Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

giovedì 4 giugno 2015

ITALICUM, MATTARELLA FIRMA: IL POPOLO TORNA "SOVRANO"

Pubblicato su Affaritaliani, Mercoledì, 6 maggio 2015

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha promulgato la legge elettorale, che gli è stata presentata dal Parlamento eletto dal popolo italiano, il quale in quest'occasione ha potuto esercitare la propria sovranità "nelle forme e nei limiti della Costituzione", cioè con tutte le modificazioni spesso sostanziali cui è stata sottoposta. Comunque, la nuova legge elettorale è legge e, quindi, da onorare, qualunque possa essere il giudizio dei cittadini, almeno finchè un successivo intervento legislativo non la corregga o la cancelli del tutto: è questo un fondamento giuridico, che affonda le radici nel diritto della Roma antica, e che s'era imposto in tutta la sua valenza morale già molti secoli prima nella Grecia con la testimonianza di Socrate, primo martire del modello di guida democratica.
I cittadini italiani, quindi, ora debbono rispettare la legge promulgata; e, tuttavia debbono nello stesso tempo, vagliarne responsabilmente più a fondo i contenuti; ma non per svilirli e denigrarli, bensì per scoprire possibili ulteriori indirizzi adatti a rinforzarne i pregi ed eliminarne eventuali carenze e pericoli. Nel loro agire concreto - dato che in Italia vige il sistema di democrazia rappresentativa - essi faranno ciò nei modi consentiti nei luoghi a ciò deputati. Bisogna partire, infatti, concretamente dal prendere atto di alcune modifiche sostanziali apportate negli anni anche al dettato costituzionale, sia formalmente e sia tramite la prassi. Si pensi alla trasformazione radicale della natura e del ruolo del partito politico.
Le nuove generazioni non possono più nemmeno immaginare cosa fosse prima degli anni '90 il partito politico disposto nell'articolo 49 della Costituzione quale "diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale"; e, di conseguenza non possono capire il significato autentico dell'articolo 67, quando prescrive che "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato". I partiti politici così intesi erano guidati da "maestri" esperti e buoni, che educavano a guardare più lontano e pensare progetti di bene comune. I partiti, pertanto, pur distinguendosi tra di loro per i valori che ciascuno propugnava come più urgenti, elaboravano progetti e proponevano programmi dettati dai reciproci convincimenti, ma tutti ispirati dal bene comune. E all'interno di ciascun partito si creavano indirizzi diversi, ma ugualmente fecondi e disponibili al dialogo leale e onesto. E sempre con relazioni di reciproco rispetto, anche nei momenti di confronto e di scontro.
Quando s'afferma ciò, talvolta si ha la sensazione d'essere abitanti d'un pianeta ormai scomparso. Infatti, ripercorriamo le modalità con cui le varie forze politiche hanno discusso il testo della legge ora promulgata; oppure riconsideriamo la qualità di linguaggio e i toni usati, spesso anche pubblicamente, da alcuni notabili della classe politica; oppure rivediamo certe scene sconcertanti avvenute nelle Aule parlamentari; oppure, infine, ascoltiamo il grido di sfida lanciato lo scorso 3 maggio dal premier a Bologna a chi s'azzardava di contestarlo: "Non ci facciamo certo spaventare da tre fischi: abbiamo il compito di cambiare l'Italia e la cambieremo, di non mollare e non molleremo". Ma basterebbe leggere il tweet scritto oggi dal premier per pubblicare la foto della sua firma in calce al testo della nuova legge: "Una firma importante. Dedicata a tutti quelli che hanno creduto, quando eravamo in pochi a farlo". Si rimane confusi, e non poco. Una classe politica ha il dovere di rispettare il decoro e la dignità dei cittadini; un autorevole rappresentante del popolo deve guardare sempre e comunque al bene della Nazione, prestando maggiore considerazione alla voce soprattutto di coloro che criticano e addirittura osteggiano. E' proprio dell'uomo politico in generale e di governo in particolare distinguere e valutare..

Ora, però, la nuova legge elettorale di cui è stato dotato l'elettore italiano - comunque sia stata proposta, discussa, ostacolata, difesa, approvata - apporta novità positive, benché mescolate a qualche pericoloso rischio. Infatti, se introdurre con norma costituzionale il modello di democrazia maggioritaria a livello nazionale è stato sempre un tentativo fallito per diversi motivi, negli ultimi vent'anni, però, con le non poche elezioni che si sono succedute, in maniera indiretta ma di fatto, i cittadini sono andati quasi convincendosi d'essere davvero loro a decidere chi avrebbe li governato: cioè, il capo indicato già sulla scheda elettorale di "uno dei due raggruppamenti" in competizione. Ora, con la nuova legge elettorale sarà il capo di "una delle due liste" che, a causa dei requisiti richiesti per ottenere il premio di maggioranza, rimarranno per sfidarsi definitivamente al ballottaggio. Quindi, concretamente sarà il ballottaggio il momento decisivo, in quanto, data l'alta soglia stabilita per ottenere l'assegnazione del premio di maggioranza, difficilmente vi sarà un vincitore al primo turno.

Ecco allora l'importanza del voto del singolo cittadino. I partiti anche in occasione del ballottaggio potranno mettere in campo loro vecchie e nuove strategie, ma sarà la coscienza civica e la responsabilità politica del popolo a scegliere il più idoneo tecnicamente e il più dotato eticamente, a cui affidare il governo per un intero quinquennio. Il ballottaggio, quindi, restituisce il potere concreto ai cittadini. Saranno essi a determinare il futuro dell'Italia, e non avranno alibi per attribuire ai "vizi" altrui eventuali negatività. Questa volta vale davvero che il governo è lo specchio del popolo. Certo non è compito facile né la prospettiva è incoraggiante: la vita politica italiana ha bisogno d'un valido e creduto supplemento d'umanità integrale, aperta alla totalità dei bisogni dell'uomo e all'ordine dei valori degni d'un popolo veramente progredito e civile.

mercoledì 20 maggio 2015

COSA FANNO I PARLAMENTARI

Pubblicato su Affaritaliani martedì, 21 aprile 2015


"Noi assistiamo alle esequie di una forma di governo", disse novant'anni fa, il 19 dicembre 1925, al Senato, nel celebre discorso di rifiuto della legge sulle prerogative del Capo del governo, Gaetano Mosca, dotto giurista, esperto senatore e rispettato membro del governo Salandra. La riforma che veniva proposta, compatibile con la lettera dello Statuto Albertino allora vigente, nella sostanza era preoccupante. E gli avvenimenti degli anni che seguirono diedero ragione al "vecchio" parlamentare, dimostrando nei fatti e con chiarezza che a rinforzare il regime fascista non furono l'energia volitiva del Duce e la capacità governativa del suo Consiglio, ma la debolezza e la paura di molti Membri del Parlamento. Lo strapotere del despota non si fonda mai sulle sue doti morali e sulla sua capacità governativa, ma sempre sulla debolezza e l'inadeguatezza dei cittadini, che, tramite l'atteggiamento e le scelte dei propri deputati, si mostrano incerti nell'esporre le proprie idee, timidi nell'avanzare le proprie proposte e, soprattutto, deboli nel difendere i propri convincimenti e fiacchi nel bloccare il capo, ogni qualvolta pretenda - anche al fine encomiabile di incrementare progresso e garantire felicità - di usare irragionevolmente metodi non accettabili, perchè spesso al limite della legalità e comunque estranei al costume di una vita veramente "democratica e popolare", per cui offendono dignità umana e diritti politici.

E' deludente, quasi disarmante, assistere oggi a "delegati d'un intero popolo", che pretendono a loro volta di delegare codardamente al Presidente della Repubblica azioni e iniziative, che sanno bene che la Costituzione preclude al Capo dello Stato e impone, invece, proprio a loro che sono i detentori del Potere Legislativo. Coloro che hanno il dovere di interpretare e difendere il bene comune della Nazione, s'attardano a dichiarazioni di rito e a insensate minacce verbali spesso indegne, attendendo speranzosamente un qualche intervento dall'alto per fare ciò che solo il Parlamento - nella sua collettività e nei singoli componenti - può e deve proporre a nome del popolo e imporre per il bene del popolo! Se la maggioranza di parlamentari eletti dal popolo, secondo leggi da loro stessi approvate, consente al Governo - da essa voluto e mai sfiduciato - comportamenti arroganti e di fatto al limite d'ogni vera democrazia; se un'intera classe politica, formatasi e costituita secondo norme e procedure da se stessa create, ha dato e mantiene in vita questo Governo, non è proprio il caso che si gridi allo scandalo e s'invochi qualcuno a porre rimedio. Tocca a loro: alla classe politica prendere posizione; è dovere d'ogni parlamentare - delegato secondo la Costituzione a governare senza vincolo di mandato e in nome del popolo e per il bene del popolo - assumersi le sue responsabilità e ad agire secondo il dettato della sua ragione.

Non siamo più nella Firenze governata dai Medici, né il popolo italiano è quella massa amorfa e grezza pensata e descritta dal fiorentino Machiavelli, né i cittadini italiani sono disposti ancora oggi a stare a sopportare chi volesse governarli da capo "furbo come una volpe e forte come un leone", cambiando aspetto da situazione a situazione. Il popolo italiano non accetta più d'essere ingannato, né ha più paura di reagire alla corruzione e incapacità di chi lo governa. Solo la saggezza della ragione dei cittadini italiani e la loro responsabilità civile li sostengono ad assistere tristemente ma dignitosamente anche agli ultimi spettacoli vergognosi offerti nelle Aule Parlamentari. I cittadini aspettano che si passi dalle comparse ai fatti: non significano nulla né il lancio delle frasi indegne per tutti né il tiro dei fiori persino oltraggiati nel loro nobile e sacro significato. E "i fatti" stanno nel potere di voto d'ogni parlamentare, esercitato a viso aperto e dettato da ragione e coscienza, non da calcoli privati e ricatti nascosti.

Novant'anni fa l'ormai vecchio parlamentare Gaetano Mosca, annunciando il proprio voto contrario a una riforma proposta dal governo Salandra (di cui, peraltro, era ministro) avvertiva che mutamenti proposti come strumenti più adatti a un governo efficace, in realtà implicavano cambiamenti radicali del sistema di governo, che rischiavano di compromettere diritti civili, equità sociali, doveri politici e persino valori etici della nazione intera, già in piena crisi morale ed economica di quegli anni (non molto dissimili dai nostri). Probabilmente si trattava di cambiamenti addirittura necessari; ma erano proprio le modalità, con cui li si stava proponendo e perseguendo: procedimenti innovativi esageratamente rapidi potevano nascondere qualche "salto nel buio" dettato dall'impulso frenetico d'una "nuova generazione, che crede di sapere tutto e di poter tutto mutare". Proprio per questo, terminava le sue parole, dichiarando umilmente che sentiva come suo "forte dovere di ammonirla".

Sono passati circa novant'anni: forse non pochi perché gli "anziani" e le "nuove" generazioni del nostro tempo rileggano la nostra storia, prendendo qualche utile lezione.

lunedì 4 maggio 2015

I BENEFICI DELL'ALTRUISMO


Il Sole24Ore del 4 Maggio 2015 ha ospitato in "Commenti &Inchieste" una recensione del volume di Peter Singer "The Most Good You Can Do".
 
La trascriviamo, offrendola all'attenzione di altri. Infatti, se ne potrà condividere con felice stupore il messaggio, in considerazione della qualità dello scenario di idee e di fatti, cui oggi s'assiste in molti ambiti e a ogni livello.
 
"Gli esseri umani possono davvero sentirsi motivati dall’altruismo? Il mio nuovo libro “The Most Good You Can Do” illustra la comparsa di un nuovo movimento denominato Effective Altruism (Altruismo efficace) e mentre facevo interviste per documentarmi sono rimasto sorpreso da quanto spesso sia formulata questa domanda.

Perché dovremmo dubitare dell’agire a fini altruistici di alcune persone, quanto meno in alcune occasioni? In termini di evoluzione, possiamo comprendere facilmente l’altruismo verso un congiunto o un prossimo in grado di ricambiare l’aiuto che diamo. Pare plausibile supporre che, una volta sviluppatasi a sufficienza la nostra capacità di ragionare e riflettere per capire che anche gli sconosciuti possono soffrire e godere la vita quanto noi, almeno alcuni tra noi agiscano altruisticamente anche nei confronti degli sconosciuti.

Gallup, società di sondaggi d’opinione, ha intervistato persone di 135 paesi, chiedendo se negli ultimi mesi avessero effettuato donazioni per beneficienza, se si fossero attivati come volontari in qualche organizzazione o se avessero aiutato un perfetto estraneo. Dai risultati, raccolti per il World Giving Index 2014, risulta che quasi 2,3 miliardi di persone, un terzo della popolazione mondiale, compie almeno un’azione di puro altruismo al mese. (...)

Il movimento Altruismo Efficace è formato da persone che donano con il cuore e con il cervello. Scopo della loro donazione è ottenere il massimo possibile dalle risorse che sono disposti a mettere da parte per tale fine.

Tra queste risorse può esserci un decimo, un quarto o perfino la metà delle loro entrate. Il loro altruismo può concretizzarsi in tempo e talenti, e influenzare la loro scelta di una carriera. Per perseguire il loro scopo, usano la logica e si documentano per assicurarsi che qualsiasi risorsa loro dedichino a fare del bene sia quanto più possibile efficace.

Da numerosi studi risulta che chi è generoso in genere è più felice e più soddisfatto della propria vita rispetto a chi non fa beneficienza.

Da altre ricerche sappiamo che l’atto di donare porta ad attivare anche i circuiti cerebrali della ricompensa (le aree del cervello stimolate da cibi stuzzicanti e dal sesso).

Ciò non significa, tuttavia, che questi donatori non sono altruisti. La loro motivazione esplicita è aiutare gli altri, e donare li rende più felici soltanto in conseguenza del fatto che il loro aiuto effettivamente aiuta gli altri.

Se esistessero più persone di questo tipo, si donerebbe di più ed è questo che noi tutti vogliamo. Definire l’“altruismo” in termini così stretti, al punto che si ritiene opportuno utilizzare questa parola soltanto quando la donazione appare in contraddizione con l’interesse generale e complessivo di una persona, significa mancare completamente di centrare il punto: la situazione migliore da auspicare è quella nella quale promuovendo gli interessi degli altri si agisce in armonia per promuovere anche i propri".

Traduzione di Anna Bissanti

 

sabato 2 maggio 2015

L'INFINITO


 
L’intreccio complicato e aggrovigliato dei fili della matassa dell’esistenza individuale dell’uomo si compatta lentamente, inesorabilmente, palesemente, lucidamente man mano che scorrono i giorni dell’età umana non più verde.
 
La compattezza del groviglio si rinserra sempre più e lascia sempre meno interstizi e sfilacciamenti, spesso provvide fessure per mantenere qualche possibile contatto con le realtà esterne circostanti. Si forma sempre più distintamente un unico blocco, in cui ci si sente assolutamente chiusi e circoscritti nel proprio essere: non angoscia di vertigine, ma freddo gelido contatto con se stessi soli, interi, senza peduncoli e filamenti o appendici e legamenti con altro non voluti e comunque non graditi, ma talora convenienti per poter condividere sensazioni con altri o addossare ad altri cause del nostro vivere, riferendo loro sentimenti di piacere o di dolore.
 
Essere umano solo: unico autore dei propri giorni di vita, unico titolare delle proprie azioni positive e negative, unico e solo con se stesso. Non moti di triste rimpianto, non bisogno di respiro libero, non voglia di giustificare il passato o illuminare il presente o immaginare altri giorni di esistenza futura. Ma, immobilità ormai pronta ad accogliere l’inesorabile destino proprio dell’essere umano; coscienza chiara e solida, profonda e pacata che “questo è il mio essere”: tutto mio, solo mio. Nel passato, nel presente, nel futuro; ma non più segmenti d’una linea misteriosa e ignota, ma totalità atemporale, in cui tutto diventa concreto, indelebile, vivo e vivificante. Tutto ciò che mi ha circondato durante il tempo, come fine o come mezzo, come valore o come inciampo, come senso della vita o come negazione di virtù, tutto comincia quasi a svanire, allontanandosi e rifugiandosi in un distacco non cercato ma sopravvenuto, non desiderato ma pacificante.
 
Serenità e pace interiori, tutte proprie, che niente e nessuno potranno scorgere e che a nessuno dovranno essere comunicate. Nessuno le contaminerà né le dissacrerà. Presagio della fine? No. Possesso potente esistenziale, solo possesso totale di sé sublimante ed emozionante: in compagnia di un passato voluto o più spesso condizionato e addirittura determinato da situazioni e circostanze, tanto che si desidera con forza di volere vivere responsabilmente il proprio presente e programmare liberamente il proprio futuro. Sintomo di depressione morale? No. Bisogno, solo bisogno di possedersi tutto intero, senza attendere gli eventi e le risposte dal mondo temporale, per continuare a donare gratuitamente il proprio essere a chiunque voglia parteciparne, ma senza alcun contraccambio. Ma, nello stesso tempo, distaccarsi gradualmente, consapevolmente, volontariamente da ogni realtà fisica e spirituale, che alla fine del corso della vita, prima o poi, ci sarà tolta senza il nostro consenso. Bisogno, quindi, di fondere l’esistenza con l’essere. Finalmente. Momenti che non vanno temuti, ma amati e accarezzati; che non vanno allontanati, ma accolti e sciolti nel proprio animo. Solo allora, “naufragando” in questa indistinta immensità, ci si intuisce parte indistinta dell’Infinità. 

LA POLITICA TRA POTERE E SERVIZIO

Pubblicato su Affaritaliani martedì, 21 aprile 2015

Renzi e Pisapia due esempi, o meglio due modelli d'intendere e fare politica. Da una parte la politica di un governo che s'affanna a fare tutto, in fretta e quasi sempre da solo; dall'altra la politica di due persone che agiscono con prudente pazienza e con tempi ritmati....

giovedì 16 aprile 2015

SENZA DISTINZIONE NON C'E' VERITA'

Pubblicato su Affaritaliani col titolo “Le sentenze un po’ grossolane di Matteuccio”. Martedì. 24 marzo 2015
 
Nel discorso rivolto agli studenti della LUISS oggi pomeriggio (lunedì 23 marzo), il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha parlato a tutto campo, optando con decisione per la tattica dell’attacco generalizzato. Non s’intende assolutamente mettere in dubbio la sincerità delle convinzioni del premier, che del resto ha chiesto la copertura dello stesso Montesquieu,  né d’altra parte si ha intenzione (almeno per il momento e per la natura e le  finalità di quest’intervento) di entrare nel merito del molteplice e notevole operato del suo governo. Ma solo alcune precisazioni, per evitare che la vivacità della parola e la forza trainante della retorica nascondano pericolosi fraintendimenti.
 
A ciò spinge anche l’ammonimento lanciato dal filosofo-psichiatra austriaco Victor Emil Franckl: “L’uomo non agisce solo per ciò che è, ma diviene anche per ciò che fa” e, ovviamente, anche per il modo con cui lo fa: e vale sia per i singoli individui che per i popoli interi. Le modalità con cui si decide una scelta, quindi, sono fondamentali soprattutto oggi, nell’attuale società, dominata dall’insicurezza e dall’incertezza, per cui è apprezzabile un atteggiamento ispirato a decisionalità. Decisionalità che, però, non va confusa e tanto meno identificata con il decisionismo, alimentato dalla tentazione di prendere decisioni in maniera rapida, senza la necessaria ponderazione e, soprattutto, senza adeguate consultazioni, ostentando spesso eccessiva sicurezza in se stessi, che fa rimanere chiusi nella logica del proprio pensiero e non fa ascoltare nessun altro interlocutore. Per cui si pensa d’avere sempre ragione, convincendosene sempre di più con il ripeterselo. La decisionalità è davvero efficace solo e quando si sostanzia della ponderatezza ragionevole, del dialogo disponibile, della responsabile previsione d’ogni possibile conseguenza nel medio e lungo termine, dell’onestà intellettuale di riconoscere propri eventuali errori e dell’umiltà morale di porvi rimedio. Tutte qualità difficili a trovarsi simultaneamente in uno stesso uomo e in una medesima situazione.
 
Quando il premiere afferma con convincimento per noi sospetto: “Deriva autoritaria è il nome che tali commentatori un po' stanchi danno alla loro pigrizia”, sembra confondere la “legittimazione a prendere decisioni” con le modalità proprie di quel sistema politico “democratico” che concede tale legittimazione. E certi procedimenti nel prendere decisioni segnano un confine sottilissimo con il decisionismo, che fa riemergere paure di sistemi non proprio democratici. Non sempre di “pigrizia”, quindi, si può trattare, ma talora forse di quella saggia esperienza, che già il vecchio e scaltro Cicerone attribuiva come prerogativa all’età avanzata (che mai avrebbe pensato di “rottamare”, ma certo di fruirne!).
 
E così suscita preoccupazioni l’altra affermazione del premier: "Se consentiamo di stabilire un nesso tra avviso di garanzia e dimissioni, stai dando per buono il principio per cui qualsiasi giudice può, non emettere una sentenza (che sarebbe anche comprensibile), ma iniziare un'indagine e decidere sul potere esecutivo". Esatto. Ma ci si sarebbe aspettato che il premier, nel rivendicare giustamente la “centralità della politica”, avesse aggiunto - con franca onestà e autentica libertà di pensiero - che la dignità del mondo della politica e la trasparente intaccabile moralità del politico, da parte loro, non dovrebbero dare mai adito alla magistratura di “dettare l’agenda dei governi”.
 
 
 

 

 

 

venerdì 20 marzo 2015

SCUOLA, LA RIFORMA MERITA SERIETA'

Pubblicato su "Affaritaliani"  il 6 marzo 2015

L'annunciata riforma "storica" della scuola, annunciata come vera rivoluzione epocale e perno della ripresa globale della vita civile e politica dell'Italia - come è stato spesso dichiarato dai governanti del momento - è stata affidata a un Disegno di Legge, che il Parlamento dovrà approvare (come è stato avvertito dall'Esecutivo) entro metà aprile, cioè circa 40 giorni. Se ciò non avverrà, la gravità e l'urgenza della riforma farà sentire il governo "costretto" all'adozione della decretazione d'urgenza, per la cui conversione in legge, però, il Parlamento avrà ben 60 giorni. La motivazione di questo strano comportamento la spiega lo stesso Presidente del Consiglio Renzi in un'intervista rilasciata all'Espresso: "Sulla scuola - ha detto - ci siamo impegnati con il Presidente della Repubblica e con le opposizioni a presentare meno decreti possibile. Mettiamoci d'accordo: prima mi accusano di essere un dittatore, che vuol fare tutto da solo; se presento un disegno di legge aperto alla discussione, mi accusano di non decidere".

Il premier, allora, rivela, o almeno fa intuire, le vere ragioni della sua obbligata azione: "concedere" anche solo formalmente alla Camere Legislative almeno un po' del potere attribuito loro dalla Costituzione e che ogni Presidente della Camera dei Deputati (lungi dall'uscire dal perimetro della propria autorità e invadere il perimetro delle competenze altri) ha il dovere istituzionale di garantire e di difendere le prerogative dell'Istituzione presieduta. Infatti, se la riforma della scuola è davvero "urgente" (come ha dichiarato il sottosegretario Faraone) e richiede lealmente "una discussione ampia" (come ha detto esplicitamente Renzi) la procedura più congrua e lineare è semplice: il Consiglio dei Ministri licenzi un testo di riforma ben definito in ogni suo aspetto e lo sottoponga alla fiducia del Parlamento, che saprà certamente valutare le proposte dell'Esecutivo nella loro oggettiva portata.

Da molte parti (politiche, sindacali sociali) si sospetta, comunque, che dietro tutta l'enfasi delle procedure da adottare e della tempistica da rispettare ci siano difficoltà molto più serie, che solo chi ha vissuto e operato nella scuola conosce.

La scuola ha una problematica molto delicata e complessa: nelle aule scolastiche non c'è una fabbrica, un opificio o una azienda, ma vite umane d'indiscutibile valore e dignità; c'è il futuro concreto delle nuove generazioni, cioè la qualità della vita dei singoli e di tutto il popolo italiano. C'è il futuro dell'Italia affidato a operatori scolastici (docenti, amministrativi, tecnici, ausiliari), che quotidianamente dedicano forze fisiche ed energie culturali, spesso ignorati e talora persino non trattati dignitosamente. E non solo e non tanto per l'aspetto economico: da sempre la scuola si è retta sulla dedizione professionale e sulla abnegazione umana degli insegnanti, che hanno saputo scindere la consapevolezza dell'importanza del loro ruolo dalla considerazione da parte della società e persino dall'indecorosa retribuzione economica. Per questo il mondo della scuola pretende serietà vera e richiede responsabilità convinta, onde guardare al di là dell'immediato e dai risvolti puramente partitici e di successi personali, che non sempre comunque sono da biasimare; anche quando si rischia d'essere considerati e dichiarati "dittatori"; il dittatore non è necessariamente un tiranno: ci sono state e possono esserci sempre nobili figure di dittatori, alieni da ogni vanità, da ogni sfarzo, da ogni esteriorità, al servizio del bene comune.

martedì 17 marzo 2015

POTERE COME SERVIZIO, SPERANZA NELL'ERA MATTARELLA

Pubblicato su "Affaritaliani" mercoledì, 25 febbraio 2015

All'imprevedibile stupore per i forti messaggi della "Enciclica dei gesti", che Papa Francesco (o, meglio, Francesco, vescovo di Roma) lancia ormai quotidianamente, fa seguito un inaspettato sconcerto per il comportamento normale del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Entrambi ai vertici d'un alto potere loro affidato, continuano entrambi a vivere la quotidianità come uomini e cittadini comuni, che adempiono con consapevolezza e senso del dovere ai compiti loro fiduciosamente affidati e da loro liberamente accettati. Crea forte incredulità, tuttavia, che a stupire siano la normalità umana e la dignità istituzionale, che rendono comprensibile, accettabile e persino piacevole l'esercizio del potere come servizio disponibile a tutti e non come supremazia da esercitare su tutti. Crea meraviglia un Presidente della Repubblica, che esce da casa in panda, che usa un volo di linea per recarsi a visitare i suoi cari defunti, che utilizza due mezzi pubblici per andare da Roma a Firenze, per presenziare alla Scuola Superiore della Magistratura l'inaugurazione dei corsi di formazione del 2015.

Stupore e incredulità, tanto opposti sono stati per decenni gli spettacoli offerti dalle varie "cariche pubbliche". E il neo presidente della Repubblica (come già anche il pontefice romano) va diritto non solo nelle forme, ma soprattutto nella sostanza concreta dei problemi reali e, senza alcuna esitazione, anzi con cipiglio mite ma risoluto e, quindi, indisponibile a qualunque aggiustamento improprio, avverte chiunque che le problematiche debbono essere considerate nell'ottica delle esigenze del popolo e risolte nella prospettiva del maggior bene comune. A partire dal potere giudiziario, terzo insieme a quello legislativo ed esecutivo. "I magistrati - scandisce - siano terzi, autonomi e imparziali, né protagonisti né burocrati nel processo"; e a richiedere ciò con urgenza non è qualche tattica compromissoria tra i poteri pubblici o qualche convenienza di equilibri tra i partiti politici, bensì il "bisogno di legalità fortemente avvertito nel Paese". Per soddisfare questo bisogno la stessa magistratura è invitata a darsi "delle strategie organizzative volte al recupero di efficienza", proprio perché è lo stesso ordinamento della Repubblica che "esige che il magistrato sappia collegare equità e imparzialità, fornendo una risposta di giustizia tempestiva per essere efficace, assicurando effettività e qualità della giurisdizione".

Da questo modo di comportarsi del presidente Mattarella sono avvisati gli altri due poteri (Parlamento legiferante e Governo esecutivo) e i responsabili dei partiti politici.

Il Governo proclama e minaccia di "andare avanti per la sua strada", interpretando ogni richiesta di confronto come tentativo di rallentare il cammino e accusando ogni posizione diversa dalla sua come volontà conservatrice. Il Governo s'appella alla decretazione d'urgenza e alla richiesta di fiducia (talora ricattatoria), dalle altre parti si minaccia l'ostruzionismo delle Camere e la contestazione delle piazze. Tutti sono d'accordo ad invocare e reclamare l'intervento del presidente Mattarella. Ma il neopresidente ha fatto sapere che ogni tema, che sarà proposto al suo esame, sarà "esaminato scrupolosamente sotto il profilo della necessità e dell'urgenza". Del resto, nel suo discorso di insediamento Mattarella ha fatto capire - ovviamente a chiunque avesse voluto capire - che suo impegno sarebbe stato quello di riportare la vita politica e istituzionale alla normalità: "Vi è anche la necessità di superare la logica della deroga costante alle forme ordinarie del processo legislativo, bilanciando l'esigenza di governo con il rispetto delle garanzie procedurali di una corretta dialettica parlamentare". Fondandosi su solide basi, anche la Presidente della Camera Laura Boldrini aveva sanzionato il potere esecutivo, in quanto " bisognava considerare i pareri dati dalle Commissioni".

L'arbitro è imparziale. Forse i giocatori non gli facilitano il compito: qualora si propongano di fare, basta che guardino un po' di il là del loro recinto ed esercitino il potere come servizio per il bene comune. Guardando, come modello, ciò che fanno papa Francesco e il presidente Mattarella.

mercoledì 25 febbraio 2015

PER UN PROFILO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

 
Pubblicato su Affaritaliani il 18 gennaio 2015:
Quirinale, il Palazzo è troppo lontano dal popolo

Non sarebbe forse auspicabile che ci si preoccupasse di ascoltare e interpretare anche le esigenze del popolo, per verificarne "l'aria che tira"?

“La scelta (del Presidente della Repubblica) – ha scritto Sabino Cassese sul “Corriere della Sera” di oggi (domenica 18 gennaio) - ha premiato una esperienza e ha confermato il rapporto Parlamento-presidente-governo”, puntualizzando che i cittadini stanno attenti “non tanto a chi salirà al Quirinale, quanto alle modifiche costituzionali e alla legge elettorale, perché le istituzioni contano più degli uomini”. Per questo invita a “guardarsi indietro e vedere come sono stati scelti i presidenti italiani”. Analisi e preoccupazioni del tutto condivisibili, salvo da aggiungere che la storia italiana dell’ultimo ventennio repubblicano documenta che le “istituzioni” nel passato non molto remoto erano lo specchio (soprattutto) della libera volontà del popolo italiano e non solo (o soprattutto) il risultato dell’azione di alcuni partiti, così come si sono evoluti fino ad oggi. E questa preoccupazione sembra essere confermata dagli ultimi atteggiamenti della politica.

 Infatti, qualche giorno fa il premier Matteo Renzi ha fatto sapere ai suoi: “Nelle 24 ore precedenti al primo voto formalizzeremo la proposta del Pd, riunendo gruppi e grandi elettori”; a completarne il pensiero è intervenuto il presidente del Pd, Matteo Orfini: “I prossimi giorni – ha specificato - si capirà che aria tira dentro al Pd e dentro Forza Italia”; qualche giorno dopo il presidente emerito Napolitano, durante la festa tributatagli nel rione Monti a Roma, con parole misurate e asciutte ha augurato per il suo successore, “chiunque sia, uomo o donna, di fare bene il proprio lavoro, applicarsi molto ai problemi, ed è importante che si torni dopo un periodo eccezionale alla normalità”. E Renzi tempestivamente non ha mancato di rassicurare: “La solidità istituzionale sarà un elemento di assoluto rilievo”. E questo sembra voler essere il senso anche dell’auspicio che, in occasione dell'inaugurazione del palazzo restaurato del consolato di Firenze, John R. Phillips, ambasciatore degli Usa in Italia, ha formulato: "Noi speriamo che gli italiani cerchino di trovare qualcuno che abbia la statura e le capacità che il presidente Napolitano ha sempre continuamente dimostrato".

Per raggiungere questi obiettivi, i responsabili dei vari partiti si stanno dedicando febbrilmente a incontri chiarificatori e a reciproche consultazioni con esperti variamente qualificati, consapevoli della loro responsabilità: vagliare e armonizzare – secondo la stessa ragion d’essere d’ogni azione politica – le esigenze espresse dalle varie parti, tentando al massimo ogni concreta possibilità di accordo e di consenso. Analizzando, però, rigorosamente comportamenti ed esternazioni dei vari capi, nasce, appunto, la forte perplessità. In tutte queste pur lodevoli fatiche della politica, per dare una guida valida al Paese, quanto popolo italiano è rappresentato o comunque “ascoltato”? Non sarebbe forse auspicabile che ci si preoccupasse di ascoltare e interpretare anche le esigenze del popolo, per verificarne “l’aria che tira”? Ovviamente si tratterebbe di frugare nelle menti e di penetrare negli animi della totalità dei cittadini italiani, sia di quelli che i partiti presumono coinvolti e interessati sia di quelli che la politica degli ultimi tempi sta sempre più allontanando dalle istituzioni, tanto da renderli addirittura persone di primo piano della cosiddetta antipolitica, proprio perché molti fatti li obbligano a considerare l’attività politica come conquista del potere solo per interessi privati o di parte e non certo per il bene comune. Oggi, la priorità delle priorità è dare all’Italia un Capo dello Stato capace e degno, che miri, però, soprattutto a riabilitare il ruolo naturale della politica: cioè, potere come attaccamento al bene comune costruito mediante l’unificazione degli animi di tutti, ora lacerati da lotte ideologiche e spossati da governi inadatti e non di rado persino ostili.

La figura di Giorgio Napolitano, ovviamente, non può essere proposta come modello: troppo breve è il tempo trascorso, perché gli animi siano sereni nel valutare e oggettivi nel giudicare. E allora, seguendo il suggerimento anche di Cassese, ripercorriamo qualche pagina della storia, per rintracciare - ove ce ne fosse - qualche esempio valido e utile. Ora, la complessità dell’attuale situazione internazionale,  le difficoltà della politica nazionale presente, la problematicità della sicurezza e i problemi del mondo del lavoro richiamano (in tutto o in parte) i tempi, l’opera e la testimonianza – tra gli altri - di Sandro Pertini. Non sarebbe fuor di luogo, pertanto, che i “grandi elettori”, che il 29 gennaio prossimo voteranno per eleggere il futuro Presidente, si voltino un po’ indietro e meditino la lezione che quest’indiscusso Padre della Patria ci ha lasciato. La candidatura di Pertini al Quirinale emerse, di fatto, l’8 luglio 1078, sessanta giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro e al sedicesimo scrutinio, dopo una complicata ricerca d’intesa tra le forze politiche: e fu eletto con 832 voti su 995 votanti. Nel messaggio al Parlamento subito dopo l’elezione non ebbe alcuna reticenza a dichiarare con ardita trasparenza: “Non posso non ricordare che la mia coscienza di uomo libero si è formata alla scuola del movimento operaio di Savona e che si è rinvigorita guardando sempre ai luminosi esempi di Giacomo Matteotti, di Giovanni Amendola e Piero Gobetti, di Carlo Rosselli, di don Minzoni e di Antonio Gramsci,mio indimenticabile compagno di carcere. Ricordo questo con orgoglio, non per ridestare antichi risentimenti, perché sui risentimenti nulla di positivo si costruisce, né in morale, nè in politica. Ma da oggi io cesserò di essere uomo di parte. Intendo essere solo il Presidente della Repubblica di tutti gli italiani, fratello a tutti nell’amore di patria e nell’aspirazione costante alla libertà e alla giustizia”.

“Intendo essere solo il Presidente della Repubblica di tutti gli italiani”: di questo c’è bisogno anche oggi per l’Italia. E’ necessario certamente dotare il nostro Paese d’un Capo di Stato, che sia pronto a stanare la probabile inerzia del Potere Legislativo, attento a sollecitare riforme e provvedimenti necessari  per la soluzione dei molti e gravi problemi, solerte nel guidare e garantire i limiti legittimi d’ogni Potere costituzionale. Ma che sia prima e soprattutto preoccupato a costruire le fondamenta su cui basare tutto ciò: far riappacificare i cittadini tra di loro e far rinascere in loro l’amore verso le Istituzioni, che – sotto la sua vigilanza - dovranno essere virtuose e credibili. “Non dimentichiamo – avvertiva Pertini – che se il nostro paese è riuscito a risalire dall’abisso in cui fu gettato, lo si deve anche e soprattutto all’unità nazionale realizzata allora da tutte le forze democratiche. E’ con questa unità nazionale che tutte le riforme (…) potranno essere attuate. Questo è compito del Parlamento”. Si sente da varie parti reclamare un Capo dello Stato con particolari requisiti. Opinioni tutte lecite e comprensibili. I comportamenti di Sandro Pertini dimostrano che ogni uomo ha una sua storia personale, per cui  sembra più saggio valutare lo spessore e il valore d’un uomo non tanto da ciò è stato, quanto piuttosto da quanto sarà capace di evolvere, divenendo sempre idoneo alle responsabilità, che gli vengono affidate e di cui vorrà liberamente farsi carico.

 

 

lunedì 5 gennaio 2015

LA RIFORMA DEL TERZO SETTORE, URGE UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

Pubblicato da "Affari Italiani", Mercoledì, 3 dicembre 2014

La riforma del terzo settore, urge una rivoluzione culturale
di Cosimo Scarcella*

Il Presidente del Consiglio, intervenuto al convegno organizzato per la Giornata internazionale delle persone con disabilità, ha comunica che la delega sulla riforma del Terzo settore andrà in Aula nei primi mesi del prossimo anno. La Commissione Affari Sociali a Montecitorio, di fatto, dopo aver ascoltato nelle ultime due settimane le realtà interessate e comunque coinvolte al problema, è in grado di aprire i termini per la presentazione degli emendamenti e per la discussione nei dettagli sul testo del Disegno di Legge Delega da portare alle Camere. Si tratta, in sostanza, di legiferare sul modello d’impresa sociale, che si ha in mente di promuovere, realizzare e sostenere.

Nel testo approvato dal Consiglio dei Ministri il 10 luglio 2014 è già chiara la visione globale del governo, che sottende sia i motivi che gli obiettivi della riforma proposta; cioè, riordinare la normativa che disciplina attualmente il terzo settore, corredandola di più adeguati strumenti atti a formare un sistema sociale, che garantisca a ogni cittadino la partecipazione responsabile e personale per la crescita, l’occupazione e lo sviluppo di tutti. In termini diversi: coinvolgere l’intera società cosiddetta civile a divenire promotrice autonoma di bene comune. A tal fine è davvero rilevante lo spirito e la serietà, che animano il legislatore: determinare rigorosamente i confini d’ogni attività di terzo settore; favorire i principi di sussidiarietà orizzontale e verticale sanciti nella Costituzione; deliberare valide forme di sostegno giuridico e finanziario; incoraggiare l’evoluzione del mondo del non profit in impresa sociale, soggetto anche economico e, quindi, creatore di occupazione, sviluppo e ricchezza comune.

Sono note le perplessità che provengono da varie direzioni e riguardanti diversi aspetti dell’aggrovigliato mondo del non profit e del complicato comparto dell’intero volontariato. Si teme, infatti, che resti tutto nuovamente scritto nel libro dei buoni propositi per la scarsezza di risorse e che si continui a “usare” il terzo settore come stampella dell’economia pubblica dello Stato e dell’economia privata del Mercato. Settore, appunto, “terzo”: che viene, cioè, solo dopo i primi due, e solo per raccoglierne i residui inutili, onerosi e soprattutto non redditizi; nella migliore delle intenzioni, considerati opportuno strumento per colmare le inefficienze e danni causati dalla crisi dell’attuale modello socio-politico-economico dominante nell’Occidente. Oltre alle incertezze provenienti da questi assetti istituzionali, non meno forti sono i dubbi, che nascono per il ruolo e il coinvolgimento degli Enti Locali, che sono in definitiva i concreti “gestori” delle iniziative del terzo settore e del volontariato. Unanime, infatti, è la condivisione del proposito di ampliare i settori economici, in cui potranno operare le nuove imprese sociali - come il commercio equo e solidale, l’inserimento dei disoccupati, l’accoglienza sociale, il microcredito -; diversificata e, quindi, discutibili e tutti da verificare sono, invece, altri aspetti vitali per la solidità e la sopravvivenza d’ogni futura impresa sociale. Non ci si può non preoccupare, per esempio, di definire il limite minimo dei ricavi dal mercato di ciascuna impresa, di stabilire il limite massimo della distribuzione degli utili, di riconoscere la capacità imprenditoriale di ottenere un ritorno sul capitale sociale. A questo riguardo sembra necessario, pertanto, inventare e introdurre nuovi e adeguati modelli di valutazione e di controllo.

Ogni movimento culturale e ogni progetto di vita sociale ed economica nasce e si alimenta d’un proprio insieme di valori logicamente elaborati, verificati dall’esperienza e confermati dai risultati. Di conseguenza sembra vano porsi al di fuori del sistema Stato e criticarlo per azioni che vanno aldilà dell’economia pubblica; e così per l’economia privata di Mercato. Qualora non se ne condividano le ragioni, è lecito segnalare gli effetti negativi per tutti e invitare a correggere alquanto il passo. Ma giammai ad auto annullarsi e cedere il posto a chi vuole essere promotore d’una nuova modalità di vita. Ragionevole sembra essere, invece, proporre una propria visione alternativa di vita privata e comunitaria e, attraverso confronti leali e liberi, collaborare per orientare al meglio la società in ogni sua componente.

La riforma del Terzo settore ha senza dubbio bisogno dell’adeguamento di norme e regole da erogare da parte delle Istituzioni, ma necessità sopra e prima di tutto d’una profonda rivoluzione culturale da parte della società tutta, finora spesso solo fruitore di beni e servizi attesi e pretesi come un diritto inalienabile. Pertanto, senza snaturare la propria ragion d’essere, per il mondo del Terzo settore è ormai ineludibile che tutti coloro che operano in esso diventino soggetti autonomi e indipendenti, quindi produttivi e in grado di finanziare almeno in parte i propri scopi. Senza questo rinnovamento culturale i soggetti della società civile operanti anche nel Terzo settore continueranno a rimanere beneficiari di beni e servizi, ma non diverranno anche soggetti d’arricchimento collettivo e d’incremento di bene comune. E’ in questione, quindi, un cambio di mentalità, sintetizzato nel famoso appello di Kennedy: “Non chiedere quello che il tuo Paese può fare per te, chiediti invece quello che puoi fare tu per il tuo Paese”. E’ questa la scommessa da vincere. Far ripartire il Paese - come da ogni parte s’invoca – è sicuramente possibile sperando in un futuro magnifico, ma da realizzare grazie alla responsabilità nel presente da parte d’ogni cittadino. E’ impensabile ormai che immense energie umane siano ridotte a supplire carenze di servizi pubblici spesso del tutto assenti; è assurdo che preziose capacità professionali restino soffocate da crisi dell’Impresa; ed è disumano che popoli interi restino vittime del mercato del solo profitto ad ogni costo. Comunque, è indubbio che esseri umani vivano esclusi da ogni forma di vita umanamente sostenibile è da addebitare a ogni singolo uomo e cittadino, sordo allo spirito di sussidiarietà anche orizzontale, che sprona la coscienza dell’uomo verso sentimenti di solidarietà. Pertanto, se le Istituzioni e il Mercato non possono né debbono delegare all’opera assistenzialistica dei privati i loro doveri, nemmeno la società del Terzo settore può usare le negatività di governanti e imprenditori come alibi per evitare i propri doveri d’iniziativa e produttività destinate al bene comune. Per dare vita a forme di vita singola e collettiva più a dimensione d’uomo, è auspicabile davvero un rinnovamento (rivoluzione) culturale globale, che coinvolga tutte le coscienze e tutte le volontà. Così potrà avere buon esito anche la riforma del Terzo settore.
*filosofo

E' FINITA L'ERA DELLA RAPPRESENTANZA POPOLARE

Pubblicato da "Affari Italiani", Giovedì, 20 novembre 2014

IL COMMENTO - Il popolo italiano non elegge già da tempo i suoi "deputati" né li delega a legiferare a nome suo e per il bene di tutti. Ormai deve prendere soltanto atto d'ogni operato dei vari soggetti designati e cooptati dagli schieramenti politici e dalle altre forze che contano... Di Cosimo Scarcella

Giovedì, 20 novembre 2014 - 16:21:00

Il popolo italiano non elegge già da tempo i suoi "deputati" né li delega a legiferare a nome suo e per il bene di tutti. Ormai deve prendere soltanto atto d'ogni operato dei vari soggetti designati e cooptati dagli schieramenti politici e dalle altre forze che contano. Osservando lo scenario odierno offerto dai partiti politici, si capisce finalmente cosa hanno voluto dire molti pensatori assennati e disincantati, quando hanno definito i parlamenti il "mercato delle vacche". Nei mercati di rione, infatti, è normale il "tirare sul prezzo" il più possibile dalle parti contrattanti, con reciproca furbesca attenzione, però, al punto di rottura, che farebbe perdere l'affare sia al compratore che al venditore. A questo sembra essere ridotta la politica italiana di questi ultimi mesi. Politica, in sé e per sé, è abilità di risolvere problemi e soddisfare bisogni reali dei cittadini, che si presentano indubbiamente diversi e talora perfino opposti e, quindi, che vanno legittimamente e saggiamente mediati. Portavoce naturali delle singole voci popolari sono i partiti politici. I governi che si succedono al potere, di conseguenza, hanno il duplice dovere di difendere l'identità della propria parte politica e, nello stesso tempo, di captare i bisogni e intuire i valori delle altre parti. La storia della Repubblica Italiana documenta che è stato questo l'ideale regolativo dei vari governi, almeno fino a un ventennio fa: da Alcide De Gasperi e Togliatti a Enrico Berlinguer e Aldo Moro. E questo è il significato autentico anche del paradosso delle "convergenze parallele", che si dice abbia pronunciato Aldo Moro durante il congresso di Firenze della D.C. nel 1959: concetto assurdo in matematica, ma fondamentale per una politica sana e un governo buono, in quanto le molteplici "parallele" socio-politiche ed economico-finanziarie devono convergere il più possibile in ogni iniziativa governativa, al fine di perseguire il bene comune.

Non susciterebbe stupore, quindi, il fermento che anima palazzi e piazze italiane in questi ultimi mesi: in una normale vita democratica sarebbe ottimo segno di dialettica viva e costruttiva. La cosa, però, insospettisce, anzi spinge ad analizzarne e capirne le motivazioni reali e le finalità forse taciute. Da ogni parte, infatti, s'ostentano dichiarazioni di difesa degli interessi generali e di rivendicazione del bene del popolo, quando nella sostanza dei fatti il popolo risulta del tutto dimenticato o accontentato con qualche briciola residua (forse anche casuale e indiretta, ma certo non disinteressata). I protagonisti della politica odierna sembrano, infatti, mercanti attenti agli affari propri, che mirano a concludere a ogni costo e a ogni prezzo, e perciò attenti solo al punto di rottura: pronti sì alle schermaglie e agli scontri, ma anche disponibili ai compromessi d'ogni genere. Comportamento dettato - si predica - dal proposito di salvaguardare gli equilibri di bilancio, le coperture economico-finanziarie, la difesa dei vari diritti, la dignità delle relazioni internazionali, ecc. Ovviamente - si precisa solennemente - con l'annuncio formale (qui veramente unanime o quasi) che l'unico vero destinatario finale di tutto è il popolo, il quale vedrà (non certo dall'oggi al domani, a tempo opportuno) i frutti copiosi della crescita, dell'occupazione, della rinascita della scuola e della ricerca, del riassestamento del territorio, dell'equità sociale, ecc. Nel frattempo, però, i diversi contrattanti s'assicurano l'affare proprio.

Si è ben lontani, sembra, dall'era della politica della rappresentanza popolare, in cui la classe politica rappresentava veramente e solamente (o soprattutto) il popolo, che di fatto aveva il potere - grazie a leggi e riforme adeguate - di decidere di volta in volta di confermarla o di sostituirla. E' finita quell'era. Osservando alcuni fenomeni attuali, si ha la sensazione che c'è qualcosa di diverso, che si miri a qualcos'altro; ed è una sensazione che genera perplessità per il futuro della nostra democrazia rappresentativa. E' doveroso, senza dubbio, demolire ideologie sorpassate dalla storia e palesemente inutili, ma è pericoloso instaurare procedimenti destinati (forse pure inconsapevolmente, ma non per questo meno nocivi) a smentire e capovolgere la democrazia rappresentativa. Conservare il Parlamento, ma esautorarlo e addomesticarlo all'Esecutivo, allo scopo di mostrare l'impotenza di quell'istituzione, per risaltare la potenza del gruppo dirigente e richiedere il necessario contributo di forze sociali ed economico-finanziarie "estranee"; svuotare il Senato d'ogni competenza di controllo sulla Camera dei Deputati; demolire le funzioni parlamentari apparentemente rispettate, ma nei fatti raggirate come inutili remore; puntare su riforme istituzionali ben cucite su misura; progettare una legge elettorale, che riduce sostanzialmente a farsa il voto dei cittadini. E il tutto con una frenesia, che toglie ogni lucidità di giudizio e limita la possibilità di riflettere e di ponderare i fatti, quasi si abbia paura che s'intuisca qualcosa di più e che si capisca meglio. Ma il popolo italiano non è quello cinquecentesco immaginato dal vecchio Machiavelli. E' quello che s'è costruito grazie alla democrazia rappresentativa sulle macerie di due guerre e di due funesti totalitarismi. E lo conferma il fatto che a tutt'oggi il partito più numeroso è quello dei non-voto, che si gonfia sempre più nel silenzio dell'avversione dignitosa.

ALDO MORO NON E’ TUTTO MORTO!


Pubblicato da "Affari Italiani", Mercoledì, 12 novembre 2014

Giunge con soddisfazione la notizia che è stata conclusa l’inchiesta condotta sul caso Moro, dopo le interessanti dichiarazioni di Enrico Rossi, ex ispettore di PS. Il Procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, riferirà nella competente Commissione parlamentare. E’ conclusa, dunque, l’inchiesta. Ma nell’animo - particolarmente di chi ha vissuto quei terribili avvenimenti - riaffiorano brutti ricordi e riemerge ancora un forte senso d’incredulità. Il rapimento e l’uccisione di Moro hanno inferto allora un colpo mortale non solo e non tanto a un partito politico, ma anche e soprattutto a tutto il nostro Paese. Ferita così grave e profonda che ancora oggi è veramente difficile prevedere fino a quando rimarrà ancora aperta, con tutte le sue conseguenze. Erano già passati quattro anni dal tragico episodio, quando l’allora Segretario della DC Flaminio Piccoli, tentando di intravedere qualche filo di chiarezza, asseriva che “dire che non abbiamo mai avuto dubbi varrebbe riconoscere che siamo di pietra. Ogni coscienza che si rispetti, dinnanzi ad eventi così spaventosi, s’interroga, si esamina, ricorda momenti e decisioni e li riguarda sotto ogni aspetto, per la ricerca di una verità, che sia portatrice almeno di serenità e di pace”. Non pochi dubbi restano ancora, e forse non si capirà mai la verità delle motivazioni vere e delle finalità politiche occultate, che condannarono a morte Aldo Moro. Non bastano, comunque, celebrazioni e attestazioni. Dimenticando e condannando alla sterilità alcuni suoi validi insegnamenti – consigliati con la vita e testimoniati con la morte da martire del servizio al bene di tutti – forse rimarrebbe “assassinato” di nuovo.

Il giorno del sequestro Moro stava recandosi a Montecitorio, dove Giulio Andreotti avrebbe presentato il nuovo governo, per la cui nascita era stato decisivo il contributo dato da Moro. Circa tre mesi prima, in un clima di grande confusione tra tutti i partiti e all’interno di ciascun patito, egli aveva pronunciato un discorso ai gruppi parlamentari della D.C., durante il quale aveva sostenuto: “Possiamo dire che abbiamo cercato, seriamente e lentamente, la verità: la verità, diciamo in senso politico, cioè la chiave di risoluzione delle difficoltà politiche”. Nella politica operosa e produttiva, quindi, non debbono avere alcuno spazio né la superficialità né l’improvvisazione; tutto va deciso e realizzato con lungimiranza, per vedere oltre l’immediato, e con abilità di mediazione, per trovare risoluzioni condivise il più possibile. Quello di Moro era un abito interiore convinto, che traspariva anche dal suo atteggiamento esteriore, che in quei tempi era molto significativo. Aveva, infatti, un incedere compassato e mai studiato, ponderato e sostenuto, ispirante sempre rispetto sincero: era lo specchio d’un uomo intento a osservare e esercitato a riflettere, consapevole delle proprie responsabilità politiche e morali, in anni di crisi grave e profonda in ogni campo.

Da prigioniero nel “carcere” delle Brigate Rosse, quaranta giorni prima della morte, scriveva a Zaccagnini, allora segretario della Dc, consigliandogli disponibilità a trattare “qualche concessione” con i brigatisti, e concludeva: “Tenere duro può apparire più appropriato, ma qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco”. Nel partecipare all’audizione del Procuratore Generale, tutti i partecipanti ripensino almeno a due direttrici, che Moro ha lasciato in eredità. La verità e il dialogo. “Quando si dice la verità – aveva ammonito lo statista pugliese, non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta a essere coraggiosi”. E aveva insistito che non basta dirla la verità, “per avere la coscienza a posto: noi abbiamo un limite; noi siamo dei politici, e la cosa più appropriata e garantita, che noi possiamo fare, è di lasciare libero corso alla giustizia, e fare in modo che un giudice, finalmente un vero giudice, possa emettere il suo verdetto”. Per la soluzione più efficace dei problemi d’ogni natura, Moro suggerisce sempre il metodo del dialogo: purchè sia leale e ispirato solo al bene comune; rimane intatta la sua testimonianza, secondo cui la terapia nel pensare e nell’agire politico non è il mutare tecniche operative, ma vivere i valori. Testimoniandoli sino a offrire la propria vita.

"ELOGIO FUNEBRE DEL REGIME PARLAMENTARE”

Pubblicato da "Affari Italiani", Sabato, 8 novembre 2014

“Noi assistiamo alle esequie di una forma di governo”, disse il 19 dicembre 1925 al Senato, nel celebre discorso di rifiuto della legge sulle prerogative del Capo del governo, Gaetano Mosca giurista, politico, senatore e membro del governo Salandra. La riforma che veniva proposta era certamente compatibile, se si guardava alla lettera dello Statuto Albertino allora in vigore, ma la sostanza, che si voleva venisse approvata, era davvero preoccupante, in quanto si sanciva che i singoli ministri non dipendevano più dal Capo dello Stato (allora il re), ma dal Capo del Governo, e si stabiliva che lo stesso Consiglio dei Ministri da “organo collegiale” diventava “organo consultivo”.

Tutto il potere, pertanto, veniva riposto nelle mani del Capo del Governo, il quale creava i ministri, poteva destituire quelli in carica, poteva modificarne le deleghe, poteva attribuirsi le decisioni su questioni di reciproca competenza e aveva perfino il potere di stabilire l’ordine del giorno delle Camere. Il punto più enigmatico, tuttavia, era il problema della fiducia che doveva reggere il Capo del Governo: egli, infatti, restava al potere non solo al di fuori del volere delle Camere, ma persino al di fuori della volontà del Capo dello Stato (allora il re). Nel disegno di legge era scritto espressamente che il Capo del Governo veniva mantenuto al potere dal “complesso di forze economiche e politiche e morali, che lo hanno portato al Governo”. Era qui che si nascondeva l’ambiguità: chi erano quelle strane forze extraparlamentari tanto potenti da non essere soggette al parere neppure del Capo dello Stato. E Gaetano Mosca – maestro di Diritto, fondatore della Scienza Politica nelle università italiane, teorico della “classe politica” – diede voto contrario.

Annunciando il proprio voto contrario, Mosca avvertiva che nei fatti, sotto l’apparenza di strumenti presentati e caldeggiati come più adatti a un governo fattivo ed efficace, si stava cambiando un intero sistema di governo, che coinvolgeva e comprometteva diritti civili, equità sociali, doveri politici e persino valori morali d’una nazione intera già in piena crisi morale ed economica del dopoguerra. Cambiamenti probabilmente non solo opportuni, ma addirittura necessari. Ma erano proprio le motivazioni e le finalità, che si diceva voler perseguire mediante tale cambiamenti che richiedevano prudente valutazione della realtà presente e saggia previsione delle possibili conseguenze future. Egli riteneva che un rinnovamento esageratamente rapido e intempestivo era un “salto nel buio” dettato dall’impulso frenetico d’una “nuova generazione, che crede di sapere tutto e di poter tutto mutare”. Terminava, perciò, le sue parole – sempre dettate con stile dimesso e umile - dichiarando che sentiva come suo “forte dovere di ammonirla”.

Consapevole di alcune reazioni prevedili, Mosca volle raffigurare i sentimenti che lo animavano nel suo comportamento e nella sua decisione, ricordando all’Assemblea l’addio di Ettore ad Astianatte: il tragico epilogo omerico d’una virtù morale e combattiva.

Sono passati circa novant’anni: forse non pochi per rileggere la nostra storia, prendendo qualche utile lezione.

DUE “RIFORMATORI” DEL XX SECOLO: PAPA MONTINI E JACQUES MARITAIN

Pubblicato da "Affari Italiani", Mercoledì, 22 ottobre 2014

Domenica 19 ottobre 2014: in piazza san Pietro una marea di folla fissava per ore intere la gigantografia d’un papa non molto noto ai più, perché (forse) tanto in vita che dopo la morte era rimasto sempre schivo e poco propenso ad apparire. Scetticismo e contentezza s’alternavano e si susseguivano nell’apprendere che papa Montini (1897-1978), uomo di chiara fama e di profonda cultura, veniva riconosciuto anche dalla chiesa cattolica romana - da lui guidata con costante prudenza anche durante gli “anni di piombo” – degno di venerazione per le sue virtù eroiche: spesso incompreso e talora dimenticato, veniva ora riscoperto fino a consacrarlo agli onori degli altari.

Montini percorse tutte le tappe nella vita ecclesiastica fino ad accettare il gravoso “servizio pontificale”; mantenne costantemente ferrea fedeltà ai suoi doveri pastorali e intatta coerenza ai dettami della sua coscienza. Anche da papa rimase ‘nel mondo’, ne esaminò i problemi, prodigandosi generosamente per la loro migliore soluzione; ne condivise le angosce, spendendosi ad alleviarle. Seppe riconoscere, stimare e frequentare anche “laici” saggi, onesti e anch’essi servitori degli uomini: basti ricordare, per esempio, l’amicizia con Aldo Moro (1916-1978) e la frequentazione di Jacques Maritain (1882-1973). Questo pensatore, addirittura, quindici anni più anziano, lo ispirò sempre soprattutto per la sua rivendicazione della ”integralità” dell’uomo, cioè della persona umana, che deve occupare la centralità d’ogni pensiero e d’ogni azione, essendo essa fondamento e fine del bene comune autentico. Non a caso, alla chiusura del Concilio Vaticano II, il papa Montini consegnò simbolicamente proprio al filosofo Maritain il messaggio indirizzato “agli uomini di scienza e del pensiero”, riconoscendolo così degno rappresentante degli intellettuali.

L’8 dicembre 1965, infatti, papa Paolo VI chiudeva il Concilio Vaticano II; il successivo 31 dicembre il filosofo Maritain poneva fine a “Il contadino della Garonna”, in cui esternava la sua esultanza, annunciando: “E’ stata ora proclamata la libertà religiosa. Ciò che così si chiama non è la libertà che io avrei di credere o di non credere secondo le mie disposizioni del momento e di crearmi arbitrariamente un idolo, come se non avessi un dovere primordiale verso la Verità. E’ la libertà che ogni persona umana ha, di fronte allo Stato o qualsiasi altro potere temporale, di vigilare sul proprio destino eterno, cercando la verità con tutta l’anima e conformandosi ad essa quale la conosce, e di ubbidire secondo la propria coscienza. La mia coscienza non è infallibile, ma io non ho mai il diritto di agire contro di essa”.

Sono convincimenti che sembrerebbero nascere dalla mente d’un fautore dell’antropocentrismo del rinascimento o sgorgare violenti addirittura dalla bocca d’un audace promotore dell’individualismo illuminista. Invece sono sofferte affermazioni dell’ultraottantenne filosofo francese, che Paolo VI continuava ad ascoltare e meditare. Il sodalizio culturale Maritain-Pacelli, in effetti, risaliva già a quarant’anni prima, quando, sfidando le opposte dottrine marxiste e neofasciste, nel 1925, Maritain aveva pubblicato i “Tre Riformatori. Lutero, Cartesio, Rousseau”, in cui criticava fermamente i principi professati dai tre “riformatori”: “l’avvento dell’io” di Lutero; “l’incarnazione dell’angelo” di Cartesio; “il santo della natura” di Rousseau. Riconosciuta e rispettata l’oggettività della realtà storica in cui avevano operato i tre pensatori, Maritain analizzava con indagine seria i contenuti e gli esiti delle idee proposte dai tre, concludendo che in ogni caso si era trattato di riforme illusorie. Infatti, Lutero falliva, perché il suo spirito mancava di religiosità; Cartesio doveva fallire, perché dubitava dello stesso strumento razionale; Rousseau sarebbe stato condannato a sbagliare, perché si fondava sul preconcetto dell’intrinseca malvagità della dimensione sociale degli uomini. Maritain, comunque, si professava anche aperto e disponibile a ogni seria ulteriore meditazione, da concretizzarsi mediante il rispetto reciproco e l’esplicazione della verità lealmente creduta da ciascuno.

Dopo appena due anni, il trentenne sacerdote Montini, nella “Festa dell’Epifania 1928”, firmava la sua traduzione del saggio maritainiano, dichiarando: “Se la sapienza di queste limpide pagine potesse convincere qualche giovane che s’ha da essere cauti a parlar di riforme, cioè ad inventare sistemi nuovi e mai prima scoperti, e a procedere nel pensiero e nella vita con la spavalda e avventurosa libertà degli egoisti e dei rivoluzionari, credo che sarebbe raggiunto scopo sufficiente e opportuno neanche per i nostri tempi e per il nostro paese”.

Maritain per aver scritto questo lavoro aveva sopportato critiche e ironie; Montini, per averlo condiviso, tradotto e diffuso, era atteso da ostilità e malevolenze. Tra i due pensatori s’instaurarono una frequentazione e un‘amicizia vive e solide. Nel 1978, infatti, due mesi prima di morire, papa Montini indicò come “atto importante” dell’intera sua azione pontificale quella solenne “Professione di fede”, che dieci anni prima aveva pronunciato in piazza San Pietro a nome di “tutto il popolo di Dio”. La genesi di quella professione di fede è testimoniata dalle lettere del comune amico card. Elvetico Charles Journet, ora raccolte nel volume 3 della “Correspondence Journet-Maritain” pubblicato nel 1998. Vi si legge come fu incaricato proprio Maritain a preparare un testo adeguato alle intenzioni del pontefice. Il filosofo stese il contenuto della professione solo “come bozza”, che il cardinale avrebbe presentato al papa, il quale, però, lo accettò subito, ritenendo un “miracolo che tutti i punti difficili sono stati toccati e riposti in luce”.

Chiunque voglia dedicarsi a “riformare” qualcosa con serietà e senza manie di protagonismo, chiunque senta il bisogno (o il dovere) d’impegnarsi con leale generosità per il bene comune, potrebbe trovare feconda ricchezza di suggerimenti nell’approfondire il pensiero e nel ripercorrere il modello di vita di questi due protagonisti, che hanno scritto la storia recente, attingendo copiosamente all’esperienza anche del passato, cui hanno guardato con umile rispetto e profonda gratitudine.

CRESCITA ECONOMICA E DIGNITA’ UMANA

Pubblicato da "Affari Italiani", Mercoledì, 15 ottobre 2014

In “Il Sole24ore” di domenica 12 ottobre 2014 è stata annunciata la pubblicazione della nuova edizione del saggio “Investire in conoscenza. Crescita economica e competenze per il XXXI secolo”, scritto dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Dalla lettura delle pagine inedite anticipate nel dominicale del quotidiano è possibile dedurre alcune riflessioni ispirate a speranza e, nello stesso tempo, improntate a preoccupazione. “La peggiore recessione dal dopoguerra – scrive l’autore - non è solo conseguenza della crisi finanziaria del 2007-08. E’ il risultato di un forte e diffuso indebolimento della capacità del nostro Paese di crescere e competere”. Le cause bloccanti in questi ultimi decenni, pertanto, non sono da attribuire solo alla congiuntura economica sfavorevole, ma anche a molti “nodi irrisolti”, quali l’allargamento spesso repentino dei mercati, l’imporsi di nuovi protagonisti, l’insufficiente tecnologia disponibile per riordinare i contesti del lavoro e, soprattutto “le carenze nella dotazione, qualitativa e quantitativa, di capitale umano”, sprovvisto delle nuove abilità necessarie per sostenere la sfida dei mercati. Da ciò l’autore induce, con ragione, la necessità che in Italia vengano preparati per tempo profili professionali nuovi e disponibili a ricoprire i sempre ultimi ruoli richiesti dagli sviluppi tecnologici e dal variare della domanda dei mercati.

Viene chiamato in causa, così, l’intero sistema socio-economico, educativo e formativo italiano. E la mente corre agli anni post-sessantottini, durante i quali, con i decreti delegati del 1974, nacquero i cosiddetti “organi collegiali” con lo scopo di “rivoluzionare” natura, finalità e metodi dell’istruzione e dell’educazione delle nuove generazioni, grazie a un più facilitato e più esteso accesso ai diversi gradi d’istruzione e grazie, soprattutto, all’interazione fattiva con la società definita “più vasta comunità sociale e civica”. Ottimismo astratto, fondato sul presupposto che sia gli ambienti educativi sia la società fossero, ciascuna per propria natura, comunità educanti. Sono trascorsi quarant’anni e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Anche da quest’esperienza nascono ora le perplessità sui rapporti tra esigenze socio-economiche proprie d’ogni nazione e sul come sia possibile associare quantità e qualità dei cittadini: elementi ugualmente necessari in ogni società democratica attuale e di domani. La democrazia, infatti, s’ispira nell’organizzazione della vita al principio dell’uguaglianza legale e, principalmente, reale. Ideale anche questo ottimo, ma che può covare il rischio dell’appiattimento o della massificazione, qualora non si armonizzino procedimenti amministrativi opportuni, metodi didattici adatti e mezzi economici proporzionati. Quantità e qualità, infatti, potrebbero sembrare contrapposte, ma in realtà stanno e debbono rimanere sempre e comunque associate. Ora, è indubbio che con le semplici riforme (anche odierne) meccaniche e funzionali all’immediato si fa poco per la qualità formativa dei giovani e per la reale crescita globale (quindi anche economica) di tutta la società. I popoli progrediscono, di fatto e nel senso pieno della parola, solo se s’investe in primo luogo sulla qualità; e, per raggiungere quest’obiettivo, servono esperienza, lungimiranza, competenza, audacia: chi progetta la formazione dei profili professionali del presente e del futuro deve tenere presente che i propri interventi investiranno coloro che nascono oggi e avranno vent’anni nel 2034. Riformare i processi formativi significa avere una concreta e adeguatamente ampia prospettiva generazionale, e non il soddisfacimento d’esigenze immediate e contingenti.

La parte conclusiva dello scritto del Visco, poi, fa sorgere qualche preoccupata considerazione, ovviamente suggerita dal buon senso e dalla ragionevolezza. “Le conoscenze tradizionali – assicura l’autore - resteranno un bagaglio irrinunciabile, ma andranno inserite in un contesto dinamico in cui assumerà importanza crescente ciò che gli educatori definiscono come ‘competenza’ (…). L’esercizio del pensiero critico, l’attitudine alla risoluzione dei problemi, la creatività e la disponibilità positiva nei confronti dell’innovazione, la capacità di comunicare in modo efficace, l’apertura alla collaborazione e al lavoro di gruppo costituiscono un nuovo ‘pacchetto’ di competenze, che possiamo definire ‘competenze del XXXI secolo’”. Quest’elenco, però, a ben riflettere, ha costituito, costituisce e dovrà costituire l’essenza e la ragion d’essere dell’azione educativa e formativa d’ogni tempo, per cui la differenza specifica del “pacchetto” ritenuto necessario nel nostro secolo si potrebbe forse sintetizzare nel maggiormente veritiero fornire (più che ‘formare’) capacità “per far fronte in modo efficace a situazioni spesso inedite e certamente non di routine”. Le perplessità nascono, allorquando si tenta di capire quale sia concretamente la natura delle invocate situazioni nuove: si tratta di situazioni da “utilizzare” per il benessere materiale e morale dei cittadini oppure contesti che pretendono di “utilizzare” la dignità dell’uomo e del cittadino, manipolando il senso della vita e marcando il destino della qualità dell’esistenza quotidiana?

L’evolvere storico della vita dei popoli globalmente intesa va senza dubbio compresa, accolta e coadiuvata nel suo “crescere e competere”; ma è necessario anche riconoscere ogni valida aspirazione dei singoli e in particolare delle ultime generazioni, evitando polemiche faziose, aprendosi a confronti sereni e nello stesso tempo intransigenti nel loro bisogno di coerenza e di seria verifica. Ogni proposta d’innovazione va formulata con spirito razionale e costruttivo, senza del quale può manifestarsi il malessere sordo, che induce molti, soprattutto i giovani, ad atteggiamenti irrazionali e distruttivi. Non si può tollerare che il fine (l’uomo che dispone d’una sola vita) sia ridotto a mezzo strumentale: l’uomo è fatto per vivere aspirando alla “felicità” sua e degli altri, e giammai per diventare “mezzo” per il perseguimento di mete private o di gruppo. Alla salvaguardia di questo diritto inalienabile sono chiamate tutte le “agenzie formative” di qualunque natura; ogni altra loro attività ha valore se è compatibile con la salvaguardia della libertà e la dignità umane. Anche la crescita economica e la concorrenza dei mercati.

FEDELTA’ POLITICA E COERENZA MORALE

Pubblicato da "Affari Italiani", Giovedì, 28 agosto 2014

Il Governo che impone al Parlamento il voto palese, motivandolo come atto richiesto dall’importanza e dall’urgenza del provvedimento presentato. Il Parlamento che ne contesta le circostanze, esigendo la regolarità e rivendicando la legittimità del voto segreto a tutela della propria autonomia legislativa. Da una parte il voto palese rappresentato (o comunque fatto percepire) come costrizione ricattatoria; dall’altra parte il voto segreto temuto (o minacciato) come opportunità di ritorsioni e occasione di resa dei conti. Da una parte i partiti, che invocano e pretendono la fedeltà politica dei parlamentari da loro fatti eleggere; dall’altra parte i parlamentari che rivendicano il rispetto del loro mandato popolare e della propria coscienza. La questione potrebbe ridursi a un’interessante dissertazione astratta sul rapporto politica-morale, se non coinvolgesse il destino della democrazia repubblicana italiana, la ragion d’essere dei partiti politici, la sorte dell’equità civile, la difesa della giustizia sociale, la tutela del vivere quotidiano dei cittadini. Le Istituzioni, pertanto, garanti massime della democrazia italiana, rischiano di diventare affossatori di democrazia e usurpatori di sovranità popolare; e questo proprio mentre s’adoperano per attuare fondamentali riforme istituzionali (senato, regioni, provincie, legge elettorale, riforma dl sistema giudiziario, assetti economico-finanziari).

I cittadini italiani, in verità, assistono per lo più disincantati e scettici alle vicende della politica italiana interna ed estera. Essi, infatti, sanno correttamente che l’idea e l’attuazione delle democrazie col tempo si sono evolute e continuano a evolversi, lasciando giustamente la sfera dell’astrattezza, per immergersi nella concretezza del governo dei popoli. Sono anche convinti, però, che da quest’evoluzione non scaturisce (e non dovrebbe mai scaturire), quale conseguenza inevitabile, un decadimento dell’idea e dell’etica, che sostanziano ogni democrazia autentica: questa, infatti, prima d’essere una tra le possibili forme di governo, è in primo luogo una visione generale della vita e uno stile di condotta privata e pubblica. Da qui il loro convincimento che anche l’attuale “democrazia del numero” è uno svolgimento positivo e costruttivo delle democrazie, a patto, però, ne restino salvaguardati i valori etici e gli obiettivi politici caratterizzanti. Ciò che oggi preoccupa i cittadini elettori (votanti e non-votanti) è il dover assistere al deterioramento della morale individuale e il decadimento dell’etica pubblica, come indicano alcuni segnali pericolosi. Si pensi, per esempio, alla trasformazione del ruolo degli eletti che ha alterato sostanzialmente anche il dettato costituzionale. Ovviamente anche la Costituzione non è testo sacro ispirato dall’alto; può, quindi, anzi deve essere aggiornata, adeguata, emendata. E’ necessario, però, che ciò sia fatto da chi ne abbia avuto mandato specifico e, soprattutto, con indiscutibile lealtà d’intenti ed evidente trasparenza di procedimenti.

Ed è proprio questo che genera perplessità negli italiani. Assistono, infatti, all’affannosa corsa a “far passare” provvedimenti proposti come strumenti d’una maggiore efficienza gestionale; in realtà, però, benché propugnati come mezzi di “stabilità e crescita”, di fatto implicano modiche sostanziali di princìpi essenziali, peraltro sanciti come fondamentali dalla Costituzione. Senza nascondersi che è molto incerto che tutto ciò arrechi qualche utilità alla vita del cittadino. A confermare la diffidenza dell’italiano politicamente “laico” (quindi, osservatore disinteressato, imparziale e sereno) non è solo ciò su cui si legifera, ma anche il modo con cui in questi ultimi tempi si opera in politica, sia nei palazzi e sia nelle piazze. Infastidiscono e suscitano sospetto l’arroganza dei partiti che il numero dei votanti di turno designa “maggioritari” e la baldanza di dirigenti, che rivendicano per sé il compito di decidere contenuti, tempi e modi della vita pubblica, sempre vigili a salvaguardarla dagl’intralci provenienti sia dai partiti indicati “minoritari” dal numero dei votanti sia da chi all’interno della cosiddetta “coalizione di maggioranza” tenti di discostarsi dalla linea dettata dai propri dirigenti. Ovviamente s’invoca sempre la necessità del dialogo aperto e disponibile a ogni contributo, salvo poi a non rintracciarne mai alcuno valido e appropriato. Inoltre, non si perde occasione per sottolineare e recriminare l’importante numero degli elettori non votanti; addirittura nei loro confronti s’è coniato il termine “astensionisti”, come se il non recarsi alle urne sia sempre e comunque una scelta d’irresponsabile disinteresse e non (anche e soprattutto) una decisione meditata, sofferta e perfino obbligata dai fatti, secondo l’insegnamento anche di Platone.

Si conosce da tutti la necessità della tempestività risoluta necessaria ai governanti. Ma già cinque secoli fa il Machiavelli, commentando e suggerendo l’antico pensiero di Tito Livio, metteva in risalto il valore della “imitazione” del passato e insegnava, anche a tal fine, in cosa doveva consistere la “virtù” del governante efficiente: saggio equilibrio di perspicacia dell’intelligenza. per comprendere ogni situazione, e di forza volitiva sicura, ma sempre suggerita e valutata dalla complessità dei problemi. Ma questo richiede il contributo di tutti. Da tutti, quindi, si richiede un momento di autocritica. Di primaria importanza, per esempio, è il ponderare le conseguenze possibili dell’uso attuale del voto segreto e del voto palese, in quanto i rischi cui si può incorrere non 6sembrano né pochi, né astratti, né lontani. Da una parte, infatti il voto segreto da espressione di responsabilità politica e da salvaguardia di libertà di coscienza e divenuto circostanza per l’esplosione d’inespressi risentimenti e occasione per la resa dei conti; il voto palese, dall’altra parte, da strumento legislativo condiviso, spedito e limpido è divenuto strumento di ricatto e di coercizione.

Tralasciando considerazioni d’altra natura, è innegabile che in questo modo risultano confusi i confini e stravolti i ruoli tra fedeltà politica e coscienza morale e si generano pericolosi equivoci avallati spesso da colpevoli silenzi. Non si tratta di sconfessare e capovolgere la secolare conquista di Machiavelli, rivendicando oggi l’autonomia della morale dall’egemonia della politica; si tratta di rinverdire con nuova linfa vitale la deontologia politica, cioè riscoprire le ragioni etiche, che danno senso all’azione politica, da parte di tutti i cittadini, ognuno nel ruolo che ha scelto o che gli è stato affidato. Sopravvalutare le ragioni della politica significherebbe valicare i confini dello stato etico: sarebbe utile, allora, meditare sulle circostanze e sui contenuti del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, scritto nel 1925 da Benedetto Croce. Sopravvalutare il ruolo delle esigenze del privato significherebbe assolutizzare gli egoismi, avversari d’ogni possibile azione veramente politica. Alcide De Gasperi – che seppe perché, quando e come dedicarsi alla politica e intuì quando e come uscirne - insegna che il politico è democratico quando possiede e pratica il “metodo democratico”, cioè quando cerca il dialogo e rispetta la deontologia propria della politica: un governante ottimo – ammonisce – rispetta i valori con fedeltà costante e grande coerenza. Queste, però, non un valore in sè e per sè, ma sempre agganciate a una scelta, che abbia valore in sé e che ne fondi la validità.

A battere un terreno più concreto ci indirizza Enrico Berlinguer, audace innovatore politico: “I partiti – dichiara già nel 1981 a Eugenio Scalfari - non fanno più politica, e questa è l’origine dei malanni d’Italia”. E Aldo Moro, martire per la coerenza, avverte: “Per fare le cose, occorre tutto il tempo che occorre” e raccomanda il rispetto del ruolo degli organi intermedi: “Il decentramento nella gestione degli interessi comuni – ammonisce - è uno strumento dell’avvicinamento del potere agli amministrati e dell’umanizzazione di esso come garanzia del suo retto fine”. Insegnamenti necessari anche nei nostri tempi. In momenti di particolare smarrimento ci soccorre comunque l’esperienza di Mahatma Gandhi: “Meglio un milione di volte sembrare infedeli agli occhi del mondo che esserlo verso noi stessi”.