Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

venerdì 2 ottobre 2015

DOVE VA LA SCUOLA ITALIANA?

Pubblicato da Affaritaliani il 5 settembre 2015
 
E’ universalmente condiviso che il grado di civiltà di una nazione si misura soprattutto dalla cultura del suo popolo. Ovviamente la cultura non è solo quella che viene trasmessa nelle aule scolastiche; nondimeno la scuola è sempre stata e continua a essere una delle principali agenzie educative e formative, in quanto, oltre a disporre di strumenti didattici sempre nuovi e oltre a fruire di metodologie tempestivamente aggiornate, conta sulla presenza fisica dell’insegnante, che comunica anche impressioni ed emozioni squisitamente umane. Non si possono dissimulare, quindi, l'importanza e la gravità del compito affidato all’insegnante sia nella trasmissione dei contenuti e sia soprattutto nella formazione intellettuale e morale delle generazioni future, che le famiglie e la società gli affidano. Chi conosce la scuola italiana, però, ne accusa un forte regresso negli ultimi 30 anni, dovuto anche ai vari interventi di riforma apportati spesso con improvvisazione. In verità, per tanti decenni nell’Italia repubblicana s’è tentata una riforma della scuola, che ne segnasse davvero una svolta storica; ma s’è concluso sempre col produrre qualche ritocco marginale e talora persino negativo. 

Una riforma della scuola è giustificata da principi di ordine costituzionale (garantirne a tutti i cittadini la possibilità di frequentarla), di ordine pedagogico (offrire nuovi ordinamenti significativi e validi), e di ordine sociale (dotare la scuola di collegamenti e collaborazioni con le dinamiche della vita sociale). Ecco, allora, una preoccupazione di ampio respiro in occasione anche di quest’ultima riforma definita “buona”. Infatti, la natura e il ruolo della scuola ne fanno una realtà atipica, composita e del tutto speciale, per cui è necessario un approccio prudente e adeguato da parte di tutti: famiglia, società, politica, sindacati. E tutti debbono dare priorità ai diritti delle nuove generazioni, che pretendono di godere delle possibilità concrete di crescere in ogni direzione e al meglio. Una riforma vera ed efficace della scuola dev’essere definita su misura delle esigenze delle nuove generazioni, e non solo sui bisogni di qualche parte. Nemmeno dell’insegnante.  

La scuola non può essere ridotta ad ammortizzatore sociale, a sbocco occupazionale, a serbatoio di clientele, a campi in cui mietere voti e preferenze. Al di là della retorica, chi nei decenni passati si impegnava per “lavorare” nella scuola era animato e determinato dalla passione di “costruire” esseri umani, rinunciando a professioni notoriamente più redditizie e più ammirate dagli assetti sociali. L’aula scolastica era vissuta con religioso rispetto e attenta deferenza, non imposti da regolamenti, ma suscitati dalla autorevolezza dell’educatore. 

E gli educatori facevano anche allora anni e anni di “precariato”, spessissimo recandosi dal Sud al Nord: andavano precari e ritornavano presidi, come allora si chiamava il dirigente scolastico. E il servizio da precario non dava alcun diritto, oltre a quello dello stipendio, che costituiva un obiettivo dell’insegnante, ma non certo il principale. Per salire in cattedra si sostenevano dure e lunghe prove concorsuali scritte e orali: e all’orale si doveva andare tutti a Roma, con le valigie stracolme dei classici italiani, latini, greci, filosofici, ecc. E dopo un anno d’insegnamento si era valutati e confermati. 

Per chi ha vissuto quei tempi, è naturale che in questi giorni rimanga incredulo di fronte a tanto parlare e rivendicare riguardo l’immissione in ruolo di migliaia di precari. “Stiamo parlando – ha sostenuto il ministro dell’istruzione - di muoversi per lavorare e non per una prospettiva temporanea, ma per dare stabilità alla propria esistenza. E non per un capriccio del ministero, ma per esigenze di domanda e offerta”.  Ora, domanda e offerta coinvolgono in primo luogo gli studenti, che hanno il diritto di avere docenti preparati culturalmente e ben disposti umanamente. Ma un “precario” frustrato, che si sente esiliato, ricattato, umiliato può far ben sperare in un’azione educativa e formativa valida?  

La “buona scuola” si sostanzia e si regge in primo luogo sui “buoni educatori”. Sistemare contratti occupazionali, ammodernare strutture e aule, aggiornare laboratori e palestre, revisionare profili e competenze sono senz’altro azioni necessarie e utili. Ma da sole non garantiscono una scuola buona. Un edificio  scolastico modernissimo senza l’insegnante interessato ed entusiasta resta soltanto un monumento da ammirare. Ci vuole una riforma che pensi ai risvolti economici e alle esigenze organizzative, ma soprattutto che rivaluti la funzione sociale dell’istituzione scolastica, che ricrei la riconsiderazione e la riqualificazione del ruolo dell’insegnante, che rivendichi la autonomia sostanziale della programmazione. E questo non pare sia perseguito né con i vari attuali provvedimenti legislativi né con le assunzioni a tempo indeterminato di migliaia di “precari”.

 

 

LA LECTIO DI GALANTINO SU DE GASPERI

Pubblicato su Affaritaliani il 18 agosto 2015

La Fondazione Trentina “Alcide De Gasperi” ha invitato a tenere - domani martedì 18 agosto - la Lectio degasperiana 2015 su “La ricostruzione italiana. Il modello e l’esempio di Alcide De Gasperi”, il vescovo Nunzio Galantino, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana. Il prelato ha dichiarato che, dopo un’iniziale titubanza, ha deciso di accettare per due motivi: che “non è mai giusto sprecare occasioni di confronto e di riflessione” e per “il desiderio di poter rendere onore, come figlio di un antico militante democristiano nella terra di Giuseppe Di Vittorio e come vescovo, a un cristiano così libero e coraggioso come è stato Alcide De Gasperi”. Valide e nobili motivazioni. Come davvero significativa appare la scelta – per quanto è stato anticipato anche dalla stampa – dei tre “cardini” su cui verterà la sua dissertazione. Cioè: le istituzioni, ossia il rispetto delle Istituzioni e, in particolare, del Parlamento; il bene comune, ossia  l’ideale supremo dell’azione politica; la laicità, ossia la libertà dell’agire politico da ogni influenza ideologica, finanziaria e religiosa. Galantino porrà l’accento su questi tre aspetti rilevanti lasciati in eredità dal grande statista trentino, per cui emergerà sicuramente la figura di un De Gasperi quale costruttore tenace e convinto del sistema costituzionale italiano e quale infaticabile difensore delle scelte da lui operate sia come capo del suo partito e come Presidente del Consiglio dei Ministri.

I tre “cardini” sottolineati sono indiscutibilmente fondamentali. Ma, in considerazione anche delle ultime vicende che hanno visto coinvolti il vescovo e parte del mondo della politica, particolarmente rilevante sarà il tema della laicità della politica. Infatti, è di enorme rilevanza che la Chiesa italiana – per bocca dei suoi vescovi – riproponga il modello e la testimonianza di De Gasperi, e che voglia farsi promotrice di una ripresa della sua eredità anche cattolica. E’ un fatto positivo indiscutibile, di cui sembra esserci bisogno in questi nostri tempi di turbolenze ideologiche e di smarrimento etico. A patto che non si voglia  dimenticare (o anche solo sottacere) il coraggioso atteggiamento di Alcide De Gasperi nei riguardi anche del Pontefice e della Curia romana di quegli anni, segnati da grandi fermenti culturali e politici e impegnati nel difficile lavorio di ricostruzione materiale e morale dell’Italia. Non si può dimenticare, infatti, che nel 1952 Pio XII propugnò con estremo autoritarismo e con ogni forza un patto politico di tutti i cattolici, al fine di preparare, proporre, difendere e realizzare un programma mirante a preservare la Roma cristiana: “E' tempo – disse il papa - di scuotere il funesto letargo (…). E’ tutto un mondo che occorre rifare dalle fondamenta, che bisogna trasformare da selvatico in umano, e da umano in divino, vale a dire secondo il cuore di Dio”. De Gasperi si oppose e, insieme ai suoi compagni, influenzati anche dal pensiero di Jacques Maritain (peraltro già ambasciatore di Francia presso la Santa Sede) propugnò un partito politico e, quindi, uno Stato laico e aconfessionale. Ne seguirono comportamenti non certo adeguati alla gerarchia ecclesiastica. Dopo poche settimane, infatti, il Papa rifiutò di ricevere De Gasperi in udienza, in occasione del suo trentesimo di matrimonio e della professione perpetua della figlia suor Lucia. Il Presidente De Gasperi allora, umile ma fermo, credente cristiano ma uomo integrale, convocò l'ambasciatore d'Italia presso la Santa Sede, al quale dichiarò che come cristiano accettava l'umiliazione, ma come Presidente del Consiglio protestava e chiedeva spiegazioni a chi di competenza. Né in seguito si fece problema di ribadire al Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, il 20 marzo 1954, che la DC non era un “partito confessionale, emanazione dell'autorità ecclesiastica”, e rimarcava, con convinta e realistica visione politica, la necessità storica di chiamare e coinvolgere al governo forze di altra ispirazione, unico mezzo per consolidare la nascente democrazia italiana. Come tutta risposta Pio XII ordinò alla “Civiltà Cattolica” di scrivere un articolo contro De Gasperi, precisando quella che doveva essere l’unica vera dottrina della Chiesa. Non a caso veniva sempre meno in quegli anni l’autorevole influenza all'interno del  Vaticano di mons. Giovanni Battista Montini, che si era speso per far retrocedere Pio XII dalla decisione di non ricevere De Gasperi; anzi, nel novembre 1954 mons. Montini fu allontanato dalla Curia e nominato arcivescovo di Milano, ma senza essere creato cardinale. A ciò pensò papa Giovanni XXIII con uno dei primi atti del suo pontificato.  Montini percorse tutte le tappe nella vita ecclesiastica fino ad accettare il gravoso “servizio pontificale”; mantenne costantemente ferrea fedeltà ai suoi doveri pastorali e intatta coerenza ai dettami della sua coscienza. Seppe riconoscere, stimare e frequentare anche “laici” saggi, onesti e anch’essi servitori degli uomini: basti ricordare, per esempio, l’amicizia con Aldo Moro e la frequentazione di Jacques Maritain. Non a caso, alla chiusura del Concilio Vaticano II, il papa Montini consegnò simbolicamente proprio al filosofo Maritain il messaggio indirizzato “agli uomini di scienza e del pensiero”, riconoscendolo così degno rappresentante degli intellettuali. Il Maritain, da parte sua, scriveva pochi mesi ne “Il contadino della Garonna”: “E’ stata ora proclamata la libertà religiosa. Ciò che così si chiama non è la libertà che io avrei di credere o di non credere secondo le mie disposizioni del momento e di crearmi arbitrariamente un idolo, come se non avessi un dovere primordiale verso la Verità. E’ la libertà che ogni persona umana ha, di fronte allo Stato o qualsiasi altro potere temporale, di vigilare sul proprio destino eterno, cercando la verità con tutta l’anima e conformandosi ad essa quale la conosce, e di ubbidire secondo la propria coscienza. La mia coscienza non è infallibile, ma io non ho mai il diritto di agire contro di essa”. 

Se ciascun uomo non a il diritto di agire contro la propria coscienza, nessuno potrà imporre atteggiamenti che non siano prima capiti, accolti e condivisi. Non esiste “autorità” che possa dettare idee e prescrivere comportamenti. Soprattutto chi ha per proprio mandato la cura delle anime. E’ questo un insegnamento degasperiano che non può rimanere all’ombra delle celebrazioni teoriche e tanto meno delle strumentalizzazioni di parte. Si può costruire qualcosa di vero e di utile per tutti solo col dialogo rispettoso e argomentato, e giammai con la forza della irritazione, anche se fortemente sollecitata e ispirata al meglio. Si può contribuire a “ricostruire” la vita italiana - anche politica - con la fermezza nei propri convincimenti e con la fedeltà al senso del proprio compito, e non necessariamente ricorrendo allo scontro e all’offesa di chi la pensa diversamente o agisce con prepotenza.

 

 

 

 

mercoledì 19 agosto 2015

LA SCUOLA PARITARIA È PUBBLICA O PRIVATA? ORA IL PARLAMENTO LEGIFERI


L'analisi di Cosimo Scarcella/ Ha destato non poco stupore la virulenza con cui il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, ha attaccato la pronuncia della Cassazione, secondo cui gli istituti religiosi dovranno pagare la tassa Imu anche sugli immobili sede di scuole paritarie...


 
Ha destato non poco stupore la virulenza con cui il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, ha attaccato la pronuncia della Cassazione, secondo cui gli istituti religiosi dovranno pagare la tassa Imu anche sugli immobili sede di scuole paritarie. Non meno sorpresa hanno generato le tardive e tepide reazioni della politica, soprattutto da parte del governo italiano, che soltanto dopo un ragguardevole lasso tempo, lungi dall’esplicitare doverosamente il suo parere, s’è limitato ad “annunciare”, ovviamene solo tramite il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti, che il governo avvierà un “tavolo di confronto”, per arrivare “a un definitivo chiarimento normativo”. 
Le leggi e le sentenze vanno accolte con la necessaria sottomissione, vanno rispettate con l’onore richiesto dall’ordine giuridico, vanno eventualmente emendate o addirittura sostituite con successivi procedimenti legislativi garanti della equità e della giustizia. Questa non è conquista civile e giuridica di recente scoperta, ma testimoniata già 25 secoli fa da Socrate, primo martire della libertà della ragione e dell’ossequio alla legalità; tanto che  22 secoli dopo il calvinista Gian Giacomo Rousseau confesserà che, quando pensava al sacrificio di Cristo si inginocchiava, perché era Dio, ma quando pensava al martirio di Socrate piangeva, perché era uomo. 
Atteggiamenti diversi e addirittura opposti di fronte all’ordine giuridico non sembrano né opportuni né consentiti. Non si può avere la presunzione di leggere nella mente e di scrutare nei cuori degli uomini. Pertanto, si fonda solo su “sensazioni nette”, ma sempre soggettive, l’affermare da parte del rappresentante dei vescovi italiani: "Siamo davanti a una sentenza pericolosa. Chi prende decisioni, lo faccia con meno ideologia”. Tra il politico che, colpito da sentenza scomoda, accusa di complotto la magistratura, e le attuali parole del prelato non passa molta differenza, almeno agli occhi del cittadino libero nel giudicare e disincantato nel valutare. Ugualmente immotivata è la sua “sensazione che con questo modo di pensare, si aspetti l'applauso di qualche parte ideologizzata”: chi la pensa diversamente non diventa subito nemico da abbattere, né in campo politico né in campo religioso. E’ solo un essere pensante che la pensa diversamente, senza per questo essere tacciato di asservirsi a qualcosa o a qualcuno.  
Prima di dare per accertato e incontestabile che quella della Cassazione è una sentenza “pericolosa e ideologica”, è davvero molto opportuno prendere atto – come rivendicato dal presule - che “è venuto il momento di smetterla con i tiri allargati e di cominciare a chiamare le cose con il loro nome”. Ebbene. Già il nostro Dante Alighieri 8 secoli fa parlava di politica e religione, ossia di stato e chiesa, come di due “soli” dotati di luce propria e autonoma, e nello stesso periodo Tommaso d’Aquino avvertiva che non c’è unità senza distinzione. Senza distinzione c’è solo confusione, dove tutto è indistinto e disordinato e, quindi, possibile. Andando ai nostri tempi, sono quanto mai provvidenziali le grandi e significative conquiste del Concilio Ecumenico Vaticano II, che Jacques Maritain, non certo spettatore passivo dell’evento, sintetizza così ne “Il contadino della Garonna” del 1966: nessuno ha il dovere e tanto meno il diritto di “credere” senza l’assenso della sua coscienza libera e illuminata. 
Andando allo specifico dell’oggetto della sentenza contestata, la questione non è nella sua sostanza difficile a capirsi e problematica a risolversi. Premesso che pagare le tasse è dovere morale di solidarietà dei singoli e delle collettività sancito anche dalla Costituzione, si tratta di stabilire se la scuola “paritaria” – la si consideri ‘pubblica’ o ‘privata’, e di qualunque tendenza e matrice culturale, ovviamente compatibile con le leggi dello Stato -  è una “supplenza” necessaria richiesta da eventuali carenze dell’ordine scolastico offerto dallo Stato oppure è un’autonoma iniziativa rivolta a gruppi di cittadini, che ne sentano l’opportunità e ne reclamino la convenienza. In questa seconda ipotesi non si pone alcun problema, trattandosi di attività private; nella prima ipotesi, invece, si tratta di prendere atto e dire chiaramene che lo Stato ha bisogno di scuole paritarie, che offrano interventi educativi che esso non è in grado di dare. Ma, a parte che le supplenze per definizione sono temporanee e non certo rinnovabili all’infinito, esse debbono venire codificate e regolamentate con accordi preventivamente individuati, discussi e condivisi al fine dei reciproci oneri e vantaggi, evitando frequenti e talora non limpidi e necessari interventi di modifica in corso d’opera. Da parte dello Stato italiano ciò deve essere affidato al Parlamento, che legiferi nel pieno dei suoi poteri, e non a qualche più o meno estemporaneo decreto ministeriale. Come in questo caso: la Cassazione si è pronunciata secondo quanto stabilito dai decreti ministeriali vigenti. Si cambino leggi, e la Cassazione produrrà altri pronunciamenti secondo il loro dettato. Il tutto in spirito di reciproco rispetto, che escluda diffidenze, minacce e ricatti, ma produca realtà utili al bene veramente di tutti.




venerdì 10 luglio 2015

LA FAMIGLIA TRA INNOVAZIONE E TRADIZIONE

Pubblicato su Affaritaliani  il 2 luglio 2015

Il matrimonio è un diritto universale, non più legato al genere dei coniugi: è questo il significato ultimo della sentenza emanata il 26 giugno scorso dalla Corte Suprema degli USA e valida per l’intero territorio statunitense: “Non c’è unione più profonda del matrimonio – si dichiara - perché esso incarna gli ideali più alti di amore, di fedeltà, di devozione, di sacrificio e di famiglia (…). Significherebbe non comprendere questi uomini e queste donne, sostenere che mancano di rispetto all’idea di matrimonio (…). La loro speranza è non essere condannati a vivere in solitudine, esclusi dalla più antica istituzione della civiltà. Chiedono un’uguale dignità di fronte alla legge”. Il presidente Obama, da parte sua, ha celebrato l’evento come una significativa conquista americana di civiltà giuridica, in quanto “l’uguaglianza matrimoniale”, finalmente sancita anche giuridicamente, considera di fatto tutte le persone esclusivamente nella loro comune natura umana, senza che alcuni debbano sentirsi “diversi” e mal sopportati. Di sicuro rimane certificato con assoluta chiarezza che nel donare amore e nel  desiderare famiglia tutti gli esseri umani sono uguali.

A ottobre prossimo la chiesa cattolica, dal canto suo, celebrerà il Sinodo ordinario sulla famiglia, portando a conclusione il non facile percorso iniziato già lo scorso anno e che ha messo in tutta evidenza quanto i problemi della famiglia debbano costituire argomento di discussioni libere e franche anche nel terreno religioso, per poterne dedurre conclusioni oneste e responsabili. Forse sarà uno dei momenti più delicati dell’intero pontificato di papa Francesco, che ha deciso con coraggio e risolutezza quale tema di discussione “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa nel mondo contemporaneo”, mostrandosi consapevole che i problemi della famiglia dei nostri tempi hanno urgente bisogno di analisi realistiche e di soluzioni concrete. E già nel documento-base, su cui l’intero episcopato discuterà per tre settimane intere (4-25 ottobre), da una parte si conferma che per la chiesa cattolica solo le unioni tra uomo e donna sono destinate alla procreazione, dall’altra parte per le coppie omosessuali si ribadisce che “ogni persona, indipendentemente dalla propria tendenza sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con sensibilità e delicatezza, sia nella Chiesa che nella società”. Atteggiamento, quindi, di assoluta chiusura a ogni tentativo di “scarto” di differenze e diversità, e di acclarata necessità d’inclusione di ogni essere umano senza alcuna forma di pregiudizi.

Dunque, una delle più grandi e autorevoli democrazie occidentali e una delle più antiche e consolidate chiese universali prendono atto e discutono su un traguardo, che sta segnando una svolta concreta nel cammino della cultura soprattutto del mondo occidentale. Si resta perplessi, allora, nel constatare come proprio negli stessi giorni a Roma sono scesi in piazza alcuni movimenti insieme a rappresentanti di alcuni partiti politici “per difendere – così almeno recitavano gli slogan - la famiglia”, e si dicevano convinti che la maggioranza degli Italiani stesse dalla loro parte, in quanto erano tutti preoccupati delle sorti della famiglia tradizionale, per cui rimarcavano che “Il problema non sono i diritti delle persone, ma la destrutturazione della famiglia naturale”.

E’ uno scenario multiforme e in parte anche provocatorio, che invita sicuramente a riflettere con particolare attenzione, ma che obbliga a fare qualche puntualizzazione preliminare. In primo luogo la pura e semplice constatazione che ad abitare il pianeta Terra non è l’Uomo ideale, ma gli uomini biologicamente dotati, culturalmente condizionati e storicamente determinati (come testimonia lo stesso papa Francesco, che è, tra l’altro, uomo di scienza, avendo anche un master in chimica). La molteplicità e la diversità tra gli umani, pertanto, sono la legge che governa la terra. E’ un dato di fatto, che nessuna volontà umana può disattendere e nessuna forza d’un preteso pensiero unico può illudersi d’ignorare. Da questa realtà oggettiva e indiscutibile, pertanto, conseguono sia la “naturalità” della convivenza delle diversità e sia la “necessità” di relazioni continue e corrette tra tutti i componenti il tessuto sociale.

In secondo luogo, appare non poca confusione tra sessualità, amore, matrimonio e famiglia. Sinteticamente: il matrimonio e la famiglia sono istituti creati nel lungo e faticoso cammino di civilizzazione grazie alle conquiste culturali degli uomini (basta rileggere La scienza nuova del nostro Giambattista Vico), e sono, quindi, istituzioni di natura sociale e di valenza giuridica: il matrimonio è nato a salvaguardia dell’assolvimento del “dovere (munus) matrimoniale” da parte  dei coniugi; la famiglia, come tramandato già da Aristotele, è nata per garantire il benessere dell’eventuale prole, per custodire e assicurare ogni comune possedimento necessario per il benessere di tutti i componenti la piccola molecola sociale. In sé e per sé, quindi, e in senso stretto, l’istituto matrimoniale e familiare non coinvolge la sfera dell’interiorità morale del singolo e non richiede un’intima convinta e condivisa adesione a una particolare etica pubblica. Si ferma tutto al visibile, al rilevabile e al verificabile, cioè a quello che ricade nella sfera del diritto positivo e che può essere, quindi, giudicato e sanzionato.

Ben diversa è la natura della sessualità e dell’amore degli umani. Il nesso tra questi due mondi è stato oggetto di continue ricerche e d’interessanti dibattiti. Comunque, per rilevare la possibilità di sesso scisso da sentimento amoroso è sufficiente affacciarsi sul mondo; per confermare, poi, la probabilità d’un amore senza sesso, è sufficiente dialogare discretamente con giovani e meno giovani, che siano educati all’amore autentico e ne vivano con coerente fedeltà le dimensioni. D’indubbio significato è stato il comportamento del papa nel parlare giorni fa a migliaia di giovani. Consapevole di “entrare” nell’intimità umana di quei giovani, chiesto quasi permesso e in punta di piedi, li ha esortati devotamente a vivere un “amore casto”, cioè un amore umano integrale, fatto di corpo e di anima coinvolgente tutto l’essere, ma sempre e solo nei termini propri dell’amore autentico, fatto di reciproco rispetto e di sacra devozione per l’essere altrui, titolare di uguale naturale dignità umana. L’amore, infatti, non è un sentimento romantico cui abbandonarsi, ma un’arte da apprendere e perfezionare con fatica dura e non facile. A ricordarcelo ha pensato, tra gli altri, Erich Fromm: amare è l’esatto opposto dell’egoismo e dell’ipocrisia, sotto le cui vesti si camuffano spesso inconfessate frustrazioni genitoriali, dolorose carenze affettive, brucianti sconfitte professionali. Amare è cercare e dare senso personale all’arco di tempo della propria esistenza, il cui inizio resta nell’inconoscibile e la cui fine rimane nell’ignoto. Si può “riempire” l’esistenza con tante cose: dal potere, al piacere, al denaro. La si riempie con l’amore, solo quando ci si dona liberamente e gratuitamente agli altri, senza attesa di riconoscimenti e ricompense.

Affrontare, pertanto, il tema della famiglia dei nostri tempi significa innanzi tutto indagare le motivazioni per cui la si fa nascere e le finalità per cui la si costituisce, se siano bisogni dettati da motivi di convenienza individuale o aspirazioni suggerite dall’amore umanamente inteso. E per quest’aspetto possono fare ben poco le leggi degli uomini: è impresa vana fidare sulla legge per toccare gli animi: solo un’adeguata maturazione culturale e una profonda coscienza morale possono guidare e indirizzare. Del resto è la legge che deve mutare col mutare dell’uomo vivente e non l’uomo ad adattarsi alla legge scritta per un tempo ben preciso, come già 2500 anni aveva avvertito il filosofo greco Protagora. Non è inutile, quindi, sottolineare per chiunque voglia difendere tradizioni o proporre innovazioni che prima delle strategie vengono gli uomini, anzi ciascun uomo concreto, che ha tutto il diritto di vivere in pienezza e libertà la propria esistenza, senza sentirsi quasi in dovere a chiedere scusa d’essere nato, senza peraltro che lo abbia richiesto.

 

MIGRANTI: CRISI GLOBALE CHE INTERPELLA IL MONDO CIVILE


Pubblicato su Affaritaliani il 16 giugno 2015
 
 
Non è difficile immaginare lo stupore che susciterebbe una situazione di questo genere: il malato ferito mortalmente disteso sul tavolo operatorio e l’équipe di esperti medici che, anziché intervenire con tutti i mezzi a loro disposizione, dissertano dottamente sulle varie metodologie possibili e discutono animatamente per stabilire il ruolo di ciascuno. Con ragionevole certezza il malato nel frattempo morirà, ed essi potranno continuare a scontrarsi e scaricarsi reciprocamente la colpa. A questa scena fanno pensare i fatti attuali dei migranti: da una parte, esseri umani d’ogni età e condizione in cerca di salvezza o di libertà o di benessere sbarcano sempre più numerosi sulle coste italiane e, dall’altra parte, i potenti che governano nazioni piuttosto ricche e guidano popoli liberi e alquanto prosperi si battibeccano sul chi e sul come dare qualche aiuto.
 
In questi sentimenti d’incredulità ci conferma la dichiarazione resa in queste ore dal Segretario Generale di  Amnesty International: “Stiamo assistendo - ha detto - alla peggiore crisi di rifugiati del nostro tempo, con milioni di donne, uomini e bambini che lottano per la sopravvivenza, coinvolti in guerre brutali, o schiavi delle reti di trafficanti di esseri umani”. Sono conflitti civili, lotte brutali e situazioni di disumana schiavitù causati non raramente dalle politiche spartitorie d’espansione territoriale, di dominio politico e di potere militare proprio di molti dei Paesi, che ora o fanno finta di non sapere, o ne sminuiscono la dimensione e l’urgenza o addirittura si rifugiano in bizantinismi giuridici o in cavilli interpretativi di accordi firmati, con il solo risultato di non dare una pur minima risposta a catastrofi spesso da loro stessi causate. Ecco allora spiegabile la triste considerazione del responsabile di Amnesty International, secondo il quale questi esseri umani (qualunque sia il caso del singolo certamente da non sottovalutare, ma da verificare e gestire accuratamente) vengono “anche abbandonati dai governi, che perseguono interessi politici egoistici, miopi, invece di mostrare compassione e compiere scelte umanitarie”. 
Stando ai dati di Amnesty International gli sfollati in tempi brevi supereranno a livello globale i 50 milioni; un fenomeno, quindi, più grave e allarmante di quello avvenuto dopo la seconda guerra mondiale. Tutti i governi, pertanto, debbono aprire gli occhi e prendere atto del fenomeno della migrazione di masse di esseri umani. Non si tratta di una emergenza del Mediterraneo, ma di una realtà mondiale, che essi dovranno comprendere adeguatamente, per gestirla con competenza economica, responsabilità giuridica e solidarietà umana. E l’Europa. che è stata avviata come comunità economica, è stata ideata, creduta e difesa da tutti i “popoli” membri col sommo obiettivo di un insieme di “concittadini” tutti con gli stessi doveri e diritti, nella prospettiva, cioè, di divenire col tempo comunità di esseri umani accomunati innanzitutto e soprattutto da valori integralmente umani, morali ed etici. Tradire questi ideali significa rinnegare chi l’ha costruita e affidata. 
In tempi dominati dal pragmatismo e dall’efficientismo non è certo semplice rivendicare l’importanza dei “valori morali” e il ruolo della “solidarietà umana”; anzi sono suggerimenti che potrebbero suscitare persino il sorriso dell’uomo concreto che pensa ai fatti dell’immediato: le priorità da rivendicare e perseguire sono ben altre: l’accrescimento del potere politico, la crescita economica, il profitto dei capitali, i pareggi dei bilanci stabiliti. Quelli sì sono da osservare a ogni costo e con ogni sacrificio! Il resto è astrattezza e poesia, inutili per il singolo e addirittura pericolose le comunità degli uomini, condannate alla sopportazione e alla rassegnazione. E’ stato smarrito, infatti, il valore del rispetto dell’ordine giuridico: infatti, ormai le leggi non sono da rispettarsi, ma da interpretare e modificare caso per caso; i bisogni degli altri non sono più da comprendersi e risolvere, ma da orientare secondo direttrici di mercato; la dignità dell’uomo non è da rispettarsi in ogni essere umano, ma solo in quelli che corrispondono ai propri modi di vedere. Bisogna essere concreti. 
Pensare e difendere altri indirizzi è inseguire ideali chimerici e sogni fuorvianti. E invece la storia insegna che proprio gli “ideali” sono la molla della vita dei singoli, dei popoli e  delle nazioni. Le grandi rivoluzioni davvero radicali, che hanno segnato svolte storiche, sono sempre germinate dai grandi ideali e dai sogni audaci. Senza grandi ideali non c’è avanzamento umano, civile e politico: cioè autentica crescita culturale. Chi resta irretito dall’immediato non respira aria che possa dirsi umana e sarà incapace di operare davvero in concreto. Ogni sano realismo si fonda sempre sul ragionevole ottimismo: quello che solo gli ideali prudentemente progettati e fortemente perseguiti possono generare. E’ l’insegnamento platonico sopravvissuto e praticato già da 2.500 anni e non da ultimo rinverdito dal tedesco Kant, non certo incline alla fantasia e al sentimentalismo: s’è liberi, quando s’ascolta il dettato della propria ragione, che è capace di sollevarsi fino al cielo stellato.  Solo allora gli uomini guarderanno i problemi umani sotto prospettive diverse e più veritiere, e ne sorgeranno soluzioni più alte; gli occhi rivolti verso il suolo, non potranno che guardare il suolo e ciò su di esso si posa. L’umanità, invece, ha bisogno di crearsi mondi più vivibili. Ideali, certo, ma verso i quali camminare con audacia e costanza, nella consapevolezza che essi non saranno mai realizzati totalmente, ma nella certezza che si sarà sempre meno lontani dalla loro altezza.
 
 

 
 

BERGOGLIO. IL PAPA CHE FA SPERARE E TREMARE

Pubblicato su Affaritaliani  l’8 giugno 2015

 

Papa Bergoglio stupisce ogni giorno di più. Apparentemente “normale”, solitamente misurato e calmo, con il suo gesto calcolato e “senza parole” trasfonde fiducia rigeneratrice ma, nello steso tempo, scuote le coscienze degli “uomini e donne di buona volontà, tutti fratelli e sorelle”, e spesso genera riflessioni serie e incute paura e tremore. Mentre coloro che guidano popoli interi e governano nazioni vaste o piccole dissertano sui temi d’equilibrio di bilancio, di crescita e decrescita misurate in piccoli decimali, e talora si spingono a sfiorare il problema dei poveri, dei migranti e dei profughi (perlopiù attenti alle ripercussioni sul proselitismo elettorale), Papa Francesco ha individuato a tempo e senza rumore una struttura nei pressi del Vaticano, in cui sono stati già avviati i lavori per realizzare un dormitorio per ospitare una trentina di senzatetto.

Nel frattempo, sabato scorso 6 giugno, a Sarajevo, in Bosnia, ha ripetuto il suo appello: “Mai più la guerra! La pace è opera della giustizia”; e ha sottolineato con estremo realismo che la pace non va predicata, ma va costruita quotidianamente con “passione, pazienza, tenacia”, senza lasciarsi scoraggiare dal fatto che “nel mondo sono in atto numerosi conflitti armati e una sorta di terza guerra mondiale combattuta a pezzi”.

Come ogni domenica, anche ieri alle ore 12, papa Francesco s’è affacciato con rispettosa puntualità alla finestra dello studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per la recita dell’Angelus con i fedeli e i pellegrini, che lo attendevano, numerosissimi come sempre, in Piazza San Pietro. “Sono andato a Sarajevo, per incoraggiare il cammino di convivenza pacifica tra popolazioni diverse”, ha esordito, per evitare ogni distorsione del suo gesto e qualunque strumentalizzazione delle sue parole e dare l’unico significato autentico del suo viaggio in Bosnia ed Erzegovina. Lì, infatti, aveva rilanciato il grido già di Wojtyla: “Basta guerra e nazionalismi esasperati!” e, durante il breve viaggio di ritorno a Roma in aereo, concedendosi come solitamente alle domande dei giornalisti, aveva denunciato con forza la vigliaccheria dei potenti e l’ipocrisia degl’indifferenti: “C’è l’ipocrisia, sempre! Per questo ho detto che non è sufficiente parlare di pace: si deve fare la pace! E chi parla soltanto di pace e non fa la pace è in contraddizione; e chi parla di pace e favorisce la guerra – per esempio con la vendita delle armi – è un ipocrita!”.

Mercoledì prossimo, 10 giugno, sarà ricevuto in udienza privata il presidente russo Vladimir Putin, in Italia per la visita all’Expo di Milano. Sarà il quinto incontro che Putin avrà con un papa: nel 2000 e nel 2003 con Vojtyla, nel 2007 con Ratzinger e 2013 con lo stesso Bergoglio. In quell’occasione, argomento principale del loro colloquio – al quale il leader russo si presentò con ben 50 minuti di ritardo – fu la crisi siriana, per la soluzione della quale era stata tenuta circa due mesi prima una veglia di preghiera, durante la quale il pontefice da poco eletto aveva precisato: “Anche oggi ci lasciamo guidare dagli idoli, dall’egoismo, dai nostri interessi; e questo atteggiamento va avanti: abbiamo perfezionato le nostre armi, la nostra coscienza si è addormentata, abbiamo reso più sottili le nostre ragioni per giustificarci. Come se fosse una cosa normale, continuiamo a seminare distruzione, dolore, morte! La violenza, la guerra portano solo morte, parlano di morte! La violenza e la guerra hanno il linguaggio della morte!”. Il giorno dopo quella veglia, all’Angelus, il Papa, si era spinto ancora più oltre, affermando che “sempre rimane il dubbio se questa guerra di qua o di là è davvero una guerra, oppure è una guerra commerciale, per vendere armi o è per incrementarne il commercio illegale”.

Per il prossimo 18 giugno è stata annunciata la pubblicazione della prima enciclica “scritta” di papa Francesco. La giustizia, la pace e la libertà degli uomini e dei popoli d’ogni nazione non sono una chimera da deridere, ma un obiettivo da credere e da cercare di raggiungere. Saranno questi – stando a indiscrezioni editoriali – la natura e il contenuto dell’enciclica. Non un trattato scientifico, non un manuale di sociologia, non un libercolo provocatorio, e nemmeno un manifesto politico per la conquista d’un potere. Ma una semplice lettera pastorale che, fotografando situazioni concrete verificabili, mira a  ricordare e difendere i valori morali propri della dignità dell’uomo. Un appello, quindi,     a costruire la pace, la giustizia e la libertà minacciate dalle ideologie dell’autonomia incondizionata di mercato globale e della sfrenata speculazione finanziaria. Forse per questo molta parte di umanità attende e spera, ma altra parte di politica e di finanza trema.

Ma Bergoglio va avanti. E molti attendono nuovi suoi interventi, che facciano germogliare fecondi semi di libertà concreta, fatta di giustizia e di pace. Infatti, fra circa 48 ore papa Francesco colloquierà col capo della Russia; il 24 settembre prossimo sarà in visita negli Stati Uniti. Sarà il primo pontefice a rivolgersi ai deputati americani del Congresso riuniti in seduta straordinaria: questo testimonia l’autorevolezza del pontefice. Una nota diffusa qualche mese fa dalla Casa Bianca comunica che la vigilia dell’incontro ufficiale i due leader avranno un colloquio privato, per ribadire il comune impegno nell’affrontare molti problemi, ma con particolare attenzione “per gli emarginati e i poveri, la necessità di dare opportunità economiche a tutti, la salvaguardia dell'ambiente (…) l'accoglienza dei migranti e dei rifugiati nelle nostre comunità”.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

2 GIUGNO: LA FIABA DEL DIRITTO AL LAVORO

Pubblicato su Affaritaliani il 01.06.2015

Domani, 2 giugno 2015: 68° anniversario della Festa della Repubblica Italiana e della sua Costituzione. Cioè la Festa degli Italiani. Sarà celebrata con spettacoli solenni e manifestazioni significative, tra cui la tradizionale deposizione della corona d’alloro all’Altare della Patria, simbolo dell’Unità e della Libertà, come è scolpito sul marmo bianco dei propilei del Vittoriano a commento delle due quadrighe. Giornata, quindi, di festa, ma soprattutto di ammonimento e di riflessione per il popolo italiano, chiamato da quest’occasione a ricordare la passione e i sacrifici con cui i Padri hanno fatto l’Italia libera, unita, repubblicana e democratica. Un ricordo non retorico e fugace, ma ponderato e impegnato a verificare la fedeltà e la coerenza con cui oggi esso rispetta e onora il patrimonio culturale, morale, civile e politico da loro ricevuto in eredità.

 

L’Italia – dichiara l’articolo 1 della Costituzione - è “repubblicana” e “democratica”, in quanto “fondata sul lavoro”. Infatti, durante i lavori preparatori Giorgio La Pira aveva proposto di esplicitare maggiormente: “Il lavoro è il fondamento di tutta la struttura sociale, e la sua partecipazione adeguata negli organismi economici, sociali e politici è condizione del nuovo carattere democratico”; e Palmiro Togliatti aveva dettato ancora più incisivamente: “Lo Stato italiano è una Repubblica di lavoratori”. Dopo lunghi mesi di confronto e di dialogo fu accolta come lettura definitiva quella proposta da Amintore Fanfani, Aldo Moro e altri: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. I Costituenti, quindi, non hanno posto come fondamento della nostra repubblica democratica valori universali e, quindi, facilmente condivisibili e consocianti, quali l’uguaglianza, la fratellanza, la libertà, ma il lavoro considerato come strumento di liberazione del singolo cittadino, il quale, però, è chiamato a inserire la sua attiva operosità individuale nella cornice di progetti d’interesse generale per l’intera Nazione. Per questo motivo la Costituzione afferma in primo luogo i diritti inerenti al “pieno sviluppo della persona umana”, in quanto essi preesistono allo Stato e, in secondo luogo, assegna alla Repubblica il dovere di realizzare tutte le condizioni effettive di uguaglianza tra i cittadini (art. 3); in questo modo viene consegnata una Repubblica, che mira a obiettivi veramente grandi sia di gratificazione per il singolo e sia di servizio attento verso tutta la società. Però, questo significa anche che, finchè non si realizzerà questo dettato della Carta, in Italia non c’è una repubblica che si possa dire di fatto “democratica, fondata sul lavoro”.

 

A queste affermazioni molti cittadini italiani – e non solo dell’ultima generazione - avrebbero la sensazione di sentire il racconto d’una fiaba incantevole. Ai nostri giorni, infatti, il mondo del lavoro sembra piuttosto l’arena d’un circo, in cui si può assistere a spettacoli di scene tra l’umorismo dell’opera buffa e la disperazione della tragedia greca. Mentre molti “attori” dànno uno spettacolo allucinante fatto di annunci mirabolanti e rivendicazioni strabilianti, un’immensa folla di spettatori s’accalcano, si sfidano, competono, lottano nel tentativo fortunoso d’imbattersi in qualche generoso “donatore di lavoro”, che conceda loro – alle sue condizioni e per un tempo sempre definito - almeno lo stretto necessario per la sopravvivenza sua e dell’eventuale sua famiglia. Pian piano, forse senza avvedersene, gli italiani vivono e operano in una repubblica della precarietà, e non solo lavorativa. Ma una società precaria è necessariamente una società ferma e senza vitalità, spesso facile ostaggio della prepotenza e vittima sicura dell’indigenza. Il pericolo è grave, poiché è tutto l’assetto della Repubblica e della Costituzione che perde la sua struttura portante e smarrisce i suoi princìpi conduttori.

 

Per intercettare e interpretare adeguatamente il messaggio principale della festa del 2 giugno, allora, è opportuno ripensare come nacquero la Repubblica e la sua Costituzione. In ciò è di ausilio ciò che disse nel gennaio 1946 a un gruppo di giovani il padre costituente Piero Calamandrei: “Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate sulle montagne, dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità andate li, o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione”. E con preoccupata riconoscenza annotava: “Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse d’un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservati la parte più dura e più difficile (…). A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana”.

 

Il testo di tutta la Costituzione è nato dalla confluenza delle tre più importanti culture allora presenti in Italia, notevolmente diverse tra loro, ma pronte a cooperare per la ricostruzione del Paese: la cultura cattolica, quella liberale e quella socialista. In particolare, nella scelta di adottare una concezione peculiare di “persona” s’evidenzia il contributo ricevuto dall’ispirazione cristiana. E non sembra fuor di luogo, pertanto, che anche in questi nostri tempi, si faccia ricorso alle preoccupate diagnosi e alle illuminanti esortazioni dell’attuale papa riguardo il problema del lavoro umano. Quest’uomo fatto venire “dall’altra parte del mondo”, in quanto vescovo di Roma guarda i problemi italiani del lavoro; ma, in quanto responsabile universale d’una religione diffusa in ogni continente, conosce dall’alto del suo osservatorio la situazione del lavoro anche in prospettiva assolutamente universale. Da qui l’importanza e il significato più vero delle sue parole pronunciate in questi ultimi trenta giorni. Il 1° maggio scorso, infatti, intervenendo all’inaugurazione della Expo di Milano, esortava il mondo ivi convenuto a non vivere quell’evento come un bell’argomento, ma come preziosa opportunità per una ricognizione e un impegno comune a prendere consapevolezza e coscienza dei “volti” di milioni di persone che hanno fame; e sollecitava i rappresentanti delle numerose Nazioni presenti a prendere e usare il progetto dell’Expo come mezzo per dare “piena dignità al lavoro di chi produce e di chi ricerca (…). Che nessun pane – scandiva con energico convincimento – sia frutto di un lavoro indegno dell’uomo! E che non manchi il pane e la dignità del lavoro a ogni uomo e donna”. Il successivo 23 maggio, poi, ricevendo i militanti delle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, dopo aver evidenziato la globalizzazione della gravità dei problemi del lavoro, senza paura di divenire bersaglio di critiche e motivo di scandalo, ma imperterrito accusava: “L'estendersi della precarietà, del lavoro nero e del ricatto malavitoso fa sperimentare, soprattutto tra le giovani generazioni, che la mancanza di lavoro toglie dignità, impedisce la pienezza della vita umana e reclama una risposta sollecita e vigorosa”. E senza alcuna considerazione di prudenza, accusava a volto aperto e a chiare lettere la vera radice prima della mancanza di lavoro e dello sfruttamento dei lavoratori: “Troppo spesso – constatava - il lavoro è succube (…) di nuove organizzazioni schiavistiche, che opprimono i più poveri; in particolare, molti bambini e molte donne subiscono un’economia che obbliga a un lavoro indegno”. Sa di non fare alcuna invasione di campo ed è forte della sua quotidiana testimonianza personale di altruismo solidale e gratuito: senza parlare, ma coi gesti e coi fatti, dimostra ogni giorno che l’unico Dio è di tutti gli uomini, per cui tutti debbono vivere a immagine e somiglianza divine. E per primi ammonisce i “suoi”; pochi giorni prima, infatti, incontrando gli aderenti alle ‘Comunità di vita cristiana’ aveva detto: “Impegnatevi in politica, ma non a un partito, perchè è realmente convinto che non è nella natura e nei compiti della Chiesa essere o fare partito, ma che l’uomo anche cattolico deve fare politica, ma come servizio umile e dovuto, “come De Gasperi e Shuman, che hanno fatto politica pulita, senza sporcarsi”.

 

E’ una voce, di cui tutti gli uomini, in quanto uomini, hanno immenso bisogno soprattutto oggi. In tempi di smarrimento culturale e di confusione etica, di fronte a esempi privati e pubblici d’insensibilità umana e di gretto egoismo, davanti al vuoto di valide guide e di esempi illuminanti, bisogna salutare davvero provvidenziale ogni luce di speranza che viene offerta all’umanità.

giovedì 4 giugno 2015

LA RIFORMA DELLA SCUOLA VA AL SENATO

Pubblicato su Affaritaliani, Giovedì, 21 maggio 2015

La Camera dei Deputati congeda e invia all’esame del Senato il testo della riforma scolastica dal governo indicata come “Buona scuola”, ma osteggiata come “esecrabile” da docenti e studenti sostenuti da famiglie, forze politiche e sindacali. I senatori, quindi, hanno come compito primario esaminare quali potrebbero essere stati (e se continuano ad esserci tuttora) i motivi d’un così opposto giudizio.

In verità, per tanti decenni nell’Italia repubblicana s’è tentata una riforma della scuola, che ne segnasse davvero una svolta storica; ma s’è concluso sempre col produrre qualche ritocco marginale e talora persino negativo, a causa di resistenze in parte condivisibili, ma in parte biasimevoli, e che ora, in quest’ultima circostanza, sarebbe opportuno che anche Palazzo Madama ponderasse con imparzialità e decisione. La “Buona scuola” sostanzialmente contiene come princìpi ispiratori alcuni temi caldi: le competenze dei dirigenti da verificare periodicamente, la valutazione dell’operato dei docenti per un oggettivo riconoscimento anche economico, l’assunzione definitiva dei molti e diversi precari.

E’ appurato che la natura e il ruolo della scuola ne fanno una realtà atipica, composita e del tutto speciale, per cui richiede un approccio prudente e adeguato da parte di tutti: famiglia, società, politica, sindacati. Non si può fare a meno, comunque, di chiedersi, in prima istanza, chi e perché dovrebbero allarmare gli interventi proposti dal governo. E’ normale che il dirigente d’ogni struttura abbia l’incarico di decidere un progetto e scegliere almeno alcuni strumenti operativi con procedure appropriate e il più possibile condivise, al fine del perseguimento più sicuro degli obiettivi. Si pensi, tra l’altro, a un direttore sanitario, a un manager d’impresa, a un agente di eventi culturali: in tanto saranno chiamati a rispondere del proprio operato, in quanto sono essi stessi almeno corresponsabili della scelta e della gestione delle risorse economiche e umane a disposizione. Ogni componente del gruppo di lavoro, d’altra parte, s’interesserà certamente che vengano riconosciuti e valutati i propri meriti e demeriti con le ovvie conseguenze di successi professionali e di estimazione umana. Esitazioni per una qualche forma di valutazione potrebbe significare disistima personale, sfiducia negli altri, senso d’inferiorità.

Certo in questi termini si rappresenta la scuola ideale e si delineano le figure di dirigenti, docenti e operatori scolastici ipotetici, preparati professionalmente, corretti eticamente, integri moralmente, per cui sembrerebbe un discorso bello, ma vuoto d’ogni concretezza e utilità pratica. Eppure in ogni campo prefigurare l’ideale costituisce il primo passo concreto da cui partire, decisi a percorrere poi per intero il cammino necessario. Si tratta, allora, di prevedere pericoli e distorsioni. In primo luogo s’impone urgente l’adeguato investimento strutturale ed economico per la formazione professionale integrale anche in itinere sia dei dirigenti che dei docenti. E a questo riguardo bisognerebbe porre mano a non poche dinamiche delle università italiane. In secondo luogo è fondamentale individuare e fissare - ovviamente con metodi ispirati a democrazia e acquisiti nel massimo rispetto reciproco - norme precise di reclutamento, criteri oggettivi di selezione e di valutazione, per evitare i pericoli non infondati di discrezionalità, clientelismi e favoritismi.

Ma una periodica palese valutazione dell’attività e dei risultati della vita della scuola è assolutamente necessaria e doverosa nei confronti delle famiglie, che affidano i loro figli, e della società che impegna risorse di varia natura. Ora, osservando l’attuale realtà della scuola italiana è innegabile che negli ultimi decenni s’è assistito a un suo graduale e spesso radicale discredito. L’insegnamento è stato recepito sempre più come un generalizzato ripiego occupazionale soprattutto femminile, gli insegnanti sono stati descritti in molte sedi anche pubbliche come inadeguati, inoperosi, recalcitranti a ogni forma di rinnovamento e aggiornamento. Opinioni avvalorate, forse tacitamente ma sempre efficacemente, dal trattamento economico davvero ai limiti d’ogni decoro. Opinioni, però - altrettanto onestamente - non sempre ingiustificate e non del tutto infondate, se si riscontrano i comportamenti di alcuni dirigenti e docenti, riguardo le abilità manageriali, la serietà della preparazione delle lezioni, l’assidua puntualità della presenza e l’esemplarità nell’assolvimento d’ogni compito connesso alla funzione educativa. Ma perché gridare allo scandalo! E’ ovvio che anche nella scuola, come in ogni altro settore, ci possono essere persone censurabili, ma che non motivano né giustificano generalizzazioni fuorvianti e offensive.

Nella scuola, infatti, a fronte di alcuni casi negativi se ne registrano innumerevoli veramente nobili e degni d’ogni rispetto: è noto, del resto, che da sempre la scuola si è retta sulla dedizione professionale e sulla abnegazione umana soprattutto degli insegnanti, che hanno saputo scindere la consapevolezza dell’importanza del loro ruolo dalla considerazione da parte della società e della politica. Non si può sottacere una preoccupazione di più ampio respiro. Nel decidere i mutamenti nella scuola, è stato dato peso eccessivo (se non esclusivo) alle problematiche di natura economica, occupazionale e lavorativa soprattutto dei giovani, trascurando gli aspetti del loro sviluppo umano completo e integrale. E’ vero che oggi la dimensione della cultura prevalente (se non unica) è quella dell’economica, cui tutto il resto dev’essere commisurato e subordinato. Ma la scuola, se deve necessariamente restare aderente alla realtà storica, non può nello stesso tempo non salvaguardare con coerenza la sua missione essenziale: deve agire per preparare operatori e clienti del mercato globalizzato, ma nello stesso tempo per formare futuri cittadini di società sempre più a dimensione della dignità umana.

ITALICUM, MATTARELLA FIRMA: IL POPOLO TORNA "SOVRANO"

Pubblicato su Affaritaliani, Mercoledì, 6 maggio 2015

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha promulgato la legge elettorale, che gli è stata presentata dal Parlamento eletto dal popolo italiano, il quale in quest'occasione ha potuto esercitare la propria sovranità "nelle forme e nei limiti della Costituzione", cioè con tutte le modificazioni spesso sostanziali cui è stata sottoposta. Comunque, la nuova legge elettorale è legge e, quindi, da onorare, qualunque possa essere il giudizio dei cittadini, almeno finchè un successivo intervento legislativo non la corregga o la cancelli del tutto: è questo un fondamento giuridico, che affonda le radici nel diritto della Roma antica, e che s'era imposto in tutta la sua valenza morale già molti secoli prima nella Grecia con la testimonianza di Socrate, primo martire del modello di guida democratica.
I cittadini italiani, quindi, ora debbono rispettare la legge promulgata; e, tuttavia debbono nello stesso tempo, vagliarne responsabilmente più a fondo i contenuti; ma non per svilirli e denigrarli, bensì per scoprire possibili ulteriori indirizzi adatti a rinforzarne i pregi ed eliminarne eventuali carenze e pericoli. Nel loro agire concreto - dato che in Italia vige il sistema di democrazia rappresentativa - essi faranno ciò nei modi consentiti nei luoghi a ciò deputati. Bisogna partire, infatti, concretamente dal prendere atto di alcune modifiche sostanziali apportate negli anni anche al dettato costituzionale, sia formalmente e sia tramite la prassi. Si pensi alla trasformazione radicale della natura e del ruolo del partito politico.
Le nuove generazioni non possono più nemmeno immaginare cosa fosse prima degli anni '90 il partito politico disposto nell'articolo 49 della Costituzione quale "diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale"; e, di conseguenza non possono capire il significato autentico dell'articolo 67, quando prescrive che "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato". I partiti politici così intesi erano guidati da "maestri" esperti e buoni, che educavano a guardare più lontano e pensare progetti di bene comune. I partiti, pertanto, pur distinguendosi tra di loro per i valori che ciascuno propugnava come più urgenti, elaboravano progetti e proponevano programmi dettati dai reciproci convincimenti, ma tutti ispirati dal bene comune. E all'interno di ciascun partito si creavano indirizzi diversi, ma ugualmente fecondi e disponibili al dialogo leale e onesto. E sempre con relazioni di reciproco rispetto, anche nei momenti di confronto e di scontro.
Quando s'afferma ciò, talvolta si ha la sensazione d'essere abitanti d'un pianeta ormai scomparso. Infatti, ripercorriamo le modalità con cui le varie forze politiche hanno discusso il testo della legge ora promulgata; oppure riconsideriamo la qualità di linguaggio e i toni usati, spesso anche pubblicamente, da alcuni notabili della classe politica; oppure rivediamo certe scene sconcertanti avvenute nelle Aule parlamentari; oppure, infine, ascoltiamo il grido di sfida lanciato lo scorso 3 maggio dal premier a Bologna a chi s'azzardava di contestarlo: "Non ci facciamo certo spaventare da tre fischi: abbiamo il compito di cambiare l'Italia e la cambieremo, di non mollare e non molleremo". Ma basterebbe leggere il tweet scritto oggi dal premier per pubblicare la foto della sua firma in calce al testo della nuova legge: "Una firma importante. Dedicata a tutti quelli che hanno creduto, quando eravamo in pochi a farlo". Si rimane confusi, e non poco. Una classe politica ha il dovere di rispettare il decoro e la dignità dei cittadini; un autorevole rappresentante del popolo deve guardare sempre e comunque al bene della Nazione, prestando maggiore considerazione alla voce soprattutto di coloro che criticano e addirittura osteggiano. E' proprio dell'uomo politico in generale e di governo in particolare distinguere e valutare..

Ora, però, la nuova legge elettorale di cui è stato dotato l'elettore italiano - comunque sia stata proposta, discussa, ostacolata, difesa, approvata - apporta novità positive, benché mescolate a qualche pericoloso rischio. Infatti, se introdurre con norma costituzionale il modello di democrazia maggioritaria a livello nazionale è stato sempre un tentativo fallito per diversi motivi, negli ultimi vent'anni, però, con le non poche elezioni che si sono succedute, in maniera indiretta ma di fatto, i cittadini sono andati quasi convincendosi d'essere davvero loro a decidere chi avrebbe li governato: cioè, il capo indicato già sulla scheda elettorale di "uno dei due raggruppamenti" in competizione. Ora, con la nuova legge elettorale sarà il capo di "una delle due liste" che, a causa dei requisiti richiesti per ottenere il premio di maggioranza, rimarranno per sfidarsi definitivamente al ballottaggio. Quindi, concretamente sarà il ballottaggio il momento decisivo, in quanto, data l'alta soglia stabilita per ottenere l'assegnazione del premio di maggioranza, difficilmente vi sarà un vincitore al primo turno.

Ecco allora l'importanza del voto del singolo cittadino. I partiti anche in occasione del ballottaggio potranno mettere in campo loro vecchie e nuove strategie, ma sarà la coscienza civica e la responsabilità politica del popolo a scegliere il più idoneo tecnicamente e il più dotato eticamente, a cui affidare il governo per un intero quinquennio. Il ballottaggio, quindi, restituisce il potere concreto ai cittadini. Saranno essi a determinare il futuro dell'Italia, e non avranno alibi per attribuire ai "vizi" altrui eventuali negatività. Questa volta vale davvero che il governo è lo specchio del popolo. Certo non è compito facile né la prospettiva è incoraggiante: la vita politica italiana ha bisogno d'un valido e creduto supplemento d'umanità integrale, aperta alla totalità dei bisogni dell'uomo e all'ordine dei valori degni d'un popolo veramente progredito e civile.

mercoledì 20 maggio 2015

COSA FANNO I PARLAMENTARI

Pubblicato su Affaritaliani martedì, 21 aprile 2015


"Noi assistiamo alle esequie di una forma di governo", disse novant'anni fa, il 19 dicembre 1925, al Senato, nel celebre discorso di rifiuto della legge sulle prerogative del Capo del governo, Gaetano Mosca, dotto giurista, esperto senatore e rispettato membro del governo Salandra. La riforma che veniva proposta, compatibile con la lettera dello Statuto Albertino allora vigente, nella sostanza era preoccupante. E gli avvenimenti degli anni che seguirono diedero ragione al "vecchio" parlamentare, dimostrando nei fatti e con chiarezza che a rinforzare il regime fascista non furono l'energia volitiva del Duce e la capacità governativa del suo Consiglio, ma la debolezza e la paura di molti Membri del Parlamento. Lo strapotere del despota non si fonda mai sulle sue doti morali e sulla sua capacità governativa, ma sempre sulla debolezza e l'inadeguatezza dei cittadini, che, tramite l'atteggiamento e le scelte dei propri deputati, si mostrano incerti nell'esporre le proprie idee, timidi nell'avanzare le proprie proposte e, soprattutto, deboli nel difendere i propri convincimenti e fiacchi nel bloccare il capo, ogni qualvolta pretenda - anche al fine encomiabile di incrementare progresso e garantire felicità - di usare irragionevolmente metodi non accettabili, perchè spesso al limite della legalità e comunque estranei al costume di una vita veramente "democratica e popolare", per cui offendono dignità umana e diritti politici.

E' deludente, quasi disarmante, assistere oggi a "delegati d'un intero popolo", che pretendono a loro volta di delegare codardamente al Presidente della Repubblica azioni e iniziative, che sanno bene che la Costituzione preclude al Capo dello Stato e impone, invece, proprio a loro che sono i detentori del Potere Legislativo. Coloro che hanno il dovere di interpretare e difendere il bene comune della Nazione, s'attardano a dichiarazioni di rito e a insensate minacce verbali spesso indegne, attendendo speranzosamente un qualche intervento dall'alto per fare ciò che solo il Parlamento - nella sua collettività e nei singoli componenti - può e deve proporre a nome del popolo e imporre per il bene del popolo! Se la maggioranza di parlamentari eletti dal popolo, secondo leggi da loro stessi approvate, consente al Governo - da essa voluto e mai sfiduciato - comportamenti arroganti e di fatto al limite d'ogni vera democrazia; se un'intera classe politica, formatasi e costituita secondo norme e procedure da se stessa create, ha dato e mantiene in vita questo Governo, non è proprio il caso che si gridi allo scandalo e s'invochi qualcuno a porre rimedio. Tocca a loro: alla classe politica prendere posizione; è dovere d'ogni parlamentare - delegato secondo la Costituzione a governare senza vincolo di mandato e in nome del popolo e per il bene del popolo - assumersi le sue responsabilità e ad agire secondo il dettato della sua ragione.

Non siamo più nella Firenze governata dai Medici, né il popolo italiano è quella massa amorfa e grezza pensata e descritta dal fiorentino Machiavelli, né i cittadini italiani sono disposti ancora oggi a stare a sopportare chi volesse governarli da capo "furbo come una volpe e forte come un leone", cambiando aspetto da situazione a situazione. Il popolo italiano non accetta più d'essere ingannato, né ha più paura di reagire alla corruzione e incapacità di chi lo governa. Solo la saggezza della ragione dei cittadini italiani e la loro responsabilità civile li sostengono ad assistere tristemente ma dignitosamente anche agli ultimi spettacoli vergognosi offerti nelle Aule Parlamentari. I cittadini aspettano che si passi dalle comparse ai fatti: non significano nulla né il lancio delle frasi indegne per tutti né il tiro dei fiori persino oltraggiati nel loro nobile e sacro significato. E "i fatti" stanno nel potere di voto d'ogni parlamentare, esercitato a viso aperto e dettato da ragione e coscienza, non da calcoli privati e ricatti nascosti.

Novant'anni fa l'ormai vecchio parlamentare Gaetano Mosca, annunciando il proprio voto contrario a una riforma proposta dal governo Salandra (di cui, peraltro, era ministro) avvertiva che mutamenti proposti come strumenti più adatti a un governo efficace, in realtà implicavano cambiamenti radicali del sistema di governo, che rischiavano di compromettere diritti civili, equità sociali, doveri politici e persino valori etici della nazione intera, già in piena crisi morale ed economica di quegli anni (non molto dissimili dai nostri). Probabilmente si trattava di cambiamenti addirittura necessari; ma erano proprio le modalità, con cui li si stava proponendo e perseguendo: procedimenti innovativi esageratamente rapidi potevano nascondere qualche "salto nel buio" dettato dall'impulso frenetico d'una "nuova generazione, che crede di sapere tutto e di poter tutto mutare". Proprio per questo, terminava le sue parole, dichiarando umilmente che sentiva come suo "forte dovere di ammonirla".

Sono passati circa novant'anni: forse non pochi perché gli "anziani" e le "nuove" generazioni del nostro tempo rileggano la nostra storia, prendendo qualche utile lezione.