(dal testo di Giulio Nascimbeni)
Ore 13 di ieri, al terzo piano di via Bigli 15, nella casa di Eugenio Montale, suona il telefono. Risponde la Gina (Gina Tiossi, un discreto personaggio di governante che da quasi 40 anni vive accanto a Montale). Il poeta sta fumando in compagnia di due amici del Corriere, Gaspare Barbiellini Amidei e chi scrive. La Gina entra nel salotto: «Chiamano dall’ambasciata di Svezia», dice. Montale si alza dalla poltrona con un po’ di fatica, spegne la sigaretta, si appoggia al braccio della Gina, va al telefono.
La prima poesia. Montale chiede un piccolo rinvio: «Fumo un’altra sigaretta con questi miei amici. L’ambasciatore mi ha raccontato che scrive poesie anche lui». Torna a sedersi. «Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io?». Si sentono altri squilli del telefono. Alla porta c’è un inviato della televisione svedese. «Ciao, dice, adesso mangio, poi vado a riposare». Da tre ore Montale era in attesa. Il giorno prima, mercoledì, uno dei suoi traduttori in svedese, il Prof. Oreglia, lo aveva avvertito che l’assegnazione del premio era ormai sicura al 90%.«Come ha passato la notte?». Gli chiedo. «Con la mia solita insonnia. È sessant’anni che ne soffro. Il Nobel non c’entra», risponde. «Degli altri probabili vincitori cosa pensa?». «Ho saputo che c’era anche Simone De Beauvoir. Dicono che sia una donna terribile. Come fa Sartre a starle insieme da tanto tempo?». Sono le undici, da Roma è arrivata una giornalista svedese, Martha Larsson. Deve tracciare una rapida biografia del poeta. Si comincia dalla data di nascita: 12 ottobre 1896. «Ho scritto la mia prima poesia a 5 anni. La ricordo perfettamente: Il vaso era il posto noto – né pieno né vuoto». A poco a poco avviene una metamorfosi abbastanza consueta quando si intervista Montale.
La sua insaziabile curiosità delle cose della vita, che è una specie di reazione alla solitudine di cui si è sempre circondato, lo porta a essere lui l’intervistatore. Alla Larsson che gli chiede se ha lettori in Svezia risponde: «Sì, mi mandano delle cartoline con slitte trainate da cani. Ma come risolvete i problemi del riscaldamento con tutto quel freddo? In quanti siete? È vero che da voi non c’è modo di sfuggire alle tasse?». La giornalista gli risponde che è vero. «Allora il vostro governo non piacerebbe agli italiani», commenta Montale. La Larsson insiste: «Cosa ne pensa della situazione italiana?». La risposta è: «Finirà bene. Non ho mai visto un Paese che muore perché un bilancio è in passivo. Mio padre, ai primi del secolo, diceva sempre: “È una catastrofe, non si può andare avanti”. Sono passati più di 70 anni. I discorsi sono sempre uguali. Solo al tempo del fascismo non si faceva perché non si poteva parlare. Adesso siamo forse arrivati all’eccesso opposto: Dal mutismo alla logorrea». La Larsson vuole condurlo a pronunciarsi sul problema dell’aborto. Risponde: «Non siamo molto bravi a interpretare le leggi. Quando è arrivato il divorzio, molti hanno creduto che fosse obbligatorio. Adesso c’é il pericolo che tutte le donne si sentano obbligate ad abortire. Ma è vero che in Svezia non ci sono poveri?».
Stoccolma, 10 dicembre 1975, nel Salone della Fiera Campionaria si svolgono le prove della cerimonia di consegna del Premio Nobel: gli undici candidati, a turno, devono avanzare verso re Carlo Gustavo di Svezia e ritirare la prestigiosa medaglia. Tra loro c’è Eugenio Montale, il poeta, certo, autore di “Ossi di seppia” e “Le occasioni”, ma anche il giornalista e critico musicale del Corriere della Sera, oltre che il traduttore che collaborò con Elio Vittorini all’antologia “Americana”. Al Nobel l’ha condotto la stima smisurata del collega svedese Anders Osterling, che già nel 1960 aveva tradotto per i connazionali la raccolta “Ossi di seppia” (Archivio Rcs)
Montale ha 80 anni, soffre da tempo di vertigini e fatica a camminare, ma presenzia alle prove della cerimonia, mentre la fidata governante Gina sbuffa e dice: «Me lo stan sbatacchiando di qua e di là come se avesse vent'anni». Dopo qualche momento di smarrimento generale, data la rigidità del cerimoniale che impedisce di accompagnare i vincitori, il re Carlo Gustavo - nella foto - si offre di portargli il premio (Archivio Rcs). E di quell’occasione solenne, riconoscimento per il lavoro di una vita, oltre che orgoglio nazionale, restano alcuni esilaranti commenti a margine di Montale, come questo sui 90 milioni di lire legati al premio: «Tutti mi chiedono che cosa ne farò. Prima vorrei sapere quanti me ne restano dopo le tasse» (Archivio Rcs).
Ma a cerimonia conclusa, durante il banchetto in onore dei vincitori, lasciandosi andare all’emozione e all’orgoglio, Montale si fa serio e commenta così quella giornata speciale: «Ho sempre bussato alle porte di quell'enigma meraviglioso che è la vita, e da quell'enigma ho tratto la poesia» (Archivio Rcs).
Ultimo di sei figli, Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896 in una famiglia della media borghesia, che sceglie per lui studi tecnici a causa della sua salute precaria, pur lasciandogli coltivare la passione letteraria. Si diplomerà in ragioneria, ma negli anni verrà insignito di ben tre lauree honoris causa, di cui dirà: «Qui [in Italia], anche per diventare poliziotto bisogna essere dottore. Soprattutto nel meridione è un titolo molto apprezzato» (Archivio Rcs).
Alla passione per la letteratura accompagna quella per il canto, seguendo le lezioni dell’ex baritono Ernesto Sivori; come cantante non si esibirà mai, tranne che per i colleghi del Corriere della Sera, come racconta Vittorio Notarnicola: «Un pomeriggio al giornale, con un registratore a disco, gli si tirò una trappola: lo convincemmo a incidere “la calunnia”, del don Basilio rossiniano. Eugenio cantò, ma non sapeva tutte le parole; non si fermò, andò avanti a cantare, inventando quello che non conosceva della romanza» (Archivio Rcs).
Dopo aver preso parte alla Grande Guerra, Montale affronta gli anni ’20 e ’30 distaccandosi dal fascismo e sottoscrivendo il famoso manifesto di Benedetto Croce, che gli costerà l’espulsione dal Gabinetto scientifico letterario Vieusseux di cui era diventato direttore nel 1938. Nella foto con Maria Luisa Spaziani (Archivio Rcs). Negli anni del soggiorno fiorentino, Montale si é già fatto notare per la sua prima raccolta poetica “Ossi di seppia”, pubblicata da Piero Gobetti nel 1925, e collabora alla rivista “Solaria”, immerso nella vita culturale fiorentina e nei circoli letterari, dove ha modo di conoscere Carlo Emilio Gadda, Tommaso Landolfi ed Elio Vittorini - con lui nella foto (Archivio Rcs)
«L'argomento della mia poesia è la condizione umana in sé considerata: non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio. [...] Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia». E ancor più che in “Ossi di seppia”, ne “Le occasioni” la poesia si fa simbolica, il linguaggio meno penetrabile e carico di sottintesi (Archivio Rcs).
Nel 1948 viene chiamato a collaborare con la redazione del Corriere della Sera e del Corriere d’Informazione come critico musicale; una svolta, come già altre nella sua vita, che definirà casuale: «Non ho mai deciso nulla, cosa fare, dove andare. Gli eventi mi hanno modificato. Sono diventato giornalista dopo i cinquanta, quando si va quasi in pensione». Nella foto con il direttore Piero Ottone (Archivio Rcs).
Stoccolma, 10
dicembre 1975, nel Salone della Fiera Campionaria si svolgono le prove della
cerimonia di consegna del Premio Nobel: gli undici candidati, a turno, devono
avanzare verso re Carlo Gustavo di Svezia e ritirare la prestigiosa medaglia.
Tra loro c’è Eugenio Montale, il poeta, certo, autore di “Ossi di seppia” e “Le
occasioni”, ma anche il giornalista e critico musicale del Corriere della Sera,
oltre che il traduttore che collaborò con Elio Vittorini all’antologia
“Americana”. Al Nobel l’ha condotto la stima smisurata del collega svedese
Anders Osterling, che già nel 1960 aveva tradotto per i connazionali la
raccolta “Ossi di seppia” (Archivio Rcs).
Martha
Larsson se ne va. Dalla Mondadori, la casa editrice che pubblica i suoi libri,
gli chiedono una dichiarazione ufficiale. I «tic» del volto si accendono tutti all’improvviso. La bocca
sbuffa con quel sibilo che a volte gela l’interlocutore. «Come si fa a dire
cose non banali?», domanda. Detta qualcosa: «L’altissimo riconoscimento che mi
viene dall’Accademia svedese é per me motivo di soddisfazione…». Ci ripensa. Si
ferma. I «tic» riprendono il sopravvento, torna a dettare: «Non sono mai stato
in Svezia e non conosco personalmente i miei traduttori in lingua svedese.
Questo fatto aumenta in me la profonda gratitudine per il riconoscimento che mi
viene da un Paese che ha alte tradizioni di cultura e di profonda fede
democratica. Mi ripropongo di andare in Svezia e ringraziare personalmente i
miei nuovi amici». Segue un’immediata postilla: «Andrò a Stoccolma, ma non vorrei fare discorsi». È quasi mezzogiorno. Lo prende un dubbio: «E se poi non vinco? E se poi decidono di cambiare opinione?». Ride nervoso. Gli ricordo che il Nobel coincide con i 50 anni di Ossi di seppia. «Il volume costava sei lire», risponde. «Ne furono stampate mille copie. Dovetti darmi da fare per convincere parenti e amici a prenotarlo. Il primo titolo che avevo proposto era "Rottami".
Il tempo scorre lento. Si parla di giornali: «Ho sentito che quello di Scalfari, “La Repubblica”, uscirà in un formato quasi tabloid. Che convenienze ci sono?». Poi il discorso passa al «Corriere»: «Chi c’è nella stanza dove stavo io con il povero Emanuelli? Via Solferino è diventata troppo lontana per le mie gambe. Devo muovermi ogni giorno, me l’ha ordinato il medico, ma non fare tanta strada. Se andrò a Stoccolma dovrò tirare fuori lo smoking. È da quando ho smesso di fare il critico musicale che non lo indosso più». «Ha scritto poesie in queste ultime settimane?», domando. «No, sono appena rientrato da una lunga vacanza a Forte dei Marmi. Adesso posso concedermi lunghe vacanze. Andavo alla spiaggia tutte le mattine. Ma non ho scritto poesie». Non sembra sincero del tutto. In qualche cassetto forse c’è qualcuno di quei foglietti su cui ha sempre abbozzato le sue poesie: quei foglietti che un’antica domestica, Maria Bordigoni, trovava nelle sue tasche e buttava via. Maria non sapeva leggere. Le interessava ricuperare i fiammiferi o i bottoni che si erano staccati.
Sarebbe forse ora di fare qualche domanda sull’intera sua vita, sull’intera sua opera. «Globale è un aggettivo che detesto», replica subito: «Messaggi? I messaggi è meglio non mandarli». Si stenta a superare il muro del paradosso. Montale è sempre stato così. L’imminenza del Nobel non l’ha cambiato. Concede una brevissima frase: «Per me la poesia è un invito alla speranza», ma subito se ne ritrae. «Ho sempre provato un po’ di vergogna a sentirmi chiamare poeta. Nei registri degli alberghi, mi sono sempre qualificato come giornalista». «E dopo il Nobel?», azzardo. «Magari diventerò Papa. Se c’è tanta avanguardia, tanto dissenso nella Chiesa, perché un borghese non potrebbe diventare Papa?».
È l’ultimo paradosso. Sono le tredici. Arriva la telefonata dell’ambasciatore di Svezia. La Gina apre la radio, stanno dando la notizia. Mettono in onda un’intervista di qualche anno fa, quando uscì Satura. La radio è in cucina. Per chi crede nella poesia e in Montale, non è un momento come tanti altri. Questo non se andrà mai dalla memoria. Una cucina, una pentola che fuma, le pareti vuote, il senso d’una distanza che nemmeno il Nobel riesce a valicare. Fuori c’è la città. C’è anche l’indifferenza della città. La sua «decenza quotidiana» forse è una lezione troppo ardua.