Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

lunedì 2 novembre 2015

LA RIFORMA DEL SENATO E LA SOSTANZA DELLA DEMOCRAZIA


Pubblicato su Affaritaliani il 14 ottobre 2015
La democrazia è sostanza di valori umani e di giustizia sociale, stile di vita, garanzia di diritti e di doveri. Certo, ha bisogno di norme procedurali e di regole di partecipazione e di comportamento, ma non può mai essere ridotta solo ad esse. Oggi assistiamo al Governo italiano che esulta. “Rottamata” la passata inerzia amministrativa, “asfaltate” le catastrofiche attese dei gufi di turno, giunge al traguardo della tanto sospirata e controversa riforma del Senato della Repubblica. E, senza interruzione di continuità, dà subito avvio alle nuove riforme, proclamate anch’esse come mezzo indispensabile per l’avanzamento civile e la crescita del benessere sociale. Si tratterà di riforme programmate e scandite secondo una ferrea modulazione anche dei tempi: si va avanti, nonostante tutto; non solo sorvolando su eventuali proposte di altre forze politiche, ma anche ignorando di fatto ogni confronto veramente disponibile, fino a ignorare gli ammonimenti avanzati dalla Banca d’Italia e persino a sprezzare le doverose annotazioni degli Organismi dell’Europa.
“E’ l’Italia che ce lo chiede”, è l’antifona  che vanno ripetendo i governanti. Il Cittadino italiano, invece, rimane incredulo, attonito: ha ancora davanti agli occhi le immagini delle scene delle Aule parlamentari, cui ha dovuto assistere nelle ultime settimane, suscitandogli perplessità e vergogna. Ora, però, placatosi alquanto l’ingarbugliato e incandescente clima politico, è opportuno, lasciare da parte ogni inutile lagnanza e commento, fermarsi per riflettere seriamente sulla condizione reale della vita democratica in Italia.
E’ ormai un dato di fatto l’esautorazione del dettato dell’articolo 1 della Costituzione. Ora preoccupa anche la sorte, cui sembra destinato anche l’articolo 3, che sancisce: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che (…) impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.  Tradotto in pratica, s’impone, per una democrazia realizzata, la “partecipazione” responsabile dei cittadini, costanti e attivi protagonisti della “organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Ne consegue che ogni riforma o “regola del gioco” dev’essere valutata in base ai contenuti che si vogliono perseguire e che debbono investire l’interesse generale di tutto il popolo, espresso tramite i suoi rappresentanti. Se ciò non viene consentito e garantito, ogni riforma può nascondere un astuto e mascherato sotterfugio per finalità antidemocratiche, che i cittadini, quando le scopriranno, rigetteranno con modalità non sempre prevedibili.
E’ chiaramente infondato e strumentale il sostenere che i governi hanno il “dovere di fare”, ovviamente nell’interesse del popolo, tutti gli interventi necessari, anche ad esso non graditi e che i partiti non farebbero mai per un proprio tornaconto elettorale. Ciò è falso: nella nazione - che sia democratica non solo formalmente, ma in primo luogo nella sua sostanza - dev’essere riconosciuto, sempre e in ogni circostanza, il diritto-dovere del popolo di autodeterminarsi, in qualsiasi direzione si decida di andare, compresa quella eventualmente non condivisa dal governante di turno. La vitalità d’un popolo  democratico ammette solo i limiti e le forme che pone da sé, in via temporanea e transitoria, sempre disposta a superarli sino a rovesciarli. “Se a me socialista – insegna Sandro Pertini - offrissero la realizzazione della riforma più radicale di carattere sociale, ma privandomi della libertà, io la rifiuterei, non la potrei accettare”. 

Ciò di cui soffre la politica italiana è evidenziato dall’incremento quotidiano del maggiore partito: quello degli elettori che non votano e che si confermano nel rigetto di una politica chiusa in se stessa, lontana dal popolo e insensibile ai suoi veri problemi. A riparare questa grave situazione non basta produrre riforme con l’ausilio di “una” maggioranza racimolata, momentaneamente utile, ma variopinta e non sempre disinteressata. E’ necessario ricostruire il partito politico previsto dall’articolo 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti, per concorrere con metodo democratico a determinare a politica nazionale”. Ma, guardando serenamente la politica italiana degli ultimi decenni, risuonano le parole di Enrico Berlinguer: “ I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela”. 

Il Presidente del Consiglio e Segretario del maggiore partito di oggi ha probabilmente capito il problema e intuito anche la soluzione: ricreare partiti fatti dai cittadini, liberi e consapevoli, per riportare l’azione politica nei suoi veri binari. Probabilmente sta impegnando questi suoi primi tempi a prepararne la strada giusta. Probabilmente è la tirannia della situazione eredita che lo costringe a “collaborare” con un Parlamento di nominati e con capi-partiti interessati a se stessi. Ma a questo proposito non disdegni di riflettere su un consiglio d’un suo predecessore, che contribuì coraggiosamente a ricostruire in Italia una vita materiale e morale degna degli italiani: “Non sostate – ammonì Alcide De Gasperi - sui labili espedienti, non illudetevi con una tregua momentanea, con compromessi instabili”. Il corpo sociale del popolo italiano è sano e incorrotto: va ascoltata soprattutto la sua voce. Oggi il pericolo non è una paventata deriva autoritaria, ma la rottura dei rapporti con il popolo.       

IL SINODO SULLA FAMIGLIA? UN EVENTO ECCEZIONALE?


Pubblicato su Affaritaliani il 3 ottobre 2015
 
Ha inizio domani il sinodo dei vescovi cattolici sulla famiglia, che segnerà una “svolta pastorale” fondata sugli insegnamenti del Concilio Ecumenico Vaticano II (concluso esattamente 50 anni fa) e sostenuta dal magistero di papa Francesco, che, aprendo il sinodo straordinario l’anno scorso, aveva già esortato tutti i vescovi: “Non caricate pesi sulle spalle delle famiglie”. Ecco, allora, la novità: i problemi della famiglia vanno esaminati, vagliati e approfonditi con il  contributo indispensabile di tutte le componenti la vita reale delle donne e degli uomini, cioè non si esamineranno solo le convinzioni degli uomini di chiesa e dei credenti in genere, ma si confronteranno anche le esperienze e le opinioni laiche, sociali, politiche ed economiche. E, coerentemente con questa nuova svolta, domani si apriranno i lavori del sinodo ordinario con regole nuove e rivoluzionarie, grazie alle quali verrà garantito un dibattito più ampio e più aderente alle realtà concrete dei problemi umani e familiari. Infatti, a differenza di quanto accadeva in passato, ci sarà più spazio alle discussioni anche nei gruppi ristretti di lavoro (denominati “Circuli minores”, che costituiranno 13 sessioni), suddivisi su base linguistica: due in italiano, tre in francese, tre in spagnolo, quattro in inglese e uno in tedesco. Le loro conclusioni saranno adeguatamente ponderate e verranno pubblicate integralmente a conclusione di ognuna delle tre settimana di lavoro. 

Non sembra occasionale che alla vigilia di questo sinodo sia stato pubblicato il volume “Paolo VI e il Sinodo dei Vescovi” (Edizioni Vivere, Roma, 2015), in cui si sottolinea come fin dall’inizio del Concilio Vaticano II si parlò spesso pubblicamente dell’istituzione di un consiglio, composto da rappresentanti di tutto l’episcopato, che fosse di aiuto al Papa nel governo della chiesa universale. Lo scopo del sinodo è chiaro: offrire a ogni vescovo cattolico il mezzo per offrire al papa “una più efficace collaborazione” nel governo della chiesa universale, divenuto sempre assai difficile per la vastità geografica e per la diversità delle situazioni locali, soprattutto al nostro tempo, dominato da una spaventosa pluralità di culture e di civiltà, in cui la chiesa deve agire concretamente. Pertanto, c’è e ci sarà sempre bisogno di dialogo aperto e di collaborazione reciproca. E fu proprio papa Paolo VI a volere e a istituire il sinodo dei vescovi il 15 settembre 1965 sulla scia del concilio ereditato da Giovanni XXIII. E Bergoglio, rivolgendosi ai suoi vescovi, ha citato proprio Montini, che affidava al Sinodo questo compito: “Scrutando attentamente i segni dei tempi – ha ricordato - cerchiamo di adattare le vie e i metodi alle accresciute necessità dei nostri giorni e alle mutate condizioni della società”.
 
Comunque, che si stia assistendo a un evento eccezionale non sembra sia un luogo comune. Già oggi pomeriggio, infatti, alle 17 in piazza san Pietro si terrà una veglia di preghiera preparatoria e propiziatoria, solo che ad aprirla non saranno né il papa, né qualche cardinale e nemmeno qualche insigne teologo e vaticanista, ma una coppia di sposi, cui seguiranno altre “famiglie”, che però non delineeranno quadri di vita familiare astratti ed inesistenti, ma che narreranno scene di vita ordinaria, porranno quesiti e chiederanno risposte, perché la famiglia ideale e perfetta non è mai esistita né esiste tuttora nella realtà del tempo storico, cui anche la chiesa è ora che guardi, per comprenderne problematiche quotidiane, cercarne efficaci indicazioni etiche e indicarne norme morali umanamente possibili e storicamente lecite.
 
Da parte sua, già all’inizio del suo pontificato, Papa Francesco – che questa sera interverrà per ultimo e che alla fine di tutti i lavori dovrà trarre la sintesi conclusiva - ricordava con parole colme di tenerezza l’importanza della famiglia esistente, nella quale debbono realizzarsi l’incontro e il dialogo tra le generazioni: “I bambini e gli anziani – disse - costruiscono il futuro dei popoli (…). E’ il custodire la gente, l’aver cura di tutti con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi e di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore”. Per questo in queste giornate si ha la netta sensazione che papa Francesco stia stringendo come in un ideale abbraccio tutti i problemi della famiglia, realizzando  il sinodo straordinario dell’ottobre 2014 e il sinodo generale del 2015, e passando dalla tappa di Filadelfia: ponendo l’attenzione sulla famiglia, questo papa propone una chiesa che “respira a pieni polmoni, per se stessa e per tutta l’umanità”.


 

 

 

venerdì 2 ottobre 2015

DOVE VA LA SCUOLA ITALIANA?

Pubblicato da Affaritaliani il 5 settembre 2015
 
E’ universalmente condiviso che il grado di civiltà di una nazione si misura soprattutto dalla cultura del suo popolo. Ovviamente la cultura non è solo quella che viene trasmessa nelle aule scolastiche; nondimeno la scuola è sempre stata e continua a essere una delle principali agenzie educative e formative, in quanto, oltre a disporre di strumenti didattici sempre nuovi e oltre a fruire di metodologie tempestivamente aggiornate, conta sulla presenza fisica dell’insegnante, che comunica anche impressioni ed emozioni squisitamente umane. Non si possono dissimulare, quindi, l'importanza e la gravità del compito affidato all’insegnante sia nella trasmissione dei contenuti e sia soprattutto nella formazione intellettuale e morale delle generazioni future, che le famiglie e la società gli affidano. Chi conosce la scuola italiana, però, ne accusa un forte regresso negli ultimi 30 anni, dovuto anche ai vari interventi di riforma apportati spesso con improvvisazione. In verità, per tanti decenni nell’Italia repubblicana s’è tentata una riforma della scuola, che ne segnasse davvero una svolta storica; ma s’è concluso sempre col produrre qualche ritocco marginale e talora persino negativo. 

Una riforma della scuola è giustificata da principi di ordine costituzionale (garantirne a tutti i cittadini la possibilità di frequentarla), di ordine pedagogico (offrire nuovi ordinamenti significativi e validi), e di ordine sociale (dotare la scuola di collegamenti e collaborazioni con le dinamiche della vita sociale). Ecco, allora, una preoccupazione di ampio respiro in occasione anche di quest’ultima riforma definita “buona”. Infatti, la natura e il ruolo della scuola ne fanno una realtà atipica, composita e del tutto speciale, per cui è necessario un approccio prudente e adeguato da parte di tutti: famiglia, società, politica, sindacati. E tutti debbono dare priorità ai diritti delle nuove generazioni, che pretendono di godere delle possibilità concrete di crescere in ogni direzione e al meglio. Una riforma vera ed efficace della scuola dev’essere definita su misura delle esigenze delle nuove generazioni, e non solo sui bisogni di qualche parte. Nemmeno dell’insegnante.  

La scuola non può essere ridotta ad ammortizzatore sociale, a sbocco occupazionale, a serbatoio di clientele, a campi in cui mietere voti e preferenze. Al di là della retorica, chi nei decenni passati si impegnava per “lavorare” nella scuola era animato e determinato dalla passione di “costruire” esseri umani, rinunciando a professioni notoriamente più redditizie e più ammirate dagli assetti sociali. L’aula scolastica era vissuta con religioso rispetto e attenta deferenza, non imposti da regolamenti, ma suscitati dalla autorevolezza dell’educatore. 

E gli educatori facevano anche allora anni e anni di “precariato”, spessissimo recandosi dal Sud al Nord: andavano precari e ritornavano presidi, come allora si chiamava il dirigente scolastico. E il servizio da precario non dava alcun diritto, oltre a quello dello stipendio, che costituiva un obiettivo dell’insegnante, ma non certo il principale. Per salire in cattedra si sostenevano dure e lunghe prove concorsuali scritte e orali: e all’orale si doveva andare tutti a Roma, con le valigie stracolme dei classici italiani, latini, greci, filosofici, ecc. E dopo un anno d’insegnamento si era valutati e confermati. 

Per chi ha vissuto quei tempi, è naturale che in questi giorni rimanga incredulo di fronte a tanto parlare e rivendicare riguardo l’immissione in ruolo di migliaia di precari. “Stiamo parlando – ha sostenuto il ministro dell’istruzione - di muoversi per lavorare e non per una prospettiva temporanea, ma per dare stabilità alla propria esistenza. E non per un capriccio del ministero, ma per esigenze di domanda e offerta”.  Ora, domanda e offerta coinvolgono in primo luogo gli studenti, che hanno il diritto di avere docenti preparati culturalmente e ben disposti umanamente. Ma un “precario” frustrato, che si sente esiliato, ricattato, umiliato può far ben sperare in un’azione educativa e formativa valida?  

La “buona scuola” si sostanzia e si regge in primo luogo sui “buoni educatori”. Sistemare contratti occupazionali, ammodernare strutture e aule, aggiornare laboratori e palestre, revisionare profili e competenze sono senz’altro azioni necessarie e utili. Ma da sole non garantiscono una scuola buona. Un edificio  scolastico modernissimo senza l’insegnante interessato ed entusiasta resta soltanto un monumento da ammirare. Ci vuole una riforma che pensi ai risvolti economici e alle esigenze organizzative, ma soprattutto che rivaluti la funzione sociale dell’istituzione scolastica, che ricrei la riconsiderazione e la riqualificazione del ruolo dell’insegnante, che rivendichi la autonomia sostanziale della programmazione. E questo non pare sia perseguito né con i vari attuali provvedimenti legislativi né con le assunzioni a tempo indeterminato di migliaia di “precari”.

 

 

LA LECTIO DI GALANTINO SU DE GASPERI

Pubblicato su Affaritaliani il 18 agosto 2015

La Fondazione Trentina “Alcide De Gasperi” ha invitato a tenere - domani martedì 18 agosto - la Lectio degasperiana 2015 su “La ricostruzione italiana. Il modello e l’esempio di Alcide De Gasperi”, il vescovo Nunzio Galantino, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana. Il prelato ha dichiarato che, dopo un’iniziale titubanza, ha deciso di accettare per due motivi: che “non è mai giusto sprecare occasioni di confronto e di riflessione” e per “il desiderio di poter rendere onore, come figlio di un antico militante democristiano nella terra di Giuseppe Di Vittorio e come vescovo, a un cristiano così libero e coraggioso come è stato Alcide De Gasperi”. Valide e nobili motivazioni. Come davvero significativa appare la scelta – per quanto è stato anticipato anche dalla stampa – dei tre “cardini” su cui verterà la sua dissertazione. Cioè: le istituzioni, ossia il rispetto delle Istituzioni e, in particolare, del Parlamento; il bene comune, ossia  l’ideale supremo dell’azione politica; la laicità, ossia la libertà dell’agire politico da ogni influenza ideologica, finanziaria e religiosa. Galantino porrà l’accento su questi tre aspetti rilevanti lasciati in eredità dal grande statista trentino, per cui emergerà sicuramente la figura di un De Gasperi quale costruttore tenace e convinto del sistema costituzionale italiano e quale infaticabile difensore delle scelte da lui operate sia come capo del suo partito e come Presidente del Consiglio dei Ministri.

I tre “cardini” sottolineati sono indiscutibilmente fondamentali. Ma, in considerazione anche delle ultime vicende che hanno visto coinvolti il vescovo e parte del mondo della politica, particolarmente rilevante sarà il tema della laicità della politica. Infatti, è di enorme rilevanza che la Chiesa italiana – per bocca dei suoi vescovi – riproponga il modello e la testimonianza di De Gasperi, e che voglia farsi promotrice di una ripresa della sua eredità anche cattolica. E’ un fatto positivo indiscutibile, di cui sembra esserci bisogno in questi nostri tempi di turbolenze ideologiche e di smarrimento etico. A patto che non si voglia  dimenticare (o anche solo sottacere) il coraggioso atteggiamento di Alcide De Gasperi nei riguardi anche del Pontefice e della Curia romana di quegli anni, segnati da grandi fermenti culturali e politici e impegnati nel difficile lavorio di ricostruzione materiale e morale dell’Italia. Non si può dimenticare, infatti, che nel 1952 Pio XII propugnò con estremo autoritarismo e con ogni forza un patto politico di tutti i cattolici, al fine di preparare, proporre, difendere e realizzare un programma mirante a preservare la Roma cristiana: “E' tempo – disse il papa - di scuotere il funesto letargo (…). E’ tutto un mondo che occorre rifare dalle fondamenta, che bisogna trasformare da selvatico in umano, e da umano in divino, vale a dire secondo il cuore di Dio”. De Gasperi si oppose e, insieme ai suoi compagni, influenzati anche dal pensiero di Jacques Maritain (peraltro già ambasciatore di Francia presso la Santa Sede) propugnò un partito politico e, quindi, uno Stato laico e aconfessionale. Ne seguirono comportamenti non certo adeguati alla gerarchia ecclesiastica. Dopo poche settimane, infatti, il Papa rifiutò di ricevere De Gasperi in udienza, in occasione del suo trentesimo di matrimonio e della professione perpetua della figlia suor Lucia. Il Presidente De Gasperi allora, umile ma fermo, credente cristiano ma uomo integrale, convocò l'ambasciatore d'Italia presso la Santa Sede, al quale dichiarò che come cristiano accettava l'umiliazione, ma come Presidente del Consiglio protestava e chiedeva spiegazioni a chi di competenza. Né in seguito si fece problema di ribadire al Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, il 20 marzo 1954, che la DC non era un “partito confessionale, emanazione dell'autorità ecclesiastica”, e rimarcava, con convinta e realistica visione politica, la necessità storica di chiamare e coinvolgere al governo forze di altra ispirazione, unico mezzo per consolidare la nascente democrazia italiana. Come tutta risposta Pio XII ordinò alla “Civiltà Cattolica” di scrivere un articolo contro De Gasperi, precisando quella che doveva essere l’unica vera dottrina della Chiesa. Non a caso veniva sempre meno in quegli anni l’autorevole influenza all'interno del  Vaticano di mons. Giovanni Battista Montini, che si era speso per far retrocedere Pio XII dalla decisione di non ricevere De Gasperi; anzi, nel novembre 1954 mons. Montini fu allontanato dalla Curia e nominato arcivescovo di Milano, ma senza essere creato cardinale. A ciò pensò papa Giovanni XXIII con uno dei primi atti del suo pontificato.  Montini percorse tutte le tappe nella vita ecclesiastica fino ad accettare il gravoso “servizio pontificale”; mantenne costantemente ferrea fedeltà ai suoi doveri pastorali e intatta coerenza ai dettami della sua coscienza. Seppe riconoscere, stimare e frequentare anche “laici” saggi, onesti e anch’essi servitori degli uomini: basti ricordare, per esempio, l’amicizia con Aldo Moro e la frequentazione di Jacques Maritain. Non a caso, alla chiusura del Concilio Vaticano II, il papa Montini consegnò simbolicamente proprio al filosofo Maritain il messaggio indirizzato “agli uomini di scienza e del pensiero”, riconoscendolo così degno rappresentante degli intellettuali. Il Maritain, da parte sua, scriveva pochi mesi ne “Il contadino della Garonna”: “E’ stata ora proclamata la libertà religiosa. Ciò che così si chiama non è la libertà che io avrei di credere o di non credere secondo le mie disposizioni del momento e di crearmi arbitrariamente un idolo, come se non avessi un dovere primordiale verso la Verità. E’ la libertà che ogni persona umana ha, di fronte allo Stato o qualsiasi altro potere temporale, di vigilare sul proprio destino eterno, cercando la verità con tutta l’anima e conformandosi ad essa quale la conosce, e di ubbidire secondo la propria coscienza. La mia coscienza non è infallibile, ma io non ho mai il diritto di agire contro di essa”. 

Se ciascun uomo non a il diritto di agire contro la propria coscienza, nessuno potrà imporre atteggiamenti che non siano prima capiti, accolti e condivisi. Non esiste “autorità” che possa dettare idee e prescrivere comportamenti. Soprattutto chi ha per proprio mandato la cura delle anime. E’ questo un insegnamento degasperiano che non può rimanere all’ombra delle celebrazioni teoriche e tanto meno delle strumentalizzazioni di parte. Si può costruire qualcosa di vero e di utile per tutti solo col dialogo rispettoso e argomentato, e giammai con la forza della irritazione, anche se fortemente sollecitata e ispirata al meglio. Si può contribuire a “ricostruire” la vita italiana - anche politica - con la fermezza nei propri convincimenti e con la fedeltà al senso del proprio compito, e non necessariamente ricorrendo allo scontro e all’offesa di chi la pensa diversamente o agisce con prepotenza.

 

 

 

 

mercoledì 19 agosto 2015

LA SCUOLA PARITARIA È PUBBLICA O PRIVATA? ORA IL PARLAMENTO LEGIFERI


L'analisi di Cosimo Scarcella/ Ha destato non poco stupore la virulenza con cui il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, ha attaccato la pronuncia della Cassazione, secondo cui gli istituti religiosi dovranno pagare la tassa Imu anche sugli immobili sede di scuole paritarie...


 
Ha destato non poco stupore la virulenza con cui il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, ha attaccato la pronuncia della Cassazione, secondo cui gli istituti religiosi dovranno pagare la tassa Imu anche sugli immobili sede di scuole paritarie. Non meno sorpresa hanno generato le tardive e tepide reazioni della politica, soprattutto da parte del governo italiano, che soltanto dopo un ragguardevole lasso tempo, lungi dall’esplicitare doverosamente il suo parere, s’è limitato ad “annunciare”, ovviamene solo tramite il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti, che il governo avvierà un “tavolo di confronto”, per arrivare “a un definitivo chiarimento normativo”. 
Le leggi e le sentenze vanno accolte con la necessaria sottomissione, vanno rispettate con l’onore richiesto dall’ordine giuridico, vanno eventualmente emendate o addirittura sostituite con successivi procedimenti legislativi garanti della equità e della giustizia. Questa non è conquista civile e giuridica di recente scoperta, ma testimoniata già 25 secoli fa da Socrate, primo martire della libertà della ragione e dell’ossequio alla legalità; tanto che  22 secoli dopo il calvinista Gian Giacomo Rousseau confesserà che, quando pensava al sacrificio di Cristo si inginocchiava, perché era Dio, ma quando pensava al martirio di Socrate piangeva, perché era uomo. 
Atteggiamenti diversi e addirittura opposti di fronte all’ordine giuridico non sembrano né opportuni né consentiti. Non si può avere la presunzione di leggere nella mente e di scrutare nei cuori degli uomini. Pertanto, si fonda solo su “sensazioni nette”, ma sempre soggettive, l’affermare da parte del rappresentante dei vescovi italiani: "Siamo davanti a una sentenza pericolosa. Chi prende decisioni, lo faccia con meno ideologia”. Tra il politico che, colpito da sentenza scomoda, accusa di complotto la magistratura, e le attuali parole del prelato non passa molta differenza, almeno agli occhi del cittadino libero nel giudicare e disincantato nel valutare. Ugualmente immotivata è la sua “sensazione che con questo modo di pensare, si aspetti l'applauso di qualche parte ideologizzata”: chi la pensa diversamente non diventa subito nemico da abbattere, né in campo politico né in campo religioso. E’ solo un essere pensante che la pensa diversamente, senza per questo essere tacciato di asservirsi a qualcosa o a qualcuno.  
Prima di dare per accertato e incontestabile che quella della Cassazione è una sentenza “pericolosa e ideologica”, è davvero molto opportuno prendere atto – come rivendicato dal presule - che “è venuto il momento di smetterla con i tiri allargati e di cominciare a chiamare le cose con il loro nome”. Ebbene. Già il nostro Dante Alighieri 8 secoli fa parlava di politica e religione, ossia di stato e chiesa, come di due “soli” dotati di luce propria e autonoma, e nello stesso periodo Tommaso d’Aquino avvertiva che non c’è unità senza distinzione. Senza distinzione c’è solo confusione, dove tutto è indistinto e disordinato e, quindi, possibile. Andando ai nostri tempi, sono quanto mai provvidenziali le grandi e significative conquiste del Concilio Ecumenico Vaticano II, che Jacques Maritain, non certo spettatore passivo dell’evento, sintetizza così ne “Il contadino della Garonna” del 1966: nessuno ha il dovere e tanto meno il diritto di “credere” senza l’assenso della sua coscienza libera e illuminata. 
Andando allo specifico dell’oggetto della sentenza contestata, la questione non è nella sua sostanza difficile a capirsi e problematica a risolversi. Premesso che pagare le tasse è dovere morale di solidarietà dei singoli e delle collettività sancito anche dalla Costituzione, si tratta di stabilire se la scuola “paritaria” – la si consideri ‘pubblica’ o ‘privata’, e di qualunque tendenza e matrice culturale, ovviamente compatibile con le leggi dello Stato -  è una “supplenza” necessaria richiesta da eventuali carenze dell’ordine scolastico offerto dallo Stato oppure è un’autonoma iniziativa rivolta a gruppi di cittadini, che ne sentano l’opportunità e ne reclamino la convenienza. In questa seconda ipotesi non si pone alcun problema, trattandosi di attività private; nella prima ipotesi, invece, si tratta di prendere atto e dire chiaramene che lo Stato ha bisogno di scuole paritarie, che offrano interventi educativi che esso non è in grado di dare. Ma, a parte che le supplenze per definizione sono temporanee e non certo rinnovabili all’infinito, esse debbono venire codificate e regolamentate con accordi preventivamente individuati, discussi e condivisi al fine dei reciproci oneri e vantaggi, evitando frequenti e talora non limpidi e necessari interventi di modifica in corso d’opera. Da parte dello Stato italiano ciò deve essere affidato al Parlamento, che legiferi nel pieno dei suoi poteri, e non a qualche più o meno estemporaneo decreto ministeriale. Come in questo caso: la Cassazione si è pronunciata secondo quanto stabilito dai decreti ministeriali vigenti. Si cambino leggi, e la Cassazione produrrà altri pronunciamenti secondo il loro dettato. Il tutto in spirito di reciproco rispetto, che escluda diffidenze, minacce e ricatti, ma produca realtà utili al bene veramente di tutti.




venerdì 10 luglio 2015

LA FAMIGLIA TRA INNOVAZIONE E TRADIZIONE

Pubblicato su Affaritaliani  il 2 luglio 2015

Il matrimonio è un diritto universale, non più legato al genere dei coniugi: è questo il significato ultimo della sentenza emanata il 26 giugno scorso dalla Corte Suprema degli USA e valida per l’intero territorio statunitense: “Non c’è unione più profonda del matrimonio – si dichiara - perché esso incarna gli ideali più alti di amore, di fedeltà, di devozione, di sacrificio e di famiglia (…). Significherebbe non comprendere questi uomini e queste donne, sostenere che mancano di rispetto all’idea di matrimonio (…). La loro speranza è non essere condannati a vivere in solitudine, esclusi dalla più antica istituzione della civiltà. Chiedono un’uguale dignità di fronte alla legge”. Il presidente Obama, da parte sua, ha celebrato l’evento come una significativa conquista americana di civiltà giuridica, in quanto “l’uguaglianza matrimoniale”, finalmente sancita anche giuridicamente, considera di fatto tutte le persone esclusivamente nella loro comune natura umana, senza che alcuni debbano sentirsi “diversi” e mal sopportati. Di sicuro rimane certificato con assoluta chiarezza che nel donare amore e nel  desiderare famiglia tutti gli esseri umani sono uguali.

A ottobre prossimo la chiesa cattolica, dal canto suo, celebrerà il Sinodo ordinario sulla famiglia, portando a conclusione il non facile percorso iniziato già lo scorso anno e che ha messo in tutta evidenza quanto i problemi della famiglia debbano costituire argomento di discussioni libere e franche anche nel terreno religioso, per poterne dedurre conclusioni oneste e responsabili. Forse sarà uno dei momenti più delicati dell’intero pontificato di papa Francesco, che ha deciso con coraggio e risolutezza quale tema di discussione “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa nel mondo contemporaneo”, mostrandosi consapevole che i problemi della famiglia dei nostri tempi hanno urgente bisogno di analisi realistiche e di soluzioni concrete. E già nel documento-base, su cui l’intero episcopato discuterà per tre settimane intere (4-25 ottobre), da una parte si conferma che per la chiesa cattolica solo le unioni tra uomo e donna sono destinate alla procreazione, dall’altra parte per le coppie omosessuali si ribadisce che “ogni persona, indipendentemente dalla propria tendenza sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con sensibilità e delicatezza, sia nella Chiesa che nella società”. Atteggiamento, quindi, di assoluta chiusura a ogni tentativo di “scarto” di differenze e diversità, e di acclarata necessità d’inclusione di ogni essere umano senza alcuna forma di pregiudizi.

Dunque, una delle più grandi e autorevoli democrazie occidentali e una delle più antiche e consolidate chiese universali prendono atto e discutono su un traguardo, che sta segnando una svolta concreta nel cammino della cultura soprattutto del mondo occidentale. Si resta perplessi, allora, nel constatare come proprio negli stessi giorni a Roma sono scesi in piazza alcuni movimenti insieme a rappresentanti di alcuni partiti politici “per difendere – così almeno recitavano gli slogan - la famiglia”, e si dicevano convinti che la maggioranza degli Italiani stesse dalla loro parte, in quanto erano tutti preoccupati delle sorti della famiglia tradizionale, per cui rimarcavano che “Il problema non sono i diritti delle persone, ma la destrutturazione della famiglia naturale”.

E’ uno scenario multiforme e in parte anche provocatorio, che invita sicuramente a riflettere con particolare attenzione, ma che obbliga a fare qualche puntualizzazione preliminare. In primo luogo la pura e semplice constatazione che ad abitare il pianeta Terra non è l’Uomo ideale, ma gli uomini biologicamente dotati, culturalmente condizionati e storicamente determinati (come testimonia lo stesso papa Francesco, che è, tra l’altro, uomo di scienza, avendo anche un master in chimica). La molteplicità e la diversità tra gli umani, pertanto, sono la legge che governa la terra. E’ un dato di fatto, che nessuna volontà umana può disattendere e nessuna forza d’un preteso pensiero unico può illudersi d’ignorare. Da questa realtà oggettiva e indiscutibile, pertanto, conseguono sia la “naturalità” della convivenza delle diversità e sia la “necessità” di relazioni continue e corrette tra tutti i componenti il tessuto sociale.

In secondo luogo, appare non poca confusione tra sessualità, amore, matrimonio e famiglia. Sinteticamente: il matrimonio e la famiglia sono istituti creati nel lungo e faticoso cammino di civilizzazione grazie alle conquiste culturali degli uomini (basta rileggere La scienza nuova del nostro Giambattista Vico), e sono, quindi, istituzioni di natura sociale e di valenza giuridica: il matrimonio è nato a salvaguardia dell’assolvimento del “dovere (munus) matrimoniale” da parte  dei coniugi; la famiglia, come tramandato già da Aristotele, è nata per garantire il benessere dell’eventuale prole, per custodire e assicurare ogni comune possedimento necessario per il benessere di tutti i componenti la piccola molecola sociale. In sé e per sé, quindi, e in senso stretto, l’istituto matrimoniale e familiare non coinvolge la sfera dell’interiorità morale del singolo e non richiede un’intima convinta e condivisa adesione a una particolare etica pubblica. Si ferma tutto al visibile, al rilevabile e al verificabile, cioè a quello che ricade nella sfera del diritto positivo e che può essere, quindi, giudicato e sanzionato.

Ben diversa è la natura della sessualità e dell’amore degli umani. Il nesso tra questi due mondi è stato oggetto di continue ricerche e d’interessanti dibattiti. Comunque, per rilevare la possibilità di sesso scisso da sentimento amoroso è sufficiente affacciarsi sul mondo; per confermare, poi, la probabilità d’un amore senza sesso, è sufficiente dialogare discretamente con giovani e meno giovani, che siano educati all’amore autentico e ne vivano con coerente fedeltà le dimensioni. D’indubbio significato è stato il comportamento del papa nel parlare giorni fa a migliaia di giovani. Consapevole di “entrare” nell’intimità umana di quei giovani, chiesto quasi permesso e in punta di piedi, li ha esortati devotamente a vivere un “amore casto”, cioè un amore umano integrale, fatto di corpo e di anima coinvolgente tutto l’essere, ma sempre e solo nei termini propri dell’amore autentico, fatto di reciproco rispetto e di sacra devozione per l’essere altrui, titolare di uguale naturale dignità umana. L’amore, infatti, non è un sentimento romantico cui abbandonarsi, ma un’arte da apprendere e perfezionare con fatica dura e non facile. A ricordarcelo ha pensato, tra gli altri, Erich Fromm: amare è l’esatto opposto dell’egoismo e dell’ipocrisia, sotto le cui vesti si camuffano spesso inconfessate frustrazioni genitoriali, dolorose carenze affettive, brucianti sconfitte professionali. Amare è cercare e dare senso personale all’arco di tempo della propria esistenza, il cui inizio resta nell’inconoscibile e la cui fine rimane nell’ignoto. Si può “riempire” l’esistenza con tante cose: dal potere, al piacere, al denaro. La si riempie con l’amore, solo quando ci si dona liberamente e gratuitamente agli altri, senza attesa di riconoscimenti e ricompense.

Affrontare, pertanto, il tema della famiglia dei nostri tempi significa innanzi tutto indagare le motivazioni per cui la si fa nascere e le finalità per cui la si costituisce, se siano bisogni dettati da motivi di convenienza individuale o aspirazioni suggerite dall’amore umanamente inteso. E per quest’aspetto possono fare ben poco le leggi degli uomini: è impresa vana fidare sulla legge per toccare gli animi: solo un’adeguata maturazione culturale e una profonda coscienza morale possono guidare e indirizzare. Del resto è la legge che deve mutare col mutare dell’uomo vivente e non l’uomo ad adattarsi alla legge scritta per un tempo ben preciso, come già 2500 anni aveva avvertito il filosofo greco Protagora. Non è inutile, quindi, sottolineare per chiunque voglia difendere tradizioni o proporre innovazioni che prima delle strategie vengono gli uomini, anzi ciascun uomo concreto, che ha tutto il diritto di vivere in pienezza e libertà la propria esistenza, senza sentirsi quasi in dovere a chiedere scusa d’essere nato, senza peraltro che lo abbia richiesto.

 

MIGRANTI: CRISI GLOBALE CHE INTERPELLA IL MONDO CIVILE


Pubblicato su Affaritaliani il 16 giugno 2015
 
 
Non è difficile immaginare lo stupore che susciterebbe una situazione di questo genere: il malato ferito mortalmente disteso sul tavolo operatorio e l’équipe di esperti medici che, anziché intervenire con tutti i mezzi a loro disposizione, dissertano dottamente sulle varie metodologie possibili e discutono animatamente per stabilire il ruolo di ciascuno. Con ragionevole certezza il malato nel frattempo morirà, ed essi potranno continuare a scontrarsi e scaricarsi reciprocamente la colpa. A questa scena fanno pensare i fatti attuali dei migranti: da una parte, esseri umani d’ogni età e condizione in cerca di salvezza o di libertà o di benessere sbarcano sempre più numerosi sulle coste italiane e, dall’altra parte, i potenti che governano nazioni piuttosto ricche e guidano popoli liberi e alquanto prosperi si battibeccano sul chi e sul come dare qualche aiuto.
 
In questi sentimenti d’incredulità ci conferma la dichiarazione resa in queste ore dal Segretario Generale di  Amnesty International: “Stiamo assistendo - ha detto - alla peggiore crisi di rifugiati del nostro tempo, con milioni di donne, uomini e bambini che lottano per la sopravvivenza, coinvolti in guerre brutali, o schiavi delle reti di trafficanti di esseri umani”. Sono conflitti civili, lotte brutali e situazioni di disumana schiavitù causati non raramente dalle politiche spartitorie d’espansione territoriale, di dominio politico e di potere militare proprio di molti dei Paesi, che ora o fanno finta di non sapere, o ne sminuiscono la dimensione e l’urgenza o addirittura si rifugiano in bizantinismi giuridici o in cavilli interpretativi di accordi firmati, con il solo risultato di non dare una pur minima risposta a catastrofi spesso da loro stessi causate. Ecco allora spiegabile la triste considerazione del responsabile di Amnesty International, secondo il quale questi esseri umani (qualunque sia il caso del singolo certamente da non sottovalutare, ma da verificare e gestire accuratamente) vengono “anche abbandonati dai governi, che perseguono interessi politici egoistici, miopi, invece di mostrare compassione e compiere scelte umanitarie”. 
Stando ai dati di Amnesty International gli sfollati in tempi brevi supereranno a livello globale i 50 milioni; un fenomeno, quindi, più grave e allarmante di quello avvenuto dopo la seconda guerra mondiale. Tutti i governi, pertanto, debbono aprire gli occhi e prendere atto del fenomeno della migrazione di masse di esseri umani. Non si tratta di una emergenza del Mediterraneo, ma di una realtà mondiale, che essi dovranno comprendere adeguatamente, per gestirla con competenza economica, responsabilità giuridica e solidarietà umana. E l’Europa. che è stata avviata come comunità economica, è stata ideata, creduta e difesa da tutti i “popoli” membri col sommo obiettivo di un insieme di “concittadini” tutti con gli stessi doveri e diritti, nella prospettiva, cioè, di divenire col tempo comunità di esseri umani accomunati innanzitutto e soprattutto da valori integralmente umani, morali ed etici. Tradire questi ideali significa rinnegare chi l’ha costruita e affidata. 
In tempi dominati dal pragmatismo e dall’efficientismo non è certo semplice rivendicare l’importanza dei “valori morali” e il ruolo della “solidarietà umana”; anzi sono suggerimenti che potrebbero suscitare persino il sorriso dell’uomo concreto che pensa ai fatti dell’immediato: le priorità da rivendicare e perseguire sono ben altre: l’accrescimento del potere politico, la crescita economica, il profitto dei capitali, i pareggi dei bilanci stabiliti. Quelli sì sono da osservare a ogni costo e con ogni sacrificio! Il resto è astrattezza e poesia, inutili per il singolo e addirittura pericolose le comunità degli uomini, condannate alla sopportazione e alla rassegnazione. E’ stato smarrito, infatti, il valore del rispetto dell’ordine giuridico: infatti, ormai le leggi non sono da rispettarsi, ma da interpretare e modificare caso per caso; i bisogni degli altri non sono più da comprendersi e risolvere, ma da orientare secondo direttrici di mercato; la dignità dell’uomo non è da rispettarsi in ogni essere umano, ma solo in quelli che corrispondono ai propri modi di vedere. Bisogna essere concreti. 
Pensare e difendere altri indirizzi è inseguire ideali chimerici e sogni fuorvianti. E invece la storia insegna che proprio gli “ideali” sono la molla della vita dei singoli, dei popoli e  delle nazioni. Le grandi rivoluzioni davvero radicali, che hanno segnato svolte storiche, sono sempre germinate dai grandi ideali e dai sogni audaci. Senza grandi ideali non c’è avanzamento umano, civile e politico: cioè autentica crescita culturale. Chi resta irretito dall’immediato non respira aria che possa dirsi umana e sarà incapace di operare davvero in concreto. Ogni sano realismo si fonda sempre sul ragionevole ottimismo: quello che solo gli ideali prudentemente progettati e fortemente perseguiti possono generare. E’ l’insegnamento platonico sopravvissuto e praticato già da 2.500 anni e non da ultimo rinverdito dal tedesco Kant, non certo incline alla fantasia e al sentimentalismo: s’è liberi, quando s’ascolta il dettato della propria ragione, che è capace di sollevarsi fino al cielo stellato.  Solo allora gli uomini guarderanno i problemi umani sotto prospettive diverse e più veritiere, e ne sorgeranno soluzioni più alte; gli occhi rivolti verso il suolo, non potranno che guardare il suolo e ciò su di esso si posa. L’umanità, invece, ha bisogno di crearsi mondi più vivibili. Ideali, certo, ma verso i quali camminare con audacia e costanza, nella consapevolezza che essi non saranno mai realizzati totalmente, ma nella certezza che si sarà sempre meno lontani dalla loro altezza.
 
 

 
 

BERGOGLIO. IL PAPA CHE FA SPERARE E TREMARE

Pubblicato su Affaritaliani  l’8 giugno 2015

 

Papa Bergoglio stupisce ogni giorno di più. Apparentemente “normale”, solitamente misurato e calmo, con il suo gesto calcolato e “senza parole” trasfonde fiducia rigeneratrice ma, nello steso tempo, scuote le coscienze degli “uomini e donne di buona volontà, tutti fratelli e sorelle”, e spesso genera riflessioni serie e incute paura e tremore. Mentre coloro che guidano popoli interi e governano nazioni vaste o piccole dissertano sui temi d’equilibrio di bilancio, di crescita e decrescita misurate in piccoli decimali, e talora si spingono a sfiorare il problema dei poveri, dei migranti e dei profughi (perlopiù attenti alle ripercussioni sul proselitismo elettorale), Papa Francesco ha individuato a tempo e senza rumore una struttura nei pressi del Vaticano, in cui sono stati già avviati i lavori per realizzare un dormitorio per ospitare una trentina di senzatetto.

Nel frattempo, sabato scorso 6 giugno, a Sarajevo, in Bosnia, ha ripetuto il suo appello: “Mai più la guerra! La pace è opera della giustizia”; e ha sottolineato con estremo realismo che la pace non va predicata, ma va costruita quotidianamente con “passione, pazienza, tenacia”, senza lasciarsi scoraggiare dal fatto che “nel mondo sono in atto numerosi conflitti armati e una sorta di terza guerra mondiale combattuta a pezzi”.

Come ogni domenica, anche ieri alle ore 12, papa Francesco s’è affacciato con rispettosa puntualità alla finestra dello studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per la recita dell’Angelus con i fedeli e i pellegrini, che lo attendevano, numerosissimi come sempre, in Piazza San Pietro. “Sono andato a Sarajevo, per incoraggiare il cammino di convivenza pacifica tra popolazioni diverse”, ha esordito, per evitare ogni distorsione del suo gesto e qualunque strumentalizzazione delle sue parole e dare l’unico significato autentico del suo viaggio in Bosnia ed Erzegovina. Lì, infatti, aveva rilanciato il grido già di Wojtyla: “Basta guerra e nazionalismi esasperati!” e, durante il breve viaggio di ritorno a Roma in aereo, concedendosi come solitamente alle domande dei giornalisti, aveva denunciato con forza la vigliaccheria dei potenti e l’ipocrisia degl’indifferenti: “C’è l’ipocrisia, sempre! Per questo ho detto che non è sufficiente parlare di pace: si deve fare la pace! E chi parla soltanto di pace e non fa la pace è in contraddizione; e chi parla di pace e favorisce la guerra – per esempio con la vendita delle armi – è un ipocrita!”.

Mercoledì prossimo, 10 giugno, sarà ricevuto in udienza privata il presidente russo Vladimir Putin, in Italia per la visita all’Expo di Milano. Sarà il quinto incontro che Putin avrà con un papa: nel 2000 e nel 2003 con Vojtyla, nel 2007 con Ratzinger e 2013 con lo stesso Bergoglio. In quell’occasione, argomento principale del loro colloquio – al quale il leader russo si presentò con ben 50 minuti di ritardo – fu la crisi siriana, per la soluzione della quale era stata tenuta circa due mesi prima una veglia di preghiera, durante la quale il pontefice da poco eletto aveva precisato: “Anche oggi ci lasciamo guidare dagli idoli, dall’egoismo, dai nostri interessi; e questo atteggiamento va avanti: abbiamo perfezionato le nostre armi, la nostra coscienza si è addormentata, abbiamo reso più sottili le nostre ragioni per giustificarci. Come se fosse una cosa normale, continuiamo a seminare distruzione, dolore, morte! La violenza, la guerra portano solo morte, parlano di morte! La violenza e la guerra hanno il linguaggio della morte!”. Il giorno dopo quella veglia, all’Angelus, il Papa, si era spinto ancora più oltre, affermando che “sempre rimane il dubbio se questa guerra di qua o di là è davvero una guerra, oppure è una guerra commerciale, per vendere armi o è per incrementarne il commercio illegale”.

Per il prossimo 18 giugno è stata annunciata la pubblicazione della prima enciclica “scritta” di papa Francesco. La giustizia, la pace e la libertà degli uomini e dei popoli d’ogni nazione non sono una chimera da deridere, ma un obiettivo da credere e da cercare di raggiungere. Saranno questi – stando a indiscrezioni editoriali – la natura e il contenuto dell’enciclica. Non un trattato scientifico, non un manuale di sociologia, non un libercolo provocatorio, e nemmeno un manifesto politico per la conquista d’un potere. Ma una semplice lettera pastorale che, fotografando situazioni concrete verificabili, mira a  ricordare e difendere i valori morali propri della dignità dell’uomo. Un appello, quindi,     a costruire la pace, la giustizia e la libertà minacciate dalle ideologie dell’autonomia incondizionata di mercato globale e della sfrenata speculazione finanziaria. Forse per questo molta parte di umanità attende e spera, ma altra parte di politica e di finanza trema.

Ma Bergoglio va avanti. E molti attendono nuovi suoi interventi, che facciano germogliare fecondi semi di libertà concreta, fatta di giustizia e di pace. Infatti, fra circa 48 ore papa Francesco colloquierà col capo della Russia; il 24 settembre prossimo sarà in visita negli Stati Uniti. Sarà il primo pontefice a rivolgersi ai deputati americani del Congresso riuniti in seduta straordinaria: questo testimonia l’autorevolezza del pontefice. Una nota diffusa qualche mese fa dalla Casa Bianca comunica che la vigilia dell’incontro ufficiale i due leader avranno un colloquio privato, per ribadire il comune impegno nell’affrontare molti problemi, ma con particolare attenzione “per gli emarginati e i poveri, la necessità di dare opportunità economiche a tutti, la salvaguardia dell'ambiente (…) l'accoglienza dei migranti e dei rifugiati nelle nostre comunità”.