Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

domenica 20 dicembre 2015

SENZA “SOLIDARIETA’ POLITICA” NON CI PUO’ ESSERE DEMOCRAZIA

Pubblicato su Affaritaliani il 2.11.2015

“La Repubblica – è sancito nell’articolo 2 della Costituzione Italiana - riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Con estrema chiarezza i Padri Costituenti dichiarano, già dal 1948, il valore umano e la dignità politica del cittadino – nella sua dimensione sia individuale che sociale - che la “Repubblica” deve assicurare e sostenere nella possibilità di realizzare la propria “personalità”, consentendogli il godimento dei suoi diritti e chiedendogli l’adempimento dei suoi “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. La Carta Costituzionale, quindi, esprime la natura “laica” dello Stato. Gli Organi statuali, di conseguenza, sono chiamati a creare e assicurare situazioni sociopolitiche almeno nazionali, in cui la singola “persona” possa operare, come cittadino fedele e onesto, le sue scelte politiche - sempre e comunque in maniera responsabile e libera - che la Politica, da parte sua, ha il difficile compito di proteggere mediante la creazione di regole opportune e adeguate. 

Il singolo cittadino, tuttavia, vive e opera non da solo, ma in una rete di “formazioni sociali”, quali la famiglia, la scuola, l’ente locale, il sindacato, la confessione religiosa. Ognuno, perciò, in nome della “solidarietà politica” è chiamato a operare non per un suo immediato bisogno né per rivendicare un proprio diritto nell’interesse personale, ma per assolvere a un “dovere inderogabile” per il bene di tutti: è questo che trasforma l’individuo in cittadino attivo. E’  un principio espresso anche dalla  Carta Europea dei diritti fondamentali e, in particolare nel Preambolo, dove si afferma che il godimento dei diritti “fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future”. Ora, se sono noti i doveri nei campi dell’economia e del sociale, meno  considerati forse sono quelli propri del campo politico. Oltre ai casi straordinari, come il difendere la propria patria e l’essere inviato per salvaguardare l’ordine e la pace in altri Paesi, s’impone un dovere ordinario e quotidiano, che costituisce il fondamento solido e l’essenza insostituibile d’ogni vera democrazia: recarsi alle urne per esprimere il proprio voto, che l’articolo 48 della Costituzione sancisce come “personale ed uguale, libero e segreto”, e non certo come il consueto siglare una scheda preparata da altri e a lui proposta quasi per un’eventuale presa d’atto.  

L’uguaglianza, la giustizia sociale e la libertà sono certamente alti valori e “Principi fondamentali” riconosciuti dalla Costituzione, ma che, purtroppo, sono destinati a rimanere nel mondo delle pie intenzioni e nella realtà belle enunciazioni vuote d’ogni contenuto, se non c’è concretamente solidarietà politica. E, oltre alla storia secolare, lo testimonia la vita contemporanea di molte Nazioni: il principio solidarista è il tessuto connettivo dell’intero ordinamento sociale e politico. E, osservando la realtà italiana di questi ultimi decenni, non desta certo entusiasmo e ottimismo ciò che è possibile indurre nei riguardi della partecipazione attiva e responsabile dei cittadini nell’azione politica. Di fatto si sono gradualmente stravolti la natura e il ruolo del partito politico: da laboratorio di programmi e di proposte è stato ridotto ad associazione alle dipendenza del capo, quasi sempre preoccupato del suo interesse privato. Ne è conseguito la sostanziale cancellazione dei poteri delle Camere legislative, costituite solo da “nominati” e, logicamene, attenti alla parole del proprio mecenate. Il tutto grazie alla tanto contestata legge elettorale denominata “porcellum”, proposta dall’allora maggioranza, ma non osteggiata seriamente da nessuno per ovvi calcoli di potere. Qualche mese fa l’attuale Parlamento ha approvato la nuova legge elettorale, con cui di fatto si limita ancor di più il diritto di voto libero e personale del cittadino e si crea un Parlamento di persone certo non scelte liberamente dai votanti, ma designate d’autorità dai capi di partito.
 
Se tutto viene calato dall’alto, che solidarietà politica potranno esercitare i cittadini? Ma senza solidarietà politica non può esserci democrazia. Con il metodo con cui si sta governando negli ultimi decenni, e soprattutto negli ultimi anni, non si darà vita a governi democratici, ma solo a oligarchie di dubbia natura. E, di fronte allo spettacolo che la politica italiana sta dando a ogni livello, non c’è certo da stare sereni. Infatti, la realtà inconfutabile è che la cosiddetta classe politica può offrire e disporre di “oligarchie” - sia partitiche che della cosiddetta società civile - che non si distinguono per moralità e competenza. Più che designare sindaci, presidenti e governatori o decidere rispettivi commissariamenti, urge ritornare ai cittadini, per consentire loro una rinnovata presa di coscienza della loro dimensione sociale  e un modificato atteggiamento verso la politica, ora considerata una temibile associazione di malaffare. Se non si ritorna ai cittadini, s’ingrossa sempre più il numero di quelli che aborrono la politica e non si recano nemmeno alle urne, se addirittura non vanno a rafforzare i movimenti dell’antipolitica. Ma per questo ci vuole capacità e audacia: si tratta di ricostituire valori intramontabili, di aggiornarne i criteri attuativi per il presente e, soprattutto, di prestare costante attenzione al futuro. Le nuove generazioni non hanno alcuna colpa per dover subire eredità negative; devono, pertanto, essere educate alla vera vita della democrazia e, quindi, essere dotate del senso del “dovere” di solidarietà politica, grazie al quale saper operare scelte libere e prendere decisioni valide per tutti, che poi proporranno - sempre con i metodi della democrazia - ai propri governi

mercoledì 4 novembre 2015

A TORINO UNA MOSTRA PER UNO SLANCIO CULTURALE


Oggi, mercoledì 4 novembre 2015, presso le Sale Espositive della Fondazione Giorgio Amendola e dell’Associazione lucana Calo Levi, in via Tollegno 52, Torino sarà inaugurata la mostra “Propaganda”, “Artefatti digitali di Carlo Miccio”.

La Mostra, che rimarrà aperta sino al 31 dicembre (con ingresso libero), “nasce – scrivono gli organizzatori - dal bisogno di parlare di sentimenti alle masse in una forma nuova, colorata e rivoluzionaria. Per farlo abbiamo scelto il linguaggio della Rivoluzione d’Ottobre (…). Il più dirompente strumento di quello straordinario sforzo creativo fu il manifesto rivoluzionario, nato da una visione improntata a un’indomabile fiducia nel futuro e all’eterno ottimismo nelle capacità del popolo in lotta (…). E così noi oggi (…) . Abbiamo campionato e assemblato nuovi messaggi che invitano le masse ad innamorarsi, a non temere la paura, a reclamare il proprio diritto alla felicità in una società nuova e più giusta. Una società dove tutti devono essere in grado di esprimere i propri sentimenti, dove si mangia meglio e di più, dove si lavora meglio e di meno. Una società dove si è più felici, realizzati, liberi”.

Valida iniziativa. Riscoprire le proprie radici è il momento primo e necessario per capire veramente  il presente e programmare concretamente il futuro. Senza inutili e nostalgici passatismi e senza pericolosi e spregiudicati avanguardismi.

 

lunedì 2 novembre 2015

VATICANO, PAPA BERGOGLIO E LE SPERANZE NEL SINODO

Pubblicato su Affaritaliani il 19 ottobre 2015
 
Inizia la terza e ultima settimana dei lavori del sinodo dei vescovi, ormai divulgato come sinodo sulla famiglia. In realtà i problemi, su cui l’assemblea sinodale è chiamata a discutere e decidere, coinvolgono temi dottrinali e aspetti pastorali d’inestimabile valore per le ricadute sulla vita sia dei singoli che dei popoli. Sicuramente d’indiscusso rilievo rimane l’attenzione verso le angosce delle famiglie difficili o irregolari, che, in verità, hanno preoccupato la gerarchia cattolica sempre, ma, in modo costante e puntuale dal Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). Ora, dall’odierno sinodo si attendono valide decisioni più operative e più aderenti all’evoluzione della realtà sociale, compresa quella del riconoscimento dei diritti civili e della giustificazione etica delle coppie omosessuali. Ci si aspetta il coraggio da parte di tutti a non problematizzare l’evidente e a non creare difficoltà, dove vi sono soltanto realtà chiare, oneste e semplici. Era questo il significato anche dell’appello, che cinquant’anni fa il cardinale Suenens rivolse nella Basilica di san Pietro ai Padri del Concilio Vaticano II, proprio mentre discutevano sui problemi del matrimonio: ”Prego tutti voi, miei fratelli vescovi – implorò il Primate del Belgio -  evitiamo un nuovo caso Galilei! Uno è già sufficiente!”. Anche questa volta fa ben sperare il constatare che ben tre delle 27 Assemblee sinodali si siano concentrate sulla famiglia. 

Tuttavia, è di rilevanza davvero storica e annuncia probabili tempi meno guerreggianti e più solidali  - sia per la coesistenza delle diverse religioni e sia per le difficoltose relazioni internazionali - il comportamento “concretamente” rivoluzionario di papa Francesco, con cui ha dichiarato con semplicità e chiarezza il suo modo di concepire e gestire il “potere pontificio”, ch’egli immagina e programma non più ristretto nei termini tradizionali del primato pietrino. Rivelatore ed eloquente è stato lo scenario, che lui ha voluto offrire sabato scorso nell’Aula Nervi, in occasione della commemorazione del 50° anniversario del Sinodo, istituito da Paolo VI: si è visto non un Pontefice sul trono papale, che rivolge la sua parola a cardinali e vescovi seduti di fronte a lui ad ascoltare, ma un papa seduto intorno a un ampio tavolo, e con lui c’erano, anch’essi seduti e pronti a rivolgere la propria parola, porporati e presuli provenienti da tutte le parti del mondo.
La storia documenta come l'interpretazione radicale del decreto “Pastor aeternus”, con cui nel 1871 il Concilio Vaticano I aveva definito e stabilito l'autorità del primato del papa su tutta la terra (insieme alla sua infallibilità in materia di fede e di morale) sia stato in realtà l'ostacolo più forte, che ha impedito il dialogo fra le confessioni religiose e un rapporto positivo e costruttivo con i poteri laici delle società e degli stati. A riconoscere ciò è stato vent’anni fa lo stesso papa san Giovanni Paolo II: “La convinzione  della chiesa cattolica - scriveva nel 1995 nell’enciclica “Ut unum sint” - di aver conservato, in fedeltà alla tradizione apostolica e alla fede dei padri, nel ministero del vescovo di Roma, il segno visibile e il garante dell'unità costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani”. Ecco, allora, il paradosso, a cui papa Francesco non riesce ad arrendersi: il vescovo di Roma, da strumento e garante di unità e di pace, è stato fatto segno di divisione e di contrasti. L’umanità – non solo credente o cattolica - finalmente guarda a questo papa che, continuando sulla strada tracciata già dalla fine della seconda guerra mondiale col papato di Pio XII, sta portando a buon fine la riflessione e la soluzione del problema del rapporto tra il potere del pontefice e quello del collegio episcopale. E ciò grazie al rispetto della sinodalità codificata mezzo secolo fa da papa Montini. 
Facendo eco alle parole di papa Wojtyla, con cui esortava a “Trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova”, papa Francesco sabato scorso ha ribadito “la necessità e l’urgenza di pensare a una conversione del papato”, ricordando che “l’impegno a edificare una Chiesa sinodale è gravido di implicazioni ecumeniche”, in quanto  “Il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come battezzato tra i battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi, chiamato al contempo – come successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese”. 

Non può essere la vita reale del mondo a doversi limitare e adattarsi alle esigenze della Chiesa e della religione, ma il contrario. Non possono le leggi – anche religiose - ostacolare lo sviluppo dell’umanità, ma debbono rispettarlo, accompagnarlo, sostenerlo e guidarlo mediante un attento e continuo dialogo. Nessuno può servirsi del mondo per scopi anche nobili, ma tutti debbono essere disponibili per il conseguimento e l’accrescimento del benessere e della felicità degli uomini. E lo sottolinea ancora papa Francesco, quando, ricordando come Paolo VI prospettava un organismo sinodale che “col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato”, esorta: “Dobbiamo proseguire su questa strada (…). Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”.