«NEL
GRANDE SILENZIO»
Soliloquio di Nietzsche nell’«immensa impossibilità di parlare»
Pubblicato in Iuncturae il 30 aprile 2021
Friedrich Nietzsche (1844-1900) – interprete di una delle più radicali revisioni culturali dell’Occidente – in «Aurora» (1881) intitola il pensiero n.423 «Nel grande silenzio». E’ uno scritto breve ed essenziale, ma nella sua stringatezza denso di messaggi eloquenti, con i quali il filosofo manifesta il suo animo combattuto da opposte istanze e prefigura non pochi esiti del suo pensiero nichilista, indovinati ed efficaci anche per i tempi che ci è dato vivere.
Allontanatosi dalla ressa e dai frastuoni della «città» -
confida il filoso - trova rifugio in riva al mare in un luogo solitario, che
conciliava la meditazione sul senso immediato e finale del vivere cosmico e sulla
destinazione dell’operosità e dei travagli degli uomini. La serena limpidezza
dell’aria e la trasparente luminosità dei luoghi placavano il suo spirito stanco
e sollecitavano la sua mente a meditare su problemi di vario interesse. Abbandonatosi
completamente alla pace di quell’ambiente, il filosofo si sciolse da ogni
reticenza e fuse i moti del suo essere con le palpitazioni della Natura, alla
quale si rivolse con parole echeggianti un’antica intima frequentazione, amichevole
e familiare: «Ecco il mare – le rivolse amabilmente soddisfatto -, qui possiamo
dimenticare la città». Tutti, infatti, provati e stanchi per le vicissitudini
della quotidianità, cercano un quieto riposo rigenerante, che favorisca l’oblio
delle avversità e consenta lo scambio reciproco di confidenze di felicità e di
sofferenza, di conquista e di fallimento.
A chi accostarsi con fiducia e chiedere sostegno e conforto?
Da chi aspettarsi chiarimenti e rassicurazioni sui destini umani? A chi
affidare i segreti del proprio animo? Egli aveva già chiuso le porte a ogni
tentativo metafisico, aveva demolito ogni realtà trascendente ed inoltre aveva annunciato
la «morte di Dio», rivendicato dalle religioni quale fondamento e garante
d’ogni forma di al di là e al di sopra di questo mondo. Ed era giunto a tali
conclusioni con un percorso di pensiero meditato e sofferto, anche se complesso
e apparentemente contraddittorio, soprattutto nei confronti della religione
ricevuta dai genitori. Figlio, infatti, di un pastore protestante, egli stesso
formatosi nella cultura del cristianesimo calvinista, con estrema onestà
intellettuale e con esemplare coerenza morale aveva dovuto aderire ai dettami
dell’esperienza della sua vita e alle risultanze per lui evidenti della ragione.
«A chi -scrive senza esitazione – oggi mi si rivela ambiguo nei riguardi del
cristianesimo non do neppure la mano. C’è solo un modo di essere onesto in
proposito: un no assoluto» (Frammenti
1887-189, Postumi, KSA, 13, p. 416). Ma significativamente Karl Jaspers, introduce
i suoi studi sul filosofo tedesco con un chiaro avvio, solidamente documentato:
«La lotta di Nietzsche contro il cristianesimo nasce dalla sua propria essenza
cristiana» (K. Jaspers, Nietzsche e il
Cristianesimo, trad. it, Marinotti Edizioni, Milano 2008, p. 41). Per le sue conversazioni intime, quindi, a
Nietzsche non rimaneva che il dialogo franco e sincero con la Natura.
A questo punto il
filosofo, come scosso da un guizzo di lucida razionalità e quasi sospinto dal
risveglio della propria dignità, rompe ogni argine di misura e di riservatezza
e dà libero sfogo all’impeto della rinvigorita volontà di potenza umana. Si strappa
e butta via la maschera della finzione e – sapendo «Perché l’uomo non vede
le cose? Perché vi ha interposto se stesso: egli nasconde le cose» (Aurora, Pensiero 438) – sbotta
tra rabbia, sarcasmo e cinismo: «O ipocrisia di questa muta bellezza! Quanto
bene saprebbe parlare, quanto male, anche, se volesse!». La natura, però, non dà né ha alcun segno di
reazione; resta muta, impassibile, impenetrabile. Il filosofo, tuttavia, avendo
conosciuto per esperienza personale che le «Nature flemmatiche
possiamo entusiasmarle solo
fanatizzandole» (Aurora, Pensiero
222) gioca d’astuzia, ricorrendo anche all’oltraggio
fino all’irrisionee e allo scherno: «Il nodo della mia lingua e la sua dolorosa
felicità nel viso – manifesta ironicamente alla natura che, a suo dire, poco
prima l’aveva inebriato - è una malizia per deridere la consonanza del tuo
sentire!». Era del tutto incomprensibile il mutismo ostinato della Natura. In
fondo il filosofo non aveva chiesto la rivelazione di alcuna verità nascosta né
aveva voluto estorcere lo svelamento di qualche segreto misterioso. Andava solo
alla ricerca di qualche senso al vivere dell’uomo e del mondo; la stessa Hannah
Arendt, peraltro, impegnata a decifrare l’animo di uomini malvagi, sosterrà che
«Il bisogno di cercare una ragione non deriva dal desiderio di verità, ma dal
desiderio di trovare un significato».
Nietzsche si
rammarica, ma non si vergogna né si pente di questo suo comportamento e
soprattutto d’essersi fatto zimbello di forze ignote; della Natura, invece,
prova profonda compassione, perché essa è costretta a non parlare, «anche se –
insiste quasi incattivito il filosofo, rivolgendosi rudemente alla Natura - è soltanto
la tua malvagità ad annodarti la lingua: sì, io ti commisero a cagione della
tua malvagità!». Il silenzio, però, si fa ancor più profondo e il cuore si
gonfia nuovamente, perché «lo atterrisce una nuova verità: neppure esso può
dire parola». Anch’esso con malvagità non parla e, insensibile quale simulacro
marmoreo, con ghigno beffardo sembra irridere a ogni tentativo di
comunicazione, per cui: «Il parlare, anzi il pensare – confessa tristemente il
filosofo - mi è odioso: non odo forse, dietro ogni parola, ridere l’errore,
l’immaginazione, lo spirito dell’illusione? Non devo irridere la mia pietà?
Irridere la mia irrisione?». Il mare,
che con la sua tranquillità e la sua possente distesa d’acqua, aveva ispirato sentimenti
di tenacia nella speranza, ora si mostra elemento imbelle e servile, quindi da
irridere; la sera, che col suo regolare e progressivo scandire ore di luce e
ore di tenebra, aveva confermato la realtà dell’eterno ritorno del tutto, ora
getta l’animo nel dubbio e nell’incertezza, quindi da irridere; il cielo, che
con la meraviglia inimitabile del suo cangiante manto variopinto, aveva infuso
pensieri di eternità, ora si rivela terribile doloroso inganno, quindi da
irridere. Mare, sera e cielo, «Voi – accusa il filosofo deluso e amareggiato - siete
cattivi maestri! Voi insegnate all’uomo a cessare di essere uomo!». Non è, non
può e non deve essere come la Natura presume e pretende insegnare: l’uomo,
dotato di spirito apollineo unitamente all’energia dionisiaca, non si abbandona
alla forza dell’istinto, vivendo «pallido, scintillante, muto, immenso,
riposante su se steso». No! Ecco, allora, l’ammonimento del filosofo: «Conviene alla natura umana di un
maestro, mettere i propri discepoli in guardia contro se stesso» (Aurora, Pensiero 447).
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