Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

lunedì 4 maggio 2015

I BENEFICI DELL'ALTRUISMO


Il Sole24Ore del 4 Maggio 2015 ha ospitato in "Commenti &Inchieste" una recensione del volume di Peter Singer "The Most Good You Can Do".
 
La trascriviamo, offrendola all'attenzione di altri. Infatti, se ne potrà condividere con felice stupore il messaggio, in considerazione della qualità dello scenario di idee e di fatti, cui oggi s'assiste in molti ambiti e a ogni livello.
 
"Gli esseri umani possono davvero sentirsi motivati dall’altruismo? Il mio nuovo libro “The Most Good You Can Do” illustra la comparsa di un nuovo movimento denominato Effective Altruism (Altruismo efficace) e mentre facevo interviste per documentarmi sono rimasto sorpreso da quanto spesso sia formulata questa domanda.

Perché dovremmo dubitare dell’agire a fini altruistici di alcune persone, quanto meno in alcune occasioni? In termini di evoluzione, possiamo comprendere facilmente l’altruismo verso un congiunto o un prossimo in grado di ricambiare l’aiuto che diamo. Pare plausibile supporre che, una volta sviluppatasi a sufficienza la nostra capacità di ragionare e riflettere per capire che anche gli sconosciuti possono soffrire e godere la vita quanto noi, almeno alcuni tra noi agiscano altruisticamente anche nei confronti degli sconosciuti.

Gallup, società di sondaggi d’opinione, ha intervistato persone di 135 paesi, chiedendo se negli ultimi mesi avessero effettuato donazioni per beneficienza, se si fossero attivati come volontari in qualche organizzazione o se avessero aiutato un perfetto estraneo. Dai risultati, raccolti per il World Giving Index 2014, risulta che quasi 2,3 miliardi di persone, un terzo della popolazione mondiale, compie almeno un’azione di puro altruismo al mese. (...)

Il movimento Altruismo Efficace è formato da persone che donano con il cuore e con il cervello. Scopo della loro donazione è ottenere il massimo possibile dalle risorse che sono disposti a mettere da parte per tale fine.

Tra queste risorse può esserci un decimo, un quarto o perfino la metà delle loro entrate. Il loro altruismo può concretizzarsi in tempo e talenti, e influenzare la loro scelta di una carriera. Per perseguire il loro scopo, usano la logica e si documentano per assicurarsi che qualsiasi risorsa loro dedichino a fare del bene sia quanto più possibile efficace.

Da numerosi studi risulta che chi è generoso in genere è più felice e più soddisfatto della propria vita rispetto a chi non fa beneficienza.

Da altre ricerche sappiamo che l’atto di donare porta ad attivare anche i circuiti cerebrali della ricompensa (le aree del cervello stimolate da cibi stuzzicanti e dal sesso).

Ciò non significa, tuttavia, che questi donatori non sono altruisti. La loro motivazione esplicita è aiutare gli altri, e donare li rende più felici soltanto in conseguenza del fatto che il loro aiuto effettivamente aiuta gli altri.

Se esistessero più persone di questo tipo, si donerebbe di più ed è questo che noi tutti vogliamo. Definire l’“altruismo” in termini così stretti, al punto che si ritiene opportuno utilizzare questa parola soltanto quando la donazione appare in contraddizione con l’interesse generale e complessivo di una persona, significa mancare completamente di centrare il punto: la situazione migliore da auspicare è quella nella quale promuovendo gli interessi degli altri si agisce in armonia per promuovere anche i propri".

Traduzione di Anna Bissanti

 

sabato 2 maggio 2015

L'INFINITO


 
L’intreccio complicato e aggrovigliato dei fili della matassa dell’esistenza individuale dell’uomo si compatta lentamente, inesorabilmente, palesemente, lucidamente man mano che scorrono i giorni dell’età umana non più verde.
 
La compattezza del groviglio si rinserra sempre più e lascia sempre meno interstizi e sfilacciamenti, spesso provvide fessure per mantenere qualche possibile contatto con le realtà esterne circostanti. Si forma sempre più distintamente un unico blocco, in cui ci si sente assolutamente chiusi e circoscritti nel proprio essere: non angoscia di vertigine, ma freddo gelido contatto con se stessi soli, interi, senza peduncoli e filamenti o appendici e legamenti con altro non voluti e comunque non graditi, ma talora convenienti per poter condividere sensazioni con altri o addossare ad altri cause del nostro vivere, riferendo loro sentimenti di piacere o di dolore.
 
Essere umano solo: unico autore dei propri giorni di vita, unico titolare delle proprie azioni positive e negative, unico e solo con se stesso. Non moti di triste rimpianto, non bisogno di respiro libero, non voglia di giustificare il passato o illuminare il presente o immaginare altri giorni di esistenza futura. Ma, immobilità ormai pronta ad accogliere l’inesorabile destino proprio dell’essere umano; coscienza chiara e solida, profonda e pacata che “questo è il mio essere”: tutto mio, solo mio. Nel passato, nel presente, nel futuro; ma non più segmenti d’una linea misteriosa e ignota, ma totalità atemporale, in cui tutto diventa concreto, indelebile, vivo e vivificante. Tutto ciò che mi ha circondato durante il tempo, come fine o come mezzo, come valore o come inciampo, come senso della vita o come negazione di virtù, tutto comincia quasi a svanire, allontanandosi e rifugiandosi in un distacco non cercato ma sopravvenuto, non desiderato ma pacificante.
 
Serenità e pace interiori, tutte proprie, che niente e nessuno potranno scorgere e che a nessuno dovranno essere comunicate. Nessuno le contaminerà né le dissacrerà. Presagio della fine? No. Possesso potente esistenziale, solo possesso totale di sé sublimante ed emozionante: in compagnia di un passato voluto o più spesso condizionato e addirittura determinato da situazioni e circostanze, tanto che si desidera con forza di volere vivere responsabilmente il proprio presente e programmare liberamente il proprio futuro. Sintomo di depressione morale? No. Bisogno, solo bisogno di possedersi tutto intero, senza attendere gli eventi e le risposte dal mondo temporale, per continuare a donare gratuitamente il proprio essere a chiunque voglia parteciparne, ma senza alcun contraccambio. Ma, nello stesso tempo, distaccarsi gradualmente, consapevolmente, volontariamente da ogni realtà fisica e spirituale, che alla fine del corso della vita, prima o poi, ci sarà tolta senza il nostro consenso. Bisogno, quindi, di fondere l’esistenza con l’essere. Finalmente. Momenti che non vanno temuti, ma amati e accarezzati; che non vanno allontanati, ma accolti e sciolti nel proprio animo. Solo allora, “naufragando” in questa indistinta immensità, ci si intuisce parte indistinta dell’Infinità. 

LA POLITICA TRA POTERE E SERVIZIO

Pubblicato su Affaritaliani martedì, 21 aprile 2015

Renzi e Pisapia due esempi, o meglio due modelli d'intendere e fare politica. Da una parte la politica di un governo che s'affanna a fare tutto, in fretta e quasi sempre da solo; dall'altra la politica di due persone che agiscono con prudente pazienza e con tempi ritmati....

giovedì 16 aprile 2015

SENZA DISTINZIONE NON C'E' VERITA'

Pubblicato su Affaritaliani col titolo “Le sentenze un po’ grossolane di Matteuccio”. Martedì. 24 marzo 2015
 
Nel discorso rivolto agli studenti della LUISS oggi pomeriggio (lunedì 23 marzo), il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha parlato a tutto campo, optando con decisione per la tattica dell’attacco generalizzato. Non s’intende assolutamente mettere in dubbio la sincerità delle convinzioni del premier, che del resto ha chiesto la copertura dello stesso Montesquieu,  né d’altra parte si ha intenzione (almeno per il momento e per la natura e le  finalità di quest’intervento) di entrare nel merito del molteplice e notevole operato del suo governo. Ma solo alcune precisazioni, per evitare che la vivacità della parola e la forza trainante della retorica nascondano pericolosi fraintendimenti.
 
A ciò spinge anche l’ammonimento lanciato dal filosofo-psichiatra austriaco Victor Emil Franckl: “L’uomo non agisce solo per ciò che è, ma diviene anche per ciò che fa” e, ovviamente, anche per il modo con cui lo fa: e vale sia per i singoli individui che per i popoli interi. Le modalità con cui si decide una scelta, quindi, sono fondamentali soprattutto oggi, nell’attuale società, dominata dall’insicurezza e dall’incertezza, per cui è apprezzabile un atteggiamento ispirato a decisionalità. Decisionalità che, però, non va confusa e tanto meno identificata con il decisionismo, alimentato dalla tentazione di prendere decisioni in maniera rapida, senza la necessaria ponderazione e, soprattutto, senza adeguate consultazioni, ostentando spesso eccessiva sicurezza in se stessi, che fa rimanere chiusi nella logica del proprio pensiero e non fa ascoltare nessun altro interlocutore. Per cui si pensa d’avere sempre ragione, convincendosene sempre di più con il ripeterselo. La decisionalità è davvero efficace solo e quando si sostanzia della ponderatezza ragionevole, del dialogo disponibile, della responsabile previsione d’ogni possibile conseguenza nel medio e lungo termine, dell’onestà intellettuale di riconoscere propri eventuali errori e dell’umiltà morale di porvi rimedio. Tutte qualità difficili a trovarsi simultaneamente in uno stesso uomo e in una medesima situazione.
 
Quando il premiere afferma con convincimento per noi sospetto: “Deriva autoritaria è il nome che tali commentatori un po' stanchi danno alla loro pigrizia”, sembra confondere la “legittimazione a prendere decisioni” con le modalità proprie di quel sistema politico “democratico” che concede tale legittimazione. E certi procedimenti nel prendere decisioni segnano un confine sottilissimo con il decisionismo, che fa riemergere paure di sistemi non proprio democratici. Non sempre di “pigrizia”, quindi, si può trattare, ma talora forse di quella saggia esperienza, che già il vecchio e scaltro Cicerone attribuiva come prerogativa all’età avanzata (che mai avrebbe pensato di “rottamare”, ma certo di fruirne!).
 
E così suscita preoccupazioni l’altra affermazione del premier: "Se consentiamo di stabilire un nesso tra avviso di garanzia e dimissioni, stai dando per buono il principio per cui qualsiasi giudice può, non emettere una sentenza (che sarebbe anche comprensibile), ma iniziare un'indagine e decidere sul potere esecutivo". Esatto. Ma ci si sarebbe aspettato che il premier, nel rivendicare giustamente la “centralità della politica”, avesse aggiunto - con franca onestà e autentica libertà di pensiero - che la dignità del mondo della politica e la trasparente intaccabile moralità del politico, da parte loro, non dovrebbero dare mai adito alla magistratura di “dettare l’agenda dei governi”.
 
 
 

 

 

 

venerdì 20 marzo 2015

SCUOLA, LA RIFORMA MERITA SERIETA'

Pubblicato su "Affaritaliani"  il 6 marzo 2015

L'annunciata riforma "storica" della scuola, annunciata come vera rivoluzione epocale e perno della ripresa globale della vita civile e politica dell'Italia - come è stato spesso dichiarato dai governanti del momento - è stata affidata a un Disegno di Legge, che il Parlamento dovrà approvare (come è stato avvertito dall'Esecutivo) entro metà aprile, cioè circa 40 giorni. Se ciò non avverrà, la gravità e l'urgenza della riforma farà sentire il governo "costretto" all'adozione della decretazione d'urgenza, per la cui conversione in legge, però, il Parlamento avrà ben 60 giorni. La motivazione di questo strano comportamento la spiega lo stesso Presidente del Consiglio Renzi in un'intervista rilasciata all'Espresso: "Sulla scuola - ha detto - ci siamo impegnati con il Presidente della Repubblica e con le opposizioni a presentare meno decreti possibile. Mettiamoci d'accordo: prima mi accusano di essere un dittatore, che vuol fare tutto da solo; se presento un disegno di legge aperto alla discussione, mi accusano di non decidere".

Il premier, allora, rivela, o almeno fa intuire, le vere ragioni della sua obbligata azione: "concedere" anche solo formalmente alla Camere Legislative almeno un po' del potere attribuito loro dalla Costituzione e che ogni Presidente della Camera dei Deputati (lungi dall'uscire dal perimetro della propria autorità e invadere il perimetro delle competenze altri) ha il dovere istituzionale di garantire e di difendere le prerogative dell'Istituzione presieduta. Infatti, se la riforma della scuola è davvero "urgente" (come ha dichiarato il sottosegretario Faraone) e richiede lealmente "una discussione ampia" (come ha detto esplicitamente Renzi) la procedura più congrua e lineare è semplice: il Consiglio dei Ministri licenzi un testo di riforma ben definito in ogni suo aspetto e lo sottoponga alla fiducia del Parlamento, che saprà certamente valutare le proposte dell'Esecutivo nella loro oggettiva portata.

Da molte parti (politiche, sindacali sociali) si sospetta, comunque, che dietro tutta l'enfasi delle procedure da adottare e della tempistica da rispettare ci siano difficoltà molto più serie, che solo chi ha vissuto e operato nella scuola conosce.

La scuola ha una problematica molto delicata e complessa: nelle aule scolastiche non c'è una fabbrica, un opificio o una azienda, ma vite umane d'indiscutibile valore e dignità; c'è il futuro concreto delle nuove generazioni, cioè la qualità della vita dei singoli e di tutto il popolo italiano. C'è il futuro dell'Italia affidato a operatori scolastici (docenti, amministrativi, tecnici, ausiliari), che quotidianamente dedicano forze fisiche ed energie culturali, spesso ignorati e talora persino non trattati dignitosamente. E non solo e non tanto per l'aspetto economico: da sempre la scuola si è retta sulla dedizione professionale e sulla abnegazione umana degli insegnanti, che hanno saputo scindere la consapevolezza dell'importanza del loro ruolo dalla considerazione da parte della società e persino dall'indecorosa retribuzione economica. Per questo il mondo della scuola pretende serietà vera e richiede responsabilità convinta, onde guardare al di là dell'immediato e dai risvolti puramente partitici e di successi personali, che non sempre comunque sono da biasimare; anche quando si rischia d'essere considerati e dichiarati "dittatori"; il dittatore non è necessariamente un tiranno: ci sono state e possono esserci sempre nobili figure di dittatori, alieni da ogni vanità, da ogni sfarzo, da ogni esteriorità, al servizio del bene comune.

martedì 17 marzo 2015

POTERE COME SERVIZIO, SPERANZA NELL'ERA MATTARELLA

Pubblicato su "Affaritaliani" mercoledì, 25 febbraio 2015

All'imprevedibile stupore per i forti messaggi della "Enciclica dei gesti", che Papa Francesco (o, meglio, Francesco, vescovo di Roma) lancia ormai quotidianamente, fa seguito un inaspettato sconcerto per il comportamento normale del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Entrambi ai vertici d'un alto potere loro affidato, continuano entrambi a vivere la quotidianità come uomini e cittadini comuni, che adempiono con consapevolezza e senso del dovere ai compiti loro fiduciosamente affidati e da loro liberamente accettati. Crea forte incredulità, tuttavia, che a stupire siano la normalità umana e la dignità istituzionale, che rendono comprensibile, accettabile e persino piacevole l'esercizio del potere come servizio disponibile a tutti e non come supremazia da esercitare su tutti. Crea meraviglia un Presidente della Repubblica, che esce da casa in panda, che usa un volo di linea per recarsi a visitare i suoi cari defunti, che utilizza due mezzi pubblici per andare da Roma a Firenze, per presenziare alla Scuola Superiore della Magistratura l'inaugurazione dei corsi di formazione del 2015.

Stupore e incredulità, tanto opposti sono stati per decenni gli spettacoli offerti dalle varie "cariche pubbliche". E il neo presidente della Repubblica (come già anche il pontefice romano) va diritto non solo nelle forme, ma soprattutto nella sostanza concreta dei problemi reali e, senza alcuna esitazione, anzi con cipiglio mite ma risoluto e, quindi, indisponibile a qualunque aggiustamento improprio, avverte chiunque che le problematiche debbono essere considerate nell'ottica delle esigenze del popolo e risolte nella prospettiva del maggior bene comune. A partire dal potere giudiziario, terzo insieme a quello legislativo ed esecutivo. "I magistrati - scandisce - siano terzi, autonomi e imparziali, né protagonisti né burocrati nel processo"; e a richiedere ciò con urgenza non è qualche tattica compromissoria tra i poteri pubblici o qualche convenienza di equilibri tra i partiti politici, bensì il "bisogno di legalità fortemente avvertito nel Paese". Per soddisfare questo bisogno la stessa magistratura è invitata a darsi "delle strategie organizzative volte al recupero di efficienza", proprio perché è lo stesso ordinamento della Repubblica che "esige che il magistrato sappia collegare equità e imparzialità, fornendo una risposta di giustizia tempestiva per essere efficace, assicurando effettività e qualità della giurisdizione".

Da questo modo di comportarsi del presidente Mattarella sono avvisati gli altri due poteri (Parlamento legiferante e Governo esecutivo) e i responsabili dei partiti politici.

Il Governo proclama e minaccia di "andare avanti per la sua strada", interpretando ogni richiesta di confronto come tentativo di rallentare il cammino e accusando ogni posizione diversa dalla sua come volontà conservatrice. Il Governo s'appella alla decretazione d'urgenza e alla richiesta di fiducia (talora ricattatoria), dalle altre parti si minaccia l'ostruzionismo delle Camere e la contestazione delle piazze. Tutti sono d'accordo ad invocare e reclamare l'intervento del presidente Mattarella. Ma il neopresidente ha fatto sapere che ogni tema, che sarà proposto al suo esame, sarà "esaminato scrupolosamente sotto il profilo della necessità e dell'urgenza". Del resto, nel suo discorso di insediamento Mattarella ha fatto capire - ovviamente a chiunque avesse voluto capire - che suo impegno sarebbe stato quello di riportare la vita politica e istituzionale alla normalità: "Vi è anche la necessità di superare la logica della deroga costante alle forme ordinarie del processo legislativo, bilanciando l'esigenza di governo con il rispetto delle garanzie procedurali di una corretta dialettica parlamentare". Fondandosi su solide basi, anche la Presidente della Camera Laura Boldrini aveva sanzionato il potere esecutivo, in quanto " bisognava considerare i pareri dati dalle Commissioni".

L'arbitro è imparziale. Forse i giocatori non gli facilitano il compito: qualora si propongano di fare, basta che guardino un po' di il là del loro recinto ed esercitino il potere come servizio per il bene comune. Guardando, come modello, ciò che fanno papa Francesco e il presidente Mattarella.

mercoledì 25 febbraio 2015

PER UN PROFILO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

 
Pubblicato su Affaritaliani il 18 gennaio 2015:
Quirinale, il Palazzo è troppo lontano dal popolo

Non sarebbe forse auspicabile che ci si preoccupasse di ascoltare e interpretare anche le esigenze del popolo, per verificarne "l'aria che tira"?

“La scelta (del Presidente della Repubblica) – ha scritto Sabino Cassese sul “Corriere della Sera” di oggi (domenica 18 gennaio) - ha premiato una esperienza e ha confermato il rapporto Parlamento-presidente-governo”, puntualizzando che i cittadini stanno attenti “non tanto a chi salirà al Quirinale, quanto alle modifiche costituzionali e alla legge elettorale, perché le istituzioni contano più degli uomini”. Per questo invita a “guardarsi indietro e vedere come sono stati scelti i presidenti italiani”. Analisi e preoccupazioni del tutto condivisibili, salvo da aggiungere che la storia italiana dell’ultimo ventennio repubblicano documenta che le “istituzioni” nel passato non molto remoto erano lo specchio (soprattutto) della libera volontà del popolo italiano e non solo (o soprattutto) il risultato dell’azione di alcuni partiti, così come si sono evoluti fino ad oggi. E questa preoccupazione sembra essere confermata dagli ultimi atteggiamenti della politica.

 Infatti, qualche giorno fa il premier Matteo Renzi ha fatto sapere ai suoi: “Nelle 24 ore precedenti al primo voto formalizzeremo la proposta del Pd, riunendo gruppi e grandi elettori”; a completarne il pensiero è intervenuto il presidente del Pd, Matteo Orfini: “I prossimi giorni – ha specificato - si capirà che aria tira dentro al Pd e dentro Forza Italia”; qualche giorno dopo il presidente emerito Napolitano, durante la festa tributatagli nel rione Monti a Roma, con parole misurate e asciutte ha augurato per il suo successore, “chiunque sia, uomo o donna, di fare bene il proprio lavoro, applicarsi molto ai problemi, ed è importante che si torni dopo un periodo eccezionale alla normalità”. E Renzi tempestivamente non ha mancato di rassicurare: “La solidità istituzionale sarà un elemento di assoluto rilievo”. E questo sembra voler essere il senso anche dell’auspicio che, in occasione dell'inaugurazione del palazzo restaurato del consolato di Firenze, John R. Phillips, ambasciatore degli Usa in Italia, ha formulato: "Noi speriamo che gli italiani cerchino di trovare qualcuno che abbia la statura e le capacità che il presidente Napolitano ha sempre continuamente dimostrato".

Per raggiungere questi obiettivi, i responsabili dei vari partiti si stanno dedicando febbrilmente a incontri chiarificatori e a reciproche consultazioni con esperti variamente qualificati, consapevoli della loro responsabilità: vagliare e armonizzare – secondo la stessa ragion d’essere d’ogni azione politica – le esigenze espresse dalle varie parti, tentando al massimo ogni concreta possibilità di accordo e di consenso. Analizzando, però, rigorosamente comportamenti ed esternazioni dei vari capi, nasce, appunto, la forte perplessità. In tutte queste pur lodevoli fatiche della politica, per dare una guida valida al Paese, quanto popolo italiano è rappresentato o comunque “ascoltato”? Non sarebbe forse auspicabile che ci si preoccupasse di ascoltare e interpretare anche le esigenze del popolo, per verificarne “l’aria che tira”? Ovviamente si tratterebbe di frugare nelle menti e di penetrare negli animi della totalità dei cittadini italiani, sia di quelli che i partiti presumono coinvolti e interessati sia di quelli che la politica degli ultimi tempi sta sempre più allontanando dalle istituzioni, tanto da renderli addirittura persone di primo piano della cosiddetta antipolitica, proprio perché molti fatti li obbligano a considerare l’attività politica come conquista del potere solo per interessi privati o di parte e non certo per il bene comune. Oggi, la priorità delle priorità è dare all’Italia un Capo dello Stato capace e degno, che miri, però, soprattutto a riabilitare il ruolo naturale della politica: cioè, potere come attaccamento al bene comune costruito mediante l’unificazione degli animi di tutti, ora lacerati da lotte ideologiche e spossati da governi inadatti e non di rado persino ostili.

La figura di Giorgio Napolitano, ovviamente, non può essere proposta come modello: troppo breve è il tempo trascorso, perché gli animi siano sereni nel valutare e oggettivi nel giudicare. E allora, seguendo il suggerimento anche di Cassese, ripercorriamo qualche pagina della storia, per rintracciare - ove ce ne fosse - qualche esempio valido e utile. Ora, la complessità dell’attuale situazione internazionale,  le difficoltà della politica nazionale presente, la problematicità della sicurezza e i problemi del mondo del lavoro richiamano (in tutto o in parte) i tempi, l’opera e la testimonianza – tra gli altri - di Sandro Pertini. Non sarebbe fuor di luogo, pertanto, che i “grandi elettori”, che il 29 gennaio prossimo voteranno per eleggere il futuro Presidente, si voltino un po’ indietro e meditino la lezione che quest’indiscusso Padre della Patria ci ha lasciato. La candidatura di Pertini al Quirinale emerse, di fatto, l’8 luglio 1078, sessanta giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro e al sedicesimo scrutinio, dopo una complicata ricerca d’intesa tra le forze politiche: e fu eletto con 832 voti su 995 votanti. Nel messaggio al Parlamento subito dopo l’elezione non ebbe alcuna reticenza a dichiarare con ardita trasparenza: “Non posso non ricordare che la mia coscienza di uomo libero si è formata alla scuola del movimento operaio di Savona e che si è rinvigorita guardando sempre ai luminosi esempi di Giacomo Matteotti, di Giovanni Amendola e Piero Gobetti, di Carlo Rosselli, di don Minzoni e di Antonio Gramsci,mio indimenticabile compagno di carcere. Ricordo questo con orgoglio, non per ridestare antichi risentimenti, perché sui risentimenti nulla di positivo si costruisce, né in morale, nè in politica. Ma da oggi io cesserò di essere uomo di parte. Intendo essere solo il Presidente della Repubblica di tutti gli italiani, fratello a tutti nell’amore di patria e nell’aspirazione costante alla libertà e alla giustizia”.

“Intendo essere solo il Presidente della Repubblica di tutti gli italiani”: di questo c’è bisogno anche oggi per l’Italia. E’ necessario certamente dotare il nostro Paese d’un Capo di Stato, che sia pronto a stanare la probabile inerzia del Potere Legislativo, attento a sollecitare riforme e provvedimenti necessari  per la soluzione dei molti e gravi problemi, solerte nel guidare e garantire i limiti legittimi d’ogni Potere costituzionale. Ma che sia prima e soprattutto preoccupato a costruire le fondamenta su cui basare tutto ciò: far riappacificare i cittadini tra di loro e far rinascere in loro l’amore verso le Istituzioni, che – sotto la sua vigilanza - dovranno essere virtuose e credibili. “Non dimentichiamo – avvertiva Pertini – che se il nostro paese è riuscito a risalire dall’abisso in cui fu gettato, lo si deve anche e soprattutto all’unità nazionale realizzata allora da tutte le forze democratiche. E’ con questa unità nazionale che tutte le riforme (…) potranno essere attuate. Questo è compito del Parlamento”. Si sente da varie parti reclamare un Capo dello Stato con particolari requisiti. Opinioni tutte lecite e comprensibili. I comportamenti di Sandro Pertini dimostrano che ogni uomo ha una sua storia personale, per cui  sembra più saggio valutare lo spessore e il valore d’un uomo non tanto da ciò è stato, quanto piuttosto da quanto sarà capace di evolvere, divenendo sempre idoneo alle responsabilità, che gli vengono affidate e di cui vorrà liberamente farsi carico.

 

 

lunedì 5 gennaio 2015

LA RIFORMA DEL TERZO SETTORE, URGE UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

Pubblicato da "Affari Italiani", Mercoledì, 3 dicembre 2014

La riforma del terzo settore, urge una rivoluzione culturale
di Cosimo Scarcella*

Il Presidente del Consiglio, intervenuto al convegno organizzato per la Giornata internazionale delle persone con disabilità, ha comunica che la delega sulla riforma del Terzo settore andrà in Aula nei primi mesi del prossimo anno. La Commissione Affari Sociali a Montecitorio, di fatto, dopo aver ascoltato nelle ultime due settimane le realtà interessate e comunque coinvolte al problema, è in grado di aprire i termini per la presentazione degli emendamenti e per la discussione nei dettagli sul testo del Disegno di Legge Delega da portare alle Camere. Si tratta, in sostanza, di legiferare sul modello d’impresa sociale, che si ha in mente di promuovere, realizzare e sostenere.

Nel testo approvato dal Consiglio dei Ministri il 10 luglio 2014 è già chiara la visione globale del governo, che sottende sia i motivi che gli obiettivi della riforma proposta; cioè, riordinare la normativa che disciplina attualmente il terzo settore, corredandola di più adeguati strumenti atti a formare un sistema sociale, che garantisca a ogni cittadino la partecipazione responsabile e personale per la crescita, l’occupazione e lo sviluppo di tutti. In termini diversi: coinvolgere l’intera società cosiddetta civile a divenire promotrice autonoma di bene comune. A tal fine è davvero rilevante lo spirito e la serietà, che animano il legislatore: determinare rigorosamente i confini d’ogni attività di terzo settore; favorire i principi di sussidiarietà orizzontale e verticale sanciti nella Costituzione; deliberare valide forme di sostegno giuridico e finanziario; incoraggiare l’evoluzione del mondo del non profit in impresa sociale, soggetto anche economico e, quindi, creatore di occupazione, sviluppo e ricchezza comune.

Sono note le perplessità che provengono da varie direzioni e riguardanti diversi aspetti dell’aggrovigliato mondo del non profit e del complicato comparto dell’intero volontariato. Si teme, infatti, che resti tutto nuovamente scritto nel libro dei buoni propositi per la scarsezza di risorse e che si continui a “usare” il terzo settore come stampella dell’economia pubblica dello Stato e dell’economia privata del Mercato. Settore, appunto, “terzo”: che viene, cioè, solo dopo i primi due, e solo per raccoglierne i residui inutili, onerosi e soprattutto non redditizi; nella migliore delle intenzioni, considerati opportuno strumento per colmare le inefficienze e danni causati dalla crisi dell’attuale modello socio-politico-economico dominante nell’Occidente. Oltre alle incertezze provenienti da questi assetti istituzionali, non meno forti sono i dubbi, che nascono per il ruolo e il coinvolgimento degli Enti Locali, che sono in definitiva i concreti “gestori” delle iniziative del terzo settore e del volontariato. Unanime, infatti, è la condivisione del proposito di ampliare i settori economici, in cui potranno operare le nuove imprese sociali - come il commercio equo e solidale, l’inserimento dei disoccupati, l’accoglienza sociale, il microcredito -; diversificata e, quindi, discutibili e tutti da verificare sono, invece, altri aspetti vitali per la solidità e la sopravvivenza d’ogni futura impresa sociale. Non ci si può non preoccupare, per esempio, di definire il limite minimo dei ricavi dal mercato di ciascuna impresa, di stabilire il limite massimo della distribuzione degli utili, di riconoscere la capacità imprenditoriale di ottenere un ritorno sul capitale sociale. A questo riguardo sembra necessario, pertanto, inventare e introdurre nuovi e adeguati modelli di valutazione e di controllo.

Ogni movimento culturale e ogni progetto di vita sociale ed economica nasce e si alimenta d’un proprio insieme di valori logicamente elaborati, verificati dall’esperienza e confermati dai risultati. Di conseguenza sembra vano porsi al di fuori del sistema Stato e criticarlo per azioni che vanno aldilà dell’economia pubblica; e così per l’economia privata di Mercato. Qualora non se ne condividano le ragioni, è lecito segnalare gli effetti negativi per tutti e invitare a correggere alquanto il passo. Ma giammai ad auto annullarsi e cedere il posto a chi vuole essere promotore d’una nuova modalità di vita. Ragionevole sembra essere, invece, proporre una propria visione alternativa di vita privata e comunitaria e, attraverso confronti leali e liberi, collaborare per orientare al meglio la società in ogni sua componente.

La riforma del Terzo settore ha senza dubbio bisogno dell’adeguamento di norme e regole da erogare da parte delle Istituzioni, ma necessità sopra e prima di tutto d’una profonda rivoluzione culturale da parte della società tutta, finora spesso solo fruitore di beni e servizi attesi e pretesi come un diritto inalienabile. Pertanto, senza snaturare la propria ragion d’essere, per il mondo del Terzo settore è ormai ineludibile che tutti coloro che operano in esso diventino soggetti autonomi e indipendenti, quindi produttivi e in grado di finanziare almeno in parte i propri scopi. Senza questo rinnovamento culturale i soggetti della società civile operanti anche nel Terzo settore continueranno a rimanere beneficiari di beni e servizi, ma non diverranno anche soggetti d’arricchimento collettivo e d’incremento di bene comune. E’ in questione, quindi, un cambio di mentalità, sintetizzato nel famoso appello di Kennedy: “Non chiedere quello che il tuo Paese può fare per te, chiediti invece quello che puoi fare tu per il tuo Paese”. E’ questa la scommessa da vincere. Far ripartire il Paese - come da ogni parte s’invoca – è sicuramente possibile sperando in un futuro magnifico, ma da realizzare grazie alla responsabilità nel presente da parte d’ogni cittadino. E’ impensabile ormai che immense energie umane siano ridotte a supplire carenze di servizi pubblici spesso del tutto assenti; è assurdo che preziose capacità professionali restino soffocate da crisi dell’Impresa; ed è disumano che popoli interi restino vittime del mercato del solo profitto ad ogni costo. Comunque, è indubbio che esseri umani vivano esclusi da ogni forma di vita umanamente sostenibile è da addebitare a ogni singolo uomo e cittadino, sordo allo spirito di sussidiarietà anche orizzontale, che sprona la coscienza dell’uomo verso sentimenti di solidarietà. Pertanto, se le Istituzioni e il Mercato non possono né debbono delegare all’opera assistenzialistica dei privati i loro doveri, nemmeno la società del Terzo settore può usare le negatività di governanti e imprenditori come alibi per evitare i propri doveri d’iniziativa e produttività destinate al bene comune. Per dare vita a forme di vita singola e collettiva più a dimensione d’uomo, è auspicabile davvero un rinnovamento (rivoluzione) culturale globale, che coinvolga tutte le coscienze e tutte le volontà. Così potrà avere buon esito anche la riforma del Terzo settore.
*filosofo

E' FINITA L'ERA DELLA RAPPRESENTANZA POPOLARE

Pubblicato da "Affari Italiani", Giovedì, 20 novembre 2014

IL COMMENTO - Il popolo italiano non elegge già da tempo i suoi "deputati" né li delega a legiferare a nome suo e per il bene di tutti. Ormai deve prendere soltanto atto d'ogni operato dei vari soggetti designati e cooptati dagli schieramenti politici e dalle altre forze che contano... Di Cosimo Scarcella

Giovedì, 20 novembre 2014 - 16:21:00

Il popolo italiano non elegge già da tempo i suoi "deputati" né li delega a legiferare a nome suo e per il bene di tutti. Ormai deve prendere soltanto atto d'ogni operato dei vari soggetti designati e cooptati dagli schieramenti politici e dalle altre forze che contano. Osservando lo scenario odierno offerto dai partiti politici, si capisce finalmente cosa hanno voluto dire molti pensatori assennati e disincantati, quando hanno definito i parlamenti il "mercato delle vacche". Nei mercati di rione, infatti, è normale il "tirare sul prezzo" il più possibile dalle parti contrattanti, con reciproca furbesca attenzione, però, al punto di rottura, che farebbe perdere l'affare sia al compratore che al venditore. A questo sembra essere ridotta la politica italiana di questi ultimi mesi. Politica, in sé e per sé, è abilità di risolvere problemi e soddisfare bisogni reali dei cittadini, che si presentano indubbiamente diversi e talora perfino opposti e, quindi, che vanno legittimamente e saggiamente mediati. Portavoce naturali delle singole voci popolari sono i partiti politici. I governi che si succedono al potere, di conseguenza, hanno il duplice dovere di difendere l'identità della propria parte politica e, nello stesso tempo, di captare i bisogni e intuire i valori delle altre parti. La storia della Repubblica Italiana documenta che è stato questo l'ideale regolativo dei vari governi, almeno fino a un ventennio fa: da Alcide De Gasperi e Togliatti a Enrico Berlinguer e Aldo Moro. E questo è il significato autentico anche del paradosso delle "convergenze parallele", che si dice abbia pronunciato Aldo Moro durante il congresso di Firenze della D.C. nel 1959: concetto assurdo in matematica, ma fondamentale per una politica sana e un governo buono, in quanto le molteplici "parallele" socio-politiche ed economico-finanziarie devono convergere il più possibile in ogni iniziativa governativa, al fine di perseguire il bene comune.

Non susciterebbe stupore, quindi, il fermento che anima palazzi e piazze italiane in questi ultimi mesi: in una normale vita democratica sarebbe ottimo segno di dialettica viva e costruttiva. La cosa, però, insospettisce, anzi spinge ad analizzarne e capirne le motivazioni reali e le finalità forse taciute. Da ogni parte, infatti, s'ostentano dichiarazioni di difesa degli interessi generali e di rivendicazione del bene del popolo, quando nella sostanza dei fatti il popolo risulta del tutto dimenticato o accontentato con qualche briciola residua (forse anche casuale e indiretta, ma certo non disinteressata). I protagonisti della politica odierna sembrano, infatti, mercanti attenti agli affari propri, che mirano a concludere a ogni costo e a ogni prezzo, e perciò attenti solo al punto di rottura: pronti sì alle schermaglie e agli scontri, ma anche disponibili ai compromessi d'ogni genere. Comportamento dettato - si predica - dal proposito di salvaguardare gli equilibri di bilancio, le coperture economico-finanziarie, la difesa dei vari diritti, la dignità delle relazioni internazionali, ecc. Ovviamente - si precisa solennemente - con l'annuncio formale (qui veramente unanime o quasi) che l'unico vero destinatario finale di tutto è il popolo, il quale vedrà (non certo dall'oggi al domani, a tempo opportuno) i frutti copiosi della crescita, dell'occupazione, della rinascita della scuola e della ricerca, del riassestamento del territorio, dell'equità sociale, ecc. Nel frattempo, però, i diversi contrattanti s'assicurano l'affare proprio.

Si è ben lontani, sembra, dall'era della politica della rappresentanza popolare, in cui la classe politica rappresentava veramente e solamente (o soprattutto) il popolo, che di fatto aveva il potere - grazie a leggi e riforme adeguate - di decidere di volta in volta di confermarla o di sostituirla. E' finita quell'era. Osservando alcuni fenomeni attuali, si ha la sensazione che c'è qualcosa di diverso, che si miri a qualcos'altro; ed è una sensazione che genera perplessità per il futuro della nostra democrazia rappresentativa. E' doveroso, senza dubbio, demolire ideologie sorpassate dalla storia e palesemente inutili, ma è pericoloso instaurare procedimenti destinati (forse pure inconsapevolmente, ma non per questo meno nocivi) a smentire e capovolgere la democrazia rappresentativa. Conservare il Parlamento, ma esautorarlo e addomesticarlo all'Esecutivo, allo scopo di mostrare l'impotenza di quell'istituzione, per risaltare la potenza del gruppo dirigente e richiedere il necessario contributo di forze sociali ed economico-finanziarie "estranee"; svuotare il Senato d'ogni competenza di controllo sulla Camera dei Deputati; demolire le funzioni parlamentari apparentemente rispettate, ma nei fatti raggirate come inutili remore; puntare su riforme istituzionali ben cucite su misura; progettare una legge elettorale, che riduce sostanzialmente a farsa il voto dei cittadini. E il tutto con una frenesia, che toglie ogni lucidità di giudizio e limita la possibilità di riflettere e di ponderare i fatti, quasi si abbia paura che s'intuisca qualcosa di più e che si capisca meglio. Ma il popolo italiano non è quello cinquecentesco immaginato dal vecchio Machiavelli. E' quello che s'è costruito grazie alla democrazia rappresentativa sulle macerie di due guerre e di due funesti totalitarismi. E lo conferma il fatto che a tutt'oggi il partito più numeroso è quello dei non-voto, che si gonfia sempre più nel silenzio dell'avversione dignitosa.

ALDO MORO NON E’ TUTTO MORTO!


Pubblicato da "Affari Italiani", Mercoledì, 12 novembre 2014

Giunge con soddisfazione la notizia che è stata conclusa l’inchiesta condotta sul caso Moro, dopo le interessanti dichiarazioni di Enrico Rossi, ex ispettore di PS. Il Procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, riferirà nella competente Commissione parlamentare. E’ conclusa, dunque, l’inchiesta. Ma nell’animo - particolarmente di chi ha vissuto quei terribili avvenimenti - riaffiorano brutti ricordi e riemerge ancora un forte senso d’incredulità. Il rapimento e l’uccisione di Moro hanno inferto allora un colpo mortale non solo e non tanto a un partito politico, ma anche e soprattutto a tutto il nostro Paese. Ferita così grave e profonda che ancora oggi è veramente difficile prevedere fino a quando rimarrà ancora aperta, con tutte le sue conseguenze. Erano già passati quattro anni dal tragico episodio, quando l’allora Segretario della DC Flaminio Piccoli, tentando di intravedere qualche filo di chiarezza, asseriva che “dire che non abbiamo mai avuto dubbi varrebbe riconoscere che siamo di pietra. Ogni coscienza che si rispetti, dinnanzi ad eventi così spaventosi, s’interroga, si esamina, ricorda momenti e decisioni e li riguarda sotto ogni aspetto, per la ricerca di una verità, che sia portatrice almeno di serenità e di pace”. Non pochi dubbi restano ancora, e forse non si capirà mai la verità delle motivazioni vere e delle finalità politiche occultate, che condannarono a morte Aldo Moro. Non bastano, comunque, celebrazioni e attestazioni. Dimenticando e condannando alla sterilità alcuni suoi validi insegnamenti – consigliati con la vita e testimoniati con la morte da martire del servizio al bene di tutti – forse rimarrebbe “assassinato” di nuovo.

Il giorno del sequestro Moro stava recandosi a Montecitorio, dove Giulio Andreotti avrebbe presentato il nuovo governo, per la cui nascita era stato decisivo il contributo dato da Moro. Circa tre mesi prima, in un clima di grande confusione tra tutti i partiti e all’interno di ciascun patito, egli aveva pronunciato un discorso ai gruppi parlamentari della D.C., durante il quale aveva sostenuto: “Possiamo dire che abbiamo cercato, seriamente e lentamente, la verità: la verità, diciamo in senso politico, cioè la chiave di risoluzione delle difficoltà politiche”. Nella politica operosa e produttiva, quindi, non debbono avere alcuno spazio né la superficialità né l’improvvisazione; tutto va deciso e realizzato con lungimiranza, per vedere oltre l’immediato, e con abilità di mediazione, per trovare risoluzioni condivise il più possibile. Quello di Moro era un abito interiore convinto, che traspariva anche dal suo atteggiamento esteriore, che in quei tempi era molto significativo. Aveva, infatti, un incedere compassato e mai studiato, ponderato e sostenuto, ispirante sempre rispetto sincero: era lo specchio d’un uomo intento a osservare e esercitato a riflettere, consapevole delle proprie responsabilità politiche e morali, in anni di crisi grave e profonda in ogni campo.

Da prigioniero nel “carcere” delle Brigate Rosse, quaranta giorni prima della morte, scriveva a Zaccagnini, allora segretario della Dc, consigliandogli disponibilità a trattare “qualche concessione” con i brigatisti, e concludeva: “Tenere duro può apparire più appropriato, ma qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco”. Nel partecipare all’audizione del Procuratore Generale, tutti i partecipanti ripensino almeno a due direttrici, che Moro ha lasciato in eredità. La verità e il dialogo. “Quando si dice la verità – aveva ammonito lo statista pugliese, non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta a essere coraggiosi”. E aveva insistito che non basta dirla la verità, “per avere la coscienza a posto: noi abbiamo un limite; noi siamo dei politici, e la cosa più appropriata e garantita, che noi possiamo fare, è di lasciare libero corso alla giustizia, e fare in modo che un giudice, finalmente un vero giudice, possa emettere il suo verdetto”. Per la soluzione più efficace dei problemi d’ogni natura, Moro suggerisce sempre il metodo del dialogo: purchè sia leale e ispirato solo al bene comune; rimane intatta la sua testimonianza, secondo cui la terapia nel pensare e nell’agire politico non è il mutare tecniche operative, ma vivere i valori. Testimoniandoli sino a offrire la propria vita.