“Il
vero scoglio è la prova etica”:
così titolava a caratteri cubitali la ‘Domenica’
de “Il Sole24Ore” del 12 maggio scorso (n. 128, pag. 35) il contenuto della
conferenza tenuta da Arif Ahmed, docente di filosofia a Cambridge, giovedì 18
aprile 2013 alla Scuola Normale Superiore di Pisa, su invito del Centro di
Filosofia della Scuola.
L’assunto mira a provare il
fallimento d’ogni dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio. E questa è dottrina
saldamente sostenuta e saldamente dimostrata già da numerosi pensatori fin
dall’antichità. Poco fondate e convincenti appaiono, invece, alcune deduzioni che
si vuole far discendere dall’assunto. Sembrerebbe, infatti, che l’incapacità
della ragione di dimostrare l’esistenza di Dio ne comproverebbe, al contrario e
simultaneamente, l’inesistenza. Questa conclusione, però, rimanendo nei limiti dei
procedimenti puramente razionali, sarebbe incomprensibile: è, infatti, contraddizione palese affermare che la ragione
umana, incapace di dimostrare l’esistenza di Dio, sia in grado, poi, di dimostrarne
l’inesistenza. Ma, a parere dell’autore, a ciò supplisce adeguatamente la
testimonianza inconfutabile dei “fatti” storici compiuti nei diversi secoli dalle
“chiese”. Sono questi a costituire il solido “scoglio della prova etica”, grazie
al quale resterebbe finalmente smascherato il vero volto d’ogni “religione”:
“C’è - si chiede sin dall’inizio l’autore - una qualche religione che è vera o
che abbia qualche valore?”; e prosegue senza alcuna esitazione, asserendo: “Il
modo migliore per affrontare questa domanda è mettere da parte le proprie
convinzioni e cercare di guardare in modo spassionato alle prove disponibili”.
E quali “prove” più inconfutabili della predicazione ingannevole della
creazione d’un cosmo in sé ordinato e finalizzato alla vita degli uomini,
dell’egoismo fratricida dominante nel mondo dei credenti, delle guerre di
religione o comunque fatte spesso in nome di Dio, degli ibridi connubi delle
chiese con i potenti di turno d’ogni tempo? E ciò proverebbe l’inesistenza di
Dio.
Questi fatti sono registrati
dalla storia: ma, oltre a provare dolorosamente l’incoerenza delle chiese e
degli uomini di chiesa, hanno alcun valore riguardo anche la religiosità
dell’uomo e la possibile esistenza di una realtà che trascenda la finitudine spazio-temporale
e tenga vive le speranze d’un “aldilà della terra” e di un “oltre l’uomo”? Veramente
sarebbero sufficienti alcuni eventi storici, opportunamente scelti e
adeguatamente presentati, a documentare non solo la miseria delle chiese
(soprattutto cattolica), ma anche l’inesistenza di un Dio? Sì, l’inesistenza di
Dio; infatti, il problema della dimostrabilità razionale diventa immediatamente
problema dell’esistenza stessa di un Dio. Sembra che si giunga alla negazione
dell’esistenza di Dio, pur di poter denunciare la nociva inutilità e
addirittura la “criminalità” delle chiese, e innanzitutto della chiesa cattolica:
“Forse il crimine maggiore della chiesa cattolica – è scritto espressamente - è
quello di offrire una falsa speranza a milioni di persone,inclusi i più poveri
e gli oppressi, che inganna in modo che concedano credito a storie fantastiche
e il loro denaro per i palazzi dorati dei vescovi”. E questa convinzione è
talmente ferma da far confessare all’autore: “Sono convinto che qualsiasi
persona non animata da pregiudizio, dopo aver esaminato i dati addotti come
prova, debba concludere che la religione è priva di verità e di valore, che è
una malattia originata dalla paura e una fonte di inaudita sventura per
l’umanità”.
Si tralasci il dubbio se il
“Divus Epicurus” accettasse nel suo Giardino chi nutrisse una simile
convinzione sulla religiosità degli uomini; si tralasci pure la perplessità che
nasce di fronte al pensiero che tantissimi esseri razionali in tanti lunghi secoli
di ricerca siano stati sempre talmente “animati da pregiudizio” da essere
incapaci di una propria pur minima autonomia di giudizio. Certo, dev’essere sempre
costante il rispetto del pensiero degli altri; ma non si può nemmeno essere
timidi e accoglierlo acriticamente, e nemmeno moralmente indifferenti per non segnalarne
probabili conseguenze inesatte teoreticamente e imprudenti praticamente.
A sostegno della sua tesi l’autore
avanza – talora anche con toni irridenti - la testimonianza che “la ragione
umana si è mostrata sufficientemente ostinata da trovare fallaci tutti gli
argomenti dei teologi, da Tommaso d’Aquino fino ai nostri giorni”; e si citano filosofi
degli ultimi quattro secoli, tra cui Immanuel Kant, i quali “hanno detto più di
quanto fosse necessario per stabilire, oltre ogni dubbio, che ben lungi dal
guidare la ragione a Dio, questi argomenti
sono incapaci di reggere a uno scrutinio della ragione”. Kant, però, non
azzarda coinvolgere questa debolezza della conoscenza umana con la cattiva
condotta dell’uomo né tanto meno riduce la “razionalità” propria della natura
umana alla sola attività gnoseologica.
La capacità conoscitiva dell’uomo, essendo finita, non può né deve
oltrepassare i propri confini, senza cadere nelle favole della metafisica:
quindi, saggiamente e onestamente professa un “agnosticismo” metafisico, che
investe le “Totalità” del mondo creato, dell’anima umana e di Dio.
L’agnosticismo gnoseologico non è, però, assoluta impotenza dell’umana
razionalità, in quanto essa si attua proseguendo anche nella pratica della
“volontà libera” e si conclude nell’armonia del “sentimento” che riflette ogni
totalità, superandone e conciliandone ogni apparente contraddizione.
Kant, chiude definitivamente e
inesorabilmente le porte a ogni forma di metafisica, ma apre e accoglie le sollecitazioni
della “Totalità umana”. Del resto, per Kant la confutazione delle prove dell’esistenza di
Dio fu opera facile, proprio perchè ebbe il coraggio di ammettere che
un'esperienza religiosa basata su "prove teoriche" ha un valore molto
relativo. Se dio, per poter essere creduto, va preventivamente
"dimostrato", allora non è più grande dell'uomo che lo pensa e lo dimostra.
Dio va “postulato” e rispettato per quello che la legge morale detta. Nella Prefazione della prima “Critica” (1781) scriveva: “La ragione
umana (...) ha il destino particolare di essere tormentata da problemi che non
può evitare, perché le son posti dalla natura della stessa ragione, ma dei
quali non può trovare la soluzione, perché oltrepassano ogni potere della
ragione umana”. Indubbiamente, quindi, s'egli fosse stato convinto del tutto delle
sole “ragioni” della fede, non avrebbe scritto un'opera monumentale che lo vide
impegnato ben 35 anni, al fine di cercare di risolvere umanamente quelle
contraddizioni razionalmente insostenibili. E, infatti, il filosofo prosegue la
sua speculazione, animato dall’umana ragionevole speranza di trovare appagamento
a quell’esigenza. E lo fa senza paura di dissacrazioni o violazioni, ma non
ricorrendo a metodologie di sapore pragmatico. Nella medesima prefazione, infatti,
annota: “Il tempo nostro è proprio il tempo della critica, cui tutto deve
sottostare. Vi si vogliono comunemente sottrarre la religione per la santità
sua e la legislazione per la sua maestà: ma così esse lasciano adito a giusti
sospetti, e non possono pretendere quella manifesta stima, che la ragione
concede solo a ciò che ha saputo resistere al suo libero e pubblico esame”.
Sarebbe, così, “illusione
comune” pensare che senza religione e senza Dio gli uomini sarebbero “soltanto
macchine organiche” prive di qualunque senso e destinate a una fine totale. Nessuno
ha mai risolto con razionale certezza il problema della preesistenza e dell’immortalità
dell’anima umana, nemmeno ricorrendo alla teoria della “doppia verità”
propugnata da certa filosofia araba e utilizzata infelicemente anche da alcuni
pensatori; tuttavia sembra eccessivo asserire che “numerosi adulti possono
trovare il proprio significato nella vita, mediante un lavoro creativo, o l’impegno
politico o allevando figli. Il significato di questa vita è situato all’interno
di essa, non in un qualsiasi magico regno dopo la vita”. E’ vero; ma forse è
illusorio e rassicurante andare a trovarlo nelle occupazioni dell’operosità
quotidiana. La vita non pare possa essere ridotta a uno spazio più o meno lungo
di tempo da “riempire” con opere valide o imprese mirabili, che ne darebbero
valore e significato; probabilmente è il contrario: è dal senso “della” propria
vita che derivano le vere motivazioni e la nobiltà delle scelte e dell’operare dell’uomo,
il quale prova certamente un vero tremore metafisico nel ricercare, trovare e
accogliere il profondo senso “della” sua vita nella finitudine
spazio-temporale. L’uomo probabilmente non è l’insieme delle sue azioni, ma –
forse - le sue azioni sono la manifestazione e la concretizzazione di quello
che lui è in sé e per sè. Qui interviene nuovamente con saggia prudenza Kant,
che addita nelle “idee” la via regolativa per l’uomo. Nella “Analitica
Trascendentale” ricorda agli uomini le idee platoniche, annotando con triste
malinconia: se gli uomini, anziché deridere le idee di Platone, sapessero
contemplarle e agire secondo il loro dettame, essi sarebbero più felici e il
mondo diverrebbe sempre migliore. E’ chiaro che le idee non diventeranno mai
completamente realtà, altrimenti non sarebbero più idee; ma è grazie ad esse
che gli uomini possono vivere esistenze sempre meno infelici e più degne della
loro natura. Per e nel rispetto di queste “idee” dovrebbe dedicarsi e agire la
religiosità umana, talora travisata da certe chiese e strumentalizzata da
alcune pseudo-religioni. Forse Platone, nel proporre all’uomo la purezza
trascendente delle “idee”, aveva presente l’insegnamento del maestro Socrate,
primo martire della filosofia occidentale, che con la morte ha testimoniato fin
dove può e deve spingersi il coraggio della coerenza con i grandi “ideali”.
Oggi tanto necessari per tutti, ma soprattutto per le nuove generazioni.
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