ricevere assistenza e cure consone al suo
male, venne incredibilmente ceduta anche in affitto. (…). Mosso da un
sentimento ‘fatto’ di rispetto, di pietà e di venerazione – continua lo Scozzi - chiesi e chiedo alle
Autorità competenti che l’antica chiesa sia recuperata in tutta la sua
interezza – in omaggio al passato, al futuro, alla vita e all’arte – al culto
dei fedeli».
Una decina
di giorni dopo, constatate l’ottusità degli amministratori locali e l’ignara
indifferenza della cittadinanza (tutti - forse - persuasi che davanti a fatto
compiuto anche quell’unico fanatico cittadino si sarebbe rassegnato), Quintino
Scozzi apriva un
vero fuoco concentrico su tutti i fronti interessati. Infatti, il 2 marzo 1979 espone in una lettera privata le sue lagnanze
allo stesso vescovo di Nardò, garante del baratto. Il 21 marzo successivo invia
un esposto al Sovrintendente alle Antichità e alle Belle Arti di Bari,
segnalando il caso e richiedendone l’intervento, per comporre la delicata
questione. Il vescovo risponde il successivo 29 marzo, con altrettanta
gentilezza, ma con parole ferme e chiarificatrici. Infatti, dando atto della
nobiltà del gesto del professore Quintino Scozzi «per il Suo interessamento per
salvaguardare un antico monumento e conservagli il suo carattere sacro»,
sottolineava che nella convenzione col Comune era ben evidenziato che la
transazione mirava a «stabilire le basi per il salvataggio del monumento chiesa
coi necessari lavori di restauro, che il Comune potrà eseguire, e avere, nello
stesso tempo, la possibilità di prevedere la costruzione di una chiesa in zona
dell’abitato lontana dalle chiese esistenti, nonché di avere i mezzi per
rendere abitabile la casa del parroco e utilizzare i locali a fianco della
Chiesa Matrice. Se poi – concludeva il vescovo - la Sua azione dovesse ottenere
la conservazione, dopo restauri, dell’uso sacro della predetta chiesa, senza
compromettere le altre basi dell’accordo, sarà stata un’azione veramente
benemerita. Voglia Dio che ciò avvenga». Il Sovrintendente alle Antichità e
alle Belle Arti di Bari, da parte sua, con nota 3186 del 5 maggio 1979,
comunicava anche all’indirizzo privato dello Scozzi che l’ex-chiesa
parrocchiale era dichiarata «Complesso Monumentale» per effetto della legge1089
del 1939. Così l’unico monumento storico melissanese era salvo a comune
beneficio soprattutto delle nuove generazioni. Bisognava, però, riportarlo a
condizioni degne della sua realtà e salvaguardarlo dalle mani degli uomini e
dall’azione della natura.
E
Quintino Scozzi s’adoperò anche per questo. Dopo qualche anno, infatti,
cambiarono gli amministratori comunali, risultando eletto anche lo scrivente,
che si vide recapitare per posta un opuscolo scritto dallo Scozzi e fresco di
stampa sulla «Storia di una chiesa», accompagnato dalla seguente lettera datata
11 aprile 1982: «Al caro amico, prof. Cosimino Scarcella, con grande stima e con la speranza che Egli, da Vicesindaco di
Melissano ma soprattutto da autentico democratico e da buon cristiano quale
sempre è stato, s’adoperi nel miglior modo possibile, perché l’unico monumento
storico melissanese sia al più presto portato al suo antico splendore e restituito
(utinam!) all’uso sacro, come da aspirazione dello stesso artefice della
infelice permuta». Seguì un nostro incontro personale, che si concluse con il
proposito di collaborazione, ovviamente nei termini del possibile. Ma tempi e
circostanze non furono a vantaggio della nostra promessa. Dopo alcuni anni,
però, chiamato nuovamente a sobbarcarmi al compito di vicesindaco, non
dimenticai il problema ex-chiesa, che nel frattempo era stata risanata e consolidata
nelle strutture murarie. Con il lavoro volontario di studenti delle ultime
classi dell’Istituto d’Arte di Parabita e di alcuni architetti messi a
disposizione dall’Amministrazione Provinciale di Lecce, furono restaurate tutte
le parti dotate di antichi dipinti e il 6 dicembre 1997 l’Amministrazione
Comunale di Melissano, con una pubblica e affollata manifestazione, consegnò
alla cittadinanza il suo «complesso monumentale», che con senso di dovere e di gratitudine
fu intitolato al Quintino Scozzi.
Per
l’occasione fu ualche anno dopo,
infatti, cambiavano gli amministratorimmristampato l’opuscolo Storia di una Chiesa, arricchito con
foto documentarie del prima e del dopo il restauro e corredato, oltre a un
profilo della figura umana e professionale dello Scozzi tracciato dallo
scrivente, d’ una introduzione scritta dal sindaco protempore, in cui si legge
tra l’altro: «La intitolazione dell’ex chiesa S. Antonio al prof. Quintino
Scozzi vuole essere consapevolezza e conoscenza per questo nostro concittadino,
che, con studi attenti e accurati e con notevole impegno, contribuì ad ottenere
il provvedimento di vincolo storico-artistico da parte della soprintendenza ai
Beni Culturali ed Artistici della
Puglia, avviando così la volontà di recuperare e riportare al suo antico
splendore il monumento. Tale recupero, oggi, è stato possibile grazie
all’intervento finanziario e alla collaborazione della Provincia di Lecce. Con
uno sguardo ammirevole e riconoscente al passato, l’augurio è che tutti noi che
viviamo il presente tramandiamo questa grande opportunità alle generazioni
future, con l’impegno di utilizzare e mantenere l’ex chiesa S. Antonio, ora “Centro
Culturale Quintino Scozzi”, come veramente merita».
Pubblicato in "Presenza Taurisanese", a. XXXVII, n. 310, aprile 2019.
Pubblicato in "Presenza Taurisanese", a. XXXVII, n. 310, aprile 2019.
mercoledì 9 gennaio 2019
SBAGLIARE E’ UMANO. OSTINARSI (per superbia) E’ DIABOLICO
In queste ore l’attuale inquilino della Casa Bianca ha
parlato dallo Studio Ovale, dal luogo, cioè, dal quale un Presidente americano rivolge
i suoi discorsi ufficiali a tutto il Paese, in occasioni seriamente drammatiche
e per eventi di crisi estrema gravità, come fecero Harry Truman nel 1947, John
F. Kennedy nel 1962, George W. Bush nel 2001 e Barack Obama nel 2915. Spiegato il
desiderato innalzamento del muro sui confini del Messico come “una scelta fra
giusto e sbagliato, fra giustizia e ingiustizia”, il presidente Donald Trump, con
chiarezza di pensiero, con prosa chiara e sobria, con naturalezza disarmante
per l’ingenuità apparentemente inoffensiva, ha ricordato a chi l’aveva avvisato
che si trattava di un atto immorale, che: “Molti costruiscono recinzioni e
barriere per le loro case non perchè odiano le persone che stanno fuori, ma
perchè amano quelle che sono dentro". Quindi, a decidere le scelte umane anche
riguardo al problema epocale delle migrazioni devono essere “i muri”, che
separano e mettono i propri cittadini (sempre buoni e comunque onesti) al riparo dall’invasione capricciosa
di sventurati (sempre iniqui e comunque malavitosi), che abbandonano le proprie
cose, rinnegano affetti umani e tradiscono
doveri civici, per girovagare alla ricerca di luoghi sempre nuovi e sempre ben accoglienti.
Facile retorica e comoda difesa: è sempre gratuito
additare l’altro, meglio se il forestiero, come colui che porta il delitto,
crea disordine e causa scelleratezze. Non sarebbe onesto, giusto e necessario ricercare
chi e cosa è che causa i flussi migratoti ormai epocali? Per chi e per che cosa
si scappa dal noto, per andare incontro all’ignoto, verso non si sa dove? E se
la causa fosse l’odio seminato proprio dai potenti signori del denaro, della
droga e della corruzione? Infatti, alza un proprio muro di difesa – almeno a
lume di sensata ragione - chi si è procurato il nemico ed è, perciò, cosciente
che deve difendersi! Chiunque lo faccia aprioristicamente, agisce senza dubbio in
modo ancor peggiore, perché, pur non avendo oggettivi motivi che glielo
suggeriscano, segue acriticamente la
teoria di Hobbes, per il quale la natura dell’uomo è quella d’un lupo contro
tutto e contro tutti. Ma questa teoria ha ampiamente dimostrato a quali esiti
conduce: non è l’animale che deve essere addomesticato dall’uomo, ma è l’uomo
che deve imbestialirsi su modelli da giungla.
Certo non sono mai mancati né mancheranno mai, anche se
in numero sparuto, gli uomini-sciacallo, che non perdono occasione per soddisfare
le loro brame di potere e di ricchezza. Ma non sarà difficile – per qualunque
governo sapiente, saggio e prudente - individuarli con tempestiva accortezza e
neutralizzarli con decisa fermezza. Non sarà certo necessario “imprigionare”
dentro muri innaturali popoli interi, per difendersi da uno sparuto numero
d’individui pericolosi.
Non manca giorno in cui uomini di governo a tutti i
livelli – dai responsabili di grandi nazioni ai piccoli tirannelli che li imitano
– non rilascino dichiarazioni, che destano non poca perplessità per le loro implicite
e forse inconsapevoli implicazioni. Si ascoltano parole buttate all’aria a cuor
leggero, che rivelano in chi le pronuncia una personalità che, contrariamente a
quello che si potrebbe pensare, non ha certo nulla di “diabolico”, ma solo
assenza totale di pensiero e di riflessione. Si tratta di una nuova “banalità
del male”, come la definì Hannah Arendt, la filosofa ebrea che seguì, come
giornalista, il processo contro Heichmann (il criminale nazista responsabile
della eliminazione di milione di vite umane innocenti), ascoltando attonita e
incredula le risposte date ai giudici dall’imputato; erano risposte
agghiaccianti proprio per la loro irresponsabile ma tragica superficialità; e
scrisse: “Restai
colpita dall’evidente superficialità del colpevole, superficialità
che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi
atti a un livello più profondo di cause e motivazioni. Gli atti erano
mostruosi, ma l’attore risultava quanto mai ordinario,
mediocre, tutt’altro che demoniaco e mostruoso (…). E prese forma
l’immagine di un uomo incapace di distinguere la
realtà dalla finzione, che non riusciva a distinguere il bene dal male”.
I potenti, che oggi detengono
nelle loro mani i destini dei popoli, dovrebbero indagare responsabilmente,
interpretare con perspicacia e individuare onestamente le cause reali, che
costringono popolazioni intere a migrare e chiedere umana accoglienza. Se
dovessero ravvisare eventuali furbizie e distorsioni hanno i mezzi per
smascherale e fermarle, senza sparare sul mucchio degli innocenti. Ma hanno –
nello stesso tempo – potere e mezzi per fermare all’origine i veri “autori” di
tali fenomeni: scoprirli e punirli con la stessa fermezza, che si usa con i
milioni di esseri umani inermi è loro dovere improrogabile. Ma è più agevole e
indolore urlare con voce trionfante – alla sequela ossequiosa ora di Trump e
domani d’un altro signore - “Altro che farne sbarcare altri o andarli a prendere con barconi
e aerei, stiamo lavorando per rimandarne a casa un bel po'. Scafisti e
terroristi: a casa!".
Infatti il pianeta è invaso solo da scafisti e solo da terroristi! I loro mandanti stanno al sicuro e ben
protetti.
venerdì 4 gennaio 2019
L’UOMO. L’ESSERE CHE “RAGIONA” COL CUORE
“Quella
vita ch'è una cosa bella – fa dire Giacomo Leopardi al ‘Venditore d’almanacchi
a un passeggere’ - non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce;
non la vita passata, ma la futura”. Il poeta recanatese, però, non sembra
essere nel vero. Infatti, solo il passato della vita (sia vissuto
come bello o come brutto) è ‘certo’ e, quindi, ‘bello’, in quanto la bellezza
coincide col reale e col certo. Solo il passato, pertanto, può essere bello,
perché assolutamente certo e ormai del tutto libero dal volere di chiunque e al
riparo da qualsiasi evento; il presente, invece, è solo un debole barlume di
vita in un brandello fugace di tempo morente; il futuro, poi, è addirittura totalmente
imprevedibile e inimmaginabile, in quanto non nel mondo dell’essere. L’uomo,
quindi, dovrebbe rallegrarsi o dolersi del passato, non del presente (che è solo
fugacemente nelle sue mani) né del futuro (che è spesso inaspettato e mai
totalmente in suo potere). Tuttavia, l’uomo – sulle tracce del cantore
dell’Infinito - si tormenta per il suo presente e s’interroga sul suo futuro, e
vive ogni rimembranza, che lo riconduca ai suoi giorni vissuti, come un atto solo
di malinconica nostalgia o di dolorosa impotente invidia. Non è così, però, per l’uomo che prende per guida
dell’intero percorso del suo esistere e per consigliera quotidiana delle sue
scelte la razionalità integrale propria della persona umana, che deve rimanere sempre
vigile e benpensante, attenta e disponibile.
“Il fatto che l’uomo - ha scritto Immanuel Kant - non soltanto pensi, ma possa anche dire a se stesso ‘Io penso’,
fa di lui una persona”. Per molti la differenza tra pensanti e non pensanti è la
vera precondizione necessaria, per poter comprendere e valutare ogni altra
differenza tra gli uomini, come tra individui credenti e non, socievoli e non,
altruisti e non. Molti, infatti, sono convinti che, se è certo che tutti viviamo
una vita, non è altrettanto certo che tutti siamo consapevoli di cosa sia
realmente la vita che stiamo vivendo, in quanto non ci poniamo sensatamente le
domande di quale sia il significato del nostro trovarci nell’esistenza, della
motivazione vera e della finalità ultima delle nostre scelte. L’uomo, comunque, sente spesso tutta la difficoltà d’una
vita, ch’egli non ha chiesto di vivere e che gli pone frequenti domande
dall’incerta risposta e addirittura coinvolgenti misteri inspiegabili: chi o cosa manipola la mia volontà apparentemente
libera; ove porta il mistero irrisolto del soffrire e del morire di
tutte le creature ospitate sulla terra? “Che fai tu luna in ciel? - egli chiede, con il Poeta dell’Infinito, all’astro
notturno confidente fidato e discreto dei segreti degli umani -. Ove
tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale? (...). Che
vuol dir questa solitudine immensa? Ed io che sono?”. Senso e sostegno,
allora, gli saranno offerti soltanto dall’uso della sua ragione integrale, cioè
– secondo il pensiero del tedesco Kant – dall’umana razionalità, la quale coinvolge
tutte le dimensioni della natura umana: le fuggevoli sensazioni del corpo e le
profonde intuizioni dello spirito, l’interiorità segreta della persona e la sua
generosa apertura all’altro, l’intelletto che conosce, la volontà che vuole,
l’affettività che abbraccia e vive ogni situazione di vita . Cioè, il cuore
dell’uomo: unico centro capace di comprendere e di gestire le diverse
dimensioni. Infatti, secondo anche un adagio induista, si ragiona non con la
mente, ma col cuore, il sicuro e valido punto-forza dell’uomo razionale. Solo
la vitalità del cuore, cioè l’amore, alimenta la fedeltà e rinvigorisce la
coerenza in ogni situazione della vita. E’ l’amore che dà il giusto colore ai
fatti e il dovuto sapore ai pensieri, illuminandoli con la sua luce
insostituibile, collocandoli ciascuno a suo posto.
Fiumi abbondanti e piogge copiose - annotava Seneca - gettano le loro acque nel mare salato, ma non ne alterano né attenuano il sapore. Allo stesso modo, la violenza delle avversità non sconvolge né turba l’animo dell’uomo forte: egli resta saldo e immoto nel proprio stato e converte a proprio beneficio qualunque vicenda, perché egli è più forte d’ogni evento esterno. Non è che egli non lo senta, ma lo vince: quieto e placido, si erge contro ciò che lo attacca. Del resto – continuava il filosofo stoico - non è stabile né forte un albero che non venga incessantemente sballottolato dall’infuriare dei venti; anzi, è irrobustito dalla continua violenza e rinsalda più tenacemente le sue radici. Sono fragili le piante cresciute in una valle solitaria al riparo delle turbolenze atmosferiche. E le radici dell’autentico uomo forte allignano soltanto nel cuore: totale e indivisibile, che coi suoi battiti scandisce il ritmo della vita vissuta degnamente.
Davanti a queste considerazioni non pochi sentono fastidio e tedio e,
presi dall’importanza dei loro impegni, non perdono occasione di far notare che
il rapido trascorrere del tempo impone ben altro che occupare forze ed energie
in piacevoli ma inutili passatempi, per cui è già abbastanza l’impegnarsi e
l’industriarsi a risolvere al meglio i problemi concreti della giornata, che ciascuno
vive nel posto in cui ha scelto di operare.
Ma sono proprio queste persone che, sballottolate dal susseguirsi
confuso degli eventi, generano non poca inquietudine e preoccupano per la loro
inconsapevolezza. “Coloro – ha scritto Hannah Arendt - che non sono innamorati
della bellezza, della giustizia e della sapienza sono incapaci di pensiero”: l’uomo
ha bisogno di pensare, ma con la totalità della sua razionalità, che abita nel
cuore, centro di confluenza d’ogni moto dell’animo umano. Solo così la vita non
si riduce a un anonimo e insipido passaggio sulla terra, ma è una consapevole e
costruttiva collaborazione alla felicità propria e dell’umanità intera: a questi
impensati ampi confini ci conducono l’auspicio e il monito anche del Mathama
Gandhi: “Il giorno in cui il potere
dell’amore supererà l’amore per il potere il mondo potrà scoprire la pace”.
sabato 29 dicembre 2018
Dicembre 2018 – Brogliaccio Salentino, Gigi Montonato recensisce “La poetica di G. C. Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo”, di L.Corvaglia, riedizione a cura di Cosimo Scarcella
Sta per concludersi a Melissano il biennio di studio su Luigi Corvaglia (Melissano 1892 – Roma 1966) per il cinquantenario della sua morte, condotto da Cosimo Scarcella.
Aperto con la pubblicazione del volume Introduzione allo studio di Luigi Corvaglia da Melissano (Tuglie, 2017), autore lo stesso Scarcella, va in epilogo con la pubblicazione di un’opera corvagliana, a cui l’Autore teneva particolarmente: La poetica di Giulio Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo, pubblicata per la prima volta nel 1959 sul “Giornale critico della filosofia italiana” di Giovanni Gentile, sessant’anni fa. Atmosfere celebrative diffuse, se consideriamo che Giulio Cesare Scaligero, nato nel 1484, morì nel 1558, dunque 460 anni fa. La sua Poetica (Poetices libri septem) vide luce a Lione, postuma, nel 1561 a cura del figlio Silvio, a cui era stata dedicata. Quando si dice le coincidenze! Anche l’opera inedita di Corvaglia sarebbe stata pubblicata dalla figlia.
Tanto, per l’aspetto editoriale dell’evento, al netto di manifestazioni preparatorie e collaterali che hanno scandito il biennio corvagliano e che si concluderanno con un convegno nazionale nell’aprile
del 2019.
L’evento celebrativo ha avuto il supporto politico e amministrativo del Comune di Melissano, proseguirà con la creazione di un Centro Studi Corvagliani, per dare carattere meno episodico alla centralità di Luigi Corvaglia nella vita culturale del natio centro salentino. Ricordiamo che nel 1986, in ricorrenza del ventennale della sua morte, Corvaglia fu ricordato dal Comune di Melissano con un convegno, cui presero parte Donato Valli, Luigi Scorrano, Gino Pisanò e Quintino Scozzi, e fu murata una lapide sulla facciata della sua casa. Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso fu pubblicata a sua Opera Omnia, relativamente ai suoi studi vaniniani, a cura della figlia Maria e di Gino Pisanò (Galatina, 1990-1994).
Corvaglia fu anche uomo del suo tempo e del suo luogo. Profuse molto del suo impegno militante in opere politiche, che andrebbero riproposte e studiate; in opere letterarie, che contribuiscono come poche a definire quella che chiamiamo identità salentina; e in materiali documentali. Mi riferisco al suo romanzo Finibusterre, ai suoi drammi e alla corrispondenza epistolare, da lui stesso ordinata, con tantissimi personaggi del tempo, politici e intellettuali. Né ci sembra di minore importanza affrontare l’aspetto storico del Corvaglia, di cui si sa ancora poco, con un profilo biografico più rispondente a più approfondite finalità d studio.
Nella circostanza editoriale dell’Opera Omnia, oltre alle due opere del Vanini, furono pubblicati i suoi famosi inediti, quelli del terzo volume (poi terzo e quarto) degli studi vaniniani, che Corvaglia non potette pubblicare da vivo per diversi motivi, ampiamente spiegati dai curatori. Rimase fuori da quell’edizione – non è chiaro perché – il saggio sulla Poetica dello Scaligero, autore a cui pure è dedicato il secondo tomo del terzo volume, il più corposo. Forse perché quell’opera non era tra le fonti utilizzate dal Vanini e poteva non entrare organicamente in un’impresa editoriale dal titolo molto preciso: Le opere di Giulio Cesare Vanini e le loro fonti.
Quel saggio riappare oggi a cura di Scarcella, con un prodromo di Alessandro Conte (Sindaco di Melissano) e con la presentazione di Fabio D’Astore (Neviano, Musicaos, 2018, pp. 132).
Operazione azzeccata e di molta utilità per quanti si avvicinino alla conoscenza e allo studio di Corvaglia, uomo e filosofo. Scarcella ha colto un aspetto del rapporto Corvaglia-Scaligero che illumina non poco gli studi corvagliani sul filosofo veronese, fino ad evidenziare affinità caratteriali e biografiche fra i due. Nota Scarcella: “Nel leggere le singole parole con cui il melissanese descrive la psicologia dello Scaligero, viene spontaneo immaginare, per chi ha avuto relazioni amicali o di semplice conoscenza col Corvaglia in vita, ch’egli stesse descrivendo Scaligero, ma pensando a se stesso” (p. 33).
Scaligero e Corvaglia si somigliano: sono collerici, violenti, polemizzano come gladiatori, sono entrambi valetudinari. Corvaglia, estrapola dal suo studio scaligeriano la parte della Poetica e decide di affidarla al Gentile per pubblicarla perché presente di morire senza poter pubblicare l’intera monografia, a cui teneva tantissimo.
Fu facile profeta di se stesso. La sua grande monografia scaligeriana sarebbe rimasta incompiuta e inedita. Ecco perché volle almeno compiere un atto di simpatia umana e di riconoscimento all’autore della sua vita, che evidentemente non era Vanini, come si crede per altri motivi, ma proprio Scaligero. E se avesse potuto dimostrarlo, portando a compimento l’impresa, sarebbe stato il meritato coronamento del suo lungo lavoro di studioso. Volle pubblicare la genesi e lo sviluppo della Poetica, quasi in risposta a quanti avevano rilevato mende importanti nel lavoro dello Scaligero, a volte anche malevolmente e senza dare supporti critici necessari. Corvaglia, senza dare giudizi ma col suo solito metodo, quasi avvocatesto, smonta l’opera scaligeriana fino a ridurla alle sue componenti costitutive, ne analizza i contenuti con rimandi storici e filologici puntuali e con le funzionalità tecniche e dottrinarie di ognuna di esse nell’insieme.
La cornice storica e l’apparato critico che aggiunge Scarcella allo scritto corvagliano conferiscono completezza e danno risalto all’opera e al suo contesto.
Aperto con la pubblicazione del volume Introduzione allo studio di Luigi Corvaglia da Melissano (Tuglie, 2017), autore lo stesso Scarcella, va in epilogo con la pubblicazione di un’opera corvagliana, a cui l’Autore teneva particolarmente: La poetica di Giulio Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo, pubblicata per la prima volta nel 1959 sul “Giornale critico della filosofia italiana” di Giovanni Gentile, sessant’anni fa. Atmosfere celebrative diffuse, se consideriamo che Giulio Cesare Scaligero, nato nel 1484, morì nel 1558, dunque 460 anni fa. La sua Poetica (Poetices libri septem) vide luce a Lione, postuma, nel 1561 a cura del figlio Silvio, a cui era stata dedicata. Quando si dice le coincidenze! Anche l’opera inedita di Corvaglia sarebbe stata pubblicata dalla figlia.
Tanto, per l’aspetto editoriale dell’evento, al netto di manifestazioni preparatorie e collaterali che hanno scandito il biennio corvagliano e che si concluderanno con un convegno nazionale nell’aprile
del 2019.
L’evento celebrativo ha avuto il supporto politico e amministrativo del Comune di Melissano, proseguirà con la creazione di un Centro Studi Corvagliani, per dare carattere meno episodico alla centralità di Luigi Corvaglia nella vita culturale del natio centro salentino. Ricordiamo che nel 1986, in ricorrenza del ventennale della sua morte, Corvaglia fu ricordato dal Comune di Melissano con un convegno, cui presero parte Donato Valli, Luigi Scorrano, Gino Pisanò e Quintino Scozzi, e fu murata una lapide sulla facciata della sua casa. Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso fu pubblicata a sua Opera Omnia, relativamente ai suoi studi vaniniani, a cura della figlia Maria e di Gino Pisanò (Galatina, 1990-1994).
Corvaglia fu anche uomo del suo tempo e del suo luogo. Profuse molto del suo impegno militante in opere politiche, che andrebbero riproposte e studiate; in opere letterarie, che contribuiscono come poche a definire quella che chiamiamo identità salentina; e in materiali documentali. Mi riferisco al suo romanzo Finibusterre, ai suoi drammi e alla corrispondenza epistolare, da lui stesso ordinata, con tantissimi personaggi del tempo, politici e intellettuali. Né ci sembra di minore importanza affrontare l’aspetto storico del Corvaglia, di cui si sa ancora poco, con un profilo biografico più rispondente a più approfondite finalità d studio.
Nella circostanza editoriale dell’Opera Omnia, oltre alle due opere del Vanini, furono pubblicati i suoi famosi inediti, quelli del terzo volume (poi terzo e quarto) degli studi vaniniani, che Corvaglia non potette pubblicare da vivo per diversi motivi, ampiamente spiegati dai curatori. Rimase fuori da quell’edizione – non è chiaro perché – il saggio sulla Poetica dello Scaligero, autore a cui pure è dedicato il secondo tomo del terzo volume, il più corposo. Forse perché quell’opera non era tra le fonti utilizzate dal Vanini e poteva non entrare organicamente in un’impresa editoriale dal titolo molto preciso: Le opere di Giulio Cesare Vanini e le loro fonti.
Quel saggio riappare oggi a cura di Scarcella, con un prodromo di Alessandro Conte (Sindaco di Melissano) e con la presentazione di Fabio D’Astore (Neviano, Musicaos, 2018, pp. 132).
Operazione azzeccata e di molta utilità per quanti si avvicinino alla conoscenza e allo studio di Corvaglia, uomo e filosofo. Scarcella ha colto un aspetto del rapporto Corvaglia-Scaligero che illumina non poco gli studi corvagliani sul filosofo veronese, fino ad evidenziare affinità caratteriali e biografiche fra i due. Nota Scarcella: “Nel leggere le singole parole con cui il melissanese descrive la psicologia dello Scaligero, viene spontaneo immaginare, per chi ha avuto relazioni amicali o di semplice conoscenza col Corvaglia in vita, ch’egli stesse descrivendo Scaligero, ma pensando a se stesso” (p. 33).
Scaligero e Corvaglia si somigliano: sono collerici, violenti, polemizzano come gladiatori, sono entrambi valetudinari. Corvaglia, estrapola dal suo studio scaligeriano la parte della Poetica e decide di affidarla al Gentile per pubblicarla perché presente di morire senza poter pubblicare l’intera monografia, a cui teneva tantissimo.
Fu facile profeta di se stesso. La sua grande monografia scaligeriana sarebbe rimasta incompiuta e inedita. Ecco perché volle almeno compiere un atto di simpatia umana e di riconoscimento all’autore della sua vita, che evidentemente non era Vanini, come si crede per altri motivi, ma proprio Scaligero. E se avesse potuto dimostrarlo, portando a compimento l’impresa, sarebbe stato il meritato coronamento del suo lungo lavoro di studioso. Volle pubblicare la genesi e lo sviluppo della Poetica, quasi in risposta a quanti avevano rilevato mende importanti nel lavoro dello Scaligero, a volte anche malevolmente e senza dare supporti critici necessari. Corvaglia, senza dare giudizi ma col suo solito metodo, quasi avvocatesto, smonta l’opera scaligeriana fino a ridurla alle sue componenti costitutive, ne analizza i contenuti con rimandi storici e filologici puntuali e con le funzionalità tecniche e dottrinarie di ognuna di esse nell’insieme.
La cornice storica e l’apparato critico che aggiunge Scarcella allo scritto corvagliano conferiscono completezza e danno risalto all’opera e al suo contesto.
domenica 9 dicembre 2018
L’UOMO E’ UNO SCOLARO, E IL DOLORE E’ IL SUO MAESTRO
L’UOMO E’ UNO SCOLARO, E IL DOLORE
E’ IL SUO MAESTRO
“L’uomo – sentenziava il Mahatma Gandhi - è uno scolaro, e il dolore è
il suo maestro”. La massima, ovviamente, non significa pessimisticamente che la
vita umana sia sempre e solo dolore e sofferenza; è solo la constatazione realistica che solo il
dolore e la sofferenza plasmano l’essere umano forte e maturo, forgiandone
tenacemente l’intelletto, l’anima, la coscienza e la volontà. Gli eventi dolorosi
nel camminare per i sentieri impervi e bui dello scorrere del tempo e i
tormenti strazianti delle scelte periodiche richieste improvvisamente dal corso
dell’esistenza umana sono come dure e forti martellate, con cui il dolore
proprio della vita scalpella il marmo informe della natura umana, ricavandone
forme mirabili di vigore e sculture di rara sublime dignità. Non è certo con le
morbidezze d’un petalo di rosa, che accarezza dolcemente un batuffolo di lana,
che si possono incidere marmi e pietre vive. Figuriamoci caratteri vivi,
decisi, fermi e stabili: capaci, cioè, di avviarsi per il cammino ignoto e
imprevedibile della vita con decisioni
lucide e nette e con scelte radicali e definitive. E questo essere martellati comporta,
di necessità, uno stato di vita interiore di perenne sofferenza e lotta con se
stessi. Una lotta, però, che, mentre fa sanguinare le fibre più intime
dell’animo, germina il sorriso sulle labbra e la tranquillità nell’anima.
L’essere umano, infatti, agogna la tranquillità e la serenità; e si
sforza di raggiungerle e di ottenerle, rimuovendo attentamente dalla sua vita
quotidiana ogni ostacolo che gli si presenta e ogni occasione di contrasto, in
quanto è convinto che i suoi turbamenti e le sue sofferenze siano generati soprattutto
dal mondo a lui esterno e, in primo luogo, dalla rete intricata e confusa delle
sue relazioni sociali. Ma, avvertiva ancora il Mahatma Gandhi, “serenità è
quando ciò che dici, ciò che pensi, ciò che fai, sono in perfetta armonia”.
Bisogna avere il coraggio, quindi, di scoprire fino in fondo chi siamo davvero
noi, senza paura di riconoscerlo e di accettarlo nella sua totalità. Anche
perché tu e io – si dicono spesso le persone che pensano d’amarsi - non siamo
che una cosa sola. Di conseguenza, non posso fare a te del male senza, nello stesso tempo, colpire anche
me. E nessuno può farci più male di quello che noi facciamo a noi stessi.
Pertanto, è necessario, per una vita che abbia senso di realtà e di
verità, vivere nel momento concreto, ma nutrire nel cuore sogni alti, anche se
possono sembrare assurdità e follia: solo in questo modo si vive da esseri umani.
Senza covare sogni nutriti gelosamente e sperati fortemente, si smarrisce il
senso della vita, che diviene così un continuo girovagare insensato dello
spirito: il senso del vivere quotidiano si trova dove collochiamo il nostro cuore, non
dove risiede il nostro corpo. E il cuore non pulsa soltanto, ma parla e
comunica: non con urla che tutti possono udire, non con sussurri che sentono
solo i vicini, ma col silenzio – sempre tormentato e spesso doloroso - che sente solo chi ci ama.
Questo insegna il dolore: esperto maestro di chiunque voglia essere suo
scolaro attento.
mercoledì 28 novembre 2018
IL “POPOLO” E’ IL SOVRANO SEMPRE AFFIDABILE E GIUSTO?
Si esprimono queste riflessioni, con l’ausilio del
pensiero e della testimonianza di personalità del passato, non per una comoda cautela
nell’esprimere palesemente nostri convincimenti personali e nemmeno con la mira
d’accattivarci il consenso altrui, bensì perché possa sollecitare efficacemente
la riflessione critica e la valutazione serena di molte situazioni, in cui oggi
si vive, in Italia e non solo. Per questo richiamiamo il pensiero di Platone e
di Cicerone: il primo, voce esperta e autorevole della cultura greca; il
secondo, audace testimone e solutore acuto di non poche crisi della vita
politica della Roma del suo tempo; entrambi contrari a forme governative di
natura autoritaria e favorevoli a forme, che oggi chiameremmo democratiche.
Premesso che le forme di governo di quei tempi
avevano senso, modalità e nomi diversi da quelli odierni, si possono, tuttavia,
individuare alcune concezioni e alcune funzioni comuni a quelli dei nostri
giorni: come “sovrano e sudditi”, “governanti e governati”, “giustizia sociale e
libertà individuale”, “diritti e doveri”, cioè, alcuni capisaldi d’ogni
dottrina politica, morale privata, etica pubblica, convivenza civile. Ora, nel
quadro politico delle nazioni e degli stati odierni si dà quasi per scontato – eccetto per i governi
palesemente tirannici e dittatoriali - che i governi siano generalmente ispirati
a “democrazia”, in quanto di dà per acquisito che la fonte e la garanzia d’ogni
autorità sia il “popolo” nelle modalità più disparate.
Platone, già due millenni e mezzo or sono, manifestava
molte perplessità sulla democrazia, poiché dubitava della reale capacità del
popolo “governato” di dettare con saggezza e di controllare con giustizia l’azione
dei governanti. E documentava il suo atteggiamento con due considerazioni
d’ordine generale. Primo, ogni sistema democratico – come testimoniano i fatti
della storia - è destinato o a corrompersi in demagogia (oggi si direbbe
“populismo”) o a far germinare nel suo stesso seno la “malerba della tirannia” (oggi molto
diffusa, anche se in modo camuffato e sfrontatamente negato). Secondo, il
popolo è un’astrazione; nella realtà è un insieme eterogeneo di soggetti, che
vanno formati con responsabilità per tutto il corso della loro esistenza e
orientati saggiamente nelle diverse congiunture. E rimane sempre, comunque, un
attore fallibile, come dimostrarono largamente le vicende occorse al suo
maestro Socrate, il quale - primo vero martire della democrazia - fu condannato a morte, ufficialmente per le
accuse (infondate e smentire) di corrompere i giovani e di incitare
all’ateismo, ma in realtà perchè politicamente nemico della democrazia appena
nata in Atene. Fu condannato da giudici designati democraticamente proprio dal
popolo, il quale però, riconosciuto subito dopo il proprio errore, condannò e
punì gli stessi giudici che prima aveva ritenuto capaci e competenti.
A questo punto il filosofo greco cerca di trovare i
motivi per cui il popolo, che ha tanto lottato per conquistare la democrazia, fa
quasi di tutto per farsela strappare. E ritiene di giungere a questa
conclusione: “In un ambiente, in cui il maestro
teme ed lusinga gli scolari e gli scolari non tengono in alcuna
considerazione i maestri; in cui tutto si rimescola e si confonde; in cui chi
comanda, (per poter comandare sempre di più), finge di mettersi al
servizio di chi è comandato e ne blandisce tutti i vizi, per poterli
sfruttare meglio; in cui i rapporti tra gli uni e gli altri sono regolati
soltanto dalle rispettive convenienze nelle rispettive tolleranze (…) la
democrazia, per sete di libertà e per l’incompetenza dei suoi capi, precipita nella
corruzione e nella paralisi. Allora la gente si
separa da coloro, cui attribuisce la colpa di averla condotta a tale disastro e
si prepara a rinnegarla: prima coi sarcasmi, poi con la violenza. Così la democrazia
muore: per abuso di se stessa. E prima che nel
sangue, nel ridicolo (La Repubblica, cap.
VIII). In questo senso
Platone si rivela molto moderno: i giovani vogliono apparire più preparati
degli anziani e spesso pensano che con l’urlare dimostrano la maggiore validità
del proprio pensiero; gli alunni spesso deridono gli insegnanti, i quali, per
non esser considerati troppo autoritari e fuori moda, accontentano le loro
richieste, non preoccupandosi di trasmettere loro cultura sostanziata di valori
e di regole. Gli alunni, invece, che si mostrano ligi ai doveri nel rispetto
delle norme, vengono esclusi dal gruppo, divenendo talora vittime di bullismo.
Ogni popolo – si sentenzia - ha il governo che si merita. E’ probabile.
Ma, se ciò è vero, è molto più vero che ogni popolo è il risultato dell’educazione
umana e della formazione politica, che i governanti gli hanno consentito
d’acquisire. Ciò che è certo ce lo documenta la storia: in tutti i tempi molti
potenti sono sorti e si sono retti sulla “ignoranza” dei cittadini, ai quali
viene negata tutta o in parte la verità. Populismi e statalismi nascono e si
sostengono sulla progettata carenza di cultura del popolo. Di conseguenza, quando un cittadino non è tempestivamente
educato al senso d’appartenenza e al sentimento di solidarietà corresponsabile,
accade che, mirando solo a vivere bene, non s’interessa più al bene comune, ma
al bene proprio anche a danno dell’altro. Perdendo la propria libertà, in
quanto divenuto “schiavo” del suo egoismo asfittico.
“La libertà – interviene, infatti, Cicerone - non
consiste nell'avere un padrone giusto, ma nel non averne alcuno” (De Re Publica, II, 23). Non avere
alcun padrone significa, però, essere padroni di se stessi, sviluppando, controllando
e gestendo ogni dimensione propria dell’essere umano. E questo richiede la
formazione dell’uomo e del cittadino. L’uomo non nasce essere umano, ma lo
diventa gradualmente mediante lo sviluppo della propria personalità in tutti i
suoi aspetti, primo fra tutti il senso della socialità, cioè del bisogno
dell’altro per una vera completa umanità. L’altro non sminuisce né frena la
nostra totalità, anzi è l’elemento necessario grazie al quale possiamo dirci ed
essere partecipi del genere umano.
Il bambino nasce nella famiglia, cresce nella
famiglia e nella scuola, si prepara ad affrontare la vita nella società. La
adulterazione di uno di questi ambienti comporta, di necessità, la carenza di
umanità nell’adulto futuro. Per non cadere nel gioco dello scaricabarile, è
sufficiente che ciascun ambiente adempia al suo compito. Certo, dovremmo
immaginare famiglia, scuola, società ideali, e l’ideale non è e non può mai divenire
reale. Ma l’ideale è la forza motrice
dell’agire umano, in quanto indica e illumina, regolandola, la meta verso cui dirigersi.
Forse, oggi, queste tre istituzioni basilari indicano ben altri ideali. E l’uomo
e l’umanità marciano verso di essi, il cui esito finale è difficile prevedere.
mercoledì 21 novembre 2018
COMPITO DELLA CULTURA NELLA POLITICA DI OGGI
Chiunque, però, voglia
e sappia scrutare le cause profonde delle insensibilità disumane, che generano
divisioni e lotte, ingiustizie e aggressività, povertà e miseria tra gli uomini
e tra i popoli in questi tempi, non può non riconoscere che non si tratta solo
di degenerazione di alcuni organi istituzionali e di corruzione di alcune funzioni
private e pubbliche, bensì di depravazione - nell’intero organismo sociale – di
ciò che esso ha di sostanziale e di più profondo, per cui non a torto –
sembrerebbe - gli uomini di cultura hanno spesso dubitato e dubitano tuttora che
la loro presenza attiva nella vita politica (vista dai più come sontuoso paludamento
dei politici’ scaltri, ma priva di vera e fattiva rilevanza) potrebbe essere
considerata e concretamente usata solo come una collaborazione di “utili
idioti”, per cui prendono poca parte nell’attività politica, in cui palesemente
non s’ascolta la correttezza d’un parere, ma s’incorona col successo chi segue le
tendenze e si getta nell’oscurità e nell’indifferenza chi vi s’oppone.
Ai nostri giorni,
però, s’impone la necessità d’un supplemento di cultura nei “popoli” e nei loro
“governanti”, cioè nella vita politica nel suo complesso. E’ più che
sufficiente osservare la qualità e i toni della lingua generalmente usata per
esprimere valutazioni su amici e nemici (pare n esista più “l’avversario”
politico) e per lanciare giudizi su tutto e su tutti: tanta è la virulenza e il
sarcasmo che non è dato quasi mai distinguere il vero dal falso. E questo è
nocivo per tutti i cittadini. Già quindici anni or sono Norberto Bobbio
scriveva: “Non vi è cultura senza libertà, ma non
vi è neppure cultura senza spirito di verità. Le più comuni offese alla verità
consistono nelle falsificazioni di fatti o nelle storture di ragionamenti”. Affermazione
che fa meditare con preoccupazione.
A questo male non si ripara, però, facendo ricorso all’intervento nella politica
dei cosiddetti ‘tecnici’. Questi vengono richiesti dagli apolitici, che
pretendono di separare politica e tecnica, benché siano consapevoli che il
tecnico non avrà mai le competenze necessarie per capire e risolvere il tanto
decantato bene comune. E nuovamente ci ammonisce Bobbio: “Tecnica apolitica vuol
dire in fin dei conti tecnica pronta a servire qualsiasi padrone, purché questi
lasci lavorare e, s'intende, assicuri al lavoro più o meno onesti compensi;
tecnica apolitica vuol dire soprattutto che la tecnica è forza bruta,
strumento, e come tale si piega al volere e agli interessi del primo che vi
ponga le mani. Chi si rifugia, come in un asilo di purità, nel proprio lavoro,
pretende di essere riuscito a liberarsi dalla politica, e invece tutto quello
che fa in questo senso altro non è che un tirocinio alla politica che gli altri
gli imporranno, e quindi alla fine fa della cattiva politica”. Dietro le
parvenze del tecnico apolitico Bobbio intravedeva il politico incompetente, che
è privo delle conoscenze necessarie, per cui non sa come procurarsele e in
genere resta solto un politicante. Un tema, come si vede, di chiara attualità
nel dibattito politico: si deve rendere la politica consapevole dell'importanza
della conoscenza accurata dei fatti e del rigore nell'argomentazione. Cioè
della cultura.
mercoledì 7 novembre 2018
L'EUROPA NON E' SOLO DEMOCRAZIA
Vale la pena dedicare alcuni
minuti, per leggere e riflettere su alcuni stralci della “Opinione”, che Maurizio
Ferrera ha pubblicato sull’odierno “Corriere della Sera”, con l’auspicio che
sia fatto oggetto di un sereno “dialogo” fra cittadini europei.
L’EUROPA NON È SOLO BUROCRAZIA di Maurizio
Ferrera
Le elezioni europee del prossimo maggio avranno
luogo alla fine di un vero e proprio «decennio orribile» per la Ue. Prima
il terremoto finanziario importato dagli Usa, poi quello del debito sovrano. La
Grande Recessione, con i suoi costi sociali. E, ancora, gli attentati
terroristici, la crisi dei rifugiati, lo tsunami dell’immigrazione, la Brexit.
Un’inedita sequenza di choc, che hanno fatto vacillare le fondamenta
dell’Unione. Eppure l’edificio non è crollato. Al contrario, sono stati
intrapresi alcuni passi verso una maggiore integrazione economica, avviando un
delicato percorso di condivisione dei rischi. Non si è fatto abbastanza, certo,
e su alcuni fronti (ad esempio la dimensione sociale) si è persino tornati un
po’ indietro. Ma nel suo complesso l’Unione ha saputo resistere alle enormi
tensioni. Anche se insicurezza e paure non sono scomparse, la stragrande
maggioranza dei cittadini europei (Regno Unito escluso) ha recuperato oggi
fiducia nella Ue. A dispetto delle varie tempeste, quella che potremmo chiamare
l’«Europa di tutti i giorni» ha continuato imperterrita a funzionare (…).
Nel grande dibattito sulla Ue, nessuno considera
questa Europa di tutti i giorni. La ragione è semplice: fa così parte del
nostro mondo che abbiamo smesso di percepirla. Siamo diventati come i «bambini
viziati» di cui parlava il filosofo spagnolo Ortega y Gasset negli anni Trenta
del secolo scorso. Così come la democrazia liberale, diamo ormai per scontata
anche l’Europa integrata: i suoi benefici, le sue opportunità quotidiane. Della
Ue i media e i politici parlano in genere come un’entità astratta e lontana,
tendono a vederne gli aspetti che non funzionano. Per sentire parole di
apprezzamento e ammirazione dobbiamo attraversare i confini esterni, entrare in
contatto con chi vive sotto un regime oppressivo (…).
Sottolineare la vitalità e i pregi dell’Europa di
tutti i giorni non significa disconoscerne i difetti come sistema
istituzionale. Al contrario, è una ragione in più per dispiacersene e per
spronare chi ci governa a correggerli. Ortega y Gasset diceva che sono proprio
le élite a dover difendere tutto ciò che i «bambini viziati» danno per
scontato. I sondaggi rivelano che esiste ancora un vasto potenziale elettorale
per un rilancio del progetto d’integrazione. Le indagini sugli orientamenti
delle classi politiche nazionali sono meno confortanti. A questo livello
prevale una percezione «strumentale»: la Ue è un bene solo se è vantaggiosa per
il proprio Paese, è un sistema di regole da usare finché conviene. Non lo
dicono solo i leader sovranisti (che giocano a fare i «bambini arrabbiati») ma
anche segmenti importanti dei popolari e, seppur in misura inferiore, di
socialisti e democratici. Le prime comunità europee furono create da Padri
Fondatori responsabili e lungimiranti. La Ue di oggi sembra invece un’orfana
lasciata a se stessa.
L’infrastruttura dell’Europa di tutti i giorni ha
dato prova di robustezza e può procedere col pilota automatico. Ma non a
lungo. In vista delle elezioni di maggio, abbiamo un disperato bisogno di élite
capaci di far leva sul tessuto «banale» di connessioni a livello economico e
sociale per smorzare i conflitti politici. Servono nuovi leader che emergano
dal basso, espressione di quelle maggioranze silenziose che si trovano a
proprio agio in una Unione sempre più stretta. E che proprio per questo
vorrebbero che la Casa Europa diventasse meno litigiosa, più solida e
resistente alle inevitabili intemperie della globalizzazione.
Maurizio Ferrera
martedì 20 giugno 2017
ARROGANZA SEGRETA DI COMPORTAMENTI BANALI
Nel
“Corriere della Sera” di ieri, 19 maggio 2017, è stata proposta una “Opinione”
a firma di Dacia Maraini. Lo stile piacevole e il contenuto interessante (col sorriso
si correggono non poche stupidità, aveva già detto duemila anni fa il poeta
latino Orazio) ne rendono davvero utile la lettura. E noi la riproponiamo.
Il linguaggio segreto, simbolo di
fragilità.
Di Dacia Maraini
Le
mode hanno qualcosa di stupido e devastante. Se chiedi a un ragazzo perché
porti i capelli rasati di fianco e alzati sul capo come un panierino, ti
dirà che fanno tutti così. Ma lo sai che questa moda della rasatura laterale
vuole esprimere una rabbia militaresca ed è stata lanciata da Kim Jong, il
piccolo grasso crudelissimo dittatore della Corea del nord? Mi si risponde con
una alzata di spalle. Fanno pure ridere quelli che comprano a caro prezzo dei
jeans pieni di strappi che imitano una finta povertà che piace soprattutto a
chi povero non è. E che dire della moda delle scarpe a punta, (per fortuna
ormai passata) che provoca deformazioni ai piedi? Il mito del piede piccolo
nasceva in Cina dalla volontà di mostrare che una ragazza nobile e ricca non
aveva bisogno di camminare. Andare a piedi era da contadine, per questo si
torturavano i piedi fino a renderli inutilizzabili. Anche le scarpe a punta e i
tacchi alti di oggi sono deleteri per un piede di donna che vuole camminare,
correre, salire e scendere le scale. Ma se la moda lo chiede…
E
che dire della barba lunga, spesso ingrigita, che gli adulti, soprattutto
intellettuali, portano con disinvoltura? Sono stati i fanatici religiosi a
cominciare. Per loro la barba è un simbolo di austerità e rigore morale. Il
paradosso è che anche chi si dichiara laico e combatte i fanatismi, si fa
crescere la barba. È la moda, e non ci posso fare niente, cara amica. Chi sa
che il tatuaggio nasce nelle prigioni, come il linguaggio della pelle
prigioniera? Erano gli analfabeti, i poveri schiavi che non sapevano né leggere
né scrivere a parlare con le immagini del loro corpo. Il tatuaggio più ripetuto
era la farfalla (ricordate Papillon?) o il gabbiano, che esprimevano il
desiderio di attraversare le sbarre e inoltrarsi in un cielo libero. Anche una
figura femminile o una barca dalle vele spiegate, parlavano della libertà
perduta. Il corpo diventava la carta su cui si scrivevano i messaggi di un
recluso infelice e solo. Come mai oggi ragazzi e ragazze, mai stati in
prigione, si fanno infilare gli aghi nella pelle per imitare senza saperlo quei
disperati segregati nelle carceri dei secoli scorsi? La moda si nutre di
linguaggi segreti e memorie perse, e racconta una fragilità senza rimedio.
L’arroganza sta nel ripetere un rito senza conoscerne le origini, per cieca
allusione a una sofferenza non propria, come il crocifisso scintillante su un
petto di donna, come l’anello infisso in una palpebra o sul labbro a memoria di
una lontana schiavitù.
sabato 1 aprile 2017
MA COS'E' L'AMERICA DI OGGI?
Donald John Trump è
un potente imprenditore, capace soltanto di accumulare denaro ed esercitare
potere. Divenuto progressivamente insensibile ad ogni sensibilità umana, pensa soltanto
in termini di dominio e agisce in prospettive di gretto malcelato egoismo
individuale. Pronto a strumentalizzare intere generazioni, per celebrare la propria
presunzione di onnipotenza, che vorrebbe genuflessa ai suoi piedi l’umanità.
Del tutto incapace a prevedere le conseguenze pratiche delle sue azioni.
S’è trasformato misteriosamente
in politico ed è divenuto il 45º presidente degli Stati Uniti d'America dal 20
gennaio 2017.
Non
è forse opportuno ripensare ad Alexis De Tocqueville? E meditare
come è stato visto da alcuni uomini di pensiero responsabile e ponderato?
"Non è affatto un
ammiratore soddisfatto della società americana: nel suo intimo conserva una
gerarchia di valori che assume dalla sua classe, l'aristocrazia francese”(Raymond
Aron).
“Diviso fra ammirazione e inquietudine per la
democrazia e devozione e sollecitudine per la libertà, il dissidio egli lo
portava dentro di sé” (Norberto Bobbio).
“La Democrazia in America,
il miglior libro mai scritto sugli Stati Uniti, si basava su un viaggio durato
non più di nove mesi” (Eic Hobsbawn).
“I moderni teorici della
democrazia politica non sono interessati alla fondamentale condizione sociale
di uguaglianza che Tocqueville aveva in mente” (Ralf Dahrendorf).
).
INVOLUZIONE DI UN CONCETTO. CORRUZIONE DI UNA PRATICA
Per “Politica” si è intesa – sin dalle culture più
antiche – una concezione di indiscusso contenuto etico, generalmente
appannaggio di persone probe e di chiara moralità anche privata.
Di conseguenza, la pratica della “Politica” era
pensabile solo come attività da affidare solo a delle personalità capaci di
“guidare” la “città” soprattutto grazie al patrimonio morale della loro vita
coerente ed onesta, tale da essere esempio a tutti e, massimamente alle nuove
generazioni: la politica era, quindi, la maestra e l’educatrice dei popoli e
dei singoli, che apprendevano così le tradizioni virtuose e i valori
fondamentali mirati alla reciproca crescita globalmente umana.
Tali personalità, ovviamente, venivano richieste di
dedicare un po’ della loro vita alla cosa pubblica: ed esse accettavano
coerentemente ai loro principi di “servizio”. Mai avrebbero rivendicato un
proprio “diritto di fare politica”, e tanto meno di costituire la “classe politica”
esperta e capace.
Dopo il servizio “regalato” alla propria comunità,
si ritiravano senza nulla pretendere, soddisfatti solo di “aver fatto
politica”: e così contenti, assistevano alla vita pubblica della loro “città”
guidata da altre persone ugualmente idonee e disponibili a “regalare un pò
della loro vita alla cosa pubblica: ed esse accettavano coerentemente ai loro
principi di servizio”.
Chissà su quale pianeta sono andati a finire questi
uomini veri, destinati dalla storia a vivere in tempi in cui era possibile una
vita umana e sociale veramente a dimensione d’uomo!
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