Lo
spettacolo che sta dando il mondo della politica italiana non è certo dei più
esaltanti, anzi è di livello talmente deludente che spinge a riflessioni attente,
per poter valutare oggettivamente e con responsabilità ogni circostanza. Infatti,
sembra che regnino – sia nelle strutture partitiche sia negli organismi
istituzionali legislativi e di governo – uno smarrimento generale e
un’incontrollata frettosa premura di salvaguardare gli interessi di parte, probabilmente
anche legittimi, ma certamente avulsi dalle reali esigenze del bene comune.
Certo, come tutte le
organizzazioni sociali, anche i partiti attraversano momenti di
floridezza e momenti di fiacchezza, determinati o da infondate interpretazioni dei
disagi della società o da inadeguatezza dei leader del momento oppure da comportamenti
suggeriti più da tattica partitica che da strategia politica. Il malessere e il
disagio aumentano, poi, allorquando i partiti giungono a occupare spazi pubblici
non propri, fino a impadronirsi delle istituzioni e abusarne. Allora ne
consegue la loro delegittimazione, smarrendo sempre di più il contatto vitale
con i cittadini, i quali, non vedendone l’utilità, nutrono e accrescono i latenti
sentimenti di antipolitica, fino al qualunquismo e all’assenteismo. S’impone, allora,
l’urgenza di riannodare il legame società-politica-istituzioni, ricollocando
ciascuno nell’alveo del proprio spazio, secondo le funzioni e i ruoli propri. Il
problema non si risolve, però, riconoscendo e denunciando lo scollamento tra
politica e base popolare. Devono, invece e in primo luogo, rinnovarsi i
partiti, riconquistando la loro natura originaria, servendosi d’ogni mezzo
nuovo messo a disposizione dall’evoluzione e dal progresso: cioè devono tornare
ad essere aggiornati e validi strumenti di partecipazione dei cittadini e non
costruzione di classi a loro ostili.
E i partiti
politici, pur nella loro molteplicità talora eccessiva, sono insostituibili per
una politica veramente democratica. Il popolo d’un Paese libero si munisce sempre
di forme associative, mediante le quali vive e agisce nella vita politica da soggetto
responsabile e attivo; così come è ovvio che ogni governo, che voglia essere
democratico, esercita il potere nel rispetto morale e con l’ausilio delle
rappresentanze sociali territoriali, prime fra tutte i partiti politici e le
organizzazioni sindacali. Indubbiamente non mancano vie alternative per una
partecipazione politica, ma i corpi territoriali intermedi, liberamente
organizzati e abilmente diretti, garantiscono con maggiore efficacia molte opportunità,
tra cui due veramente fondamentali: quella d’individuare decisioni concrete e pertinenti
al bene comune e quella di preparare il ricambio della classe politica con
soggetti validi e capaci.
Questo è
confermato dalla storia e sostenuto da studiosi esperti. Alla fine del primo
conflitto mondiale, per esempio, il giurista James Bryce sostenne categoricamente:
“Nessun grande paese libero è stato senza i partiti. Nessuno ha mostrato come
un governo rappresentativo possa operare senza di essi. Essi creano l’ordine
dal caos di una moltitudine di elettori”. E dopo le sciagure della seconda
guerra mondiale, i nostri Padri Costituenti hanno stabilito concordemente:
“L'Italia è una Repubblica democratica” (art, 1), per cui, dovendo “riconoscere
e garantire i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle
formazioni sociali” (art. 2), hanno riconosciuto ai cittadini il “diritto di
associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai
singoli dalla legge penale” (art. 18), concludendo con l’articolo 49, in cui hanno
indicato i partiti politici come il luogo naturale dove i cittadini si
riuniscono e si confrontano liberamente, “per concorrere con
metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
E’ nei partiti, quindi, che i cittadini
elaborano liberamente idee proprie, lontani dal rischio di rimanere ostacolati o
addirittura fuorviati da pericolosi giochi politici. Non pare, quindi, sia
stato un gesto di pura formalità il richiamo che il Presidente Mattarella ha
rivolto al Parlamento nel suo discorso d’insediamento: “La strada maestra di un
Paese unito è quella che indica la nostra Costituzione, quando sottolinea il
ruolo delle formazioni sociali, corollario di una piena partecipazione alla
vita pubblica”. E, manifestando preoccupata attenzione al mutamento dei tempi, annotava
che “la crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti
tradizionali della partecipazione”, divenuti
ormai un forte ostacolo per il dispiegarsi delle energie del paese, per cui
s’impone una riconsiderazione e una ristrutturazione delle rappresentane
sociali e soprattutto dei partiti e delle forze sindacali.
E’
evidente che in Italia i partiti politici
attraversano ormai da qualche decennio una profonda crisi, mostrando
sempre di più d’aver smarrito la ragion d’essere assegnata loro dalla
Costituzione. Da organizzazioni libere
di cittadini liberi sono diventati associazioni d’interesse privato, sia
elettorale sia economico e sia di potere; non operano più come laboratori di
progetti d’interesse generale, ma come fucina di personalismi decisionisti; non
vivono più come presidio di dialogo aperto tra cittadini benpensanti, ma come colonia
di leader da ascoltare e ubbidire. Faticano a riconoscere e denunciare che la
causa profonda della loro crisi è ancora più drammatica: è la loro intrinseca
incapacità di darsi un ordinamento interno e un metodo di interconnessione
reciproca, causata dalla sempre più massiccia personalizzazione del potere,
incarnata nel leader del momento.
La personalizzazione dei partiti s’è
rivelata ancor più incisiva, da quando il medesimo leader occupa la guida d’un
partito (che ha compiti di progettazione e di programmazione) e nello stesso
tempo presiede la massima istituzione del potere esecutivo (ovviamente
controllandola). Con la legge 400 del 1988 l’Italia s’è dotata d’un Presidente
del Consiglio dei Ministri con prerogative e competenze adeguate ai suoi poteri
esecutivi; gradualmente, con successivi procedimenti di riforme sostanziali, la
Presidenza del Consiglio è divenuto di fatto il fulcro operativo dell’attività
dell’intero governo, sul piano sia organizzativo e sia legislativo. E’ utile
ricordare, inoltre, che il rafforzamento dei poteri del Primo Ministro italiano
ha coinciso con il progressivo spostamento di una vasta serie di funzioni
normative dal Parlamento all’Esecutivo. E tutto ciò è avvenuto nei tempi della
grave crisi dei partiti tradizionali, offrendo, così, ai Presidenti del
Consiglio l’opportunità di servirsi d’ogni occasione per consolidare il partito
d’appartenenza o di formarsene uno proprio. Ma il tempo scorre, e tutto o
cambia o viene travolto: ogni assetto sociale, politico, istituzionale. La
divisione dei poteri, la separazione tra governanti e governati, la diversità
controllori e controllati non sono invenzioni astratte, ma insegnamenti
concreti che la storia millenaria dell’umanità consegna ai nuovi tempi. Alla
saggezza e all’onestà degli uomini farne buon uso.
1 commento:
Indubbiamente i partiti hanno perso , strada facendo pezzi importanti sotto diversi aspetti , ma resta indubbia e chiara , a parer mio , la continua marcia nella miopia di un tempo che non è più lo stesso . Avanzano ciechi in un mondo dove la democrazia stessa si è evoluta dalla semplice forma delegativa , oramai e chiaramente insufficiente a gestire i diversi scenari che questa modernità se vogliamo dire liquida pone ogni giorno contro , dinanzi ed accanto . Urge a mio avviso il recupero e l'integrazione della dimensione "dialogica" come necessario complemento ed arricchimento , come bene han dimostrato Callon, Lascoumes e Barthe nel loro lavoro .
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