Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

mercoledì 30 dicembre 2009

PERCHE’ IL DOLORE E LA MORTE?

Vi sono molte discussioni e si propongono non poche argomentazioni convincenti sulle risposte che sono state avanzate e che tuttora si vanno ricercando sulle tristi realtà del dolore e della morte. Tornerebbe, però, forse più utile, e comunque più “umano”, tentare di penetrare le motivazioni vere e profonde che spingono gli “esseri razionali” a porsi la domanda stessa più che a trovarne la risposta. Infatti, è dentro il perché della domanda che sono custoditi i segreti della drammaticità di questo problema, che ogni singolo essere umano vive nell’intimità inconfessabile del suo animo, il quale – si deve riconoscere per onestà intellettuale - non è nutrito e guidato da certezze oggettive incontestabili, bensì alimentato e sorretto dagli orientamenti unici, che scaturiscono dalla particolare visione del mondo, che l’irripetibile storia personale propone a ciascuno come la più valida e la più credibile.
L’essere umano non tende, per sua necessità naturale, alla felicità; e, pertanto, non si chiede che cos’è la felicità, né la rincorre in sè e per sè. Seguendo i bisogni della propria natura, l’essere umano vorrebbe solo non soffrire, cioè, vorrebbe solo godere di un corso esistenziale biologico, spirituale e morale ordinato secondo i limiti e le finalità della sua realtà; e, per questo, si chiede cos’è il dolore in ogni sua manifestazione, fino alla sua ultima rivelazione che è la morte. Il dolore, infatti, è presente e domina ogni forma di esistenza; e la morte, conclusione ineluttabile d’ogni corso esistenziale, è l’unico evento certo, che accomuna ogni genere vivente, compreso quello umano. L’essere umano, però, è dotato non solo di sensibilità e di ragione, ma anche di sentimento, di emotività e forse soprattutto di libertà; in quanto tale, è disponibile ad accettare e sopportare qualunque evento che, però, non sia assurdo. Ma il dolore rimane un assurdo, perché contrario a ogni principio di ragionevole comprensione. Esso, infatti, sfugge a ogni tentativo di farsi conoscere, anzi si ostina a rimanere serrato nell’impenetrabile dominio dell’incomprensibile, che va al di là d’ogni limite anche dello stesso mistero. Il mistero, infatti, è un’esigenza della ragione umana protesa certamente anche verso l’ignoto, ma che sia razionalmente fondato, cioè, verso quell’ignoto che propone conoscenze e realtà superiori alle capacità cognitive umane, ma che sono supportate da elementi non irrazionali. Il dolore, purtroppo, non ha un simile fondamento, per cui rimane un assurdo, almeno fino a quando non si manifestino alla mente umana suoi eventuali aspetti “ragionevoli”.
Allora – ci si chiede – qual è il significato della sofferenza, quali sono le sue radici, che “valore” porta o aggiunge alla natura umana e alla storia della sua evoluzione? Quale ruolo storico svolge nell’inesorabile scorrere dell’esistenza dei singoli e dell’umanità? Insomma, che rapporto c’è tra sofferenza e realtà dell’essere umano (e dell’intero cosmo)? L’esistenza umana consiste in una ben determinata durata di tempo, di cui ciascuno dispone, non importa se già necessariamente programmata in ogni suo accadimento o con margini di possibile intervento umano; anche se tutti dobbiamo prendere atto almeno che la nostra nascita non è stato frutto di una scelta consapevole o inconscia. “Vivere” questo segmento esistenziale può essere o pensato e realizzato come un riempire e un concretizzare un qualche progetto “sensato” (per usare il linguaggio del Popper) oppure concepito e vissuto come un esaurire e un consumare un qualcosa, che ci è dato in uso, di cui, quindi, è consentito disporre provvisoriamente e rapidamente, perché è destinato a passare inesorabilmente. L’esistenza umana, allora, è una realtà o “sensata” ma necessitata, oppure “insensata” ed effimera. O vi è qualche altra possibile visione?
L’intero arco della vita presenta momenti propizi e momenti avversi, stati di felicità e stati di dolore. A questi modi di essere non si vuole attribuire alcun giudizio valutativo; si vuole soltanto indicarne la presenza certa e ricercarne un significato plausibile. Appare razionalmente appagante ma umanamente insoddisfacente, la convinzione, secondo cui ogni “essere” è sempre e comunque positività e valore (buono, vero, bello, giusto, ecc.), per cui ogni negatività e disvalore devono ricondursi a una qualche carenza di essere, dovuta alla natura stessa d’ogni essere finito e contingente. Tuttavia - a prescindere che non è del tutto agevole accettare la presunta compresenza di essere e di non-essere - questa non è una risposta al perché sia proprio “l’essere finito e contingente” a interrogarsi sul proprio dolore e sulla propria morte; mentre è quest’ultima la domanda, dentro la quale si cela l’arcano della drammaticità del senso dell’umana esistenza e alla quale si vuole trovare una possibile soluzione.
E’ una partita, questa, che ciascun essere umano si trova a dover giocare sempre da solo. Infatti, non si può delegare ad altri la propria sofferenza né ci si può fare sostituire nella propria morte. E sofferenza e morte sono sempre collegati durante tutta l’esistenza, anzi sono tali che l’una richiama sempre l’altra. Infatti, il dolore fisico e morale è, in sostanza, sottrazione di vitalità, per cui è preannuncio della morte, che giunge come assenza totale di vita. Per l’ineluttabilità di questo destino - individuale ma universale, in quanto accumuna tutti nella medesima sorte - l’essere umano, finito e contingente, proprio in quanto tale, vive costantemente in compagnia del suo progressivo “estinguersi”.
Per andare verso quale meta? Ogni realtà – si afferma spesso e da molti – ha, anzi deve avere, in se stessa la ragione del suo esistere. La teleologia universale è veramente una connotazione reale oppure risponde a un’esigenza soltanto dello spirito umano? Che nel cosmo ogni cosa tenda alla realizzazione di un immenso e ordinato progetto armonico, all’interno del quale si assume senso e significato, è una realtà oppure concretizza solo l’anelito dell’animo ad abbracciarsi a un qualcosa che mitighi il suo smarrimento e calmi la sua ansia esistenziale?
Una realtà, comunque, s’impone in tutta la sua asprezza: non c’è alcuno che non senta l’acuto morso della domanda: qual è il senso della sofferenza che accompagna ogni attimo dell’esistenza umana, che ha l’inizio in modalità sconosciuta e la conclusione biologicamente necessitata. Certo essa può essere esaudita – come di fatto è avvenuto – in tanti modi, da quello assolutamente pessimistico a quello assolutamente ottimistico; ma ci si trova quasi sempre di fronte o a costruzioni fondate su argomentazioni logiche (stringenti ma inappaganti) oppure su intime intuizioni spontanee (intime e segrete e, quindi, incomunicabili). Risposte “credute razionalmente” o “accolte umanamente”, ma sempre minate dal dubbio e dalla nostalgia della certezza, cui anela ogni inquietudine umana. Costruzioni solide ed esigenze profondissime, dietro le quali si cela solo la tenace volontà di “credere” in qualcosa, che salvi l’animo umano dal precipitare nel baratro dell’insignificanza e del non-senso. Conclusioni temporanee, però, smentite quasi sempre dall’avventura esistenziale di ciascuno. Audacia, comunque, di non rifugiarsi acriticamente in soluzioni fideistiche o in negazioni irrazionali. Coraggio, sempre, di assumersi, umilmente ma totalmente, ogni responsabilità delle proprie scelte e della propria coerenza.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Il dolore nasconde cause che l'uomo, essere limitato e finito, non può comprendere: lacera la ragione e costringe l’uomo a interrogarsi su di sé, a cercare parole per dare senso all’insensato.

La sofferenza più intensa, il dolore più atroce, non è quello fisico, ma quello morale: il sentirsi abbandonati, la mancanza di un abbraccio che riempia di gioia, di una stretta di mano che trasmetta solidarietà, di uno sguardo che faccia sentire unici, di parole che trasmettano…vita!
E’ l’ indifferenza che rende l’esistenza insignificante e fredda…

Solo un timido raggio di sole potrebbe penetrare nell'assurdità della sofferenza e alleviare, anche solo per un istante, il dolore umano...
Un gesto...che doni quella "tenace volontà di “credere” in qualcosa, che salvi l’animo umano dal precipitare nel baratro dell’insignificanza e del non-senso."
Uno sguardo...che superi la finitudine umana e protenda verso l'infinito...quell'infinito che racchiude l'armonia universale...quell'infinito in cui volano solo le anime profonde e i cuori puri!
Eos.

Anonimo ha detto...

"Chi aumenta il sapere, moltiplica il dolore".

Anonimo ha detto...

Il dolore nasconde cause che l'uomo, essere limitato e finito, non può comprendere: lacera la ragione e costringe l’uomo a interrogarsi su di sé, a cercare parole per dare senso all’insensato.

La sofferenza più intensa, il dolore più atroce, non è quello fisico, ma quello morale: il sentirsi abbandonati, la mancanza di un abbraccio che riempia di gioia, di una stretta di mano che trasmetta solidarietà, di uno sguardo che faccia sentire unici, di parole che trasmettano…vita!
E’ l’ indifferenza che rende l’esistenza insignificante e fredda…

Solo un timido raggio di sole potrebbe penetrare nell'assurdità della sofferenza e alleviare, anche solo per un istante, il dolore umano...
Un gesto…che doni quella "tenace volontà di “credere” in qualcosa, che salvi l’animo umano dal precipitare nel baratro dell’insignificanza e del non-senso."…
Uno sguardo…che superi la finitudine umana e protenda verso l'infinito...quell'infinito che racchiude l'armonia universale...quell'infinito in cui volano solo le anime profonde e i cuori puri!
Eos.

Cosimo Scarcella ha detto...

Nell'animo finito vive l'infinito; nei cuori finiti palpito il cuore dell'etrenità. Mistero che intuisce solo la "fede razionale". E dall'intuizione sboccia la realtà vissuta

Filippo Pasca ha detto...

Caro Prof,
leggo ora i suoi pensieri nel blog e sono felice vi sia possibilità di fruire ancora dei suoi preziosi interventi, dopo l'esperienza del liceo.
Sull'argomento tenterò di dire la mia.
Sul fatto che l'uomo non tenda naturalmente alla felicità non son d'accordo, perlomeno non totalmente: l'uomo, secondo la sua natura e in relazione agli elementi del suo essere in comune con il mondo animale, non tende proprio a null'altro, se non alla omeo-stasi (di se e della sua specie: salvaguardare sè stessi e procreare) e, si sa, una stasi non può racchiudere in sè il dinamismo del tendere.
Per quanto riguarda il suo autopercepirsi finito, dirò che è questo un dato di fatto correlato con le funzioni superiori, a mio avviso tappa non preventivata di un'evoluzione troppo poco controllabile anche dagli stessi presupposti insiti nella sua natura...Ed è così che, in analogia con le recentissime acquisizioni sul mondo visico caotico/frattale la vita dell'uomo segue un solco poco accomodante, che calcano le generazioni da anni prima di lui: ogni vita è semplice e di poco conto in sè, perchè elemento (ahimè) mediante cui l'evoluzione opera sulla totalità, e sofferenza, declino e morte sono solo contingenza, tormenti di una mente che mal sopporta il peso di cui si è fatta traino nel giorno in cui il barlume del raziocinio e della coscienza si è pian piano insinuato...Ce lo citava spesso prof, ricordo, il capoverso iniziale de "I sepolcri" foscoliano: "all'ombra dei cipressi e dentro le urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro?"
Nella domanda la risposta...
Un saluto
Filippo Pasca