Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

mercoledì 21 novembre 2018

COMPITO DELLA CULTURA NELLA POLITICA DI OGGI



Proporre analisi o suggerire rimedi in termini culturali alle prassi politiche d’oggi, a qualunque livello esse operino, potrebbero suscitare risate umoristiche o addirittura apparire uno stravagante scherzo ironico. Politici, storici, economisti, infatti, gareggiano d’ingegno nell’individuare le cause prossime e remote dei tanti disordini sociali, che serpeggiano in ogni parte del mondo, dalle ribellioni dei cittadini contro i poteri costituiti fino ai sanguinosi conflitti armati tra le nazioni e i diversi popoli. In queste analisi, quasi sempre, vengono analizzati gli aspetti esteriori di tali fatti, per i quali - con logica conseguenza – si indicano come rimedi risolutivi, mutamenti esteriori: o ordinamenti giuridici più severi o sistemi politici opportunamente aggiornati o strategie e tattiche di marketing tempestivamente rinnovate o confederazioni di popoli nuove e validamente strutturate. E’ chiaro che in questa prospettiva tutto viene ridotto a problema giuridico e socio-economico, nel cui campo non s’intravede e non si assegna alcun ruolo attivo ed efficace alla cultura. D’altra parte, quale aiuto o aspettativa ci si potrebbe aspettare dalla cultura, dal momento che gli eventi s’inseguono così rapidamente che non concedono alcun intervallo da dedicare alla riflessione e alla valutazione: vengono a mancare così sia la necessaria e pacata lucidità della ragione sia la vigile e tenace vigoria della volontà, presupposti indispensabili per ogni valutazione oggettiva dei fatti e per ogni intervento lungimirante.


Chiunque, però, voglia e sappia scrutare le cause profonde delle insensibilità disumane, che generano divisioni e lotte, ingiustizie e aggressività, povertà e miseria tra gli uomini e tra i popoli in questi tempi, non può non riconoscere che non si tratta solo di degenerazione di alcuni organi istituzionali e di corruzione di alcune funzioni private e pubbliche, bensì di depravazione - nell’intero organismo sociale – di ciò che esso ha di sostanziale e di più profondo, per cui non a torto – sembrerebbe - gli uomini di cultura hanno spesso dubitato e dubitano tuttora che la loro presenza attiva nella vita politica (vista dai più come sontuoso paludamento dei politici’ scaltri, ma priva di vera e fattiva rilevanza) potrebbe essere considerata e concretamente usata solo come una collaborazione di “utili idioti”, per cui prendono poca parte nell’attività politica, in cui palesemente non s’ascolta la correttezza d’un parere, ma s’incorona col successo chi segue le tendenze e si getta nell’oscurità e nell’indifferenza chi vi s’oppone.

Ai nostri giorni, però, s’impone la necessità d’un supplemento di cultura nei “popoli” e nei loro “governanti”, cioè nella vita politica nel suo complesso. E’ più che sufficiente osservare la qualità e i toni della lingua generalmente usata per esprimere valutazioni su amici e nemici (pare n esista più “l’avversario” politico) e per lanciare giudizi su tutto e su tutti: tanta è la virulenza e il sarcasmo che non è dato quasi mai distinguere il vero dal falso. E questo è nocivo per tutti i cittadini. Già quindici anni or sono Norberto Bobbio scriveva: “Non vi è cultura senza libertà, ma non vi è neppure cultura senza spirito di verità. Le più comuni offese alla verità consistono nelle falsificazioni di fatti o nelle storture di ragionamenti”. Affermazione che fa meditare con preoccupazione.

 A questo male non si ripara, però, facendo ricorso all’intervento nella politica dei cosiddetti ‘tecnici’. Questi vengono richiesti dagli apolitici, che pretendono di separare politica e tecnica, benché siano consapevoli che il tecnico non avrà mai le competenze necessarie per capire e risolvere il tanto decantato bene comune. E nuovamente ci ammonisce Bobbio: “Tecnica apolitica vuol dire in fin dei conti tecnica pronta a servire qualsiasi padrone, purché questi lasci lavorare e, s'intende, assicuri al lavoro più o meno onesti compensi; tecnica apolitica vuol dire soprattutto che la tecnica è forza bruta, strumento, e come tale si piega al volere e agli interessi del primo che vi ponga le mani. Chi si rifugia, come in un asilo di purità, nel proprio lavoro, pretende di essere riuscito a liberarsi dalla politica, e invece tutto quello che fa in questo senso altro non è che un tirocinio alla politica che gli altri gli imporranno, e quindi alla fine fa della cattiva politica”. Dietro le parvenze del tecnico apolitico Bobbio intravedeva il politico incompetente, che è privo delle conoscenze necessarie, per cui non sa come procurarsele e in genere resta solto un politicante. Un tema, come si vede, di chiara attualità nel dibattito politico: si deve rendere la politica consapevole dell'importanza della conoscenza accurata dei fatti e del rigore nell'argomentazione. Cioè della cultura.






mercoledì 7 novembre 2018

L'EUROPA NON E' SOLO DEMOCRAZIA


Vale la pena dedicare alcuni minuti, per leggere e riflettere su alcuni stralci della “Opinione”, che Maurizio Ferrera ha pubblicato sull’odierno “Corriere della Sera”, con l’auspicio che sia fatto oggetto di un sereno “dialogo” fra cittadini europei.

L’EUROPA NON È SOLO BUROCRAZIA di Maurizio Ferrera

Le elezioni europee del prossimo maggio avranno luogo alla fine di un vero e proprio «decennio orribile» per la Ue. Prima il terremoto finanziario importato dagli Usa, poi quello del debito sovrano. La Grande Recessione, con i suoi costi sociali. E, ancora, gli attentati terroristici, la crisi dei rifugiati, lo tsunami dell’immigrazione, la Brexit. Un’inedita sequenza di choc, che hanno fatto vacillare le fondamenta dell’Unione. Eppure l’edificio non è crollato. Al contrario, sono stati intrapresi alcuni passi verso una maggiore integrazione economica, avviando un delicato percorso di condivisione dei rischi. Non si è fatto abbastanza, certo, e su alcuni fronti (ad esempio la dimensione sociale) si è persino tornati un po’ indietro. Ma nel suo complesso l’Unione ha saputo resistere alle enormi tensioni. Anche se insicurezza e paure non sono scomparse, la stragrande maggioranza dei cittadini europei (Regno Unito escluso) ha recuperato oggi fiducia nella Ue. A dispetto delle varie tempeste, quella che potremmo chiamare l’«Europa di tutti i giorni» ha continuato imperterrita a funzionare (…).

Nel grande dibattito sulla Ue, nessuno considera questa Europa di tutti i giorni. La ragione è semplice: fa così parte del nostro mondo che abbiamo smesso di percepirla. Siamo diventati come i «bambini viziati» di cui parlava il filosofo spagnolo Ortega y Gasset negli anni Trenta del secolo scorso. Così come la democrazia liberale, diamo ormai per scontata anche l’Europa integrata: i suoi benefici, le sue opportunità quotidiane. Della Ue i media e i politici parlano in genere come un’entità astratta e lontana, tendono a vederne gli aspetti che non funzionano. Per sentire parole di apprezzamento e ammirazione dobbiamo attraversare i confini esterni, entrare in contatto con chi vive sotto un regime oppressivo (…).

Sottolineare la vitalità e i pregi dell’Europa di tutti i giorni non significa disconoscerne i difetti come sistema istituzionale. Al contrario, è una ragione in più per dispiacersene e per spronare chi ci governa a correggerli. Ortega y Gasset diceva che sono proprio le élite a dover difendere tutto ciò che i «bambini viziati» danno per scontato. I sondaggi rivelano che esiste ancora un vasto potenziale elettorale per un rilancio del progetto d’integrazione. Le indagini sugli orientamenti delle classi politiche nazionali sono meno confortanti. A questo livello prevale una percezione «strumentale»: la Ue è un bene solo se è vantaggiosa per il proprio Paese, è un sistema di regole da usare finché conviene. Non lo dicono solo i leader sovranisti (che giocano a fare i «bambini arrabbiati») ma anche segmenti importanti dei popolari e, seppur in misura inferiore, di socialisti e democratici. Le prime comunità europee furono create da Padri Fondatori responsabili e lungimiranti. La Ue di oggi sembra invece un’orfana lasciata a se stessa.

L’infrastruttura dell’Europa di tutti i giorni ha dato prova di robustezza e può procedere col pilota automatico. Ma non a lungo. In vista delle elezioni di maggio, abbiamo un disperato bisogno di élite capaci di far leva sul tessuto «banale» di connessioni a livello economico e sociale per smorzare i conflitti politici. Servono nuovi leader che emergano dal basso, espressione di quelle maggioranze silenziose che si trovano a proprio agio in una Unione sempre più stretta. E che proprio per questo vorrebbero che la Casa Europa diventasse meno litigiosa, più solida e resistente alle inevitabili intemperie della globalizzazione.

Maurizio Ferrera 

martedì 20 giugno 2017

ARROGANZA SEGRETA DI COMPORTAMENTI BANALI


Nel “Corriere della Sera” di ieri, 19 maggio 2017, è stata proposta una “Opinione” a firma di Dacia Maraini. Lo stile piacevole e il contenuto interessante (col sorriso si correggono non poche stupidità, aveva già detto duemila anni fa il poeta latino Orazio) ne rendono davvero utile la lettura. E noi la riproponiamo.

 Il linguaggio segreto, simbolo di fragilità.
Di Dacia Maraini

Le mode hanno qualcosa di stupido e devastante. Se chiedi a un ragazzo perché porti i capelli rasati di fianco e alzati sul capo come un panierino, ti dirà che fanno tutti così. Ma lo sai che questa moda della rasatura laterale vuole esprimere una rabbia militaresca ed è stata lanciata da Kim Jong, il piccolo grasso crudelissimo dittatore della Corea del nord? Mi si risponde con una alzata di spalle. Fanno pure ridere quelli che comprano a caro prezzo dei jeans pieni di strappi che imitano una finta povertà che piace soprattutto a chi povero non è. E che dire della moda delle scarpe a punta, (per fortuna ormai passata) che provoca deformazioni ai piedi? Il mito del piede piccolo nasceva in Cina dalla volontà di mostrare che una ragazza nobile e ricca non aveva bisogno di camminare. Andare a piedi era da contadine, per questo si torturavano i piedi fino a renderli inutilizzabili. Anche le scarpe a punta e i tacchi alti di oggi sono deleteri per un piede di donna che vuole camminare, correre, salire e scendere le scale. Ma se la moda lo chiede…

E che dire della barba lunga, spesso ingrigita, che gli adulti, soprattutto intellettuali, portano con disinvoltura? Sono stati i fanatici religiosi a cominciare. Per loro la barba è un simbolo di austerità e rigore morale. Il paradosso è che anche chi si dichiara laico e combatte i fanatismi, si fa crescere la barba. È la moda, e non ci posso fare niente, cara amica. Chi sa che il tatuaggio nasce nelle prigioni, come il linguaggio della pelle prigioniera? Erano gli analfabeti, i poveri schiavi che non sapevano né leggere né scrivere a parlare con le immagini del loro corpo. Il tatuaggio più ripetuto era la farfalla (ricordate Papillon?) o il gabbiano, che esprimevano il desiderio di attraversare le sbarre e inoltrarsi in un cielo libero. Anche una figura femminile o una barca dalle vele spiegate, parlavano della libertà perduta. Il corpo diventava la carta su cui si scrivevano i messaggi di un recluso infelice e solo. Come mai oggi ragazzi e ragazze, mai stati in prigione, si fanno infilare gli aghi nella pelle per imitare senza saperlo quei disperati segregati nelle carceri dei secoli scorsi? La moda si nutre di linguaggi segreti e memorie perse, e racconta una fragilità senza rimedio. L’arroganza sta nel ripetere un rito senza conoscerne le origini, per cieca allusione a una sofferenza non propria, come il crocifisso scintillante su un petto di donna, come l’anello infisso in una palpebra o sul labbro a memoria di una lontana schiavitù.


sabato 1 aprile 2017

MA COS'E' L'AMERICA DI OGGI?



Donald John Trump è un potente imprenditore, capace soltanto di accumulare denaro ed esercitare potere. Divenuto progressivamente insensibile ad ogni sensibilità umana, pensa soltanto in termini di dominio e agisce in prospettive di gretto malcelato egoismo individuale. Pronto a strumentalizzare intere generazioni, per celebrare la propria presunzione di onnipotenza, che vorrebbe genuflessa ai suoi piedi l’umanità. Del tutto incapace a prevedere le conseguenze pratiche delle sue azioni.

S’è trasformato misteriosamente in politico ed è divenuto il 45º presidente degli Stati Uniti d'America dal 20 gennaio 2017.

Non è forse opportuno ripensare ad Alexis De Tocqueville? E meditare come è stato visto da alcuni uomini di pensiero responsabile e ponderato?

"Non è affatto un ammiratore soddisfatto della società americana: nel suo intimo conserva una gerarchia di valori che assume dalla sua classe, l'aristocrazia francese”(Raymond Aron).

Diviso fra ammirazione e inquietudine per la democrazia e devozione e sollecitudine per la libertà, il dissidio egli lo portava dentro di sé(Norberto Bobbio).

La Democrazia in America, il miglior libro mai scritto sugli Stati Uniti, si basava su un viaggio durato non più di nove mesi(Eic Hobsbawn).

I moderni teorici della democrazia politica non sono interessati alla fondamentale condizione sociale di uguaglianza che Tocqueville aveva in mente(Ralf Dahrendorf).



).

INVOLUZIONE DI UN CONCETTO. CORRUZIONE DI UNA PRATICA


Per “Politica” si è intesa – sin dalle culture più antiche – una concezione di indiscusso contenuto etico, generalmente appannaggio di persone probe e di chiara moralità anche privata.

Di conseguenza, la pratica della “Politica” era pensabile solo come attività da affidare solo a delle personalità capaci di “guidare” la “città” soprattutto grazie al patrimonio morale della loro vita coerente ed onesta, tale da essere esempio a tutti e, massimamente alle nuove generazioni: la politica era, quindi, la maestra e l’educatrice dei popoli e dei singoli, che apprendevano così le tradizioni virtuose e i valori fondamentali mirati alla reciproca crescita globalmente umana. 

Tali personalità, ovviamente, venivano richieste di dedicare un po’ della loro vita alla cosa pubblica: ed esse accettavano coerentemente ai loro principi di “servizio”. Mai avrebbero rivendicato un proprio “diritto di fare politica”, e tanto meno di costituire la “classe politica” esperta e capace.

Dopo il servizio “regalato” alla propria comunità, si ritiravano senza nulla pretendere, soddisfatti solo di “aver fatto politica”: e così contenti, assistevano alla vita pubblica della loro “città” guidata da altre persone ugualmente idonee e disponibili a “regalare un pò della loro vita alla cosa pubblica: ed esse accettavano coerentemente ai loro principi di servizio”. 

Chissà su quale pianeta sono andati a finire questi uomini veri, destinati dalla storia a vivere in tempi in cui era possibile una vita umana e sociale veramente a dimensione d’uomo!




sabato 2 luglio 2016

VINCE L'ASTENSIONISMO. DEMOCRAZIA KO

Pubblicato su Affaritaliani il 20 giugno 2016

E’ giunto il tempo fissato per “tirare le conseguenze” del responso delle urne elettorali. Le analisi e le valutazioni veramente significative delle consultazioni amministrative erano state rinviate al dopo i ballottaggi, fermo restando – com’era stato sottolineato ripetutamente da alcuni esponenti e forze politiche - che si sarebbe trattato di consultazioni amministrative, quindi di breve respiro, in quanto circoscritte al governo di Enti Locali  e, pertanto,  assolutamente vuote di qualunque valenza politica nazionale. I commenti dei leaders di partito sono noti, del resto prevedibili e scontati, perché collaudati da decennale ritualità: il solito e usurato sciorinare numeri, cavillando per evidenziare a ogni costo il significato positivo o negativo dei decimali delle parti e, ovviamente, per ostentare il proprio avanzamento (probabile) e sottolineare la regressione (eventuale) d’altri. Qualunque conquista è esaltata come vittoria e qualunque perdita è segnalata come sconfitta. Il cittadino italiano, però, da parte sua, a questo spettacolo assiste incredulo, ma soprattutto amaramente sospeso tra il serio e il faceto: l’intero mondo politico ostenta grande competenza a interpretare il responso delle urne; ma dimentica (astutamente) o sottace (scaltramente) che a disertare le urne è stata circa la metà dell’elettorato.

Certo, nella democrazia rappresentativa è utopistico pretendere una partecipazione totale del popolo all’esercizio del voto, ma è realistico aspettarsi l’adesione d’un numero significativo di elettori. Quando ciò non succede, discettare su chi – tra i partiti politici in campo – abbia vinto e perso è un esercizio inutile, se non dannoso e che, comunque, fa parte di modelli ormai superati. Oggi, il fenomeno più incomprensibile e pauroso, che dev’essere analizzato e valutato in ogni sua dimensione, è l’astensionismo: il destino della democrazia – non solo in Italia – è appeso alla soluzione del problema dell’astensionismo. Nella democrazia realizzata nasce, si radica e s’irrobustisce un sempre più convinto e profondo sentimento di comune appartenenza, che è l’esatto contrario dell’assenteismo. La disaffezione e l’avversione del cittadino verso la politica, pertanto, nascono essenzialmente dal vedersi privato del “diritto di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49 della Costituzione) e dallo svuotamento (graduale, ma reale) del suo diritto-dovere di voto, a causa di leggi elettorali, che trasferiscono il potere reale di designare i “rappresentati del popolo” solo ai capipartito. Si crea così un distacco tra governanti e governati, che snatura l’essenza stessa della democrazia, sradicandola dal suo senso costitutivo e trasformandola in altre forme di governo, forse più efficienti, ma non certo “del popolo per il popolo”.

In buona sostanza, la causa dell’astensionismo è lo strapotere di alcuni pochi, che pianificano programmi socio-politici forse anche in sé validi, ma che il “popolo non gradisce”; per cui bisogna individuare e valutare chi sono i “soggetti interessati”, che propongono - con un pesante deficit di democrazia - per il prossimo futuro i mutamenti alle condizioni generali della politica (ovviamente in nome del popolo e per il bene comune). A rafforzare queste domande (e a trovare risposte plausibili) sono i recentissimi comportamenti - espliciti e diretti – dei mercati economici e finanziari, delle grandi imprese e delle multinazionali. E’ di qualche giorno fa l’avviso dell’agenzia internazionale di valutazione di credito Fith, che – dopo l’ingiunzione già del 1913 all’Eurozona di “sbarazzarsi delle costituzioni antifasciste” – ha unito la sua voce a quella dei Fondi JP Morgan, della Confindustria e del Fondo Monetario Internazionale a proposito del comportamento dei cittadini al prossimo referendum costituzionale: gli Italiani approvino la proposta referendaria del loro Governo, perché “l’esito del referendum di ottobre 2016 sarà fondamentale per determinare se la spinta alle riforme continua o va in stallo”. Nulla da eccepire sulla legittimità di esprimere opinioni e dare indicazioni, anche se i mercati finanziari e le multinazionali non hanno le migliori credenziali per giudicare e consigliare (considerando la crisi del 2007-2008); si tratta, comunque, di un mondo autonomo, che giustamente ha i propri scopi da raggiungere e i propri interessi da difendere. Del resto, anche i vertici delle gerarchie ecclesiastiche spesso non dubitano di attaccare a gamba tesa il mondo della politica e dare ai “credenti” – spesso e più o meno diplomaticamente - indicazioni  di comportamento.

Il problema vero – che deve preoccupare molto seriamente, e non solo gli Italiani - non è né la retorica dell’antipolitica (quante carriere costruite e quante scalate al potere in nome dell’antipolitica!), né la perdita spesso lamentata di autonomia della politica a causa sia dello strapotere della magistratura e sia delle indebite ingerenze della sfera morale. Autonomia, infatti, non è assoluta e totale autoreferenzialità o rigida divisione impermeabile dei poteri, ma capacità di ogni potere e istituzione di perseguire i propri scopi con i propri metodi, sempre e comunque in continuo confronto collaborativo con ogni altra realtà statuale, sociale, economica e culturale. Il problema vero è lo svuotamento del modello democratico. La democrazia reale è certamente una forma di governo, ma che si sostanzia d’una propria  visione integrale dell’uomo e del mondo, senza della quale diventa sterile tecnicismo, arido sistema di riforme e controriforme, spesso bloccato dai veti incrociati dei diversi partiti e sindacati. Per questo nella democrazia c’è il rischio che si apra un’agevole strada per reclamare urgente la necessità di efficienza governativa e di velocità amministrativa, comportando ovviamente un depotenziamento del  modello democratico, in cui si depaupera gradualmente il ruolo del popolo. La democrazia viene ridotta a insieme di regole e di procedure di natura tecnica, bisognosa, quindi, non di politici competenti e lungimiranti, ma di tecnici e di decisionisti. Invece la democrazia vive di azioni di governo e di sviluppo, in cui tutte le forze sane della cultura, della politica e dell’economia s’intrecciano in sinergia positiva e solidale. Del resto, la politica, finché sembrava offrire qualche possibilità costruttiva di azioni concrete indirizzate al maggior bene comune, poteva ricorrere all’ausilio di personalità valide e generose, estranee alla politica (irrise poi dagli stessi politici come “utili idioti”), ma l’attuale situazione (non solo dell’Occidente) fa rammentare ai benpensanti il consiglio suggerito due millenni e mezzo fa nella Repubblica (VI libro) dal vecchio ed esperto Platone: quando infuria la tempesta devastatrice, è da insensati mettersi in mezzo e sfidare la bufera; è saggio soltanto il mettersi al riparo, sperando di salvare almeno la propria ragione.
Mettersi al riparo dalla degenerazione della politica e dalla corruzione dilagante ovvero, parafrasando Jacques Maritain, schierarsi per la “neutralità attiva”: forse è questa oggi l’unica forma di “antipolitica” positiva e costruttiva, intesa come lotta dura contro i partiti alquanto degenerati e i suoi esponenti che, anziché  perseguire il bene comune, sono dediti solo o soprattutto agli interessi personali e privati, sfruttando al peggio i bisogni del popolo onesto e laborioso. La presenza in politica di persone credibili potrebbe tornare a vantaggio di chi della politica fa un mestiere  a suo uso e consumo. Inoltre, rimanere fuori, in situazioni particolari, è l’opposizione necessaria, in quanto, se non ci sono forme sane di opposizione, non c’è democrazia, ma pensiero unico; e senza diversità di pensiero, si annichilisce lo spirito umano creativo e libero e s’incoraggiano la simulazione degli scaltri e l’uniformità dei deboli. Di conseguenza, non più rispetto del vero, del giusto e del bene, ma ampia liceità di ciò che conviene. Ma, se è giusto sempre e solo ciò che conviene, svaniscono responsabilità e libertà, cioè quell’eredità umana, che dovremmo responsabilmente trasmettere alle generazioni future.

domenica 12 giugno 2016

PER UN VOTO REFERENDARIO RESPONSABILE E LIBERO

Pubblicato su Affaritaliani il 6 giugno 2016

Chiuse le urne e sfogliate le schede elettorali, tutti i partiti sono impegnati a fare i conti e tracciare bilanci, concentrati a indovinare a favore di chi sta girando il vento. Comunque, può ritenersi chiuso il tempo della campagna elettorale per le consultazioni amministrative (dai toni non sempre raffinati e dalla qualità spesso mediocre); ed è giunto il tempo di dedicarsi alla conoscenza seria e alla valutazione ponderata delle problematiche inerenti al referendum costituzionale, che si terrà in ottobre e con cui i cittadini italiani sono interpellati se approvare o respingere la riforma voluta dal governo in carica.

Il testo di legge - lungo e piuttosto complicato – comprende contenuti notevoli e destinati a cambiare in maniera significativa il funzionamento dello Stato e delle sue Istituzioni. Se approvato, la “Repubblica Democratica” italiana non sarà governata più dal Parlamento composto da due Camere con ruoli uguali e competenze ripetitive; il suo Governo sarà investito del suo Potere Esecutivo mediante la fiducia della sola Camera dei Deputati; il Senato avrà composizione e ruolo del tutto inediti; nuove norme regoleranno i rapporti tra il Governo Nazionale e le Assemblee dei vari Enti Locali; saranno introdotte importanti novità riguardo la procedura dell’elezione del Presidente della Repubblica e nuovi criteri per la designazione dei componenti della Corte Costituzionale.
Si tratta, insomma, d’un documento legislativo, con cui si propone una serie di modifiche ed emendamenti, che darà un volto radicalmente innovativo all’intera organizzazione governativa dell’Italia del XXI secolo. Per questo ci sarà bisogno sia d’un popolo diligentemente informato e responsabilmente coinvolto, e sia d’una classe politica dalle competenze adeguate e disponibile ai frequenti e tempestivi aggiornamenti, che richiederanno sia l’evolvere talora repentino delle situazioni e sia la sempre maggiore necessità di efficienza operativa dell’intera macchina politico-amministrativa del Paese. Si tratta, quindi, d’una svolta politica decisiva, che richiede, oltre alle ovvie dotazioni tecniche e giuridiche, anche e soprattutto una generale formazione culturale rinnovata, grazie alla quale l’intera Nazione sappia intercettare e accogliere ogni emergente istanza del nuovo, innestandola - con l’indispensabile “prudenza politica” – sull’eredità del passato (che va sempre e comunque valutato e rispettato) e armonizzandola col presente e nella prospettiva del futuro, cui ogni generazione vuole legittimamente ambire.
Appare subito chiaro che la partita in gioco è di estrema importanza: si tratta, infatti, di scelte decisive, che determineranno la qualità della vita del popolo italiano di oggi e di domani. Per questo è assolutamente prioritario che agli elettori siano illustrati  i contenuti della legge oggetto del referendum con spirito di collaborazione costruttiva, in modo sincero e veritiero, con opportuna pacatezza di argomentazioni e con la dignità di linguaggio richiesta dall’argomento; senza timore di esplicitare ogni intenzione (anche non immediatamente palese), di riconoscere possibili contraddizioni in cui si è dovuti cadere, anzi, evidenziando probabili rischi, cui sarà possibile (o anche necessario) incorrere, pur di perseguire obiettivi reali di progresso e di bene comune. Essere disponibili al confronto e al dialogo, difendere le proprie idee riconoscendone pregi e difetti, accogliere suggerimenti utili per miglioramenti evidenti è sempre e comunque dimostrazione di maturità etica e prova di saggezza politica.
Quello, invece, che viene offerto ai cittadini in questa circostanza appare uno scenario molto diverso e comunque molto lontano da quello che serve. Si ha la sensazione che si voglia trattare l’elettorato alla stregua di tifoserie calcistiche da ben organizzare e istruire. Da una parte, infatti, è stato stilato l’appello dei cosiddetti “costituzionalisti contrari alla riforma costituzionale” (immediatamente e aprioristicamente definiti – proprio da chi forse dovrebbe rimanere al di sopra delle parti -  “archeologi che credono di difendere il codice di Hammurabi”), dall’altra parte è stato contrapposto e diffuso il “manifesto delle ragioni del sì”, sottoscritto da un nutrito gruppo di costituzionalisti e intellettuali, che si presenta come chi, “dopo anni e anni di sforzi vani (…), affronta efficacemente alcune fra le maggiori emergenze istituzionali del nostro Paese”. Leggendoli entrambi, per la genericità aleatoria del contenuto, per il tono sconveniente all’elevatezza dell’argomento e poco riguardoso dell’intelligenza dei cittadini, fanno rimpiangere i “Manifesti” degli intellettuali fascisti e antifascisti di novant’anni fa (1925), che pure non brillarono molto per imparzialità dottrinale e lungimiranza politica, nonostante la riconosciuta autorevolezza dei loro promotori. Tanto può fare  la “passione politica”, se incontrollata.
Oggi, però, i cittadini italiani non sono chiamati a sostenere e far trionfare una di due proposte opposte, ma a “contribuire democraticamente” a creare l’unico documento necessario e utile per la più onesta e più efficace strutturazione del governo della società. Ai cittadini interessa sostanzialmente che siano salvaguardate la sovranità popolare (essenziale per una “democrazia” e come sancito nell’articolo 1 della Costituzione)  e la libertà personale e collettiva (conquistata e donata loro dai propri padri). La graduale usurpazione di questi due valori fondamentali e irrinunciabili ha allontanato molti (circa la metà degli elettori non più votanti!) dalla politica, in quanto si sono visti deprivati – in maniera progressiva, ma sostanziale e talora con ingannevoli tatticismi partitici - della loro sovranità, affidata all’esercizio del voto “personale ed eguale, libero e segreto” (articolo 48 della Costituzione), essendo stati ridotti di fatto ad avalli, rituali e obbligati, di scelte decise da pochi e al di fuori dal popolo, anche quando si proclamava da tutte le parti di agire per il bene del popolo. Senza sovranità sostanziale non ci può essere concreta pienezza di libertà né di pensiero né di azione.
Dal momento, quindi, che la prossima riforma costituzionale regolerà l’intera vita futura del popolo italiano, è essenziale che a deciderla definitivamente sia il popolo, coinvolto il più direttamente possibile e mediante procedimenti condivisibili e rispondenti alla forma “Repubblicana-Democratica” dello Stato e del Governo. E non si può fingere di non sapere che il mutamento della forma dello Stato e del Governo si può perseguire in tanti modi. Mutando, per esempio, qualche formale, ma significativa “sovrastruttura” funzionale, di fatto resta modificata anche la “struttura essenziale e sostanziale” della Carta. Certo, nel contesto politico europeo e intercontinentale, è risibile sentir paventare la “deriva autoritaria” o, all’opposto, veder brandire il fantasma della “palude”.  Così come è assurdità istituzionale e contraddizione politica legare il destino d’un Potere Esecutivo e addirittura il futuro d’un Premier a un esito referendario. A meno che non si vogliano nascondere biasimevoli forme ricattatorie. La Costituzione va aggiornata, perché ne ha bisogno, secondo anche l’avvertimento del Calamandrei, che già novant’anni fa, in occasione della festa della Repubblica, affermava che si celebrava la “festa dell’incompiuta”.
Il popolo sovrano è chiamato ad esprimersi non sull’opinabilità di messaggi più o meno veritieri e opportuni, ma su temi vitali e ben definiti. A tal fine, è necessaria una sola cosa: abbandonare ogni interesse privato e ogni settarismo partitico e spiegare al popolo, in maniera “schietta e popolare”, quanta verità certa e quanti sottintesi pericolosi sono contenuti nella riforma costituzionale proposta, dileguando le ombre che oscurano soprattutto alcune questioni nevralgiche, come le innegabili ripercussioni del combinato disposto di riforma costituzionale-legge elettorale.


mercoledì 1 giugno 2016

DIRITTI UMANI E DIGNITA’ DELLA DONNA

 Pubblicato su Affaritaliani il 25 maggio 2016

Nel maggio dell’anno scorso, su iniziativa del mensile de “L’Osservatore Romano” Donne Chiesa Mondo, nella Casina Pio IV in Vaticano, s’era celebrato un seminario internazionale di tre giorni (28-31 maggio)  sul tema riguardante i diritti umani e la salvaguardia della dignità della donna. I partecipanti erano tutte donne, ma a relazionare erano stati chiamati due uomini, “persone competenti ed appassionate”. Dall’articolato e ricco dibattito vennero fuori testimonianze interessanti e proposte coraggiose, che furono riassunte in tre ambiti problematici: a) la violenza sessuale subìta e vissuta con vergogna da parte della donna, b) il comportamento della famiglia di fronte all’emancipazione femminile, c) la definizione della nuova identità della donna. 

Trascorso un anno, il 3 maggio scorso, il Segretario di Stato Vaticano, cardinale Pietro Parolin, la coordinatrice della rivista Lucetta Scaraffia e la sorella di Bose Elisa Zamboni hanno presentato - ufficialmente e solennemente nella sala della Filmoteca Vaticana a Palazzo San Carlo - il medesimo mensile Donne Chiesa Mondo, che compiva quattro anni di vita e veniva arricchito di contenuti nuovi e di rinnovata veste tipografica. 

Venti giorni dopo,  su proposta di Anelay of St Johns, ministro e rappresentante speciale del governo britannico per la prevenzione della violenza sessuale nei conflitti, l’ambasciatore di Gran Bretagna presso la Santa Sede ha organizzato, con l’aiuto del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, un seminario per discutere della violenza sessuale, primo ambito emerso dal seminario tenuto l’anno precedente e dolorosa emergenza causata soprattutto dalla crescente belligeranza tra le nazioni.   

La riunione – sottolinea con sofferta amarezza e attenta precisazione Lucetta Scaraffia - si è svolta a porte chiuse, in un luogo appartato di Roma, perché molte delle religiose e dei religiosi coinvolti rischierebbero la vita, se si sapesse cosa fanno. E comunque si è capito che la rischiano ugualmente. È infatti molto pericoloso cercare di difendere le donne in Paesi dove domina incontrastata la guerra civile, che comporta una violenza continua e inesorabile: un cappuccino congolese ha parlato di trecento donne violentate al giorno solo nella sua regione. È una realtà terribile, di cui non si parla molto, oppure vi si accenna solo per dire “è sempre stato così”. E ancor meno si parla di chi cerca di porre rimedio a questa tragedia”. 

A conclusione dei lavori del seminario sono stati suggeriti e sottolineati alcuni rimedi immediati e indispensabili, per contrastare la violenza sessuale a danno delle donne. Innanzitutto la produzione d’una legislazione seria, ferma e decisa contro l’impunità diffusa dei violentatori: infatti, la prospettiva d’una punizione del colpevole certa, sicura e ben proporzionata al misfatto, se non scoraggia del tutto l’aggressività dei molestatori, almeno incoraggia la donna a denunciare, superando e vincendo il senso di colpa, che quasi sempre s’addossa, rimanendone attanagliata. In secondo luogo, l’impegno necessario per unire gli sforzi da parte di tutti, al fine di dare vita – in questi tempi caratterizzati da movimenti di rivendicazione dei diritti d’ogni natura e a ogni livello - a ogni possibile iniziativa capace di trasformare, con gradualità e continuità, la visione culturale spesso carente dei valori peculiari della persona umana e della donna. 

A giusta ragione il ministro britannico ha predisposto un protocollo - firmato da 140 Paesi – in cui sono contemplate e dettagliatamente spiegate le istruzioni per l’avvio delle indagini e per la protezione dei testimoni e delle donne disponibili a denunciare. Il protocollo si pone anche come un ottimo  strumento offerto agli avvocati e ai giudici, perchè  affrontino un problema al quale, per ovvi motivi, non sono stati preparati.  

Per ora il protocollo riguarda i casi di violenza perpetrati nei paesi divenuti teatro spesso stabile di guerre oppure in nazioni  devastate da frequenti conflitti civili fratricidi fatti anche di funeste politiche di pulizia etnica. Questo, pur attirando giustamente l’attenzione su ciò che succede quotidianamente in luoghi alquanto “lontani”, non può e non deve distrarre l’interesse per quanto accade in luoghi a noi “vicini”. Le donne, infatti, subiscono violenze fisiche e morali anche nel chiuso dei muri domestici di “amorevoli case”, nelle strade popolate di “civilissime città” e spesso da parte d’individui insospettabili che, da uomini “per bene e di cui fidarsi”, si trasformano in esseri perversi e snaturati, privi d’ogni sensibilità e schiavi d’istinti brutali.  

Pertanto, è dovere universale di solidarietà umana e di giustizia sociale unire in un unico potente impegno le forze di tutti gli esseri umani, al fine di debellare l’inciviltà contro le donne e di lottare per la salvaguardia dei loro diritti umani e, in primo luogo, della loro dignità di persona. Gli incontri realizzati grazie anche all’iniziativa del mensile Donne Chiesa Mondo hanno scoperto un piccolo lembo della coltre che copre una realtà tanto disumana quanto trascurata. Infatti, la narrazione e la conoscenza di tante coraggiose esperienze, di tante vite eroiche, sinora quasi sempre sotterrate dal pudore personale e imprigionate dal timore sociale, sono state l’occasione che ha messo in luce l’immagine almeno d’una parte di umanità, che vuole schierarsi dalla parte dei più deboli, ai quali la frenesia del profitto economico, la brama del potere politico e la sordità morale d’interi paesi hanno tolto persino la voce, con cui poter denunciare soprusi patiti e difendere elementari diritti negati.  

In primo luogo, pertanto, urge l’impegno comune per una radicale trasformazione culturale, che faccia capire - agli uomini e anche alle donne – che la donna è una persona appartenente al genere umano e, quindi, con gli stessi diritti umani, con la stessa dignità e con il medesimo dovuto rispetto; e lo è sempre, anche quando – disgraziatamente – è stata deturpata nel corpo e dissacrata nell’anima; essa resta sempre persona che ha le carte in regola, per vivere da elemento attivo della propria società e da parte vitale della comunità umana. Anzi, diventa persona più degna, perché più provata; più meritevole, perché più sperimentata; più amabile, perché  riconsacrata. Nella storia secolare dell’umanità, quella della donna  è una storia a sé e registra lunghe ed estenuanti lotte per rivendicare e ottenere il riconoscimento almeno dell’uguaglianza di genere, per lungo tempo sopraffatta e negata dalla prepotenza ottusa del genere maschile. 

Prevenire, impedire, difendere, punire debbono essere, quindi, i cardini d’ogni valida iniziativa di rieducazione permanente al rispetto reciproco di tutti gli esseri umani e, quindi, anche della donna. A cominciare dalle famiglie, a continuare con la scuola, a proseguire con le istituzioni nazionali e gli organismi internazionali















giovedì 26 maggio 2016

CORRUZIONE E PRESCRIZIONE TRA URGENZE E DUBBI


Pubblicato su Affaritaliani il 29 aprile 2016

Ciò che suscita stupore – che subito, però, si trasforma in indignazione – ormai non sono più la realtà e la scoperta dei fatti di corruzione ogni giorno più dilaganti e veramente sorprendenti. Stupiscono, invece, le reazioni di alcune parti del mondo della politica, quando sono interrogate e chiamate a trovarne i rimedi, al fine di debellare il più possibile la piaga della disonestà privata e del malaffare pubblico. 

Come, soprattutto nell’ultimo ventennio, il “potere legislativo” italiano abbia prodotto volta per volta (e spesso caso per caso) “strumenti  giudiziari” mirati a rendere impunibili non pochi né piccoli reati delle caste e delle lobbies è scritto nelle cronache di quegli anni e ormai sotto gli occhi di tutti. Tra tutti spiccano gli interventi sulla prescrizione, grazie alla quale sono state pronunciate (per costrizione di forza maggiore) numerose sentenze di non colpevolezza, prontamente scambiata e tatticamente propagandata come “innocenza”, tanto che da “presunti colpevoli” si diventava “sicuri innocenti” perseguitati, vittime di una giustizia vessatoria e amante delle manette.  

Da oggi – finalmente! – parte l’esame parlamentare del testo base per allungare i tempi della prescrizione. Significative le puntuali sottolineature fatte ieri all’inaugurazione dell’anno formativo della Scuola Superiore della Magistratura a Scandicci dal Presidente Mattarella, giunto a Firenze in treno. Ricordato il dovere di chiunque s’impegni in politica non solo di essere, ma anche di mostrarsi onesto in ogni momento e con tutta trasparenza, in quanto “nell'impegno politico si assume un duplice dovere di onestà per sè e per i cittadini che si rappresentano”, il Capo dello Stato ha avvertito: “Dobbiamo continuare a spezzare le catene della corruzione, che va combattuta senza equivoci e senza timidezze. Occorre una grande alleanza tra forze sane per sviluppare gli anticorpi necessari”. 

A tal fine è necessario che vi sia la massima coesione tra gli organi dello Stato e nelle istituzioni, perché “Il conflitto genera sfiducia, la giustizia è un servizio e un valore, le istituzioni devono saperla assicurare per evitare che si generi sfiducia e si dia spazio al malaffare". Certo, “Vanno rispettati i confini delle proprie attribuzioni, senza cedere alla tentazione di sottrarre spazi di competenza a chi ne ha titolo in base alla Costituzione”, ma ognuno deve fare senza indecisioni e negligenze il proprio compito. L’ordinamento giuridico e il funzionamento operativo della giustizia sono uno dei pilastri della vita democratica del Paese: "Ai magistrati è affidata la cura di uno degli aspetti fondanti del nostro Stato: la tutela dei diritti, della giustizia, delle libertà. Senza questi non c'è democrazia, non c'è uguaglianza, non c'è dignità della persona, in altre parole non c’è Repubblica”. 

Ecco allora lo stupore, quando si assiste a certi distinguo di qualche parte politica e ad alcune dichiarazioni di alcuni importanti esponenti di partito. Si è giunti a dover leggere il minaccioso ricorso all’uso della “fiducia al governo” anche su quest’atto così vitale per la sopravvivenza morale ed etica dell’Italia. Che senso avrebbe imporre un ultimatum sulla possibilità di somministrare l’unico farmaco salvifico a chi sta morendo proprio per la mancanza di quel farmaco?

lunedì 23 maggio 2016

A ISTANBUL IL VERTICE UMANITARIO MONDIALE

Dalle pagine dell' Osservatore Romano già due giorni fa Fausta Speranza annunciava - con lo scritto che proponiamo nella sua interezza - la celebrazione dell'evento che oggi sta realizzandosi a Istanbul.
"L'impegno per la pace" tra gli uomini e tra le nazioni, da mettere in atto con i fatti e non con le parole, da parte dei responsabili religiosi e politici, senza dimenticare la necessità di svegliare la coscienza e la responsabilità  di ciascuno, come appartenente al genere umano e, quindi, indiscusso corresponsabile.  

"Seimila partecipanti, tra cui cinquanta leader mondiali. Prende il via, lunedì 23 maggio a Istanbul il primo vertice umanitario mondiale, voluto dal segretario generale dell’Onu, Ban-Ki-moon. Per due giorni, nella capitale turca si riuniranno rappresentanti di governi, agenzie per gli aiuti umanitari, comunità colpite, società civile e settore privato.  

Parteciperà anche la delegazione della Santa Sede presieduta dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, della quale faranno parte l’osservatore permanente presso le Nazioni Unite a New York, arcivescovo Bernardito Auza, e l’osservatore permanente presso l’ufficio delle Nazioni Unite ed Istituzioni specializzate a Ginevra, arcivescovo Silvano Tomasi.  

Lo scenario è drammatico e noto. Ogni giorno, le cronache parlano di nuove vittime della violenza. Su dieci, nove di queste sono civili. E sono centoventicinque milioni le persone direttamente coinvolte in questa vera e propria guerra mondiale a pezzi.  

L’obiettivo ultimo della mobilitazione che ha portato al vertice è, in sostanza, tutelare l’umanità, mettendo in campo una cooperazione davvero mondiale. Dalle guerre più diverse ai disastri ambientali più dimenticati. Lo scopo è ambizioso e i piani di azione sono innumerevoli e complessi.  

Le leggi internazionali non mancano ma il punto è «far rispettare le norme che tutelano l’umanità», come è scritto nel titolo di una delle tavole rotonde. Oggi le guerre, che restano comunque drammatiche, sono asimmetriche, senza una contrapposizione precisa di eserciti o schieramenti di forze, e troppo spesso non c’è rispetto dei più basilari principi dei regolamenti internazionali.  

In tema di umanità, un presupposto è fondamentale, anche se troppo spesso dimenticato. È l’idea che, per parlare di umanità nel suo complesso, nessuno debba essere lasciato indietro. Da qui, il dovere di assicurarsi che sempre meno persone siano penalizzate da un’economia globale che non conosce sostenibilità. 

C’è poi una tavola rotonda dedicata a un tema sintetico quanto essenziale: ridurre i rischi. Infine, il dibattito che appare più concreto di tutti, quello su come aumentare i finanziamenti.  

L’appello, che emerge già prima del summit, arriva anche alle religioni e nello stesso tempo è lanciato proprio dalle religioni. A Istanbul infatti ci sarà un dibattito speciale proprio sull’impegno delle confessioni religiose. 

 C’è un antefatto: in vista del vertice umanitario mondiale, un anno fa, a Ginevra, i rappresentanti di quattro religioni hanno partecipato alla giornata di dibattito dedicata proprio al ruolo speciale svolto dalle istituzioni e organizzazioni religiose nelle zone di conflitto. All’incontro, promosso dall’Ordine di Malta, hanno partecipato cristiani, musulmani, ebrei, buddisti. 

In quell’occasione Jemilah Mahmoud, per anni medico in prima fila in vari conflitti e scelto da Ban Ki-moon per guidare il team internazionale di preparazione del vertice di Istanbul, ha ricordato che le organizzazioni a carattere religioso assicurano la maggior parte dell’assistenza umanitaria da cui attualmente nel mondo dipendono, per la stretta sopravvivenza, ben ottanta milioni di persone. Le organizzazioni religiose sono spesso le prime a intervenire sul campo nelle situazioni di emergenza umanitaria e per questo godono della fiducia delle comunità locali. Un’altra caratteristica fondamentale è che il loro arrivo non è legato a interessi politici.  

Ma anche i leader religiosi hanno un obiettivo preciso da raggiungere, lavorandoci molto. Ed è far sì che tutti si impegnino a giocare un ruolo nella battaglia contro i fondamentalismi. 

Più in generale, da parte dei leader politici, è necessaria una doverosa assunzione di responsabilità affinché cooperazione faccia rima con riconciliazione, e perché l’impegno all’assistenza proceda di pari passo con un impegno serio per la pace". (Fausta Speranza)