Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

lunedì 4 gennaio 2016

IL «GRAZIE» DI MONTALE AL PREMIO NOBEL 40 ANNI DOPO

Dal Corriere della Sera del 24 ottobre 1975, dopo l’annuncio.
(dal testo di Giulio Nascimbeni)


Ore 13 di ieri, al terzo piano di via Bigli 15, nella casa di Eugenio Montale, suona il telefono. Risponde la Gina (Gina Tiossi, un discreto personaggio di governante che da quasi 40 anni vive accanto a Montale). Il poeta sta fumando in compagnia di due amici del Corriere, Gaspare Barbiellini Amidei e chi scrive. La Gina entra nel salotto: «Chiamano dall’ambasciata di Svezia», dice. Montale si alza dalla poltrona con un po’ di fatica, spegne la sigaretta, si appoggia al braccio della Gina, va al telefono.

«Oui, monsieur… Je suis très heureux de faire votre connaisance». Dall’altra parte del filo c’è l’ambasciatore. La serie degli oui si sgrana fitta e continua. Poi comincia quella dei merci. La scena ha una castità e una semplicità straordinarie. Le pareti della casa sono vuote: i quadri non sono ancora stati riappesi dopo l’estate. L’annuncio del premio Nobel avviene nella piccola anticamera che precede la cucina, tra un vecchio frigorifero la porta del bagno di servizio. Montale con una mano si appoggia a una maniglia. Dice ancora una volta merci. Riattacca. La Gina lo bacia sui capelli, poi gli domanda: «Andiamo a tavola?». In cucina sono pronti il riso all’olio e due polpette con l’insalata.

La prima poesia. Montale chiede un piccolo rinvio: «Fumo un’altra sigaretta con questi miei amici. L’ambasciatore mi ha raccontato che scrive poesie anche lui». Torna a sedersi. «Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io?». Si sentono altri squilli del telefono. Alla porta c’è un inviato della televisione svedese. «Ciao, dice, adesso mangio, poi vado a riposare». Da tre ore Montale era in attesa. Il giorno prima, mercoledì, uno dei suoi traduttori in svedese, il Prof. Oreglia, lo aveva avvertito che l’assegnazione del premio era ormai sicura al 90%.«Come ha passato la notte?». Gli chiedo. «Con la mia solita insonnia. È sessant’anni che ne soffro. Il Nobel non c’entra», risponde. «Degli altri probabili vincitori cosa pensa?». «Ho saputo che c’era anche Simone De Beauvoir. Dicono che sia una donna terribile. Come fa Sartre a starle insieme da tanto tempo?». Sono le undici, da Roma è arrivata una giornalista svedese, Martha Larsson. Deve tracciare una rapida biografia del poeta. Si comincia dalla data di nascita: 12 ottobre 1896. «Ho scritto la mia prima poesia a 5 anni. La ricordo perfettamente: Il vaso era il posto noto – né pieno né vuoto». A poco a poco avviene una metamorfosi abbastanza consueta quando si intervista Montale.

La sua insaziabile curiosità delle cose della vita, che è una specie di reazione alla solitudine di cui si è sempre circondato, lo porta a essere lui l’intervistatore. Alla Larsson che gli chiede se ha lettori in Svezia risponde: «Sì, mi mandano delle cartoline con slitte trainate da cani. Ma come risolvete i problemi del riscaldamento con tutto quel freddo? In quanti siete? È vero che da voi non c’è modo di sfuggire alle tasse?». La giornalista gli risponde che è vero. «Allora il vostro governo non piacerebbe agli italiani», commenta Montale. La Larsson insiste: «Cosa ne pensa della situazione italiana?». La risposta è: «Finirà bene. Non ho mai visto un Paese che muore perché un bilancio è in passivo. Mio padre, ai primi del secolo, diceva sempre: “È una catastrofe, non si può andare avanti”. Sono passati più di 70 anni. I discorsi sono sempre uguali. Solo al tempo del fascismo non si faceva perché non si poteva parlare. Adesso siamo forse arrivati all’eccesso opposto: Dal mutismo alla logorrea». La Larsson vuole condurlo a pronunciarsi sul problema dell’aborto. Risponde: «Non siamo molto bravi a interpretare le leggi. Quando è arrivato il divorzio, molti hanno creduto che fosse obbligatorio. Adesso c’é il pericolo che tutte le donne si sentano obbligate ad abortire. Ma è vero che in Svezia non ci sono poveri?».

Stoccolma, 10 dicembre 1975, nel Salone della Fiera Campionaria si svolgono le prove della cerimonia di consegna del Premio Nobel: gli undici candidati, a turno, devono avanzare verso re Carlo Gustavo di Svezia e ritirare la prestigiosa medaglia. Tra loro c’è Eugenio Montale, il poeta, certo, autore di “Ossi di seppia” e “Le occasioni”, ma anche il giornalista e critico musicale del Corriere della Sera, oltre che il traduttore che collaborò con Elio Vittorini all’antologia “Americana”. Al Nobel l’ha condotto la stima smisurata del collega svedese Anders Osterling, che già nel 1960 aveva tradotto per i connazionali la raccolta “Ossi di seppia” (Archivio Rcs)

Montale ha 80 anni, soffre da tempo di vertigini e fatica a camminare, ma presenzia alle prove della cerimonia, mentre la fidata governante Gina sbuffa e dice: «Me lo stan sbatacchiando di qua e di là come se avesse vent'anni». Dopo qualche momento di smarrimento generale, data la rigidità del cerimoniale che impedisce di accompagnare i vincitori, il re Carlo Gustavo - nella foto - si offre di portargli il premio (Archivio Rcs). E di quell’occasione solenne, riconoscimento per il lavoro di una vita, oltre che orgoglio nazionale, restano alcuni esilaranti commenti a margine di Montale, come questo sui 90 milioni di lire legati al premio: «Tutti mi chiedono che cosa ne farò. Prima vorrei sapere quanti me ne restano dopo le tasse» (Archivio Rcs).

Ma a cerimonia conclusa, durante il banchetto in onore dei vincitori, lasciandosi andare all’emozione e all’orgoglio, Montale si fa serio e commenta così quella giornata speciale: «Ho sempre bussato alle porte di quell'enigma meraviglioso che è la vita, e da quell'enigma ho tratto la poesia» (Archivio Rcs).

Ultimo di sei figli, Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896 in una famiglia della media borghesia, che sceglie per lui studi tecnici a causa della sua salute precaria, pur lasciandogli coltivare la passione letteraria. Si diplomerà in ragioneria, ma negli anni verrà insignito di ben tre lauree honoris causa, di cui dirà: «Qui [in Italia], anche per diventare poliziotto bisogna essere dottore. Soprattutto nel meridione è un titolo molto apprezzato» (Archivio Rcs).

Alla passione per la letteratura accompagna quella per il canto, seguendo le lezioni dell’ex baritono Ernesto Sivori; come cantante non si esibirà mai, tranne che per i colleghi del Corriere della Sera, come racconta Vittorio Notarnicola: «Un pomeriggio al giornale, con un registratore a disco, gli si tirò una trappola: lo convincemmo a incidere “la calunnia”, del don Basilio rossiniano. Eugenio cantò, ma non sapeva tutte le parole; non si fermò, andò avanti a cantare, inventando quello che non conosceva della romanza» (Archivio Rcs).

Dopo aver preso parte alla Grande Guerra, Montale affronta gli anni ’20 e ’30 distaccandosi dal fascismo e sottoscrivendo il famoso manifesto di Benedetto Croce, che gli costerà l’espulsione dal Gabinetto scientifico letterario Vieusseux di cui era diventato direttore nel 1938. Nella foto con Maria Luisa Spaziani (Archivio Rcs). Negli anni del soggiorno fiorentino, Montale si é già fatto notare per la sua prima raccolta poetica “Ossi di seppia”, pubblicata da Piero Gobetti nel 1925, e collabora alla rivista “Solaria”, immerso nella vita culturale fiorentina e nei circoli letterari, dove ha modo di conoscere Carlo Emilio Gadda, Tommaso Landolfi ed Elio Vittorini - con lui nella foto (Archivio Rcs)

«L'argomento della mia poesia è la condizione umana in sé considerata: non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio. [...] Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia». E ancor più che in “Ossi di seppia”, ne “Le occasioni” la poesia si fa simbolica, il linguaggio meno penetrabile e carico di sottintesi (Archivio Rcs).

Nel 1948 viene chiamato a collaborare con la redazione del Corriere della Sera e del Corriere d’Informazione come critico musicale; una svolta, come già altre nella sua vita, che definirà casuale: «Non ho mai deciso nulla, cosa fare, dove andare. Gli eventi mi hanno modificato. Sono diventato giornalista dopo i cinquanta, quando si va quasi in pensione». Nella foto con il direttore Piero Ottone (Archivio Rcs).

Stoccolma, 10 dicembre 1975, nel Salone della Fiera Campionaria si svolgono le prove della cerimonia di consegna del Premio Nobel: gli undici candidati, a turno, devono avanzare verso re Carlo Gustavo di Svezia e ritirare la prestigiosa medaglia. Tra loro c’è Eugenio Montale, il poeta, certo, autore di “Ossi di seppia” e “Le occasioni”, ma anche il giornalista e critico musicale del Corriere della Sera, oltre che il traduttore che collaborò con Elio Vittorini all’antologia “Americana”. Al Nobel l’ha condotto la stima smisurata del collega svedese Anders Osterling, che già nel 1960 aveva tradotto per i connazionali la raccolta “Ossi di seppia” (Archivio Rcs).

Martha Larsson se ne va. Dalla Mondadori, la casa editrice che pubblica i suoi libri, gli chiedono una dichiarazione ufficiale. I «tic» del volto si accendono tutti all’improvviso. La bocca sbuffa con quel sibilo che a volte gela l’interlocutore. «Come si fa a dire cose non banali?», domanda. Detta qualcosa: «L’altissimo riconoscimento che mi viene dall’Accademia svedese é per me motivo di soddisfazione…». Ci ripensa. Si ferma. I «tic» riprendono il sopravvento, torna a dettare: «Non sono mai stato in Svezia e non conosco personalmente i miei traduttori in lingua svedese. Questo fatto aumenta in me la profonda gratitudine per il riconoscimento che mi viene da un Paese che ha alte tradizioni di cultura e di profonda fede democratica. Mi ripropongo di andare in Svezia e ringraziare personalmente i miei nuovi amici». 

Segue un’immediata postilla: «Andrò a Stoccolma, ma non vorrei fare discorsi». È quasi mezzogiorno. Lo prende un dubbio: «E se poi non vinco? E se poi decidono di cambiare opinione?». Ride nervoso. Gli ricordo che il Nobel coincide con i 50 anni di Ossi di seppia. «Il volume costava sei lire», risponde. «Ne furono stampate mille copie. Dovetti darmi da fare per convincere parenti e amici a prenotarlo. Il primo titolo che avevo proposto era "Rottami".

Il tempo scorre lento. Si parla di giornali: «Ho sentito che quello di Scalfari, “La Repubblica”, uscirà in un formato quasi tabloid. Che convenienze ci sono?». Poi il discorso passa al «Corriere»: «Chi c’è nella stanza dove stavo io con il povero Emanuelli? Via Solferino è diventata troppo lontana per le mie gambe. Devo muovermi ogni giorno, me l’ha ordinato il medico, ma non fare tanta strada. Se andrò a Stoccolma dovrò tirare fuori lo smoking. È da quando ho smesso di fare il critico musicale che non lo indosso più». «Ha scritto poesie in queste ultime settimane?», domando. «No, sono appena rientrato da una lunga vacanza a Forte dei Marmi. Adesso posso concedermi lunghe vacanze. Andavo alla spiaggia tutte le mattine. Ma non ho scritto poesie». Non sembra sincero del tutto. In qualche cassetto forse c’è qualcuno di quei foglietti su cui ha sempre abbozzato le sue poesie: quei foglietti che un’antica domestica, Maria Bordigoni, trovava nelle sue tasche e buttava via. Maria non sapeva leggere. Le interessava ricuperare i fiammiferi o i bottoni che si erano staccati.

Sarebbe forse ora di fare qualche domanda sull’intera sua vita, sull’intera sua opera. «Globale è un aggettivo che detesto», replica subito: «Messaggi? I messaggi è meglio non mandarli». Si stenta a superare il muro del paradosso. Montale è sempre stato così. L’imminenza del Nobel non l’ha cambiato. Concede una brevissima frase: «Per me la poesia è un invito alla speranza», ma subito se ne ritrae. «Ho sempre provato un po’ di vergogna a sentirmi chiamare poeta. Nei registri degli alberghi, mi sono sempre qualificato come giornalista». «E dopo il Nobel?», azzardo. «Magari diventerò Papa. Se c’è tanta avanguardia, tanto dissenso nella Chiesa, perché un borghese non potrebbe diventare Papa?».

È l’ultimo paradosso. Sono le tredici. Arriva la telefonata dell’ambasciatore di Svezia. La Gina apre la radio, stanno dando la notizia. Mettono in onda un’intervista di qualche anno fa, quando uscì Satura. La radio è in cucina. Per chi crede nella poesia e in Montale, non è un momento come tanti altri. Questo non se andrà mai dalla memoria. Una cucina, una pentola che fuma, le pareti vuote, il senso d’una distanza che nemmeno il Nobel riesce a valicare. Fuori c’è la città. C’è anche l’indifferenza della città. La sua «decenza quotidiana» forse è una lezione troppo ardua.

martedì 22 dicembre 2015

IN ITALIA SONO MOLTI I CAPIPARTITO, MA MANCA UNO STATISTA

Pubblicato su Affaritaliani il 17.12.2015

 
L’Italia necessita di politica seria e responsabile. Gli Italiani chiedono politici preparati, affidabili, all’altezza dell’incarico. Sembrano cittadini disinteressati e disincantati, e invece sono vigili e accorti; seguono ogni accadimento, sempre più allarmati nel notare che gli attuali capipartito sono troppo impegnati a delegittimarsi reciprocamente, rinfacciandosi vicendevolmente il rispettivo passato (non certo sempre esemplare) e ciascuno promettendo con orgoglio (e talora con sfrontatezza) di rendersi garanzia d’un futuro di benessere e di sicurezza. 

I cittadini, però, non sono tanto inesperti e ingenui; non restano più a sentire e a guardare soltanto: capiscono, intuiscono i messaggi nascosti, trepidano. Si propongono di continuare a tollerare il deludente scenario politico, mostrando estrema sensibilità civica e profonda responsabilità etica, ma aspettando tempi migliori. Essi vivono con dignità e risolvono con concretezza i propri problemi quotidiani, spesso dolorosi e drammatici. E non hanno alcuna voglia di sentirsi ripetere le solite noiose litanie da parte sia delle maggioranze e sia delle opposizioni, verso cui nutrono diffuso scetticismo e seria sfiducia. Il cittadino onesto si sente rapinato della sua umanità: non riesce a convincersi come mai uomini come lui, una volta “conquistato” il potere, diventano insensibili ai bisogni e indifferenti alle mortificazioni, che umiliano, per esempio, l’anziano che vive negli stenti e ogni giorno ascolta o legge la cronaca di impudenti resoconti di scandali, truffe, evasioni e corruzioni, davanti a cui i politici non raramente o tacciono o chiariscono o tergiversano con bizantinismi sottili e capziosi, attenti solo a non dispiacere al proprio più o meno ampio elettorato. 

Nel mondo della politica italiana prolificano i partiti e, di conseguenza, si moltiplicano i capipartito che, in qualunque collocazione vadano a trovarsi (o di maggioranza o di opposizione), si avversano su ogni iniziativa, nell’ottica ristretta del tornaconto della propria parte, che ovviamente non coinciderà mai con i bisogni di tutto il popolo, sempre invocato da tutti, ma da tutti sempre disatteso. Opposizioni che dettano con superficiale saccenteria consigli a maggioranze, che con irresponsabile arroganza “non accettano mai lezioni da nessuno”, sentendosi i conoscitori competenti d’ogni esigenza del Paese e gli unici possessori dei rimedi veramente validi. Come se avesse senso parlare di “opposizione che verifica e suggerisce” e di “governo che ascolta e governa”; cioè, di una minoranza che contribuisce al migliore funzionamento dello Stato e di un governo che attua i propri programmi e nello stesso tempo risolve al meglio ogni problema ereditato. Così sarà sempre per ogni governo che subentra al potere: rimediare a carenze ereditate e realizzare nuovi traguardi, programmati e condivisi con tutte le parti che esprimono le molteplici volontà dei cittadini.  

Ecco, allora, che il cittadino non sa cosa pensare di fronte a governanti che, mentre ostentano esageratamente il loro operato, deridono inopportunamente i governi precedenti e scherniscono pericolosamente come “uccello del malaugurio” chiunque sia di diversa opinione. Messaggio equivoco e rischioso, in quanto si produce la sensazione che si realizzano provvedimenti “per” una parte sollecitata a gioire d’un proprio trionfo, “contro” altre parti condannate ad arrendersi miseramente. I cittadini, però, nutrono altre aspettative da un governo, che si professi repubblicano e democratico. Chiunque governi democraticamente, infatti, deve porsi sempre e comunque al di sopra d’ogni parte e ascoltare tutti, addossandosi ovviamente la responsabilità delle decisioni ultime, da prendere solo in vista del bene di tutta la Nazione. Invece il cittadino assiste a spettacoli del tutto opposti: la politica, da azione comune per il bene di tutti, è ridotta a verbosi dibattiti superflui e dannosi, tesi solo ad accontentare i propri elettori. Ma non è nemmeno sempre così. L’unico risultato sicuro è di allontanare dalla politica altri cittadini benpensanti, ingrossando la già numerosa schiera di quelli che non si recano più nemmeno alle urne. 

Ecco allora: gli Italiani hanno bisogno di uno “statista”, cioè  di qualcuno di degna levatura e con doti di statista, cioè di chi pensa alle esigenze di tutto il popolo e opera per risolvere i problemi dello Stato intero, e non di una parte grande o piccola. Essere capo d’un partito non vuol dire avere la statura di statista. Infatti, si moltiplicano le riunioni e i convegni (la nota ‘convention’) di persone, che si riuniscono per discutere di argomenti di interesse comune a loro, ma non certo di dimensioni generali ed estese quanto tutto lo Stato. 

Si assiste in adunate in cui echeggiano parole svuotate d’ogni solido contenuto. Che significato hanno in simili convegni le parole, quali democrazia, riforme, giustizia, libertà, etica, responsabilità. Sono ormai parole che hanno perduto il loro significato originario e significano tutt’altro. Domina l’arte oratoria, ma anch’essa stravolta: da arte del comunicare idee e generare pensieri sensati, è trasformata in artificio, con cui occultare la totalità della verità con la violenza dei toni e la sovrabbondanza delle immagini, suscitando sentimenti e risentimenti, ma di sicuro non generando responsabile riflessione.  

Lo statista usa poche parole e molta autorevolezza. Basti ricordare il discorso breve (non a braccio, ma preparato con due mesi di lavoro meticoloso) del Presidente Kennedy, quando nel 1960, all’età di 43 anni, il più giovane presidente eletto dal popolo americano, sottolineò - con misurate scarne parole - l’importanza della politica come servizio nazionale: “Miei concittadini americani, non chiedete cosa il vostro paese può fare per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro paese”. E così pure il Gorbaciov, abbatta questo muro!”: quattro scarne parole dette nel 1987 da Ronald Reagan durante un discorso tenuto presso la Porta di Brandeburgo il 12 giugno 1987; due anni dopo cadrà il muro e il sarà cambiato mondo intero. E non mancano esempi e modelli nella nostra Italia repubblicana: non sono da meno, infatti, Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Enrico Berlinguer, per ricordarne alcuni.

 

 

IL DILEMMA DEI POTENTI A PARIGI: IL MONDO O CAMBIA MODO DI PENSARE O MUORE


Pubblicato su Affaritaliani il 2.12.2015
 
Fino al prossimo 11 dicembre 190 Paesi tratteranno per un nuovo accordo, per ridurre le emissioni, che causano il riscaldamento del pianeta Terra. L’umanità intera aspetta con preoccupazione ciò che verrà deciso. Il problema è molto serio e non dà alcuno spazio a dichiarazioni di rito, come potrebbero apparire - a causa delle prese di posizione già annunciate da parte di alcuni Stati - quelle del Presedente francese, che ha esordito: “Prenderemo in qualche giorno decisioni che avranno conseguenze per decenni, la posta in gioco è il futuro del pianeta”, e, collegando responsabilmente la minaccia del terrorismo ai cambiamenti climatici, ha concluso: “Sono le due grandi sfide che dobbiamo raccogliere, perché ai nostri figli dobbiamo lasciare in eredità non soltanto un mondo liberato dal terrore, anche un pianeta preservato da catastrofi”. 

Ormai è consolidato che il genere umano ha un destino unico di vita o di morte, legato ormai in massima parte ai giochi dell’economia e ai capricci del mercato, determinati apertamente da una verità fondamentale, cioè che le sorti del Nord e del Sud della Terra sono indubbiamente collegate, ma, realisticamente esaminate e oggettivamene valutate, sono determinate e sostenute non dal Nord, ma dal Sud, in quanto l’economia dell’eccessivo benessere e dello sfrenato consumismo del Nord è alimentata dallo sfruttamento che il Sud ha subìto e continua a patire ormai da secoli. Oltre alla corsa sregolata al benessere e all’accumulo di capitali, è necessario, poi, riconsiderare la linea politica degli armamenti, che, mentre ingrossa i profitti del Nord, accresce la povertà del Sud, aggravando le piaghe delle ingiustizie sociali e della miseria d’interi Paesi condannati davvero alla fame. Causa di questi modi di pensare e di vivere non sono certo da rintracciare nell’immutabile natura umana o nell’apatia endemica di alcuni popoli, bensì nelle scelte di chi li “governa”.  

Ora, non si tratta di difendere le faticose conquiste di alcune Nazioni e di segnalare la colpevole inerzia di altre; forse non c’è più tempo per strategie ideologiche e tatticismi politici; è giunto definitivamente il tempo per far prevalere in tutti, ma soprattutto nei potenti, l’innato istinto di conservazione, da usare per debellare i veri nemici dell’umanità. E’ tempo che gli uomini tornino a pensare che per propria natura non sono “lupi” tra di loro, bensì individui d’uno stesso genere, accomunati dallo stesso destino. Certo le disuguaglianze e le ingiustizie, sempre riemergenti in modo forse più marcato, a svantaggio dei più indifesi grida il dolore della miseria e urla la disumanità della fame. I potenti riuniti a Parigi, pertanto, dibattano pure sugli obiettivi da loro considerati meno nocivi, ma non dimentichino che ogni loro decisione avrà il senso di soluzioni credibili solo se l’obiettivo finale è l’abbattimento della belligeranza e il perseguimento della pacificazione dei Popoli.  

Diano vita a una cultura della pace, propugnando una politica, che, incrementando e valorizzando la presenza attiva dell’uomo nel campo della storia umana, consenta il passaggio da una civiltà fondata sulla competizione ad una civiltà fondata sulla valenza dell’uomo e sulla corresponsabilità reciproca. Però, non come un pacifismo mistico o utopico, ma come un cammino faticoso verso un ideale, che rimarrà tale, ma verso il quale l’umanità deve marciare, avvicinandosi il più possibile, come auspicava già secoli fa Erasmo, quando nel Lamento della pace, concludeva: “Vengano resi i massimi onori a chi ha contribuito a tenere lontano la guerra (…), a chi si è prodigato senza risparmio non per allestire la massima potenza di schiere armate e di macchine belliche, ma per non doverne abbisognare”.

 

 

domenica 20 dicembre 2015

SOLITUDINE INTERIORE E VERTIGINE ESISTENZIALE


Pausa di solitudine “interiore”: indefinita densa profonda. Momenti interminabili d’uno smarrimento totale, insospettato. Angosciata sospensione di tutto, strana misteriosa interruzione di realtà. 

Non la riflessione distaccata sull’origine del proprio esserci, o la ricerca appassionata del come del proprio esistere, o la struggente inquietudine d’indovinare la destinazione della propria vita. E neppure il dolente rimuginare i pochi o molti rapporti più o meno sinceri e disinteressati o calcolati o falsi intercorsi nel tempo. E nemmeno il rimembrare le passate vicende: belle e gratificanti oppure tristi, frustranti, talora quasi fatte e destinate per il peggiore andamento della vita. 

Forse importante, ma certamente penoso, è il bisogno d’intrattenersi mestamente con se stessi, per poter prendere atto della realtà del naturale evolvere della vita cosmica in generale e umana in particolare, che inesorabilmente ha un inizio, uno svolgimento, un termine, secondo una propria inarrestabile ciclicità esistenziale, dall’incomprensibile criterio. Non meno angosciosa è la voglia di confortarsi, magari con un malinconico sorriso di auto-commiserazione e di rassegnata auto-sopportazione; momentanea è anche l’illusione di sostenersi, rannicchiandosi in un’inerte accettazione di tutto il passato e in una spenta disponibilità a partecipare a qualunque accadimento futuro. Non si sente neppure lo stimolo a tentare almeno di non sentirsi e di non viversi fuscello di paglia in balia d’un arcano destino. Nessun impulso a tentare d’evitare di dover concludere che tutto è soltanto coincidenza o casualità o addirittura caos.  

Ma .... “toccarsi concretamente” quasi con mano nel fondo della propria realtà, intuirsi profondamente nel proprio nucleo esistenziale senza alcuna mediazione di ragionamenti o sentimenti o volontà, verificare inesorabilmente che colui che si sta quasi toccando con mano, che si sta intuendo identico a sè, che si sta constatando realmente e con sicurezza come un esistente vivente già nel passato, nel presente come pensante all’oggi ma nel tentativo anche d’intuire un qualche flusso premonitore del futuro … è proprio lui!

Lui, ora, da solo, unico come identico a se stesso e necessariamente diverso e diviso da ogni altra realtà: lui che vive come gettato - insieme al tempo - nel cosmo universale, immerso nell’infinità che scorre ora dolcemente ora crudelmente verso un’eternità agognata ma ignota, sperata ma spesso evanescente, forse anche del tutto inconoscibile. Solo; con tutto ciò che è stato e ha fatto. Intuirsi, allora; e viversi nell’assoluto isolamento da tutto e da tutti.

Dichiararsi pronto a riconoscersi serenamente e accettarsi eroicamente come l’unico vero protagonista della propria vita, per cui può e, qualora ne sia il caso, deve dare conto di se stesso solo a se stesso: mai, allora, potrà ingannare la sua intelligenza né circuire la sua coscienza. Per questo diventa ormai pronto ad accogliere tutto ciò che è successo nello scorrere del tempo, sorridendo del bene che gli occorre alla memoria, rammaricandosi del non bene che potrà aver fatto, addolorandosi di qualche eventuale male, di cui però non ricorda nulla in particolare, che spera non sia esistito, ma che sa, qualora l’avesse fatto, che può correlarlo sicuramente alla sua buona fede, perché è sempre stato del tutto estraneo al suo modo di vivere ogni intenzione malevola o malefica. 

Solitudine interiore. Vertigine da panico. Enorme. Dapprima angosciante con tremore, poi immobile e serena, infine dolce e benevola: tutto, allora, acquista colore e valore. Momenti sublimi: godersi pacificamente, pacatamente, piacevolmente la calma morale che rinvigorisce, l’alito della speranza che vivifica, la brezza dell’entusiasmo che ristora. E gradualmente “toccarsi concretamente” quasi con mano come esistente pervaso da senso, da serenità, perché purificato da ogni scoria colpevole o innocente d’un passato vissuto tra speranza e disperazione, tra amore e odio, tra fatica e passione, tra entusiasmo e depressione. Da essere umano.

 

IL “TERRORISMO” ISLAMISTA INTERROGA LA “CULTURA” OCCIDENTALE

Pubblicato su Affaritaliani il 25.11.2015

Dagli ultimi violenti attacchi terroristici sferrati contro Paesi europei da parte dell’autoproclamato Stato Islamico è trascorso un periodo di tempo sufficiente, perché si possano fare riflessioni attente e valutazioni obiettive, lontano da immediate commozioni umane e al riparo da comprensibili, ma fuorvianti passioni di parte. Questi episodi sono stati definiti da Obama un “attacco al mondo civilizzato”, mirando a coinvolgere non solo l’intero l’Occidente, ma anche e soprattutto la Russia; nello stesso tempo, però, ha fatto riemergere il singolare e ibrido connubio tra Roosevelt, Stalin, Churchill, contro i terrori nazifascisti del secolo scorso. Ovviamente con alcune differenze significative: la Germania e l’Italia erano Nazioni con una propria identità statuale, mentre gli odierni movimenti fondamentalisti islamici ne sono privi, benché siano stati presenti per quasi tutto il secolo scorso, opponendo resistenza al colonialismo e all’imperialismo occidentali, fino a dare origine a un vero  e proprio “nazionalismo arabo”, animato da crescente ostilità contro la presenza militare e l’influenza economico-culturale dell’Occidente.  

Ogni forma di terrorismo, compreso quello dell’Isis, professa e diffonde una propria visione dell’uomo e del mondo, con convinzioni e valori propri, con propri obiettivi sociali e politici; cioè ha una sua “cultura”, anche se da altri considerata sbagliata e pericolosa, perchè ideologica e utopica. Ma l’utopia per sua natura è, in ogni caso, sempre nuova e rivoluzionaria. Proprio per questo la chiave di lettura delle barbarie perpetrate dall’islamismo fondamentalista non può essere “la banalità del male” denunciata come causa del totalitarismo nazista da Hanna Arendt, cioè l’incapacità di ragionare con la propria testa, la mancanza di idee e di valori, l’appiattimento etico della società di massa. Oggi il fondamentalismo terroristico – e non solo religioso e nemmeno solo islamista – necessita d’una sua interpretazione, nuova e  storicamente veritiera, al fine di trovare adeguate soluzioni radicali ed efficaci.

Ora, i movimenti  terroristici – soprattutto quello islamista – vengono propagandati come progetti d’abbattimento dei valori essenziali del mondo “civilizzato occidentale”: libertà, uguaglianza, democrazia, solidarietà, economia di libero mercato. Ricercarne le ragioni – si sostiene - in cause politiche o socio-economiche di diversa natura, sarebbe del tutto sbagliato e deviante, in quanto le vere connotazioni d’ogni terrorismo sono proprio l’irrazionalità e l’assurdità. A ben riflettere, però, forse non è così; non si può mistificare la realtà e sostenere con superficialità che l’obiettivo unico del terrorismo è un assurdo attacco al modo di vivere delle civiltà democratiche, per cui si urla: “non ci faranno cambiare le nostre abitudini”. Nel terrorismo, invece, ci sono intelligenza e razionalità. Bisognerebbe conoscere obiettivamente la storia della millenaria cultura araba e valutare con rispetto la non facile evoluzione del mondo musulmano; o, almeno, bisogna non omettere ciò che il suo mondo ha sofferto anche recentemente negli anni ’90 con la guerra del Golfo, quando è stato colpito nell’essenza profonda della sua civiltà e nella sacralità della sua religione: la potenza economico-militare occidentale ha soverchiato e umiliato il fragile mondo arabo-islamico, e si persino insediato nei suoi territori. Da qui la discutibile propaganda che il mondo islamista vuole vendicarsi di tutto ciò, già a partire dall’attentato dell’11 settembre. Forse, però, più che come una vendetta, bisognerebbe vedere una reazione comprensibile (anche se discutibile) contro una situazione vissuta come occupazione, se non del tutto militare, certamente ideologica e culturale, con cui si vuole modernizzare i suoi territori, iniziando processi di democratizzazione e trasformando, quindi, anche le strutture socio-economico-politiche.

Il mondo occidentale deve imparare meglio a condividere – onestamente e senza calcoli di alcun tornaconto - le diversità, senza la presunzione di detenere ogni verità e felicità, che deve dare a tutti, usando anche la forza con chi non le volesse. Il mondo islamico non intende né tollerare protettorati ormai eccessivi, né subire processi imposti di democratizzazione, né condividere innovanti atteggiamenti etici non richiesti. Non sopporta, soprattutto, di dover accettare e rispettare frontiere territoriali segnate e imposte loro da potenze straniere (l’Occidente avrebbe dovuto imparare qualcosa dalla caduta del muro di Berlino). Insomma, il modello culturale dell’Occidente non deve imporsi, ma deve  aprirsi agli altri modelli culturali, compreso quello culturale arabo; e dialogare con tutti, disponendosi con sincerità anche ad ascoltare e accogliere ogni altro mondo. Emblematico diventa ciò cui s’è assistito in piazza san Marco per i funerali “laici” della giovane Valeria Solesin. In prima fila sedevano congiuntamente il laico Presidente Mattarella, il musulmano Imam, il cristiano-cattolico Patriarca, l’ebraico Rabbino.

L’Occidente – si dice – è in guerra, ma vincerà, conserverà la sua libertà, difenserà i suoi valori. Bisogna chiedersi: in guerra contro chi e per quali obiettivi? Contro il terrorismo islamista, forse? Ma è difficile a capirsi, sapendo quanto è successo qualche giorno fa al G20 di Antalya in Turchia. Più delle tematiche finanziarie all’ordine del giorno, l’incontro affronta il tema del terrorismo: “"Una minaccia per tutti noi", da contrastare "sia dal punto della sicurezza che dal punto di vista finanziario" esordisce il presidente turco Erdogan. Ma dopo, a chiusura dei lavori, Putin, da politico scaltro, denuncia apertamente davanti a tutto il mondo, “Isis è finanziato da individui di 40 Paesi membri del G20”, mettendo in grande imbarazzo lo stesso re dell’Arabia Saudita, Salman, che poco prima aveva tuonato contro i “terroristi diabolici da sconfiggere”, ma che ora veniva additato apertamente come uno dei massimi finanziatori dell’Isis. A chiarire la mente è intervenuta in queste ore la crisi Turchia-Russia per l’abbattimento dell’aereo russo. Vladimir Putin ha definito l’abbattimento “una pugnalata nella schiena da parte dei complici dei terroristi”; osservatori internazionali avvertono: ora “La Turchia mette l’occidente davanti a un bivio”.

E’, quindi, veramente strano (e soprattutto preoccupante) ascoltare Governanti che seminano ottimismo e certezza di trionfo sui nuovi barbari provenienti dall’Oriente. Proclamano libertà e sicurezza, quando nello stesso tempo i cittadini di molti Paesi si sentono sotto assedio e senza alcuna libertà di camminare per strada, vivere nel proprio mondo di lavoro, trascorrere qualche ora libera in luoghi tranquilli. Fare proclami di superiorità culturale, ostentare sicurezza, diffondere infondato ottimismo è facile; ma i popoli hanno paura. Anche perché le guerre sono decise dai pochi ricchi e potenti, ma sono combattute dai molti poveri e deboli. Se si vuole eliminare, o almeno controllare, la guerra, basterebbe che i pochi potenti si sedessero intorno a un tavolo e si imponessero almeno una moratoria per la costruzione e vendita di armi. Ma cosa farebbero le industrie belliche, tutte, nessuna esclusa?

ETICA PUBBLICA E DEMOCRAZIA

Pubblicato su Affaritaliani il 13.11.2015

“I cittadini, cui sono affidate funzioni pubbliche, hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”, sancisce l’articolo 54 della Costituzione Italiana. Non si può fare a meno, pertanto, di rimanere increduli e di riflettere con ponderatezza sullo scenario, che in questi ultimi giorni offre la realtà quotidiana della politica italiana e in quali situazioni il popolo è costretto a vivere. Quello che da qualche decennio s’impone alla constatazione di tutti nell’attività politica non riguarda un’astratta teoria del rapporto morale-politica, ma l’imprescindibile necessità di dignità morale e di decoro istituzionale, che deve avere chiunque voglia esercitare “funzioni pubbliche”, e che oggi il cittadino non riscontra facilmente nella concretezza quotidiana. E ciò non pone un problema limitato e circoscritto (anche se importante), ma coinvolge la qualità istituzionale dei governi e il destino quotidiano del tenore della vita dei cittadini. Ad avvertirne l’ampiezza e l’urgenza era già stato Enrico Berlinguer nel 1977, quando durante un’intervista puntò il dito contro i rischi derivanti dall’incompetenza e dall’immoralità della classe politica dirigente: “La questione morale, nell'Italia d'oggi – affermò - fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano (…). Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude”. 

Non è necessario uno sforzo particolare per verificare come la classe dirigente italiana negli ultimi decenni è andata perdendo a poco a poco la consapevolezza che le sue scelte non possono essere dettate da meschini tornaconti privati e nemmeno da interessati calcoli di partito, ma che debbono essere decisioni e risoluzioni dalle dimensioni nazionali, per cui necessitano di un robusto corredo di morale pubblica, sostanziata e alimentata da responsabilità e interesse generale. Proprio per questo è assurdo assistere allo spettacolo odierno, in cui apparati dello Stato e Istituzioni di Governo Locali – sotto l’apparente, ma obbligato rispetto - si criticano reciprocamente, gettando discredito su atti e fatti e demolendo ogni criterio di comprensione e di valutazione da parte del cittadino, che così perde ogni figura di riferimento etico e politico. Ma la moralità nell’azione politica non è questione di “divisione di poteri” né di militanza di destra o di sinistra, ma riguarda tutti come cittadini e reclama da tutti il “buon costume” proprio dei benpensanti. 

Davvero preoccupanti, allora, sono gli atteggiamenti di governo nazionale, regionale e persino comunale sempre più ispirati a idee monocratiche e “centralizzate”, sminuendo e addirittura misconoscendo il ruolo degli organismi sociali intermedi. Appena qualche giorno fa a Firenze, Papa Bergoglio avvertiva che “la società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media”; e metteva in guardia dalla tentazione di abusare del potere, “anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale”. Invece, nell’attuale politica italiana trionfa pericolosamente sempre di più la vecchia discutibile tecnica del trasformismo, per cui, pur di raggiungere i propri obiettivi particolari, ci s’accontenta di racimolare il numero di voti di volta in volta necessario, indipendentemente da valori e intenzioni. E’ il trionfo del trasformismo incondizionato, dettato dalla legge dell’unico profitto politico e del successo a qualunque costo, ovviamente sempre sotto le vesti d’un “potere utile e funzionale” per il bene di tutti gli italiani. E’ superfluo avvertire che questo modo di agire politico si fonda su un’idea autoritaria e accentratrice del potere: non al servizio del bene generale, bensì al perseguimento della vittoria della prossima consultazione elettorale.  

Nutrire queste preoccupazioni non significa pensare e agire da uomini schierati o di parte. Si tratta solo di dover vivere preoccupati una politica locale e nazionale fatta da pochi protagonisti, senza il consenso richiesto da una vera democrazia e, quindi, senza radici nella realtà sociale dei cittadini. Questo indica una sostanziale riduzione di democrazia, che si riverserà negativamente sulla stessa classe politica: i cittadini, accorgendosi che a contare sono sempre e solo quei pochi, che s’accordano sempre e che comandano comunque, si allontaneranno  dalla politica, andranno a  ingrossare le file del più numeroso partito nazionale, quello dell’astensionismo elettorale e dell’indifferentismo. E nasce un’inquieta percezione. Siccome su certi princìpi non si può accettare alcun compromesso, non si sottovalutino l’intelligenza e la responsabilità dei cittadini italiani, i quali non si fanno certo intimorire da atteggiamenti di falso potere e di forza accigliata. Non si vada troppo oltre la vera democrazia, perché “Ci sono uomini nel mondo – recita Liu Ji, da una favola cinese del 1300 - che governano con l’inganno. Non si rendono conto della propria confusione mentale. Appena i loro sudditi se ne accorgono, gli inganni non funzionano più”.

 

SENZA “SOLIDARIETA’ POLITICA” NON CI PUO’ ESSERE DEMOCRAZIA

Pubblicato su Affaritaliani il 2.11.2015

“La Repubblica – è sancito nell’articolo 2 della Costituzione Italiana - riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Con estrema chiarezza i Padri Costituenti dichiarano, già dal 1948, il valore umano e la dignità politica del cittadino – nella sua dimensione sia individuale che sociale - che la “Repubblica” deve assicurare e sostenere nella possibilità di realizzare la propria “personalità”, consentendogli il godimento dei suoi diritti e chiedendogli l’adempimento dei suoi “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. La Carta Costituzionale, quindi, esprime la natura “laica” dello Stato. Gli Organi statuali, di conseguenza, sono chiamati a creare e assicurare situazioni sociopolitiche almeno nazionali, in cui la singola “persona” possa operare, come cittadino fedele e onesto, le sue scelte politiche - sempre e comunque in maniera responsabile e libera - che la Politica, da parte sua, ha il difficile compito di proteggere mediante la creazione di regole opportune e adeguate. 

Il singolo cittadino, tuttavia, vive e opera non da solo, ma in una rete di “formazioni sociali”, quali la famiglia, la scuola, l’ente locale, il sindacato, la confessione religiosa. Ognuno, perciò, in nome della “solidarietà politica” è chiamato a operare non per un suo immediato bisogno né per rivendicare un proprio diritto nell’interesse personale, ma per assolvere a un “dovere inderogabile” per il bene di tutti: è questo che trasforma l’individuo in cittadino attivo. E’  un principio espresso anche dalla  Carta Europea dei diritti fondamentali e, in particolare nel Preambolo, dove si afferma che il godimento dei diritti “fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future”. Ora, se sono noti i doveri nei campi dell’economia e del sociale, meno  considerati forse sono quelli propri del campo politico. Oltre ai casi straordinari, come il difendere la propria patria e l’essere inviato per salvaguardare l’ordine e la pace in altri Paesi, s’impone un dovere ordinario e quotidiano, che costituisce il fondamento solido e l’essenza insostituibile d’ogni vera democrazia: recarsi alle urne per esprimere il proprio voto, che l’articolo 48 della Costituzione sancisce come “personale ed uguale, libero e segreto”, e non certo come il consueto siglare una scheda preparata da altri e a lui proposta quasi per un’eventuale presa d’atto.  

L’uguaglianza, la giustizia sociale e la libertà sono certamente alti valori e “Principi fondamentali” riconosciuti dalla Costituzione, ma che, purtroppo, sono destinati a rimanere nel mondo delle pie intenzioni e nella realtà belle enunciazioni vuote d’ogni contenuto, se non c’è concretamente solidarietà politica. E, oltre alla storia secolare, lo testimonia la vita contemporanea di molte Nazioni: il principio solidarista è il tessuto connettivo dell’intero ordinamento sociale e politico. E, osservando la realtà italiana di questi ultimi decenni, non desta certo entusiasmo e ottimismo ciò che è possibile indurre nei riguardi della partecipazione attiva e responsabile dei cittadini nell’azione politica. Di fatto si sono gradualmente stravolti la natura e il ruolo del partito politico: da laboratorio di programmi e di proposte è stato ridotto ad associazione alle dipendenza del capo, quasi sempre preoccupato del suo interesse privato. Ne è conseguito la sostanziale cancellazione dei poteri delle Camere legislative, costituite solo da “nominati” e, logicamene, attenti alla parole del proprio mecenate. Il tutto grazie alla tanto contestata legge elettorale denominata “porcellum”, proposta dall’allora maggioranza, ma non osteggiata seriamente da nessuno per ovvi calcoli di potere. Qualche mese fa l’attuale Parlamento ha approvato la nuova legge elettorale, con cui di fatto si limita ancor di più il diritto di voto libero e personale del cittadino e si crea un Parlamento di persone certo non scelte liberamente dai votanti, ma designate d’autorità dai capi di partito.
 
Se tutto viene calato dall’alto, che solidarietà politica potranno esercitare i cittadini? Ma senza solidarietà politica non può esserci democrazia. Con il metodo con cui si sta governando negli ultimi decenni, e soprattutto negli ultimi anni, non si darà vita a governi democratici, ma solo a oligarchie di dubbia natura. E, di fronte allo spettacolo che la politica italiana sta dando a ogni livello, non c’è certo da stare sereni. Infatti, la realtà inconfutabile è che la cosiddetta classe politica può offrire e disporre di “oligarchie” - sia partitiche che della cosiddetta società civile - che non si distinguono per moralità e competenza. Più che designare sindaci, presidenti e governatori o decidere rispettivi commissariamenti, urge ritornare ai cittadini, per consentire loro una rinnovata presa di coscienza della loro dimensione sociale  e un modificato atteggiamento verso la politica, ora considerata una temibile associazione di malaffare. Se non si ritorna ai cittadini, s’ingrossa sempre più il numero di quelli che aborrono la politica e non si recano nemmeno alle urne, se addirittura non vanno a rafforzare i movimenti dell’antipolitica. Ma per questo ci vuole capacità e audacia: si tratta di ricostituire valori intramontabili, di aggiornarne i criteri attuativi per il presente e, soprattutto, di prestare costante attenzione al futuro. Le nuove generazioni non hanno alcuna colpa per dover subire eredità negative; devono, pertanto, essere educate alla vera vita della democrazia e, quindi, essere dotate del senso del “dovere” di solidarietà politica, grazie al quale saper operare scelte libere e prendere decisioni valide per tutti, che poi proporranno - sempre con i metodi della democrazia - ai propri governi

mercoledì 4 novembre 2015

A TORINO UNA MOSTRA PER UNO SLANCIO CULTURALE


Oggi, mercoledì 4 novembre 2015, presso le Sale Espositive della Fondazione Giorgio Amendola e dell’Associazione lucana Calo Levi, in via Tollegno 52, Torino sarà inaugurata la mostra “Propaganda”, “Artefatti digitali di Carlo Miccio”.

La Mostra, che rimarrà aperta sino al 31 dicembre (con ingresso libero), “nasce – scrivono gli organizzatori - dal bisogno di parlare di sentimenti alle masse in una forma nuova, colorata e rivoluzionaria. Per farlo abbiamo scelto il linguaggio della Rivoluzione d’Ottobre (…). Il più dirompente strumento di quello straordinario sforzo creativo fu il manifesto rivoluzionario, nato da una visione improntata a un’indomabile fiducia nel futuro e all’eterno ottimismo nelle capacità del popolo in lotta (…). E così noi oggi (…) . Abbiamo campionato e assemblato nuovi messaggi che invitano le masse ad innamorarsi, a non temere la paura, a reclamare il proprio diritto alla felicità in una società nuova e più giusta. Una società dove tutti devono essere in grado di esprimere i propri sentimenti, dove si mangia meglio e di più, dove si lavora meglio e di meno. Una società dove si è più felici, realizzati, liberi”.

Valida iniziativa. Riscoprire le proprie radici è il momento primo e necessario per capire veramente  il presente e programmare concretamente il futuro. Senza inutili e nostalgici passatismi e senza pericolosi e spregiudicati avanguardismi.

 

lunedì 2 novembre 2015

VATICANO, PAPA BERGOGLIO E LE SPERANZE NEL SINODO

Pubblicato su Affaritaliani il 19 ottobre 2015
 
Inizia la terza e ultima settimana dei lavori del sinodo dei vescovi, ormai divulgato come sinodo sulla famiglia. In realtà i problemi, su cui l’assemblea sinodale è chiamata a discutere e decidere, coinvolgono temi dottrinali e aspetti pastorali d’inestimabile valore per le ricadute sulla vita sia dei singoli che dei popoli. Sicuramente d’indiscusso rilievo rimane l’attenzione verso le angosce delle famiglie difficili o irregolari, che, in verità, hanno preoccupato la gerarchia cattolica sempre, ma, in modo costante e puntuale dal Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). Ora, dall’odierno sinodo si attendono valide decisioni più operative e più aderenti all’evoluzione della realtà sociale, compresa quella del riconoscimento dei diritti civili e della giustificazione etica delle coppie omosessuali. Ci si aspetta il coraggio da parte di tutti a non problematizzare l’evidente e a non creare difficoltà, dove vi sono soltanto realtà chiare, oneste e semplici. Era questo il significato anche dell’appello, che cinquant’anni fa il cardinale Suenens rivolse nella Basilica di san Pietro ai Padri del Concilio Vaticano II, proprio mentre discutevano sui problemi del matrimonio: ”Prego tutti voi, miei fratelli vescovi – implorò il Primate del Belgio -  evitiamo un nuovo caso Galilei! Uno è già sufficiente!”. Anche questa volta fa ben sperare il constatare che ben tre delle 27 Assemblee sinodali si siano concentrate sulla famiglia. 

Tuttavia, è di rilevanza davvero storica e annuncia probabili tempi meno guerreggianti e più solidali  - sia per la coesistenza delle diverse religioni e sia per le difficoltose relazioni internazionali - il comportamento “concretamente” rivoluzionario di papa Francesco, con cui ha dichiarato con semplicità e chiarezza il suo modo di concepire e gestire il “potere pontificio”, ch’egli immagina e programma non più ristretto nei termini tradizionali del primato pietrino. Rivelatore ed eloquente è stato lo scenario, che lui ha voluto offrire sabato scorso nell’Aula Nervi, in occasione della commemorazione del 50° anniversario del Sinodo, istituito da Paolo VI: si è visto non un Pontefice sul trono papale, che rivolge la sua parola a cardinali e vescovi seduti di fronte a lui ad ascoltare, ma un papa seduto intorno a un ampio tavolo, e con lui c’erano, anch’essi seduti e pronti a rivolgere la propria parola, porporati e presuli provenienti da tutte le parti del mondo.
La storia documenta come l'interpretazione radicale del decreto “Pastor aeternus”, con cui nel 1871 il Concilio Vaticano I aveva definito e stabilito l'autorità del primato del papa su tutta la terra (insieme alla sua infallibilità in materia di fede e di morale) sia stato in realtà l'ostacolo più forte, che ha impedito il dialogo fra le confessioni religiose e un rapporto positivo e costruttivo con i poteri laici delle società e degli stati. A riconoscere ciò è stato vent’anni fa lo stesso papa san Giovanni Paolo II: “La convinzione  della chiesa cattolica - scriveva nel 1995 nell’enciclica “Ut unum sint” - di aver conservato, in fedeltà alla tradizione apostolica e alla fede dei padri, nel ministero del vescovo di Roma, il segno visibile e il garante dell'unità costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani”. Ecco, allora, il paradosso, a cui papa Francesco non riesce ad arrendersi: il vescovo di Roma, da strumento e garante di unità e di pace, è stato fatto segno di divisione e di contrasti. L’umanità – non solo credente o cattolica - finalmente guarda a questo papa che, continuando sulla strada tracciata già dalla fine della seconda guerra mondiale col papato di Pio XII, sta portando a buon fine la riflessione e la soluzione del problema del rapporto tra il potere del pontefice e quello del collegio episcopale. E ciò grazie al rispetto della sinodalità codificata mezzo secolo fa da papa Montini. 
Facendo eco alle parole di papa Wojtyla, con cui esortava a “Trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova”, papa Francesco sabato scorso ha ribadito “la necessità e l’urgenza di pensare a una conversione del papato”, ricordando che “l’impegno a edificare una Chiesa sinodale è gravido di implicazioni ecumeniche”, in quanto  “Il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come battezzato tra i battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi, chiamato al contempo – come successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese”. 

Non può essere la vita reale del mondo a doversi limitare e adattarsi alle esigenze della Chiesa e della religione, ma il contrario. Non possono le leggi – anche religiose - ostacolare lo sviluppo dell’umanità, ma debbono rispettarlo, accompagnarlo, sostenerlo e guidarlo mediante un attento e continuo dialogo. Nessuno può servirsi del mondo per scopi anche nobili, ma tutti debbono essere disponibili per il conseguimento e l’accrescimento del benessere e della felicità degli uomini. E lo sottolinea ancora papa Francesco, quando, ricordando come Paolo VI prospettava un organismo sinodale che “col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato”, esorta: “Dobbiamo proseguire su questa strada (…). Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”.

 

 

 

LA RIFORMA DEL SENATO E LA SOSTANZA DELLA DEMOCRAZIA


Pubblicato su Affaritaliani il 14 ottobre 2015
La democrazia è sostanza di valori umani e di giustizia sociale, stile di vita, garanzia di diritti e di doveri. Certo, ha bisogno di norme procedurali e di regole di partecipazione e di comportamento, ma non può mai essere ridotta solo ad esse. Oggi assistiamo al Governo italiano che esulta. “Rottamata” la passata inerzia amministrativa, “asfaltate” le catastrofiche attese dei gufi di turno, giunge al traguardo della tanto sospirata e controversa riforma del Senato della Repubblica. E, senza interruzione di continuità, dà subito avvio alle nuove riforme, proclamate anch’esse come mezzo indispensabile per l’avanzamento civile e la crescita del benessere sociale. Si tratterà di riforme programmate e scandite secondo una ferrea modulazione anche dei tempi: si va avanti, nonostante tutto; non solo sorvolando su eventuali proposte di altre forze politiche, ma anche ignorando di fatto ogni confronto veramente disponibile, fino a ignorare gli ammonimenti avanzati dalla Banca d’Italia e persino a sprezzare le doverose annotazioni degli Organismi dell’Europa.
“E’ l’Italia che ce lo chiede”, è l’antifona  che vanno ripetendo i governanti. Il Cittadino italiano, invece, rimane incredulo, attonito: ha ancora davanti agli occhi le immagini delle scene delle Aule parlamentari, cui ha dovuto assistere nelle ultime settimane, suscitandogli perplessità e vergogna. Ora, però, placatosi alquanto l’ingarbugliato e incandescente clima politico, è opportuno, lasciare da parte ogni inutile lagnanza e commento, fermarsi per riflettere seriamente sulla condizione reale della vita democratica in Italia.
E’ ormai un dato di fatto l’esautorazione del dettato dell’articolo 1 della Costituzione. Ora preoccupa anche la sorte, cui sembra destinato anche l’articolo 3, che sancisce: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che (…) impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.  Tradotto in pratica, s’impone, per una democrazia realizzata, la “partecipazione” responsabile dei cittadini, costanti e attivi protagonisti della “organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Ne consegue che ogni riforma o “regola del gioco” dev’essere valutata in base ai contenuti che si vogliono perseguire e che debbono investire l’interesse generale di tutto il popolo, espresso tramite i suoi rappresentanti. Se ciò non viene consentito e garantito, ogni riforma può nascondere un astuto e mascherato sotterfugio per finalità antidemocratiche, che i cittadini, quando le scopriranno, rigetteranno con modalità non sempre prevedibili.
E’ chiaramente infondato e strumentale il sostenere che i governi hanno il “dovere di fare”, ovviamente nell’interesse del popolo, tutti gli interventi necessari, anche ad esso non graditi e che i partiti non farebbero mai per un proprio tornaconto elettorale. Ciò è falso: nella nazione - che sia democratica non solo formalmente, ma in primo luogo nella sua sostanza - dev’essere riconosciuto, sempre e in ogni circostanza, il diritto-dovere del popolo di autodeterminarsi, in qualsiasi direzione si decida di andare, compresa quella eventualmente non condivisa dal governante di turno. La vitalità d’un popolo  democratico ammette solo i limiti e le forme che pone da sé, in via temporanea e transitoria, sempre disposta a superarli sino a rovesciarli. “Se a me socialista – insegna Sandro Pertini - offrissero la realizzazione della riforma più radicale di carattere sociale, ma privandomi della libertà, io la rifiuterei, non la potrei accettare”. 

Ciò di cui soffre la politica italiana è evidenziato dall’incremento quotidiano del maggiore partito: quello degli elettori che non votano e che si confermano nel rigetto di una politica chiusa in se stessa, lontana dal popolo e insensibile ai suoi veri problemi. A riparare questa grave situazione non basta produrre riforme con l’ausilio di “una” maggioranza racimolata, momentaneamente utile, ma variopinta e non sempre disinteressata. E’ necessario ricostruire il partito politico previsto dall’articolo 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti, per concorrere con metodo democratico a determinare a politica nazionale”. Ma, guardando serenamente la politica italiana degli ultimi decenni, risuonano le parole di Enrico Berlinguer: “ I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela”. 

Il Presidente del Consiglio e Segretario del maggiore partito di oggi ha probabilmente capito il problema e intuito anche la soluzione: ricreare partiti fatti dai cittadini, liberi e consapevoli, per riportare l’azione politica nei suoi veri binari. Probabilmente sta impegnando questi suoi primi tempi a prepararne la strada giusta. Probabilmente è la tirannia della situazione eredita che lo costringe a “collaborare” con un Parlamento di nominati e con capi-partiti interessati a se stessi. Ma a questo proposito non disdegni di riflettere su un consiglio d’un suo predecessore, che contribuì coraggiosamente a ricostruire in Italia una vita materiale e morale degna degli italiani: “Non sostate – ammonì Alcide De Gasperi - sui labili espedienti, non illudetevi con una tregua momentanea, con compromessi instabili”. Il corpo sociale del popolo italiano è sano e incorrotto: va ascoltata soprattutto la sua voce. Oggi il pericolo non è una paventata deriva autoritaria, ma la rottura dei rapporti con il popolo.       

IL SINODO SULLA FAMIGLIA? UN EVENTO ECCEZIONALE?


Pubblicato su Affaritaliani il 3 ottobre 2015
 
Ha inizio domani il sinodo dei vescovi cattolici sulla famiglia, che segnerà una “svolta pastorale” fondata sugli insegnamenti del Concilio Ecumenico Vaticano II (concluso esattamente 50 anni fa) e sostenuta dal magistero di papa Francesco, che, aprendo il sinodo straordinario l’anno scorso, aveva già esortato tutti i vescovi: “Non caricate pesi sulle spalle delle famiglie”. Ecco, allora, la novità: i problemi della famiglia vanno esaminati, vagliati e approfonditi con il  contributo indispensabile di tutte le componenti la vita reale delle donne e degli uomini, cioè non si esamineranno solo le convinzioni degli uomini di chiesa e dei credenti in genere, ma si confronteranno anche le esperienze e le opinioni laiche, sociali, politiche ed economiche. E, coerentemente con questa nuova svolta, domani si apriranno i lavori del sinodo ordinario con regole nuove e rivoluzionarie, grazie alle quali verrà garantito un dibattito più ampio e più aderente alle realtà concrete dei problemi umani e familiari. Infatti, a differenza di quanto accadeva in passato, ci sarà più spazio alle discussioni anche nei gruppi ristretti di lavoro (denominati “Circuli minores”, che costituiranno 13 sessioni), suddivisi su base linguistica: due in italiano, tre in francese, tre in spagnolo, quattro in inglese e uno in tedesco. Le loro conclusioni saranno adeguatamente ponderate e verranno pubblicate integralmente a conclusione di ognuna delle tre settimana di lavoro. 

Non sembra occasionale che alla vigilia di questo sinodo sia stato pubblicato il volume “Paolo VI e il Sinodo dei Vescovi” (Edizioni Vivere, Roma, 2015), in cui si sottolinea come fin dall’inizio del Concilio Vaticano II si parlò spesso pubblicamente dell’istituzione di un consiglio, composto da rappresentanti di tutto l’episcopato, che fosse di aiuto al Papa nel governo della chiesa universale. Lo scopo del sinodo è chiaro: offrire a ogni vescovo cattolico il mezzo per offrire al papa “una più efficace collaborazione” nel governo della chiesa universale, divenuto sempre assai difficile per la vastità geografica e per la diversità delle situazioni locali, soprattutto al nostro tempo, dominato da una spaventosa pluralità di culture e di civiltà, in cui la chiesa deve agire concretamente. Pertanto, c’è e ci sarà sempre bisogno di dialogo aperto e di collaborazione reciproca. E fu proprio papa Paolo VI a volere e a istituire il sinodo dei vescovi il 15 settembre 1965 sulla scia del concilio ereditato da Giovanni XXIII. E Bergoglio, rivolgendosi ai suoi vescovi, ha citato proprio Montini, che affidava al Sinodo questo compito: “Scrutando attentamente i segni dei tempi – ha ricordato - cerchiamo di adattare le vie e i metodi alle accresciute necessità dei nostri giorni e alle mutate condizioni della società”.
 
Comunque, che si stia assistendo a un evento eccezionale non sembra sia un luogo comune. Già oggi pomeriggio, infatti, alle 17 in piazza san Pietro si terrà una veglia di preghiera preparatoria e propiziatoria, solo che ad aprirla non saranno né il papa, né qualche cardinale e nemmeno qualche insigne teologo e vaticanista, ma una coppia di sposi, cui seguiranno altre “famiglie”, che però non delineeranno quadri di vita familiare astratti ed inesistenti, ma che narreranno scene di vita ordinaria, porranno quesiti e chiederanno risposte, perché la famiglia ideale e perfetta non è mai esistita né esiste tuttora nella realtà del tempo storico, cui anche la chiesa è ora che guardi, per comprenderne problematiche quotidiane, cercarne efficaci indicazioni etiche e indicarne norme morali umanamente possibili e storicamente lecite.
 
Da parte sua, già all’inizio del suo pontificato, Papa Francesco – che questa sera interverrà per ultimo e che alla fine di tutti i lavori dovrà trarre la sintesi conclusiva - ricordava con parole colme di tenerezza l’importanza della famiglia esistente, nella quale debbono realizzarsi l’incontro e il dialogo tra le generazioni: “I bambini e gli anziani – disse - costruiscono il futuro dei popoli (…). E’ il custodire la gente, l’aver cura di tutti con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi e di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore”. Per questo in queste giornate si ha la netta sensazione che papa Francesco stia stringendo come in un ideale abbraccio tutti i problemi della famiglia, realizzando  il sinodo straordinario dell’ottobre 2014 e il sinodo generale del 2015, e passando dalla tappa di Filadelfia: ponendo l’attenzione sulla famiglia, questo papa propone una chiesa che “respira a pieni polmoni, per se stessa e per tutta l’umanità”.


 

 

 

venerdì 2 ottobre 2015

DOVE VA LA SCUOLA ITALIANA?

Pubblicato da Affaritaliani il 5 settembre 2015
 
E’ universalmente condiviso che il grado di civiltà di una nazione si misura soprattutto dalla cultura del suo popolo. Ovviamente la cultura non è solo quella che viene trasmessa nelle aule scolastiche; nondimeno la scuola è sempre stata e continua a essere una delle principali agenzie educative e formative, in quanto, oltre a disporre di strumenti didattici sempre nuovi e oltre a fruire di metodologie tempestivamente aggiornate, conta sulla presenza fisica dell’insegnante, che comunica anche impressioni ed emozioni squisitamente umane. Non si possono dissimulare, quindi, l'importanza e la gravità del compito affidato all’insegnante sia nella trasmissione dei contenuti e sia soprattutto nella formazione intellettuale e morale delle generazioni future, che le famiglie e la società gli affidano. Chi conosce la scuola italiana, però, ne accusa un forte regresso negli ultimi 30 anni, dovuto anche ai vari interventi di riforma apportati spesso con improvvisazione. In verità, per tanti decenni nell’Italia repubblicana s’è tentata una riforma della scuola, che ne segnasse davvero una svolta storica; ma s’è concluso sempre col produrre qualche ritocco marginale e talora persino negativo. 

Una riforma della scuola è giustificata da principi di ordine costituzionale (garantirne a tutti i cittadini la possibilità di frequentarla), di ordine pedagogico (offrire nuovi ordinamenti significativi e validi), e di ordine sociale (dotare la scuola di collegamenti e collaborazioni con le dinamiche della vita sociale). Ecco, allora, una preoccupazione di ampio respiro in occasione anche di quest’ultima riforma definita “buona”. Infatti, la natura e il ruolo della scuola ne fanno una realtà atipica, composita e del tutto speciale, per cui è necessario un approccio prudente e adeguato da parte di tutti: famiglia, società, politica, sindacati. E tutti debbono dare priorità ai diritti delle nuove generazioni, che pretendono di godere delle possibilità concrete di crescere in ogni direzione e al meglio. Una riforma vera ed efficace della scuola dev’essere definita su misura delle esigenze delle nuove generazioni, e non solo sui bisogni di qualche parte. Nemmeno dell’insegnante.  

La scuola non può essere ridotta ad ammortizzatore sociale, a sbocco occupazionale, a serbatoio di clientele, a campi in cui mietere voti e preferenze. Al di là della retorica, chi nei decenni passati si impegnava per “lavorare” nella scuola era animato e determinato dalla passione di “costruire” esseri umani, rinunciando a professioni notoriamente più redditizie e più ammirate dagli assetti sociali. L’aula scolastica era vissuta con religioso rispetto e attenta deferenza, non imposti da regolamenti, ma suscitati dalla autorevolezza dell’educatore. 

E gli educatori facevano anche allora anni e anni di “precariato”, spessissimo recandosi dal Sud al Nord: andavano precari e ritornavano presidi, come allora si chiamava il dirigente scolastico. E il servizio da precario non dava alcun diritto, oltre a quello dello stipendio, che costituiva un obiettivo dell’insegnante, ma non certo il principale. Per salire in cattedra si sostenevano dure e lunghe prove concorsuali scritte e orali: e all’orale si doveva andare tutti a Roma, con le valigie stracolme dei classici italiani, latini, greci, filosofici, ecc. E dopo un anno d’insegnamento si era valutati e confermati. 

Per chi ha vissuto quei tempi, è naturale che in questi giorni rimanga incredulo di fronte a tanto parlare e rivendicare riguardo l’immissione in ruolo di migliaia di precari. “Stiamo parlando – ha sostenuto il ministro dell’istruzione - di muoversi per lavorare e non per una prospettiva temporanea, ma per dare stabilità alla propria esistenza. E non per un capriccio del ministero, ma per esigenze di domanda e offerta”.  Ora, domanda e offerta coinvolgono in primo luogo gli studenti, che hanno il diritto di avere docenti preparati culturalmente e ben disposti umanamente. Ma un “precario” frustrato, che si sente esiliato, ricattato, umiliato può far ben sperare in un’azione educativa e formativa valida?  

La “buona scuola” si sostanzia e si regge in primo luogo sui “buoni educatori”. Sistemare contratti occupazionali, ammodernare strutture e aule, aggiornare laboratori e palestre, revisionare profili e competenze sono senz’altro azioni necessarie e utili. Ma da sole non garantiscono una scuola buona. Un edificio  scolastico modernissimo senza l’insegnante interessato ed entusiasta resta soltanto un monumento da ammirare. Ci vuole una riforma che pensi ai risvolti economici e alle esigenze organizzative, ma soprattutto che rivaluti la funzione sociale dell’istituzione scolastica, che ricrei la riconsiderazione e la riqualificazione del ruolo dell’insegnante, che rivendichi la autonomia sostanziale della programmazione. E questo non pare sia perseguito né con i vari attuali provvedimenti legislativi né con le assunzioni a tempo indeterminato di migliaia di “precari”.

 

 

LA LECTIO DI GALANTINO SU DE GASPERI

Pubblicato su Affaritaliani il 18 agosto 2015

La Fondazione Trentina “Alcide De Gasperi” ha invitato a tenere - domani martedì 18 agosto - la Lectio degasperiana 2015 su “La ricostruzione italiana. Il modello e l’esempio di Alcide De Gasperi”, il vescovo Nunzio Galantino, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana. Il prelato ha dichiarato che, dopo un’iniziale titubanza, ha deciso di accettare per due motivi: che “non è mai giusto sprecare occasioni di confronto e di riflessione” e per “il desiderio di poter rendere onore, come figlio di un antico militante democristiano nella terra di Giuseppe Di Vittorio e come vescovo, a un cristiano così libero e coraggioso come è stato Alcide De Gasperi”. Valide e nobili motivazioni. Come davvero significativa appare la scelta – per quanto è stato anticipato anche dalla stampa – dei tre “cardini” su cui verterà la sua dissertazione. Cioè: le istituzioni, ossia il rispetto delle Istituzioni e, in particolare, del Parlamento; il bene comune, ossia  l’ideale supremo dell’azione politica; la laicità, ossia la libertà dell’agire politico da ogni influenza ideologica, finanziaria e religiosa. Galantino porrà l’accento su questi tre aspetti rilevanti lasciati in eredità dal grande statista trentino, per cui emergerà sicuramente la figura di un De Gasperi quale costruttore tenace e convinto del sistema costituzionale italiano e quale infaticabile difensore delle scelte da lui operate sia come capo del suo partito e come Presidente del Consiglio dei Ministri.

I tre “cardini” sottolineati sono indiscutibilmente fondamentali. Ma, in considerazione anche delle ultime vicende che hanno visto coinvolti il vescovo e parte del mondo della politica, particolarmente rilevante sarà il tema della laicità della politica. Infatti, è di enorme rilevanza che la Chiesa italiana – per bocca dei suoi vescovi – riproponga il modello e la testimonianza di De Gasperi, e che voglia farsi promotrice di una ripresa della sua eredità anche cattolica. E’ un fatto positivo indiscutibile, di cui sembra esserci bisogno in questi nostri tempi di turbolenze ideologiche e di smarrimento etico. A patto che non si voglia  dimenticare (o anche solo sottacere) il coraggioso atteggiamento di Alcide De Gasperi nei riguardi anche del Pontefice e della Curia romana di quegli anni, segnati da grandi fermenti culturali e politici e impegnati nel difficile lavorio di ricostruzione materiale e morale dell’Italia. Non si può dimenticare, infatti, che nel 1952 Pio XII propugnò con estremo autoritarismo e con ogni forza un patto politico di tutti i cattolici, al fine di preparare, proporre, difendere e realizzare un programma mirante a preservare la Roma cristiana: “E' tempo – disse il papa - di scuotere il funesto letargo (…). E’ tutto un mondo che occorre rifare dalle fondamenta, che bisogna trasformare da selvatico in umano, e da umano in divino, vale a dire secondo il cuore di Dio”. De Gasperi si oppose e, insieme ai suoi compagni, influenzati anche dal pensiero di Jacques Maritain (peraltro già ambasciatore di Francia presso la Santa Sede) propugnò un partito politico e, quindi, uno Stato laico e aconfessionale. Ne seguirono comportamenti non certo adeguati alla gerarchia ecclesiastica. Dopo poche settimane, infatti, il Papa rifiutò di ricevere De Gasperi in udienza, in occasione del suo trentesimo di matrimonio e della professione perpetua della figlia suor Lucia. Il Presidente De Gasperi allora, umile ma fermo, credente cristiano ma uomo integrale, convocò l'ambasciatore d'Italia presso la Santa Sede, al quale dichiarò che come cristiano accettava l'umiliazione, ma come Presidente del Consiglio protestava e chiedeva spiegazioni a chi di competenza. Né in seguito si fece problema di ribadire al Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, il 20 marzo 1954, che la DC non era un “partito confessionale, emanazione dell'autorità ecclesiastica”, e rimarcava, con convinta e realistica visione politica, la necessità storica di chiamare e coinvolgere al governo forze di altra ispirazione, unico mezzo per consolidare la nascente democrazia italiana. Come tutta risposta Pio XII ordinò alla “Civiltà Cattolica” di scrivere un articolo contro De Gasperi, precisando quella che doveva essere l’unica vera dottrina della Chiesa. Non a caso veniva sempre meno in quegli anni l’autorevole influenza all'interno del  Vaticano di mons. Giovanni Battista Montini, che si era speso per far retrocedere Pio XII dalla decisione di non ricevere De Gasperi; anzi, nel novembre 1954 mons. Montini fu allontanato dalla Curia e nominato arcivescovo di Milano, ma senza essere creato cardinale. A ciò pensò papa Giovanni XXIII con uno dei primi atti del suo pontificato.  Montini percorse tutte le tappe nella vita ecclesiastica fino ad accettare il gravoso “servizio pontificale”; mantenne costantemente ferrea fedeltà ai suoi doveri pastorali e intatta coerenza ai dettami della sua coscienza. Seppe riconoscere, stimare e frequentare anche “laici” saggi, onesti e anch’essi servitori degli uomini: basti ricordare, per esempio, l’amicizia con Aldo Moro e la frequentazione di Jacques Maritain. Non a caso, alla chiusura del Concilio Vaticano II, il papa Montini consegnò simbolicamente proprio al filosofo Maritain il messaggio indirizzato “agli uomini di scienza e del pensiero”, riconoscendolo così degno rappresentante degli intellettuali. Il Maritain, da parte sua, scriveva pochi mesi ne “Il contadino della Garonna”: “E’ stata ora proclamata la libertà religiosa. Ciò che così si chiama non è la libertà che io avrei di credere o di non credere secondo le mie disposizioni del momento e di crearmi arbitrariamente un idolo, come se non avessi un dovere primordiale verso la Verità. E’ la libertà che ogni persona umana ha, di fronte allo Stato o qualsiasi altro potere temporale, di vigilare sul proprio destino eterno, cercando la verità con tutta l’anima e conformandosi ad essa quale la conosce, e di ubbidire secondo la propria coscienza. La mia coscienza non è infallibile, ma io non ho mai il diritto di agire contro di essa”. 

Se ciascun uomo non a il diritto di agire contro la propria coscienza, nessuno potrà imporre atteggiamenti che non siano prima capiti, accolti e condivisi. Non esiste “autorità” che possa dettare idee e prescrivere comportamenti. Soprattutto chi ha per proprio mandato la cura delle anime. E’ questo un insegnamento degasperiano che non può rimanere all’ombra delle celebrazioni teoriche e tanto meno delle strumentalizzazioni di parte. Si può costruire qualcosa di vero e di utile per tutti solo col dialogo rispettoso e argomentato, e giammai con la forza della irritazione, anche se fortemente sollecitata e ispirata al meglio. Si può contribuire a “ricostruire” la vita italiana - anche politica - con la fermezza nei propri convincimenti e con la fedeltà al senso del proprio compito, e non necessariamente ricorrendo allo scontro e all’offesa di chi la pensa diversamente o agisce con prepotenza.