Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

domenica 7 luglio 2013

UNA “POLITICA DI SERVIZIO” PER IL “BENE COMUNE”


L’uomo è da sempre alla ricerca della sua dimensione esistenziale. Individuo catapultato a caso nei vortici assurdi d’una realtà ignota e incomprensibile, oppure esistente partecipe d’un cosmo ordinato e razionalmente governato? Individuo collocato accanto ad altri individui, tra loro estranei e addirittura in lotta continua tra loro per il predominio o per la sola sopravvivenza, oppure persona protesa per sua natura verso altre persone, tutte in uguale tensione alla reciproca integrazione? Vale a dire, gli uomini sono singolarità intrinsecamente indipendenti e diverse oppure individualità autonome sì, ma anche aperte agli altri, col cui ausilio ciascuno realizzerà la propria realtà e il proprio progetto esistenziale? Insomma, cos’è veramente l’essere umano in sè e per sè? In che rapporto stanno gli uomini e il mondo, il singolo e gli altri, l’individuo e la società.
 
L’uomo ha sentito sempre il bisogno di trovare risoluzioni adeguate e soddisfacenti a questo problema; e, al fine di soddisfarlo, ha fatto ricorso a procedimenti logici, s’è servito della ragione e delle sue argomentazioni, ha invocato il sostegno dell’esperienza e l’autorevolezza della tradizione. E, tuttavia, ha trovato raramente risposte veramente appaganti. La sete conoscitiva dell’uomo, infatti, non s’estingue con i risultati del solo intelletto, ma esige il coinvolgimento e il sostegno della totalità della natura umana. Spesso, invece, l’uomo si limita a ragionare, s’aggrappa all’evidenza della sola logica astratta, ricorre a congetture personali, formulate secondo parametri soggettivi. Ma ogni realtà va scrutata e accettata così com’essa si mostra oggettivamente. Ora, anche le dimensioni vere della sociabilità dell’uomo non pare possano attingersi con la sola razionalità, ma necessitano della totalità della natura umana e, quindi, senza facili e comodi ricorsi a eventuali realtà sovrumane e soprannaturali.
 
L’uomo, allora, ponendosi da questa prospettiva e avvalendosi dell’ausilio d’ogni risorsa a sua disposizione, s’intuirà come immerso in una realtà dialettica, di cui dovrà cogliere e accogliere anche innegabili contrasti e opposizioni. Si sentirà, infatti, partecipe d’un universo multiforme e armonico, ma nello stesso tempo pervaso da strane inspiegabili contraddizioni e da assurde incongruenze. All’uomo, però, manca talora l’ardire di guardare in faccia questa realtà con la distaccata freddezza, necessaria per coglierne e accoglierne le verità ch’essa svela e che, quindi, l’uomo non può farsi a modo suo, ma deve solo accettare nella cruda oggettività, compresi, quindi, anche i tratti incomprensibili e gli aspetti persino misteriosi. Proprio come si comporta l’uomo saggio al cospetto del sole splendente nel cielo: egli non argomenta nè congettura nè dimostra la presenza del sole, si limita solo a sollevare gli occhi, guardare, narrare quello che gli si presenta davanti. Dovrebbe essere questo il comportamento da tenere anche riguardo la realtà del mondo e dell’umanità: conoscere veramente il mondo significa accoglierlo nella sua integralità costituita da finalità proprie, palesi o celate.

A fondamento d’ogni scelta teoretica e d’ogni opzione etica si deve preporre, quindi, innanzitutto una concezione antropologica e socio-politica globale e integrale, entro cui trovi e abbia senso il problema delle responsabilità, che ricadono sui singoli, sui popoli e sull’umanità intera. Di conseguenza, gli uomini debbono optare non solo e non tanto per alcuni valori anziché per altri, ma debbono prima e soprattutto ricercare e accogliere con responsabilità una concezione chiara e condivisibile di uomo e di mondo, su cui fondare e giustificare il senso delle scelte storicamente concrete: si tratta, quindi, d’una scelta preliminare e globale.
 
Ogni scelta storica, infatti, interessa indubbiamente il destino del singolo, ma nello stesso tempo coinvolge anche le sorti dell’evoluzione del mondo e la qualità della vita della società di cui è parte e, in prospettiva cosmopolita, dell’intera umanità. Questa naturale vocazione alla responsabilità verso l’altro (inteso come cosmo e come umanità) non può essere né affidata agli umori dei singoli né lasciata in balia degli interessi dei popoli e nemmeno delegata all’arbitrio di eventuali governanti non sempre animati da autentico spirito umano. Si rischierebbero molti pericoli. Per questo s’impone la necessità d’un’adeguata “legislazione”, cioè d’un insieme saggiamente strutturato di principi e di precetti, che determinino il fine verso cui indirizzare ogni iniziativa, definendone tempi e modalità d’attuazione. Il compito delle leggi e delle norme, infatti, è di indicare l’ideale, cioè di orientare verso il “dover essere”, vero regno dei fini, cui gli uomini possono ragionevolmente e debbono moralmente aspirare. Le leggi e le norme non limitano né condizionano, ma salvaguardano e concretizzano libertà e dovere del singolo, moralità ed eticità delle nazioni e dei popoli. I diritti e i doveri così sanciti non provengono, quindi, dall’esterno della natura e della storia dell’uomo, bensì risiedono dentro di esse e ne sono elementi costitutivi.

Ora, è certo che non si può mai misconoscere e tanto meno trascurare il legame, che unisce norma e morale, diritto ed etica; è un nesso essenziale, che s’impone, però, con maggiore forza in tempi, in cui nelle scelte dei singoli e negli orientamenti dei popoli e delle nazioni, prevale talmente l’affannosa ricerca dell’interesse dei privati e dei gruppi che restano sovrastati e talora addirittura annichiliti il naturale sentimento dell’altruismo e la coscienza delle comuni responsabilità. In questi periodi è più che mai necessario rinverdire, se non addirittura rifondare, una concezione dell’uomo il più integrale possibile, evitando chiusure concettuali preconcette e aprendosi a comportamenti ispirati alla vera dignità dell’uomo.

Infatti, concezioni parziali, anche se legittime, sarebbero insufficienti e, quindi, necessariamente non del tutto esatte ed esaustive. Non pare, perciò, possano ritenersi accettabili le teorie dell’individualismo e del collettivismo, che considerano l’uomo rispettivamente o individuo autosufficiente ed egocentrico (quasi atomo insignificante d’un mondo caoticamente strutturato) oppure parte significativa solo nel necessitante nesso col tutto (quasi tessera d’un immenso misterioso mosaico cosmico). Non sembra fuor di luogo, pertanto, il suggerimento di ripensare le proposte antropologiche e socio-politiche avanzate da dottrine ”integrali “ antiche e contemporanee e di diversa matrice culturale, quali il pensiero umanistico di Erasmo da Rotterdam e del latitudinarismo in generale, l’induismo di Mahatma Gandhi aperto al buddismo e al cristianesimo, il  personalismo cattolico soprattutto  di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain, il principio di responsabilità degli ebrei Huns Jonas e Emmanuel Lévinas, ovviamente senza disattendere le esigenze espresse anche dalle contemporanee teorie della filosofia sia continentale che analitica. L’obiettivo finale cui aspirare è di ritrovare quelle motivazioni etiche prima che giuridiche, capaci di offrire vitalità nuova alla convivenza pacifica e costruttiva tra gli uomini, in una rafforzata visione del dovere civile e morale dell’impegno anche politico, che incombe su ogni uomo e, in primo luogo, su chiunque scelga di dedicare – a tempo e comunque finchè ne sia richiesto - le sue energie al governo della cosa pubblica.

Ecco, a questo punto, l’urgenza di affiancare al politico di professione una nuova generazione di politici “di vero e solo servizio”, che possano convivere, nella reciproca stima, con i primi. Si tratterebbe di persone dedite ordinariamente ad un mestiere o a una professione, che scelgono di dare la propria disponibilità per un loro impegno nella politica attiva e, qualora ne sia il caso, di assumere impegni, in cui porre a disposizione di tutti le proprie competenze ed esperienze, ma sempre con il formale e pubblico impegno ad una partecipazione “solo a tempo” nelle istituzioni.

Sembra ormai inevitabile che una politica, che si proponga d’essere espressione di valori fondati sull’innegabile primato della persona umana, debba riprendere con urgenza indicazioni di elevato spessore umano e sociale, tali che innalzino il livello del confronto politico, spostandolo dalla mortificante combinazione di interessi materiali alla più vasta visione di obiettivi di portata generale, capaci di orientare la condivisione e la partecipazione anche di tutti i cittadini. Per questo è richiesta la presenza di personalità d’indiscussa esperienza, in grado di individuare gli interessi reali sottesi alle varie proposte politiche, dedicandosi con saggezza e prudenza  alla ricerca di soluzioni sempre aggiornate dei problemi specifici, ma nello stesso tempo tenendo sempre presente che bisogna costruire nuove stagioni di rifioritura etica e sociale nella vita sia tra i cittadini e  sia tra e nelle istituzioni. E’ un progetto certamente faticoso, ma è forse l’unico per ridare  senso alla partecipazione del “cittadino” all’impegno pubblico per il bene comune. E’ una proposta che richiede spirito di fiducia e di speranza: si tratta di gestire il presente, ma senza rimanere  oppressi dalla logica dell’imminente; è questo che si richiede a una società efficacemente partecipativa nelle vicende reali della vita comune. E soprattutto nei nostri giorni, quando la crisi dell'etica pubblica è sotto gli occhi di tutti.

domenica 9 giugno 2013

LA NON ESISTENZA DI DIO. LA DIMOSTRA DAVVERO LA “PROVA ETICA”?


 

“Il vero scoglio è la prova etica”: così titolava a caratteri cubitali la ‘Domenica’ de “Il Sole24Ore” del 12 maggio scorso (n. 128, pag. 35) il contenuto della conferenza tenuta da Arif Ahmed, docente di filosofia a Cambridge, giovedì 18 aprile 2013 alla Scuola Normale Superiore di Pisa, su invito del Centro di Filosofia della Scuola.

L’assunto mira a provare il fallimento d’ogni dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio. E questa è dottrina saldamente sostenuta e saldamente dimostrata già da numerosi pensatori fin dall’antichità. Poco fondate e convincenti appaiono, invece, alcune deduzioni che si vuole far discendere dall’assunto. Sembrerebbe, infatti, che l’incapacità della ragione di dimostrare l’esistenza di Dio ne comproverebbe, al contrario e simultaneamente, l’inesistenza. Questa conclusione, però, rimanendo nei limiti dei procedimenti puramente razionali, sarebbe incomprensibile: è, infatti,  contraddizione palese affermare che la ragione umana, incapace di dimostrare l’esistenza di Dio, sia in grado, poi, di dimostrarne l’inesistenza. Ma, a parere dell’autore, a ciò supplisce adeguatamente la testimonianza inconfutabile dei “fatti” storici compiuti nei diversi secoli dalle “chiese”. Sono questi a costituire il solido “scoglio della prova etica”, grazie al quale resterebbe finalmente smascherato il vero volto d’ogni “religione”: “C’è - si chiede sin dall’inizio l’autore - una qualche religione che è vera o che abbia qualche valore?”; e prosegue senza alcuna esitazione, asserendo: “Il modo migliore per affrontare questa domanda è mettere da parte le proprie convinzioni e cercare di guardare in modo spassionato alle prove disponibili”. E quali “prove” più inconfutabili della predicazione ingannevole della creazione d’un cosmo in sé ordinato e finalizzato alla vita degli uomini, dell’egoismo fratricida dominante nel mondo dei credenti, delle guerre di religione o comunque fatte spesso in nome di Dio, degli ibridi connubi delle chiese con i potenti di turno d’ogni tempo? E ciò proverebbe l’inesistenza di Dio.

Questi fatti sono registrati dalla storia: ma, oltre a provare dolorosamente l’incoerenza delle chiese e degli uomini di chiesa, hanno alcun valore riguardo anche la religiosità dell’uomo e la possibile esistenza di una realtà che trascenda la finitudine spazio-temporale e tenga vive le speranze d’un “aldilà della terra” e di un “oltre l’uomo”? Veramente sarebbero sufficienti alcuni eventi storici, opportunamente scelti e adeguatamente presentati, a documentare non solo la miseria delle chiese (soprattutto cattolica), ma anche l’inesistenza di un Dio? Sì, l’inesistenza di Dio; infatti, il problema della dimostrabilità razionale diventa immediatamente problema dell’esistenza stessa di un Dio. Sembra che si giunga alla negazione dell’esistenza di Dio, pur di poter denunciare la nociva inutilità e addirittura la “criminalità” delle chiese, e innanzitutto della chiesa cattolica: “Forse il crimine maggiore della chiesa cattolica – è scritto espressamente - è quello di offrire una falsa speranza a milioni di persone,inclusi i più poveri e gli oppressi, che inganna in modo che concedano credito a storie fantastiche e il loro denaro per i palazzi dorati dei vescovi”. E questa convinzione è talmente ferma da far confessare all’autore: “Sono convinto che qualsiasi persona non animata da pregiudizio, dopo aver esaminato i dati addotti come prova, debba concludere che la religione è priva di verità e di valore, che è una malattia originata dalla paura e una fonte di inaudita sventura per l’umanità”.

Si tralasci il dubbio se il “Divus Epicurus” accettasse nel suo Giardino chi nutrisse una simile convinzione sulla religiosità degli uomini; si tralasci pure la perplessità che nasce di fronte al pensiero che tantissimi esseri razionali in tanti lunghi secoli di ricerca siano stati sempre talmente “animati da pregiudizio” da essere incapaci di una propria pur minima autonomia di giudizio. Certo, dev’essere sempre costante il rispetto del pensiero degli altri; ma non si può nemmeno essere timidi e accoglierlo acriticamente, e nemmeno moralmente indifferenti per non segnalarne probabili conseguenze inesatte teoreticamente e imprudenti praticamente.

A sostegno della sua tesi l’autore avanza – talora anche con toni irridenti - la testimonianza che “la ragione umana si è mostrata sufficientemente ostinata da trovare fallaci tutti gli argomenti dei teologi, da Tommaso d’Aquino fino ai nostri giorni”; e si citano filosofi degli ultimi quattro secoli, tra cui Immanuel Kant, i quali “hanno detto più di quanto fosse necessario per stabilire, oltre ogni dubbio, che ben lungi dal guidare la ragione a Dio, questi argomenti  sono incapaci di reggere a uno scrutinio della ragione”. Kant, però, non azzarda coinvolgere questa debolezza della conoscenza umana con la cattiva condotta dell’uomo né tanto meno riduce la “razionalità” propria della natura umana alla sola attività gnoseologica.  La capacità conoscitiva dell’uomo, essendo finita, non può né deve oltrepassare i propri confini, senza cadere nelle favole della metafisica: quindi, saggiamente e onestamente professa un “agnosticismo” metafisico, che investe le “Totalità” del mondo creato, dell’anima umana e di Dio. L’agnosticismo gnoseologico non è, però, assoluta impotenza dell’umana razionalità, in quanto essa si attua proseguendo anche nella pratica della “volontà libera” e si conclude nell’armonia del “sentimento” che riflette ogni totalità, superandone e conciliandone ogni apparente contraddizione.

Kant, chiude definitivamente e inesorabilmente le porte a ogni forma di metafisica, ma apre e accoglie le sollecitazioni della “Totalità umana”. Del resto, per Kant la confutazione delle prove dell’esistenza di Dio fu opera facile, proprio perchè ebbe il coraggio di ammettere che un'esperienza religiosa basata su "prove teoriche" ha un valore molto relativo. Se dio, per poter essere creduto, va preventivamente "dimostrato", allora non è più grande dell'uomo che lo pensa e lo dimostra. Dio va “postulato” e rispettato per quello che la legge morale detta. Nella Prefazione della prima “Critica” (1781) scriveva: “La ragione umana (...) ha il destino particolare di essere tormentata da problemi che non può evitare, perché le son posti dalla natura della stessa ragione, ma dei quali non può trovare la soluzione, perché oltrepassano ogni potere della ragione umana”. Indubbiamente, quindi, s'egli fosse stato convinto del tutto delle sole “ragioni” della fede, non avrebbe scritto un'opera monumentale che lo vide impegnato ben 35 anni, al fine di cercare di risolvere umanamente quelle contraddizioni razionalmente insostenibili. E, infatti, il filosofo prosegue la sua speculazione, animato dall’umana ragionevole speranza di trovare appagamento a quell’esigenza. E lo fa senza paura di dissacrazioni o violazioni, ma non ricorrendo a metodologie di sapore pragmatico. Nella medesima prefazione, infatti, annota: “Il tempo nostro è proprio il tempo della critica, cui tutto deve sottostare. Vi si vogliono comunemente sottrarre la religione per la santità sua e la legislazione per la sua maestà: ma così esse lasciano adito a giusti sospetti, e non possono pretendere quella manifesta stima, che la ragione concede solo a ciò che ha saputo resistere al suo libero e pubblico esame”.

Sarebbe, così, “illusione comune” pensare che senza religione e senza Dio gli uomini sarebbero “soltanto macchine organiche” prive di qualunque senso e destinate a una fine totale. Nessuno ha mai risolto con razionale certezza il problema della preesistenza e dell’immortalità dell’anima umana, nemmeno ricorrendo alla teoria della “doppia verità” propugnata da certa filosofia araba e utilizzata infelicemente anche da alcuni pensatori; tuttavia sembra eccessivo asserire che “numerosi adulti possono trovare il proprio significato nella vita, mediante un lavoro creativo, o l’impegno politico o allevando figli. Il significato di questa vita è situato all’interno di essa, non in un qualsiasi magico regno dopo la vita”. E’ vero; ma forse è illusorio e rassicurante andare a trovarlo nelle occupazioni dell’operosità quotidiana. La vita non pare possa essere ridotta a uno spazio più o meno lungo di tempo da “riempire” con opere valide o imprese mirabili, che ne darebbero valore e significato; probabilmente è il contrario: è dal senso “della” propria vita che derivano le vere motivazioni e la nobiltà delle scelte e dell’operare dell’uomo, il quale prova certamente un vero tremore metafisico nel ricercare, trovare e accogliere il profondo senso “della” sua vita nella finitudine spazio-temporale. L’uomo probabilmente non è l’insieme delle sue azioni, ma – forse - le sue azioni sono la manifestazione e la concretizzazione di quello che lui è in sé e per sè. Qui interviene nuovamente con saggia prudenza Kant, che addita nelle “idee” la via regolativa per l’uomo. Nella “Analitica Trascendentale” ricorda agli uomini le idee platoniche, annotando con triste malinconia: se gli uomini, anziché deridere le idee di Platone, sapessero contemplarle e agire secondo il loro dettame, essi sarebbero più felici e il mondo diverrebbe sempre migliore. E’ chiaro che le idee non diventeranno mai completamente realtà, altrimenti non sarebbero più idee; ma è grazie ad esse che gli uomini possono vivere esistenze sempre meno infelici e più degne della loro natura. Per e nel rispetto di queste “idee” dovrebbe dedicarsi e agire la religiosità umana, talora travisata da certe chiese e strumentalizzata da alcune pseudo-religioni. Forse Platone, nel proporre all’uomo la purezza trascendente delle “idee”, aveva presente l’insegnamento del maestro Socrate, primo martire della filosofia occidentale, che con la morte ha testimoniato fin dove può e deve spingersi il coraggio della coerenza con i grandi “ideali”. Oggi tanto necessari per tutti, ma soprattutto per le nuove generazioni.

 

mercoledì 15 maggio 2013

IL SENSO DELL’UOMO TRA CONTRADDIZIONE E SPERANZA

Già Pitagora, nel dare suggerimenti perché una giornata sia vissuta proficuamente, raccomandava di tenere in massima considerazione e di dedicare particolare attenzione al momento dell’addormentarsi e a quello del risvegliarsi. Sono, infatti, questi i due momenti, in cui bisogna rientrare in se stessi in intima spirituale solitudine totale, per ritrovare se stessi, esaminarsi e giudicare con sincerità le azioni che si sono compiute e, nello stesso tempo, ponderare e decidere con saggezza e prudenza le scelte quotidiane che s’intendono realizzare. Dei propri comportamenti, infatti, si deve rendere conto innanzitutto a se stessi.

Ma quale sarà il criterio di giudizio, con cui si valuterà la propria condotta? Quali saranno princìpi, che determineranno la bontà o l’iniquità delle proprie scelte? Qual è, cioè, il “senso esistenziale” che dà contenuto e valore alla propria vita, considerata sia nella sua quotidianità sia nell’intera sua durata? Da dove scaturiscono i sentimenti d’appagamento o d’insoddisfazione, che s’insinuano e dominano alternativamente il proprio animo? Da dove sgorgano gli stati d’animo di pace rasserenatrice o di turbamento angosciante, che penetrano e riempiono a intervalli la propria anima?

Davanti a queste domande nasce un primo immediato stato d’animo, in cui l’essere umano avverte e subisce uno spiacevole opprimente sentimento di mistero, che lo stupisce e lo sbigottisce, ma nello stesso tempo lo appassiona e lo entusiasma. L’originario inevitabile sentimento del mistero si presenta, quindi, come la componente caratteristica - fondamentale e necessaria - dell’esistenza umana; esso investe la totalità dell’esperienza esistenziale. La realtà del mistero è la vita stessa, in cui sentiamo d’essere immersi: esso ci assale, s’impossessa della mente e del cuore, domina l’essere umano nella sua pienezza. Ci si sente, allora, avvolti da un’immensità indistinta, partecipi involontari e spauriti d’una realtà molto più antica e più ampia della propria singolarità. Ciascun uomo è una piccola entità vagante in un universo indistinto; è una minuscola totalità proiettata in un cosmo smisurato, del tutto sconosciuto e, comunque, ancora totalmente estraneo.

Dapprima incombono profondi sensi d’angoscia, di stupore, di vertigine. In seguito, però, s’affaccia pacatamente una luce, discreta ma vigorosa, che, dapprima lentamente e poi sempre più decisamente, rischiara l’anima, sussurrandole meditate riflessioni. Successivamente nasce e s’accresce la consapevolezza sempre più evidente della potenza delle proprie facoltà, che così s’incamminano fiduciose per un faticoso itinerario d’intuizione, di ricognizione, di vaglio, di comprensione.

Allora l’iniziale estraneità si dilegua e diviene compartecipazione consapevole e condivisa, l’angoscia svanisce e cede il passo alla fiducia che rinfranca e rinvigorisce, lo sbigottimento s’acquieta e si trasfigura in curiosità che incoraggia, la vertigine scompare e si sublima in entusiasmo.

A questo punto l’essere umano è preparato per intraprendere il cammino, che l’avvia alla ricerca e lo condurrà verso il ritrovamento del tanto agognato “senso” dell’esistenza propria, dell’umanità e dell’universo. Nell’adempiere questo sogno, egli non si risparmia alcuna fatica, non arretra davanti ad alcuna difficoltà, affronta e vince ogni ostacolo. Però, ciò nonostante, alla fine deve prendere atto che la sua ragione, con tutte le argomentazioni possibili - sicuramente importantissime e indispensabili - non può costituire o esaurire l’intero orizzonte dell’esistenza, in quanto essa non riesce a far attingere il senso totale della vita. Le dimostrazioni razionali forniscono indubbiamente molti aspetti delle realtà del mondo fisico, animale e umano; ma davanti alle pressanti domande riguardanti il “senso ultimo della vita” esse s’arrestano e, arrendendosi definitivamente, dichiarano il loro limite e la loro inadeguatezza. Infatti, per quanto la ragione umana si sforzi, rimane sempre sommersa dalla nebbia impenetrabile del mistero, che le rimane comunque inaccessibile.

Questo stato d’animo dapprima getta l’anima nello sgomento e nell’ ansia; in seguito, però, fa nascere il bisogno di superare ogni timore e ansietà e proseguire con fiduciosa audacia nella ricerca del senso vero dell’esistenza. L’uomo, allora, va avanti saggiamente nell’indagine, utilizzando il contributo e il sostegno di altre sue facoltà, delle quali riscopre tutta la validità e ricchezza. S’affida, quindi, alla volontà, che gli consente d’impadronirsi e d’arricchirsi di nuovi aspetti di realtà e di verità, precluse all’indagine solamente conoscitiva. Tuttavia, nemmeno così riesce a squarciare completamente il velo, che nasconde il senso autentico e indubitabile della vita umana e del cosmo. Anzi, qualche volta, si vive ancora più confuso e si sente smarrito nelle nebbie dell’offuscante ammasso di contraddizioni evidenti e indiscutibili.

La realtà, infatti, da un lato si presenta come un tutto ordinato e ben governato, ma dall’altro lato si mostra in una prospettiva inquietante di disordine e caos, fonte d’ingiustizia e d’irrazionalità. La complessa meravigliosa armonia del cielo stellato è quanto mai sublime, e la silenziosa contemplazione della sua smisurata vastità infonde nell’animo stupore, ammirazione e pace; e tuttavia l’astronomia documenta fenomeni giganteschi, incontrollabili, terrificanti. Allo stesso modo, il ciclo vitale del mondo vegetale e animale, nella sua molteplicità e perfezione mostra sorprendenti quadri di bellezza; e tuttavia, proprio per la concretizzazione di tale meraviglioso ordine, sono necessari atti egoistici, forse anche cruenti, ma indispensabili per la propria sopravvivenza, per la conservazione e la successione delle specie. La stessa formazione della vita umana, considerata nei suoi intimi, delicati e amabili momenti, suscita sentimenti di meraviglia e di tenerezza; e tuttavia anch’essa registra fenomeni di sofferenza, spesso impone rinunce molto dolorose, talora nasconde desolanti fallimenti. Già nell’origine della vita umana, quindi, emergono e s’impongono non poche e penose contraddizioni.

E’ innegabile, pertanto, che la realtà è ambivalente e contraddittoria. Perciò, quando si va alla ricerca del senso della vita, non si può fare a meno di riconoscere la presenza sia del mistero sia della contraddizione. E’ una situazione che richiama il pensiero di Immanuel Kant: l’umana ragione si rende conto di avere a che fare con un cosmo tanto immenso e misterioso che non potrà mai conoscerlo veramente; la contraddizione, però, è antinomia, non assurdità, in quanto consiste nel conflitto tra due leggi, entrambe legittime, anche se in contrasto tra di loro. E anche nell’indagare il senso della vita si presenteranno due leggi, le quali, intrecciandosi in modo inestricabile, costituiscono la condizione umana contraddittoria in se stessa, perciò destinata a imprigionare il pensiero dell’uomo.

Questa situazione esistenziale contraddittoria mostra con somma chiarezza una grande verità: nelle vicende dell’umanità e del mondo non tutto è prestabilito con rapporti di necessità, ma parte è affidata anche alla responsabilità di ciascun uomo, il quale con le sue scelte libere, orienta e determina gli accadimenti. Questa verità non è raggiungibile con il solo intelletto, né è data nella sua interezza dalla volontà. L’essere umano – secondo il filosofo tedesco - è dotato anche di un profondo “sentimento”, per mezzo del quale egli percepisce ogni sapore (anche i gusti, i colori, i suoni, i profumi) della vita: è il sentire dell’anima, la percezione da parte della nostra più intima personalità del sapore della vita nella sua totalità. Esso spalanca le porte del nostro piccolo io e ci fa guardare verso tutti gli esseri (non solo umani, ma anche animali, vegetali, inanimati come le pietre e le nuvole), con i quali entriamo in empatia e viviamo una comunanza di fondo, quasi come in una rete che tutti racchiude, quasi un grembo comune dal quale tutti siamo stati generati e al quale tutti desideriamo ritornare. Grazie al sentimento, gli esseri umani - ciascuno nella singolare e irripetibile personalità - intuiscono ciò che non vedono, e lo sentono come realtà originaria e finale, che abbraccia tutti gli esseri e a cui tutti gli esseri aspirano come loro ultima meta.

Allora, l’essere umano, “minuscola totalità” gettata nell’infinito cosmo imperscrutabile, apparentemente arrendendosi davanti alle dure evidenze della ragione, si rifugia nel grembo dell’imponderabile e dell’ignoto, e affida tutto se stesso al flusso spontaneo, libero, incontrollabile, primordiale dell’Essere Totale e Trascendente. Solo allora egli intuisce e rispecchia in sè l’armonia e la bellezza dell’umanità e dell’universo; s’accorge, con singolare immediatezza e straordinaria semplicità, di aver “trovato” il senso autentico della vita anche umana. Esso è la “speranza”. Lo aveva già sostenuto Immanuel Kant, insostituibile filosofo della razionalità umana considerata in tutta la sua integralità. Anch’egli s’era imbattuto nei meandri del “mistero”, dopo essersi chiesto cosa “potesse sapere” e “dovesse fare”. Le risposte razionalmente “logiche” a questi due quesiti non gli rivelavano il senso autentico e totale della vita; allorquando formulò il terzo quesito, cioè cosa gli fosse “lecito sperare”, gli risultò sciolto l’enigma. Infatti, nel suo sentimento sentiva riflettersi l’armonia cosmica e la pacificazione tra gli uomini e i popoli, come verità cui anelare e realtà da realizzare: quindi oggetto dello “sperare” legittimamente.

La speranza, pertanto, non è una virtù come o addirittura inferiore alle altre (come aveva sostenuto Aristotele). Essa, invece, è la sintesi dell’intera personalità umana. Infatti, ogni uomo è la sua speranza, in quanto egli viene definito veramente solo da ciò ch’egli spera. La speranza è il traguardo che si vuole raggiungere, lo scopo che sollecita e rinforza le scelte che si compiono quotidianamente. La salute, gli averi, il potere, il dominio su cose e persone possono essere stabiliti e perseguiti come finalità ultime della propria speranza, per cui è consequenziale che si faccia tutto in loro funzione. Lo scopo perseguito è la speranza; quindi, ogni uomo è la sua speranza. Ecco perché la speranza è la sintesi della vita umana, investendo la totalità unitaria dell’uomo, in cui ragione, volontà e sentimento si uniscono e generano qualcosa di superiore che dà il sapore complessivo alla personalità. Un uomo vero è tale non in base a ciò che possiede, né a ciò che conosce, e nemmeno a ciò che riesce a realizzare, ma solo in base a ciò che è, in quanto essere individuale e irripetibile: certamente è anche il proprio corpo fisico, la propria professione, ma è ancor più la sua speranza, cioè la tensione totale e il gusto della sua vita, che da lui s’espande e che gli altri percepiscono sempre e comunque.

La speranza, quindi, è fondamento ed essenza della vita umana. E, tuttavia, essa non è mai qualcosa d’immutabile, di risolutivo, d’indiscutibile. Infatti, la speranza rimane sempre speranza, non diventa mai conoscenza certa o realtà conquistata. Essa non è mai un dominio che si possa governare o realizzare. E, allora, che cosa si può sperare per la vita propria e degli altri? Che cosa si può sperare, senza venir meno o ingannare la propria natura razionale? Si tratta – direbbe Kant – di uno sperare legittimamente, tale, cioè, che non raggiri la propria ragione e che, nello stesso tempo, preservi dall’arroganza di quelli (non pochi) che sono convinti che la vita è un inganno, dove vanno avanti solo e sempre i furbi. Quindi, alla domanda in che cosa poter sperare, si deve rispondere – sempre con l’aiuto di Kant – in modo molto semplice e immediato: che l’ultimo orizzonte della vita umana non sia il presente e il contingente ma l’eterno e l’assoluto, non l’assurdo ma il senso, non il nulla ma l’essere, non il male ma il bene, non la morte ma la vita.

L’uomo ragionevole può legittimamente sperare solo questo: che viva per qualcosa più grande di lui, che esista una dimensione dell’essere più grande del suo piccolo io destinato a scomparire. Che esista davvero una dimensione di Infinito e di Totalità, in cui tutto trovi e abbia senso.

mercoledì 23 gennaio 2013

CASUALITÀ, DESTINO O LIBERTÀ?


L’intera durata dell’esistenza di ciascun vivente (soprattutto) umano, breve o lunga che sia, può essere interpretata e spiegata in maniere diverse, ma tutte ugualmente credibili e valide, perché tutte ugualmente dettate da intimi sinceri bisogni dell’animo e suggerite da profonde intense aspirazioni dell’umana sensibilità. La vita, pertanto, può essere intuita come un naturale spontaneo ininterrotto fluire di momenti e, di conseguenza, può essere vissuta come un regolare succedersi di accadimenti necessitati e imprevedibili. Oppure può essere concepita come un mosaico di fattura straordinaria, ma misteriosa e oscura, composta da tessere del tutto slegate e tra di loro indipendenti, collocate in un punto particolare per puro gioco del caso oppure  costrette dall’ignoto causale agire di forze sfuggenti a ogni possibilità di comprensione e, pertanto, imprevedibili, incontrollabili, ingovernabili da parte dell’uomo. A questi due principali e comuni modi d’intendere  il problema della vita umana, non si può non aggiungere almeno un altro, in apparenza poco rilevante e, quindi, non meritevole di considerazione; esso, però, è abbastanza diffuso e non sempre è riconducibile a superficialità di riflessione, a faciloneria di valutazione, a negligenza nelle scelte morali. Quest’ultima concezione consiste nell’inconfessata sfiducia in ogni agire umano, per cui si traduce in atteggiamenti di stanca resistenza e d’indolente disinteresse: si offusca il significato del proprio vivere, s’indeboliscono le virtù fondamentali, s’inaridisce la linfa vitale, che alimenta progetti esaltanti e vivifica scelte audaci; un’indolenza diffusa penetra pian piano nell’anima, permeando ogni fibra dell’essere umano, talora diventato passivo abulico spettatore d’ogni evento.

Certo, il dilemma esistenziale non è nuovo, né investe solo le menti più pensose o gli spiriti più riflessivi. E’ un problema che coinvolge tutti gli esseri razionali indistintamente e in maniera più o meno consapevole, qualunque cultura abbiano, qualunque sensibilità posseggano, qualunque situazione esistenziale vivano. Ed è un problema che trova sempre e comunque soluzioni differenti.

Perché io, in questo momento e in questo luogo, con queste doti positive e con questi caratteri negativi, con queste attitudini e con queste  aspirazioni, con queste simpatie e antipatie? Sono tanti interrogativi, che covano muti e inesorabili nel profondo dell’essere umano. Continuamente in agguato, ora balenano all’improvviso sogghignanti, per poi scomparire immediatamente e dileguarsi, qual guizzo fulmineo d’un fuoco fatuo; ora s’ergono e s’impongono, possenti e inesorabili, con piglio vigoroso e, qual giudici implacabili, pretendono con ostinata tenacia una qualche soddisfacente risposta. E ancora, a livello meno individuale, ci si chiede: chi o che cosa è il motore del cosmo? Chi ne assegna i traguardi? Chi ne decide la direzione? Chi muove le vicende del mondo e dell’umanità? Chi determina il cammino delle civiltà e dei popoli? Chi stabilisce le scelte dei singoli uomini e ne indica gli itinerari? Come si muove l’universo? E’ finito o infinito? E’ determinato o indeterminato? E’ vero, è reale che, tra tutti gli esseri viventi e non, l’uomo occupa un posto privilegiato o, comunque, particolare? Caso, caos, un Tutto architettato bene o congegnato male: cos’è quest’immenso universo conosciuto solo in minima parte dalla pur millenaria capacità conoscitiva dell’uomo?

Dove e come sia possibile attingere una risposta che appaghi, se non tutte, almeno qualcuna di queste domande è impresa molto faticosa e, comunque, non agevole. La tradizione, infatti, da parte sua, custodisce e lascia in eredità spiegazioni certamente plausibili e spesso anche seducenti, che hanno costellato il corso dei secoli e dei millenni: e tuttavia lasciano tutte, sempre, ampi aloni fitti di triste insoddisfazione. Le conquiste culturali e i progressi della scienza e della tecnica attuali, da parte loro, non solo non placano aneliti e non dissipano dubbi, ma addirittura ne accrescono la vastità e ne incrementano il vigore. Infatti, mentre s’arricchiscono senza sosta le conquiste della scienza e della tecnica al servizio d’un sempre più produttivo funzionamento delle attività dell’uomo, poco o nulla contribuisce a spiegarne le motivazioni e a comprenderne le giustificazioni. La cultura contemporanea, soprattutto occidentale, si affida sempre più esclusivamente ai poteri della ragione e della scienza, rincorrendo i miti della funzionalità e della praticità, per cui svaluta e spesso abbandona del tutto ogni altra componente della natura umana. Quest’eccesso di razionalismo inaridisce l’umanità, le strappa la gioia della totalità della vita e la priva della possibilità di provare il sapore della felicità autentica. Ecco, allora, la necessità di riappropriarsi della totalità dell’essere umano, costituito anche di sensazioni, impressioni, percezioni, sentimenti, emozioni, affetti, passioni: quella totalità che le culture antiche – particolarmente quella greca – definivano “eros”, cioè il fondamento dell’essere dell’uomo, la fonte della sua ragion d’esistere, la meta ultima, cui tendere ogni giorno in ogni azione. E’ quell’eros che ha originato il cosmo, che lo vivifica, che ne incrementa la vitalità e ne ripara gli errori; quell’eros che – se non censurato e limitato dalla prepotenza assolutizzante d’un ingiustificato razionalismo – dovrebbe ispirare le azioni dei singoli in sintonia sublime e dovrebbe indicare le scelte anche dei popoli, tra loro diversi, ma identici per natura e dignità.

"Noi – avvertiva già Socrate nel ‘Simposio’ - stacchiamo dalla totalità di Eros una determinata faccia: le attribuiamo il nome del complesso e la chiamiamo eros. Per le altre facce usiamo dei diversi nomi”; ma eros è una ‘passione’ che ha valenza universale, in quanto il suo fine, in definitiva, è raggiungere il bene, in modo continuativo, per essere felici. In definitiva, eros è l'espressione del nostro desiderio di trascendenza. Trattandosi di un ideale, può essere considerato come utopia, la quale però dà una direzione coerente alla nostra vita nella direzione della crescita e della trascendenza.

Meta grande e astratta? “La grandezza dell'uomo – sussurra Heidegger - si misura in base a quel che cerca e all'insistenza con cui egli resta alla ricerca”. Mezzo secolo prima, Nietzsche non aveva esitato nel dichiarare: “Si possono concepire i filosofi come persone che compiono sforzi estremi, per sperimentare fino a che altezza l'uomo possa elevarsi”. Senza mai dimenticare, comunque, il sofferto umano consiglio, che aveva suggerito Kant: “La ragione umana viene afflitta da domande che non può respingere, perché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, e a cui però non può neanche dare risposta, perché esse superano ogni capacità della ragione umana”.

 

 

 

 

 

venerdì 21 dicembre 2012

...in ascesa... riflessioni Quintiniane per l'Associazione "Amici di Don Quintino"

per l'Associazione "Amici di Don Quintino" Melissano (Le), dicembre 2012

Contemplare significa saper osservare ogni cosa e ascoltare ogni messaggio, al fine di scoprire verità sempre nuove e vedere beni sempre maggiori; e per don Quintino il silenzio della contemplazione era il modo migliore per ascoltare gli altri, avvicinandosi loro sino a condurli alla Verità eterna: nell’ascolto dell’altro si diventa veramente persone, che non hanno paura della diversità che le circonda; ma è necessario mettere a tacere tutto ciò che è puramente umano e psichico, facendo tacere ogni elemento contingente e porgendo l’orecchio alla voce della verità, che parla con un linguaggio umanamente ineffabile, perché superiore allo stesso pensiero. Nella contemplazione solitaria e silenziosa l’uomo si lascia affascinare e possedere dalla verità, con la quale instaura una relazione amorosa quasi fosse una persona vivente. E, colui che conosce e possiede la verità, può realizzare ogni propria aspirazione solo unendosi all’altro, e non lo lascia più: nella meditazione silenziosa si attua il grande mistero del superamento delle diversità e della loro unificazione totale; un mistero dell’amore alla Verità che unisce, e che fa guardare tutta la realtà, penetrandovi sin nella più profonda intimità. Don Quintino ha incontrato l’Eternità, e nell’eternità ha scoperto la propria identità”.

domenica 8 aprile 2012

DEMOCRAZIA IN CRISI. DIGNITA’ UMANA E GIUSTIZIA SOCIALE

La “democrazia”, prima che una dottrina politica e una forma di governo, è una visione generale dell’uomo e del mondo, fondata su valori propri e caratterizzata da princìpi consolidati e storicamente sperimentati. La concezione ideale normalmente condivisa di democrazia è riassumibile nella formula “governo del popolo, da parte del popolo, per il bene del popolo”. Si tratta di un trinomio inseparabile, tale, cioè, che in mancanza di uno solo dei tre termini, la sostanza dello spirito democratico rimane incompiuta, falsata e tradita. Ogni popolo ha bisogno di una guida e, quindi, deve poter contare su un “buon governo”. Ad accollarsi questo peso e a caricarsi questa responsabilità debbono essere, perciò, guide esperte, sagge e prudenti; chiunque si gravi della responsabilità di governare un popolo deve possedere competenze adeguate, conoscenze ampie e idonee, doti morali d’indiscussa trasparenza, princìpi etici solidi ed esemplari. Il “governante”, che voglia essere e agire “democraticamente”, si deve astenere da ogni tornaconto personale o da qualunque interesse esclusivo di qualche gruppo, dedicandosi, al contrario, esclusivamente ad amministrare quale delegato da tutto il popolo e per il bene di tutto il popolo. Questo significa che egli, almeno per tutto il tempo in cui è responsabile della cosa pubblica, cessa d’essere cittadino “privato” o “di parte” e diventa “pubblico”, cioè di tutti; come tale deve sottoporsi a continua verifica da parte del popolo, in modo da potersi proporre a tutti come “modello” di onestà, di probità, di altruismo disinteressato e gratuito. Solo così sarà e mostrerà a tutti d’essere testimonianza di democrazia autentica: questa, infatti, è servizio rivolto a tutti e reso con impegno e disinteresse; servizio, cioè, che rigetta qualunque forma di attaccamento al potere e rifiuta ogni tentativo d’asservimento del potere a obiettivi personali o di parte.

La democrazia, di conseguenza, non resta mai una pura idea astratta, ma s’incarna nelle persone concrete che la gestiscono e si traduce in regole operative quotidiane, che ispirano e dirigono i comportamenti concreti sia dei governanti sia dei governati. E i caratteri fondamentali dello stile democratico risultano l’altruismo, la coerenza, l’integralità, la testimonianza. Grazie alla condotta suggerita da questi valori, il sistema democratico persegue e garantisce lo sviluppo materiale e morale dei singoli e dei popoli, in quanto permette di capire e di gestire il presente nel massimo rispetto del passato e nella ragionevole proiezione del futuro. Quando, invece, il sistema d’un governo e il modo concreto d’operare d’una democrazia s’allontanano dagli ideali democratici o addirittura ne tradiscono i valori fondamentali, s’apre inevitabilmente il precipizio delle crisi, che generano demagogie e sfociano in populismi più o meno camuffati.

Una delle conseguenze che nascono dalla crisi della democrazia è il dilagare dell’ingiustizia in ogni sua forma: da quella giuridica a quella politica, da quella sociale a quella economica. Ora, è innegabile che nei nostri tempi s’assiste a gravi casi d’indebolimento della democrazia e, in qualche caso, addirittura di un suo sostanziale tradimento. E, quando ciò accade, è perchè comincia a venir meno soprattutto il terzo termine del “trinomio democratico”; cioè, perché si dimentica il “bene di tutto popolo”, si trascura e si misconosce il “primato del bene comune”; e, siccome questo è il fondamento dell’intero sistema democratico, resta necessariamente compromesso l’intero assetto della società, che viene sommersa dalle macerie di quello stesso stato, che avrebbe dovuto tenerla riparata e tutelata.

Il segno più evidente di una democrazia in crisi è il graduale distacco tra governanti e governati: i primi diventano sempre più insensibili e sordi alle giuste esigenze dei secondi, i quali, sentendosi misconosciuti e vedendosi trascurati, perdono la fiducia in chi dovrebbe governarli, per cui ricercano direttamente vie più o meno traverse o imboccano scorciatoie forse criticabili, ma certamente per loro efficaci. Questa situazione, però, determina il rovesciamento del potere democratico, perché ne snatura l’essenza: esso, infatti, non è più servizio generoso e gratuito verso gli altri, ma diventa asservimento disumano degli altri agli interessi propri e di parte. Diventa, allora, normale, anzi legittimo e addirittura necessario il beffeggiare chi concepisce e compie l’impegno politico come “dovere morale” e, all’opposto, si sbandiera come naturale e giusta la pretesa di chiunque di disporre di un chimerico (e tuttavia arrogante e pericoloso) “diritto di fare politica” (intesa come ‘possesso del potere’), come se il governare un popolo possa essere uno dei tanti lavori, cui dedicarsi, per tener occupato piacevolmente il tempo della propria vita. Ovviamente in questo clima si creano gruppi di cittadini avversari, che si vivono non come compagni d’una stessa sorte, ma come rivali e addirittura nemici, che debbono combattersi reciprocamente, rivendicando ciascuno esclusivamente i propri bisogni. Attecchisce e prospera, così, la triste pianta dell’egoismo individuale e di gruppo, su cui s’innestano e prosperano demagogia e populismo capeggiati dall’astuto agitatore di turno.

Cosa aspettarsi da un simile stato di cose, se non il proliferare delle ingiustizie, naturalmente propagandate come necessarie premesse per successive conquiste di benessere di tutti? Ecco, allora, la gravità dei problemi generati da ogni crisi della democrazia. Problemi che possono essere risolti, almeno in parte, solo riscoprendo nella vita sociale la dignità della persona umana e riproponendo di fatto nel governo dei cittadini la centralità dei loro diritti e dei loro doveri in quanto persone tutte d’uguale valore. Questo significa creare e mantenere sistemi politici e governativi costruiti sulla “reciprocità”. Non è più pensabile, infatti, una società “gerarchica”, nella quale i cittadini siano divisi in classi diverse e, quindi, la distribuzione di diritti e di doveri sia “giusta”, solo se rispetta la “proporzione gerarchica”. Le società dei nostri giorni, invece, sono “egalitarie”, per cui si riconoscono tutti i cittadini di pari valore e di uguale dignità: di conseguenza, ogni cittadino, in quanto persona, gode degli stessi diritti e degli stessi doveri, indipendentemente dalla scala sociale di appartenenza. Questa concezione dell’uomo e della politica è quella proposta dal personalismo cristiano, secondo cui l’uomo è unità integrale di corpo e di spirito, aperto alla dimensione della socialità: cioè, è “persona” dotata di razionalità e di conoscenza, di volontà, di sentimento, di libertà e, quindi, di responsabilità, cui non può né deve rinunciare.

martedì 7 giugno 2011

GIOVANI, MORALE E FELICITÀ

Il mondo dei giovani d’oggi è una realtà complessa e mutevole e, proprio per questo, non si presenta come un sistema immediatamente e chiaramente riconoscibile. Esso è, piuttosto, come un universo aperto, nel quale s’incontrano e si scontrano inclinazioni diverse, talora contraddittorie. Questo potrebbe far pensare che è problematico formulare e presentare una proposta morale fatta su misura delle necessità dei giovani. Infatti, da una parte, negli ultimi decenni sono intervenuti mutamenti così rapidi e profondi che è quasi impossibile fare un confronto con il passato anche recente; dall’altra parte, le diversità del presente sono così importanti che non consentono di fare riferimento a modelli culturali certi. Ciò non toglie, però, che nel comportamento dei giovani dei nostri giorni esistano e si possano rintracciare tratti caratteristici, ai quali riferirsi, per sviluppare una proposta di morale. Questa proposta, però, non dovrà solo puntare a prescrivere precetti dettagliati e precisi, ma dovrà anche (e soprattutto) mirare a illuminare il campo della libertà dei giovani, offrendo loro la possibilità d’autonomia di giudizio e di responsabile autodeterminazione.

Sotto quest’aspetto si rileva subito un elemento significativo e importante: cioè la forte aspirazione dei giovani a ricercare la felicità, a soddisfare i loro bisogni, a migliorare la qualità della loro vita. Allora, è quanto mai doveroso fare i conti con quest’aspirazione dei giovani, stando attenti, però, tanto a non cedere ad accondiscendenze frettolose e ingenue, quanto a non rimanere prigionieri di prevenzioni e di paure eccessive. Infatti, se è vero che il far prevalere nelle scelte la libera decisione dei singoli può condurre ai pericoli dell’indifferenza e del relativismo, è anche vero, tuttavia, che può costituire una preziosa occasione, perché il giovane conquisti una più alta forma di moralità, centrata sulla maturazione della sua coscienza e sull'assunzione concreta delle sue responsabilità.

Del resto, oggi i giovani rifiutano chiaramente e con fermezza le morali, che si fondano su leggi oppressive e su imposizioni esterne, e reclamano con decisione una morale fondata sulla coscienza personale formata ragionevolmente e sulle responsabilità assunte volontariamente. Naturalmente quest’atteggiamento può nascondere equivoci e ambiguità, in quanto talora vuol significare un volersi “liberare” da insegnamenti scomodi e da proposte impegnative, per aderire (o meglio, per “asservirsi”) a modi di pensare propri del consumismo e libertarismo. E questo è un atteggiamento molto pericoloso, perchè non permette di stabilire e rispettare una scala di valori credibili e condivisi, in quanto molti bisogni, che vengono sollecitati dalla società, hanno lo scopo di mantenere sistemi socio-economici, che coprono profonde ingiustizie e gravi sperequazioni tra gli uomini.

Questa situazione, però, ha i suoi aspetti costruttivi, che sono d’estrema importanza. Infatti, con questa loro rivendicazione i giovani (nella loro maggioranza) esprimono l’esigenza di liberarsi da divieti inutili e di sottrarsi a tradizioni ormai superate, ma imposte autoritariamente dall’esterno. Essi rivendicano il bisogno di vivere secondo una propria identità: e questo bisogno non dev’essere interpretato con superficialità come il tentativo di sfuggire ai propri doveri, ma va inteso come il segnale del loro legittimo e lodevole ricercare una morale, che sia espressione della propria coscienza, la quale, in verità, è la vera sede delle decisioni umane autentiche. E’ chiaro, comunque, che quest’esigenza dei giovani va gestita con estrema prudenza: ne va compresa e valorizzata la ricchezza dei contenuti, ma, nello stesso tempo, ne vanno previsti e neutralizzati i pericoli d’ogni eccesso.

Solo in questo contesto, però, si può collocare il problema delle regole morali per i giovani. Infatti, il pericolo del relativismo morale è generato dalla confusione tra “valori” e “norme” di comportamento, per cui è necessario intendersi sul loro significato. I “valori” sono fondati direttamente sui diritti fondamentali della persona, per cui costituiscono il punto di riferimento essenziale della condotta umana. Le “norme”, invece, hanno, per loro natura, il carattere di relatività, in quanto sono (e debbono) essere dettate dalle situazioni concrete e, come tali, sono destinate a mutare col mutare delle condizioni sociali e culturali. Pertanto, una morale della responsabilità, che faccia appello innanzi tutto alla coscienza del singolo, dev’essere per la maggior parte impostata come “morale dei valori”, senza preoccuparsi eccessivamente di somministrare “ricette” particolareggiate valide per tutte le situazioni. Sottolineare eccessivamente l’importanza delle norme dettagliate, non solo determina atteggiamenti di pura acquiescenza, ma finisce anche per rendere labile nelle coscienze il rapporto con i valori.

Di qui l'esigenza di assumere, nel campo dell'educazione morale, un atteggiamento propositivo, che punti a offrire uno stile di vita complessivo, in cui ognuno sia capace di articolare autonomamente la scala gerarchica dei valori, e tale che venga assimilato in profondità dalla coscienza dei singoli. La vita morale, cioè, non va presentata come un’astratta ipotesi di principi sganciati dall'esistenza, ma come un cammino di crescita verso una meta ideale, i cui lineamenti vanno, di volta in volta, identificati nella loro concreta possibilità di attuazione dentro la vita della quotidianità. Oggi i giovani colgono con maggiore realismo la compresenza del bene e del male nella realtà della loro vita quotidiana e vivono con sofferenza la crisi dei valori veri e la sfiducia nelle capacità umane. Possono uscire da questo stato di sofferenza, solo se ritroveranno la fiducia nella propria ragione, capace di discernere e di decidere. Il recupero del valore della coscienza individuale – se bene inteso e lealmente perseguito - può costituire un momento felice per il recupero d’una nuova morale umana.

lunedì 9 maggio 2011

I GIOVANI E I VALORI DELLA VITA

Nei confronti della condotta di molti “giovani di oggi” non è né difficile né raro sentire affermare - forse un po’ troppo semplicisticamente - che essi non hanno valori che li sostengano e li guidino, non nutrono ideali che li facciano impegnare responsabilmente, non si prefiggono mete elevate da raggiungere, soprattutto se richiedono sacrificio. Insomma, i giovani di oggi non coltiverebbero interessi validi né per se stessi nè per gli altri, in quanto sarebbero privi di valori morali veri.

A questo punto, però, sembra opportuno chiedersi se sia davvero così. E, soprattutto, domandarsi: quali sono i valori che i giovani di ieri avevano e che i ragazzi di oggi dovrebbero avere e non hanno? Quali sono gli ideali che hanno fatto sognare e vivere la generazione di ieri e di cui l’attuale generazione sarebbe priva? Quali sono gli interessi che hanno animato i giovani dei decenni passati e che il giovane dei nostri giorni non apprezzerebbe? Sforzarsi di trovare lealmente risposte a questi interrogativi è di grande importanza per il bene sia dei giovani e sia dell’intera società. Infatti, il futuro delle società e il destino di tutta l’umanità sono strettamente connessi alle scelte dei giovani, da cui dipendono inevitabilmente. Entrare in contatto con i giovani, però, non è sempre facile, soprattutto quando essi sono sommersi da messaggi, che li spingono verso visioni incerte e superficiali della morale.

Per ottenere qualche risposta credibile, allora, è necessario in primo luogo decidere che cosa sono i valori morali e qual è la loro funzione. Ora, si possono considerare “valori morali” tutte quelle regole, quei principi e quelle linee di condotta, che consentono a ciascuno di progettare la propria esistenza, di stabilire le proprie priorità, per compiere le scelte individuali ritenute appropriate al proprio progetto di vita. Questo, in verità, vale per tutti e per ogni età; ma è maggiormente importante per i giovani, i quali, man mano che crescono, debbono affrontare le difficoltà di un mondo, che spesso non conoscono bene, per cui debbono possedere validi punti di orientamento, che li illuminino nel fare le scelte giuste.

Quando, però, si va ad individuare quelli che debbono essere i “punti di riferimento” fondamentali e i “valori” veri, nasce il bisogno di capire quali sono le responsabilità e il ruolo degli adulti in tutto ciò. Infatti, non possiamo pensare di cambiare la cultura o d’influire sulle persone, se non ci impegniamo noi stessi nel dare testimonianza sicura di quei valori, che richiediamo che ci siano e che vogliamo che gli altri condividano e facciano propri. Gli adulti, quindi, non possono pretendere dai giovani una testimonianza di vita morale, senza avere prima essi stessi sviluppato e testimoniato un proprio modo di vivere morale degno d’essere presentato alle nuove generazioni.

Ora, non c’è dubbio che alle nuove generazioni si cerca di dare (o, in alcuni casi, almeno di suggerire) sin dalla prima infanzia un indirizzo etico, perché è stata sempre riconosciuta l’importanza per ogni uomo di vivere secondo un comportamento degno della natura umana. E da sempre ci si è resi conto che la vita dell’uomo non può essere ridotta ai soli bisogni del corpo (magari da soddisfare con ogni mezzo), e all’inseguimento del benessere materiale (magari da raggiungere sempre e a ogni costo). L’uomo, infatti, è dotato anche di ragione e di spirito, per cui, in quanto essere umano, è prima di tutto capacità di ragionare e di decidere cosa fare, per vivere in maniera piena la propria esistenza e convivere con gli altri in condizioni serene. È grazie alla ragione esercitata nella vita quotidiana che nasce e si sviluppa in ciascuno il senso di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, cioè, l'idea di bene e di male. Quindi, conquistare forti valori morali, a cui ispirarsi nell'agire quotidiano, significa compiere un percorso, mediante il quale, giorno per giorno, attraverso anche fallimenti e afflizioni, si giunge a capire quello che per ciascuno è veramente importante e pieno di significato per la vita propria e degli altri.

Ovviamente questo percorso non viene compiuto nell’isolamento né viene realizzato nel chiuso del recinto della propria individualità. Non si nasce da soli, non si cresce da soli, non si vive da soli. L’uomo è un essere sociale: e sono proprio le persone che lo circondano che influenzano la sua strada e gl’indicano la via che potrebbe seguire; sono le persone più vicine che, inevitabilmente, influenzano la scelta di quelli che saranno i valori di ciascuno. Quindi, è innanzitutto dalla famiglia che giungono le prime e più importanti informazioni. Una famiglia, fondata sull’altruismo generoso e quotidianamente alimentata dal senso di donazione gratuita, comunicherà ai suoi membri certamente i valori della corresponsabilità, della complementarietà, della dedizione, della generosità; una famiglia, invece, fondata sull’egoismo, preoccupata solo per i propri problemi e attenta esclusivamente al raggiungimento dei propri interessi, non potrà che inviare messaggi d’assoluta indifferenza per gli altri e infonderà sentimenti d’insensibilità, di ostilità e di cinismo morale. All’azione della famiglia seguirà l’opera della scuola. Se nella vita della scuola ci sono operatori professionalmente preparati, umanamente pronti a intuire i problemi dei giovani e capaci d’indicare loro nobili traguardi, da raggiungere con sistemi onesti, certamente vengono gettati semi di rettitudine umana e di sana solidarietà, i quali, sviluppandosi, creeranno futuri uomini adulti maturi, che sapranno separare ciò che è buono da ciò che è cattivo. Infatti, quando il giovane, a suo tempo, s’inserirà nella vita della società, porterà in essa le idee rette, i principi sani e i valori morali, ch’egli ha acquisito e fatto propri, e arricchirà così tutti quelli che lo circondano a livello culturale, morale, politico e religioso.

Un compito non facile, che hanno dovuto affrontare anche i “giovani di ieri”, ma forse con una differenza notevole: oggi, infatti, messaggi pubblicitari e società esterna hanno assunto un’influenza maggiore che in passato. Ma è comunque importante che i giovani acquisiscano una morale, e non sottovalutino il ruolo che debbono svolgere: è nella loro buona condotta che si nasconde la speranza del mondo; un futuro morale degno dell’uomo dipende solo da loro. Infatti, i comportamenti di oggi segneranno fortemente il domani. Il problema è che a volte non sono solo i giovani a non avere valori morali, ma hanno le loro responsabilità anche i “grandi”.

venerdì 8 aprile 2011

IL MONDO DEI GIOVANI: CHI SONO? CHE COSA CERCANO?

Tracciare il profilo dei giovani d’oggi non è compito facile, e bisogna evitare giudizi affrettati e generalizzazioni semplicistiche. Ognuno di noi, pertanto, dovrebbe esaminare e verificare personalmente, secondo le proprie esperienze, tutto ciò che viene sostenuto sull’argomento. Infatti, è vero che il mondo giovanile attuale si presenta come una realtà complessa e talora anche contraddittoria; ma, ciò nonostante, si possono individuare alcuni fatti, che accomunano il modo di pensare e di reagire di tutti i giovani, in quanto influiscono fortemente sulla loro formazione e sul loro comportamento. Basti pensare all’influsso della globalizzazione e dell’economia di mercato, alle ripercussioni dei mutamenti nella vita di coppia, alle conseguenze della crisi del modello di famiglia tradizionale, agli effetti dell’eccessivo esibizionismo della sessualità, all’impatto di certa qualità di musica, di televisione e di cinema, all’uso di internet, che ormai unifica la mentalità in ogni parte del mondo.

I “giovani” sono quelli compresi tra i 22 e i 35 anni circa (infatti, si indicano “adolescenti” quelli compresi tra i 18 e i 22 anni circa). I giovani, quindi, vivono gli anni, in cui per natura si aspira a divenire autonomi psicologicamente e indipendenti socialmente, mediante l’affermazione della propria personalità nei vari aspetti della vita e nei momenti soprattutto delle scelte decisive. I giovani, cioè, vivono fortemente il bisogno d’essere se stessi, per cui, sulla spinta del mutare delle situazioni sociali e culturali, sentono il bisogno di riesaminare quello che hanno ricevuto dall’educazione e di prendere le distanze dalle richieste (secondo loro non sempre utili) della società che li circonda. Per questo è possibile incontrare giovani, che sono già inseriti negli studi o anche impegnati in attività precarie, ma che tuttavia sentono il bisogno d’acquistare piena fiducia in se stessi, liberandosi dai dubbi sulla vita e assumendosi impegni seri e durevoli.

In questo cammino di crescita e di conquista d’una propria dimensione autonoma, però, i giovani si aspettano - e spesso lo chiedono apertamente - il sostegno da parte della società, la quale, al contrario, per diverse ragioni, sembra alimentare in loro per lo più il dubbio e la debolezza, per cui alcuni di essi sono indotti ad affidarsi a risposte superficiali e ad aggrapparsi a soluzioni banali, che non li aiutano certamente nel loro cammino verso la maturità. Oltre a queste difficoltà i giovani debbono affrontare anche quelle ancora più difficili causate dal rapido diffondersi delle moderne tecnologie e dall’uso d’internet e di videogiochi, che riempiono la mente e l’animo di tutti, ma più facilmente dei giovani, in quanto sono più malleabili e più suggestionabili, data anche la poca esperienza di vita vissuta. Infatti, queste tecnologie mediatiche predispongono i giovani a vivere nel mondo dell’astratto e dell’immaginario senza contatti con la realtà, per cui essi hanno difficoltà a entrare in contatto concreto con la vita reale, che peraltro spesso li delude e li deprime.

A questo punto ci troviamo di fronte a una situazione piuttosto strana: da una parte si lamenta che i giovani “non vogliono crescere” e si pretende che essi diventino autonomi il più presto possibile, dall’altra parte, invece, si vedono giovani che vogliono farlo, ma stentano a decidersi di separarsi dal loro ambiente d’origine. Allora forse è bene riflettere su qualche aspetto dell’educazione che oggi viene data loro; un’educazione, forse, che fa nascere nei giovani molte aspettative e li induce ad accarezzare molti sogni, spesso a scapito delle vere realtà, per cui essi finiscono per credere di poter manipolare tutto e sempre in funzione di se stessi, senza comprendere e accettare che nella vita concreta ci sono non poche situazioni che limitano il campo delle proprie scelte e talora costringono a decisioni amare. Oggi, l’educazione forse si concentra troppo sul successo personale a qualunque costo, a scapito della realtà sociale, delle possibilità economiche, della preparazione professionale e della formazione di valori culturali e morali. E tutto questo non aiuta certo il giovane a costruirsi una propria personalità.

I giovani, inoltre, debbono far fronte ad altri due condizionamenti, che determinano il loro comportamento: da una parte, l’aspettativa d’una vita umana più lunga (per cui si suppone che ci sia tantissimo tempo per prepararsi nella vita, e comunque per impegnarsi sul serio) e, dall’altra parte, la vita sociale che li costringe ad un’adolescenza sempre più prolungata. Si tratta di due aspetti che giocano a sfavore dei giovani, che restano tentati, se non addirittura invogliati, a rimandare sempre al più tardi ogni loro risoluzione. Questa loro indecisione non è altro che una tacita richiesta di aiuto, per maturare la propria capacità affettiva e per rapportarsi con le nuove ideologie. In primo luogo, il giovane, per naturale aspirazione della sua età, vuole conoscersi e autostimarsi; però, molte sue richieste restano senza risposta, per cui incorre in dolorosi insuccessi e penosi fallimenti, che lo costringono a rimettersi continuamente in discussione: all’improvviso, si sente più fragile, teme di non essere più capace di sostenere il suo ruolo. Se si pensa che questi disagi si protraggono fino ai 35 anni (se non oltre), è facile capire la sua angoscia e le sue reazioni aggressive. In secondo luogo, la vita affettiva del giovane, sotto l’influsso delle scene erotiche sregolate cui assiste, è portato a pensare che l’affettività è qualcosa d’immediato, senza rispetto di tempi e di modi propri della costruzione di un rapporto che abbia senso umano. La pornografia, le situazioni di separazione e di divorzio, la banalizzazione e l’esibizionismo esplicito della sessualità, sono tutti ostacoli per la maturazione del giovane. E, infine, il crollo delle ideologie politiche e il sorgere di movimenti improntati al liberalismo, al consumismo e all’individualismo hanno compromesso il senso della vita veramente democratica: gli altri non esistono, vale solo l’individualismo morale e l’egoismo economico. Come meravigliarsi, allora, se i giovani brancolano nello scetticismo e si smarriscono nel disordine. Eppure cercano la valorizzazione del matrimonio, i valori della famiglia, la dignità della legge morale e civile, l’inserimento onesto nel campo sociale e professionale, la qualità dell’ambiente, il senso della giustizia e della pace.

martedì 8 marzo 2011

UNA LAICITÀ “NUOVA” PER RIPARTIRE

Nel definire il significato di “laicità” e nel fissarne compiti e ruolo, talora si frappongono alcuni equivoci, che alterano la serenità del dialogo e fuorviano dalle reali intenzioni della discussione. Quindi, è necessario innanzitutto precisare il senso autentico della parola “laicità”, che, pur essendo ricca di contenuto e di valore, non sempre è intesa e adoperata in maniera appropriata. Essere laico, infatti, non significa, come purtroppo spesso si pensa, essere un avversario della religione in generale e del cattolicesimo in particolare; la parola “laico”, di per sé, non vuol dire l’essere né “credente” né “indifferente” né “miscredente”. A essere ostile alla religione e a combatterne ogni forma di predicazione è il “laicismo”, cioè quell’atteggiamento estremista, che disprezza e odia la religione e le chiese per pregiudizio. La vera “laicità”, invece, anche quando non condivide dottrine e regole dei diversi campi religiosi (o anche modelli proposti dalla politica, dalla società, dall’economia, dalla morale, dalla scienza, dalla teologia, ecc)), tuttavia li valuta con serena imparzialità, li rispetta con lealtà e li apprezza con onestà, senza fare confusione tra le rispettive facoltà e, soprattutto, tenendo ben separate – con intelligenza e fermezza – le rispettive competenze delle Chiese e degli Stati.

La “laicità”, pertanto, non è un insieme di dottrine particolari, ma è soltanto un abito mentale, grazie al quale si distingue ciò che è dimostrabile con la ragione da ciò che si accetta per fede. La laicità, quindi, non s’identifica con alcun credo specifico e non sostiene alcuna filosofia o morale o politica o ideologia particolare; essa è soltanto la capacità di articolare le proprie convinzioni (siano esse religiose, filosofiche, sociali, culturali) secondo regole che sono proprie della logica razionale, la quale, per la sua stessa natura, non può accettare o subire condizionamenti esterni, perché perderebbe la sua validità. Infatti, la logica razionale è veramente tale, solo se opera nella sua assoluta autonomia, cioè solo se è libera e, quindi, “laica”: tanto in un San Tommaso d'Aquino quanto in un pensatore ateo, la logica s’affida sempre e solo a principi di razionalità, allo stesso modo in cui, nella matematica, la dimostrazione d’un teorema obbedisce solo alle leggi della matematica, indipendentemente dal fatto che essa sia fatta da un Santo o da un miscredente.

La laicità, così intesa, crea la cultura della tolleranza: quella tolleranza che si concretizza nella sapiente umiltà che fa dubitare delle proprie certezze. Il laico è veramente tale, quando è “libero” davvero, cioè quando non si crea propri idoli da adorare né accetta miti altrui da venerare. Egli crede con forza e coerenza in alcuni valori che fa suoi, ma nello stesso tempo non dimentica mai che esistono anche i valori degli altri, che sono pur’essi nobili e validi e, perciò, meritevoli di stima e di rispetto. Laicità significa, allora, avere il coraggio di fare le proprie scelte, assumendosi la responsabilità delle eventuali rinunce necessarie e degli eventuali errori e fallimenti, senza confondere in nessun caso il pensiero rigoroso con i convincimenti fanatici e senza mescolare il sentimento sincero con le reazioni emotive e passionali. Per queste sue caratteristiche la laicità crea e difende una moralità appropriata, con cui si evitano sia gli eccessi del moralismo fazioso sia le licenziosità del permissivismo. Solo il “laico”, dunque, è e vive da uomo libero, perché solo lui aderisce a un'idea, senza restarne succube; s’impegna politicamente, senza perdere la propria indipendenza critica; non resta schiavo delle sue stesse idee e non denigra quelle degli altri; non inganna se stesso, trovando mille giustificazioni ideologiche per le proprie mancanze.

Questa concezione di laicità è stata condivisa e raccomandata anche dal Concilio Ecumenico Vaticano II, nel quale viene delineata una Chiesa aperta alle esigenze del mondo, attenta ai “segni dei tempi”, alla ricerca di un dialogo fecondo con il “Mondo” nelle sue varie dimensioni. Perciò, si rivendica per l’uomo una fede religiosa integrale, cioè che non può essere ridotta a un affare privato riguardante solo la sfera personale, poiché il credente, in quanto “laico”, non può né deve essere relegato nel recinto del suo tempio, così come chi professa idee diverse deve godere del diritto a realizzare nella vita sociale le sue idee. Il volere per forza chiudere il credente nella sua cappella o il pretendere di scacciare dal proprio recinto chi la pensa diversamente, fa parte d’un laicismo arrogante. Del resto, se si vuole una “Chiesa aperta al mondo” e disponibile a capirne e ad accoglierne – sia pur criticamente - le esigenze, si deve ammettere anche un “Mondo aperto alla chiesa”, disponibile, cioè, a comprendere e ad accettare – sia pur criticamente - le sue opinioni e le sue prese di posizione su temi pastorali, che abbiano eventuali implicazioni sociali e indirettamente anche politiche. Autorevoli pensatori religiosi hanno offerto frequenti esempi di questa chiarezza e continuano tuttora a testimoniare l’esigenza di rispettare la ragione e le sue frontiere. Essi, infatti, rivendicano il ruolo che il Vangelo può e deve avere nell’ispirare una visione del mondo e, quindi, nel contribuire a creare una società più giusta; ma, nello stesso tempo, sostengono che la predicazione del Cristo non può mai tradursi direttamente e immediatamente in articoli di legge, per cui esigono un senso profondo della distinzione tra Stato e Chiesa, tra ciò che spetta all'uno e ciò che spetta all'altra.

La laicità, però, s’oppone anche al cosiddetto pluralismo culturale, spesso falso e ostentato dalla società del nostro tempo, la quale esalta tutte le differenze, ma in realtà, sotto l’ingannevole apparenza d’accogliere tutto indistintamente, persegue soltanto il qualunquismo, in cui ogni proposta è considerata come “valore”: c’è posto per tutto e per tutti, perché in esso regna la più piatta indifferenza. Invece la laicità vera, quella che garantisce il pluralismo autentico, riconosce non tutto senza distinzione, ma ogni reale positività di chi operi con efficacia alla costruzione della vita dei popoli e degli stati, i quali non sono contenitori vuoti da riempire con tutto quello che si vuole, ma sono uno spazio, nel quale ciascuno può e deve portare il suo contributo all’edificazione del bene comune. Oggi c’è bisogno di questa laicità “nuova”, per ripartire verso traguardi di civiltà vera.

domenica 6 febbraio 2011

LA BIOETICA TRA SCIENZA DIRITTO E MORALE PER LA DIFESA DEI DIRITTI DELL’UOMO

Alla domanda perché sia nata la bioetica vengono date risposte differenti, perché esse vengono costruite su visioni storiche discordi e restano influenzate da interessi culturali diversi. Tuttavia, una tesi dominante è che la bioetica è nata per proteggere l’umanità dalle conquiste talora incontrollabili della scienza e dalle applicazioni spesso pericolose della tecnologia, per cui è ritenuta una disciplina “difensiva”, in quanto ad essa è delegato il compito di salvaguardare l’umanità dai pericoli che deriverebbero dal mondo della scienza, la quale, pertanto, deve essere riportata sotto la tutela della morale. Anche per questo motivo ogni altra idea e progetto di bioetica, che mirino ad evidenziare i non pochi benefici della scienza e a documentare i non trascurabili vantaggi della stessa tecnica ben applicata, sono visti come il tentativo ingannevole di prevaricare i limiti opportunamente segnati dal senso morale e dalle leggi delle società.

Per verificare l’attendibilità di queste affermazioni, sembra quanto mai opportuno partire da una constatazione indiscutibile: oggi viviamo in tempi dominati da grandi richieste, spesso paradossali e talora persino contrastanti. Infatti, alcuni pretendono d’affrettare la morte di chi soffre (eutanasia), altri gridano alla sacralità della vita e lottano per avere un trapianto; alcuni rivendicano la libertà assoluta per la ricerca scientifica (per giungere a debellare malattie ora inguaribili), altri reclamano la liceità e la bontà del rifiuto di terapie intensive e artificiose, condannate comunque all’insuccesso; alcuni predicano la sacralità inviolabile della vita, altri rivendicano l’irrinunciabile diritto-dovere di migliorarne sempre di più la qualità, rendendola più a dimensione della dignità della natura umana.

A questo punto, non solo è lecito chiedersi cosa determini questa situazione di conflittualità tra scienza medica, leggi della società e norme morali, ma è anche doveroso e urgente trovarvi soluzioni leali e risposte adeguate, considerato che rimangono coinvolti esseri umani (e talora non solo), che concretamente vivono una sola volta e che vogliono, perciò, capire sul serio il valore e il senso della loro vita, per accettare ragionevolmente le situazioni (positive e negative), nelle quali si trovano o potrebbero venire a trovarsi.

Come documenta tutta la tradizione (soprattutto quella che fa riferimento a Ippocrate) l’arte medica alle sue origini consisteva in una pratica clinica affidabile. Il medico, cioè, combatteva la malattia grazie alla sua esperienza; quindi, se un medico dimostrava con i fatti di possedere questa abilità, allora riscuoteva la fiducia dei pazienti, i quali lo giudicavano medico “dotto” e medico “buono”, in quanto con le sue conoscenze operava sempre bene, debellando sofferenze e ridando salute. In sostanza il medico dipendeva dal giudizio e dall’approvazione del paziente, che gli confermava o negava la fiducia oppure ne decretava l’inefficienza e la pericolosità. Il paziente si sottoponeva alle cure anche dolorose che il medico prescriveva, solo perchè era convinto che gli venivano prescritte secondo alcune norme e miravano esclusivamente al suo bene.

Con il trascorrere del tempo il contenuto del sapere della medicina muta gradualmente, arricchendosi sempre di più. Le conoscenze che il medico deve dimostrare di possedere cominciano a costituire il presupposto indispensabile per ogni suo intervento curativo. La medicina dovrà essere in grado di prevedere malattie e affezioni, che avrebbero interessato sia i singoli e sia le collettività; quindi, essa assume il ruolo di utilità anche sociale, potendo – attraverso una propria adeguata organizzazione - divenire lo strumento indispensabile per il mantenimento dell’igiene pubblica e per la tutela della salute d’intere società. Nello stesso tempo, però, scaturiscono le responsabilità anche delle pubbliche autorità, le quali, dovendo tutelare la salute di tutti i cittadini, hanno la responsabilità di “orientare” il sapere e l’arte medica attraverso leggi, alle quali dovranno attenersi sia gli operatori sanitari e sia i pazienti. Le scelte riguardanti la salute anche individuale non stanno più nelle mani del singolo paziente, ma passano attraverso le decisioni pubbliche della società, che attraverso le leggi dello Stato controlla la medicina.

Questo stato di cose genera una sorta di valida alleanza e d’operosa collaborazione tra società e scienza medica, in quanto era più semplice per tutti determinare un bene pubblico omogeneo d’un’intera comunità anziché capire e soddisfare le diverse esigenze dei singoli pazienti. Nello stesso tempo, però, per gli individui nascono delicati e spinosi problemi su cosa intendere e cosa fare per la tutela della salute “propria”, dal momento che – in sostanza - è lo Stato che con la forza dei suoi ordinamenti giuridici decreta l’inizio e la fine della vita, decide quali interventi sono leciti e quali vietati, determina quali scelte sono possibili e quali vietate.ù

I problemi s’accrescono e s’acuiscono ancora di più, quando la scienza conquista nuove conoscenze importanti, che la medicina, però, non può rendere operative per colpa dell’autorità politica, che non riesce a deliberare a tempo debito regole di comportamento adeguate ed efficienti. La situazione s’aggrava ulteriormente, quando al processo di Norimberga emerge che in Germania, che aveva tutta una propria legislazione a garanzia della sperimentazione scientifica, gli internati d’un campo di concentramento erano stati usati per la sperimentazione. E’ a questo punto che nasce e s’impone la bioetica, con lo scopo di sollecitare una possibile armonia tra l’utilità della scienza medica e la tempestività di norme comportamentali. Quindi, storicamente la bioetica nasce per garantire la dignità dell’uomo, pesantemente violata dall’irresponsabilità di certi ricercatori scientifici e gravemente compromessa dall’inerzia legislativa degli Stati. Essa intende raggiungere questo scopo mediante due suggerimenti: riportare al centro delle scelte mediche la libera volontà del singolo cittadino, che deve ritornare ad essere il primo e maggiore protagonista nelle decisioni riguardanti il suo diritto alla salute e ripristinare la fiducia nella vera scienza, intesa come forma di conoscenza controllata e continuamente rielaborata attraverso metodi trasparenti e socialmente aperti, in quanto così non rappresenta un pericolo per l’uomo; anzi, al contrario, rappresenta il sistema più efficace per la tutela dell’ambiente e per la soluzione di problemi, che l’evoluzione biologica e quella culturale hanno prodotto e producono nella lunga storia della vita sulla terra.

Si nota facilmente come in tutto questo contesto rimane quasi scontato il presupposto che la medicina e la scienza in genere debbano essere ancorate e racchiuse naturalmente da regole morali. Ed è giusto. Come è giusto che, dinanzi alla fallibilità e addirittura alla devianza disumana di certa sperimentazione scientifica, la morale intervenga con decisione e fissi con chiarezza dei limiti ben precisi a difesa della vita umana; e ciò vale soprattutto da quando alcuni Stati si sono dimostrati incapaci di tutelarne i diritti contro l’imbarbarimento generato da certo mercato dei prodotti realizzati grazie alla ricerca scientifica. Solo che queste regole morali spesso pretendono di essere valide perennemente, se non addirittura in sé e per sé immutabili e, quindi, inviolabili, tanto da ritenerle naturalmente incorporate in qualunque campo scientifico. Ma forse non è proprio così. Infatti le norme della morale, nella scienza e in ogni campo dell’agire umano, debbono accompagnare e seguire anche i mutamenti storici e gli avanzamenti culturali, a rischio di rimanere inefficaci e sterili, quando non addirittura dannose, in quanto incapaci a indicare giuste finalità e di proporre opportune modalità. E questa è un’opinione fondata su riscontri di fatto. Infatti, se si esaminano alcuni problemi fondamentali, che stanno alla base della bioetica (quali, ad esempio, l’aborto e l’eutanasia), non è difficile notare che essi sono divenuti “problemi” non in seguito ai progressi e ai mutamenti ritenuti incontrollati della scienza, e nemmeno del tutto all’incapacità politica di legiferare, ma anche (e, in qualche caso, soprattutto) alla tenacia persistente e inamovibile di certe dottrine etiche, che, a differenza di altre, non hanno mai accolto né condiviso alcune valutazioni morali. E’ opportuno, allora, precisare che lo sviluppo scientifico ha solo messo in evidenza alcuni conflitti morali già da tempo sorti all’interno dell’etica, e da tempo discussi tra alcune posizioni etiche dominanti e altre rimaste, invece, minoritarie. Sotto questo aspetto, forse sarebbe più utile che le diverse teorie etiche aprissero tra di loro un dialogo aperto e leale, al fine di riconsiderare e rifondare alcuni principi fondamentali etici, da cui ricavare adeguate norme attuative, che mirino non all’affermazione di qualche posizione predominante, ma alla garanzia dell’autonomia e della libertà dell’uomo, unico e ultimo responsabile della propria coscienza.

lunedì 3 gennaio 2011

LA BIOETICA: DISCIPLINA CHE SI COSTRUISCE COL DIALOGO PER LA RICERCA DEI PRINCÌPI UMANISTICI

La bioetica è la parte dell’etica, che studia i fenomeni della vita organica e va alla ricerca di risposte efficaci ai problemi relativi alla procreazione, alla vita e all’estinzione dell’essere umano; alle problematiche, cioè, riguardanti la nascita e lo sviluppo del corpo, l’età matura e la vecchiaia, la salute e la malattia, la morte. L’etica (e, quindi, anche la bioetica) è una disciplina che si fonda sulla ragione umana, in quanto cerca di conoscere con severità razionale i fondamenti generali, sui quali sarà stabilito quali comportamenti dell’uomo sono buoni, giusti e moralmente leciti, e quali, invece, sono cattivi, ingiusti e moralmente scorretti. L'etica e la bioetica, pertanto, non possono costruirsi su basi solamente sentimentali o riconducibili soprattutto a slanci emotivi d’umana solidarietà e d’amorevole compassione, che rimangono certamente sentimenti inviolabili e degni di rispetto, ma inadeguati a trovare e a mostrare la strada che nelle scelte morali devono imboccare sia gli individui che le società. Solo una disciplina sistemata con rigore logico può gettare le basi e fissare i limiti, entro i quali nè potrà né dovrà spingersi la libera volontà degli uomini e la legittima autorità degli stati.

Nella bioetica bisogna distinguere la parte “descrittiva” e la parte “normativa”.Nella bioetica “descrittiva” s’osservano e si descrivono i comportamenti riscontrabili degli uomini, al fine di capire i motivi veri della loro condotta morale e di rendere comprensibili gli atteggiamenti realmente presenti e operanti in un ben preciso contesto sociale e culturale; nella bioetica “normativa”, invece, s’individuano alcuni principi generali, sui quali si dovrà regolare il comportamento umano e dai quali successivamente si dovranno ricavare norme precise per la soluzione concreta delle singole situazioni reali. Sono entrambe parti d’estrema importanza, anche se una certa priorità va riconosciuta alla bioetica “normativa”, in quanto essa tratta i principi generali che indicano i valori da rispettare e i fini da cercare di raggiungere. Anche perché, mentre nell’ambito delle norme pratiche possono verificarsi scontri duri e contrapposizioni inconciliabili, invece, nell’ambito dei principi (che, per quanto diversi, non sono mai contraddittori, ma solo differenti e, quindi, negoziabili) non solo è possibile, ma addirittura s’impone la necessità di confrontarsi e di discutere, per raggiungere alcuni “compromessi” concepibili nel rispetto d’una scala di valori essenziali concordati, condivisi, accettati e difesi.

Così definita la bioetica, emergono due conseguenze evidenti e necessarie: in primo luogo, che essa non potrà essere mai una disciplina fissata una volta per tutte e, quindi, immutabile e valida in ogni tempo e in ogni luogo; e, in secondo luogo, che essa non è una materia assolutamente autonoma e indipendente. Infatti, con l’avanzare delle conoscenze e con il progredire delle tecnologie mutano continuamente i costumi del vivere civile, emergono sempre nuovi criteri di valutazione del comune senso morale, nascono improvvisi nuovi campi d’interesse: e da tutto ciò si generano difficoltà nuove e spesso imprevedibili, che a loro volta pongono questioni globali, che coinvolgono sempre e comunque l’essere umano in tutta la sua integralità di corpo e anima, di materia e spirito. E’ assolutamente inevitabile, allora, che si sconfini dall’ambito esclusivo della bioetica e si entri nel campo di altre discipline, il cui il contributo diventa indispensabile e insostituibile.

In ogni caso la bioetica dovrà affrontare problematiche delicate e complesse, che innegabilmente toccano sempre l’intimità più sacra dell’essere umano, che si dibatte nello sforzo di scoprire davvero il significato ultimo della sua vita e di fare onestamente le scelte più giuste per realizzarlo. Per questo la bioetica ha bisogno del contributo forte, responsabile e generoso di uomini in possesso d’una formazione qualificata, d’un’esperienza consolidata e di abilità provata; essa richiede, cioè, una salda e sicura esperienza professionale e morale, che s’acquista solo mediante l’osservazione continua, attenta, umile e indulgente dei comportamenti umani, e che si consolida solo mediante il lavoro quotidiano compiuto con benevola partecipazione e con umano coinvolgimento nel capire, nel vivere e nel risolvere i difficili problemi riguardanti la vita, la salute, la malattia, la sofferenza e la morte. Il primo sostegno richiesto è quello del medico, il quale, però, non intenda la sua professione come una merce né amministri la malattia come un funzionario, ma che, sempre con il dovuto distacco professionale, sappia percepire e condividere paure e speranze, angosce e aspettative del proprio “paziente”, instaurando con lui un rapporto anche di premurosi sentimenti di sincera umanità. Indispensabile, poi, è l’apporto dello scienziato biologo, il quale, mantenendo continui contatti con tutti gli altri soggetti interessati, metterà a disposizione le conquiste delle sue ricerche e i progressi della tecnologia. Decisiva, inoltre, è la collaborazione del giurista esperto nell’organizzare un ordinato e aggiornato registro, in cui annotare e comparare il maggior numero possibile di casi concreti, in base ai quali sia possibile verificare l’attuabilità dei principi generali. Infine, alla bioetica non può né deve mancare il sostegno del filosofo e il supporto del teologo, i quali, risalendo dalle problematiche poste dalla scienza alle questioni etiche generali, individueranno alcuni principi morali capaci di guidare la condotta da seguire nelle singole situazioni concrete.

Da queste considerazioni consegue che nel campo della bioetica nessuno - per quanto ricco di esperienza, di studi e di conoscenze - può ritenersi autosufficiente, cioè del tutto completo ed esaustivo. La bioetica avanza e si consolida solo mediante il dialogo aperto e leale tra medico, scienziato, giurista, filosofo, teologo e chiunque altro ritenga di avere qualche esperienza da comunicare e qualche valore da rivendicare. Lo spirito davvero autentico e validamente costruttivo della bioetica, quindi, sta nel dialogo: cioè, nella disponibilità di tutti a recepire con umiltà le varie opinioni, a vagliare con lealtà le idee differenti o addirittura contrastanti, a ponderare pacatamente le diverse argomentazioni, a prestare attenzione alle sensibilità anche più lontane. Questo atteggiamento, peraltro, non significherà mai un rinunciare al coraggio di dichiarare, difendere e applicare con fermezza i principi generali, cui si sia pervenuti con mente aperta e sincera e che siano stati condivisi con ragionevole chiarezza.

Non esiste, pertanto, una bioetica vera e tutte le altre false; nell’etica e nella bioetica non c’è posto per il vero e per il falso, in quanto in esse sta raccolto e conservato l’intero insieme delle risposte, che nel corso d’innumerevoli anni sono state date alle molte, diverse, nuove, imprevedibili domande, che situazioni problematiche spesso immediate hanno posto davanti alla ragione e alla volontà dei singoli e delle società. Del resto è sufficiente considerare come nel tempo si sono evoluti gli stessi principi generali etici e come, conseguentemente, sono cambiate molte posizioni morali, per rendersi conto che tutta la bioetica non è un qualcosa di astratto e che viene dal vuoto, ma è il risultato testimoniato delle scelte, che uomini e società hanno fatto in ben definiti contesti culturali prevalenti e in situazioni socio-economiche dominanti. Non c’è, quindi, alcun motivo valido, per cui si possa ritenere che la risposta di uno debba valere necessariamente anche per tutti gli altri; ma ognuno presenterà il suo problema, ipotizzerà la sua opinione, argomenterà il suo convincimento e lo offrirà agli altri, affinchè lo vaglino, lo giudichino ed eventualmente decidano se e fino a che punto possano condividerlo ed accoglierlo. In bioetica, dunque, ognuno deve poter seguire la propria strada, ovviamente sempre entro i confini stabiliti secondo i principi generali discussi e condivisi.

In questa prospettiva s’introduce anche nel campo della bioetica quel principio basilare – anch’esso per sua stessa natura fortemente “etico”, in quanto sostenuto da una valida scelta “etica” - della tolleranza. Pensare e agire secondo lo spirito “etico”, proprio della tolleranza, significa consentire a ogni cittadino di avere una propria opinione ragionevole, di fare una sua scelta responsabile, di esprimere senza timori il suo pensiero e di realizzare i convincimenti che gli suggeriscono la sua conoscenza e la sua coscienza; nella cultura della tolleranza, cioè, nessuno può imporre a un altro il proprio pensiero né può impedire ad altri di vivere secondo la propria visione di vita. Ovviamente anche la tolleranza è circoscritta da limiti ben definiti e assolutamente invalicabili, sintetizzabili tutti nel valore inviolabile del rispetto della dignità di ogni “altro”, dall’istante del suo concepimento al momento della sua morte. A garantire l’ossequio assiduo e il più rispettoso possibile di questo valore sono indirizzati il diritto e la morale. Il primo come struttura, che le società si danno per offrire norme precise per la convivenza e la collaborazione produttiva; la seconda come appello esclusivo dell’animo umano, che detta a ogni individuo i comportamenti da tenere nei diversi casi della vita. Comportamenti spesso difficili a comprendersi e a condividere, talora anche “fuori da ogni ragione”, ma tuttavia sempre profondamente “umani” e degni di rispetto.

venerdì 10 dicembre 2010

Per “ORIENTARSI” BISOGNA RAGIONARE O CREDERE?

Il problema dei rapporti tra ragione e fede, nella cultura dell’Occidente, costituisce un groviglio di molte difficoltà e si presenta come il nodo di molti problemi, che bisogna sciogliere, se si vuole tentare una qualche soluzione riguardo al significato pieno e ultimo dell’esistenza dell’uomo, che vive su questa terra solo per un periodo di tempo ben determinato. La difficoltà maggiore del rapporto ragione-fede nasce dal fatto che esso coinvolge molti aspetti e genera molteplici problemi, che s’intersecano tra di loro, quali, le tensioni fra filosofia e teologia, i contrasti tra scienza e fede, le relazioni tra ragione e rivelazione, fino alla allo stesso rapporto vitale tra la fede e il campo pubblico della politica, cioè tra lo Stato e la Chiesa.
Per orientarsi nella vita, cioè per individuare dove ci si trovi e per decidere dove si voglia andare e dove si possa giungere realmente, in altri termini, per capire il senso vero della propria esistenza e, di conseguenza, operare le proprie scelte di vita, si deve dare ascolto soltanto a ciò che suggerisce la ragione umana oppure ci si deve affidare alla fede, che chiede una piena fiducia in qualcosa o in qualcuno, che starebbe al di sopra di tutti e di tutto e che governerebbe le vicende dell’umanità e le sorti di tutto il mondo? Cioè, la ragione e la fede sono tra di loro alternative sino a stare addirittura in opposizione oppure s’incontrano in un “matrimonio d’amore e d’accordo”, grazie al quale è possibile cogliere la verità ultima sul senso della vita dell’uomo, in quanto si uniscono i risultati della lucidità della ragione (che tende a penetrare anche nei misteri della fede, per congiungersi con essi e realizzare una sempre maggiore pienezza di conoscenza) e le proposte del mistero della fede (che offre livelli superiori di conoscenza e chiede di rischiarare più vivamente anche le stesse acquisizioni della ragione)? Questo significherebbe che ragione e fede non solo non si oppongono, ma addirittura s’incontrano e collaborano almeno in tre momenti: cioè, quando la ragione si dispone per aderire consapevolmente alle proposte della fede, quando essa coopera all’interno della fede stessa, per appropriarsi del contenuto della fede medesima, e quando la luce della fede corrobora, conferma, amplia e completa ogni acquisizione della ragione. La questione fondamentale, allora, rimane quella di trovare e definire il modello della ragionevolezza della fede cristiana, per verificare se il credere alla predicazione cristiana sia un atto ragionevole, per cui anche la fede cristiana, perché venga accolta in conformità alla dignità della natura umana, esiga (da parte sua e per sua stessa natura) di essere prima pensata dalla ragione del credente. Per definire questo modello di ragionevolezza, è necessario dimostrare almeno due premesse: da una parte, che non esiste un modello di ragione unico ed esclusivo e, dall’altra parte, che la fede cristiana non può essere relegata nell’ambito esclusivo delle emozioni e dei sentimenti o anche accolta per una sua utile funzionalità sociale o per un qualche bisogno dell’anima umana, magari depressa e in cerca di consolazione.
In ogni caso, tra la voce della ragione e la voce della fede è necessario tentare di trovare una convivenza, forse difficile, ma comunque necessaria. Per meglio comprendere questa situazione, è opportuno ricordare un dato storico. Quando s’iniziò ad estendere il Vangelo fuori dal mondo ebraico, la fede cristiana s’incontrò con la cultura greca; e quest’incontro fu decisivo per la vita e la predicazione della fede cristiana. Infatti, I predicatori del Vangelo, a cominciare da san Paolo, quando annunciavano l’insegnamento di Gesù Cristo ai cittadini ebrei, si recavano nelle sinagoghe, cioè in luoghi di culto religioso; ma quando vollero rivolgersi ai cittadini greci, cioè a uomini pagani, dovettero andare nella “piazza” (nella agorà); quindi, i primi apostoli cristiani ebbero come interlocutore ebreo “il sacerdote”, ma come interlocutore pagano dovettero affrontare “il filosofo greco”, al quale essi proposero la loro fede in quanto “vera” e, perciò, meritevole della giusta attenzione e degna d’essere accolta da chiunque ricercasse la verità mediante la ragione, cioè l’unico mezzo di cui la natura ha dotato l’uomo. L’apostolo cristiano, allora, annunciava e proponeva una verità, che, in quanto tale, si poteva e si doveva affermare davanti a ogni essere ragionevole. Questo fatto storico assume ulteriore importanza, se si considera che il filosofo greco intendeva la filosofia come “un esercizio del pensiero, della volontà, di tutto l’essere, per cercare di pervenire a uno stato (cioè, la sapienza), che d’altronde era quasi inaccessibile all’uomo”.
Il ripensamento di questo fatto storico fa comprendere come ragione e fede non sono due capacità che si sommano tra loro e nemmeno investono due campi diversi e tanto meno opposti. Ciò significa che nella loro struttura ragione e fede non si giustappongono, ma è dall’interno di ciascuna di esse che si richiamano e si postulano reciprocamene. Infatti, se la fede (cristiana in questo caso) incontra la ragione, è anche vero che la ragione (la filosofia greca) incontra la fede. A meno che una delle due non voglia “autolimitarsi”, esse si integrano in un dialogo fecondo; ma, qualora una delle due volesse irrigidirsi in posizioni di superba autosufficienza, ne conseguirebbe un suo impoverimento, che la condannerebbe a inutile sterilità. Da questo chiarimento storico consegue, inoltre, che l’atto del credere è un atto ragionevole e non contro ragione: esiste, dunque, una profonda sintonia e una perfetta armonia fra ragione e fede umana. Questa è la grande intuizione di sant’Agostino, sulla quale egli costruisce la sua dottrina della conoscenza e dalla quale partirà anche la speculazione di san Tommaso d’Aquino.
In estrema sintesi, la domanda fondamentale che bisogna porre è questa: si può accettare che la ragione dell’uomo non verifichi la verità delle risposte che vengono date dalla fede ai grandi interrogativi, quali quelli del “da dove vengo” e del “verso dove vado”, e quelli etici circa l’esercizio della propria libertà? È questa oggi una domanda che non può più essere censurata; anzi esige una risposta urgente, data la situazione storica, in cui l’Occidente è venuto a trovarsi a causa dell’esaltazione o di una ragione mutilata di fede o di una fede mutilata di ragione, entrambe incapaci di risposte pienamente umane e, quindi, di un vero dialogo tra culture e religioni diverse, di cui oggi s’avverte un così urgente bisogno.
Scendendo sul terreno del concreto e delle proposte, non si può sottacere che uno degli ostacoli maggiori e più pericolosi è costituito dalla tenace arroganza di certe parti del mondo della scienza e della teologia di possedere solo esse l’unica indiscutibile verità. Da una parte, infatti, alcuni settori della ricerca scientifica vogliono imporre come indiscutibile ogni loro nuova conquista “sperimentale” senza alcun argine morale o implicanza etica; dall’altra parte, alcune concezioni teologiche esigono un assenso acritico, incondizionato e indipendente da ogni valutazione razionale. Invece, se, lungi dall’affidarsi a una presunta infallibilità dei “fatti” scientifici o dall’aggrapparsi a un’ostinata inviolabilità d’un’opinabile “trascendenza” prospettata come assolutamente indiscutibile, ci si affidasse alla piena e totale “razionalità umana”, forse gli uomini dialogherebbero veramente tra di loro e l’umanità non assisterebbe a così frequenti e cruente lotte, frutto di assoluta irrazionalità. Infatti, la piena e totale “razionalità umana” non è solo ragione e fede, ma è costituita anche da intuizioni e percezioni, da emozioni e sentimenti, da affetti e desideri, da delusioni e speranze, da paure e coraggio. Cioè, un insieme sublime di facoltà, che sostanziano la mirabile ricchezza dell’essere umano, fatto certamente per se stesso, ma aperto anche all’altro; amante di sé, ma bisognoso dell’altro; desideroso di “comandare” e d’intervenire nelle vicende del mondo, ma disposto anche a “ubbidire” ai principi che fanno vivere questo mondo stesso. Questo è il suggerimento d’ogni saggia, umana filosofia, che, sulle orme dell’antico “filosofo greco” Platone e del vecchio “filosofo cristiano” Agostino, indica nella “modestia” della ricerca filosofica della verità l’unica via per una vita individuale serena (se non felice) e una convivenza tra i popoli e le nazioni non belligerante (se non pacifica). Questa “modestia filosofica”, infatti, ricorda a ogni uomo che, per quanto grande e potente egli sia, rimane sempre un essere fallibile: tutte le sue facoltà sono certamente sublimi, ma anche fallibili e, quindi, continuamente ripensabili ed emendabili. E questo può realizzarsi solo grazie a una cultura fondata sul dialogo retto e sincero.