Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
mercoledì 20 novembre 2019
Introduzione allo studio di Luigi Corvaglia da Melissano
di Cosimo Scarcella
"Noi salentini, noi italiani tutti, abbiamo un debito morale con Luigi Corvaglia, l'nsigne pensatore, che ci ha lasciato un pingue patrimonio culturale, in gran parte ancora inedito. Per il valore intrinseco dell'opera del nostro grande Gigi, potremmo forse ripetere la pittoresca definizione che Vincenzo Monti ebbe per quella di Giambattista Vico: irta di rupi e gravida di diamanti. Un'opera che doveva fatalmente condannare il pensatore di Melissano alla solitudine e all'incomprensione: ma anche incitare i posteri, soprattutto i giovani, a scavare nella sua miniera".
Alfredo De Donno, Da Giuseppe Libertini a Luigi Corvaglia, in Apulia, 1975, n. 2, Archivio
"L'umanesimo laico e mazziniano del dopoguerra, quale il Corvaglia a se stesso presento, se da una parte lo riporta ai lontani anni liceali e universitari in Galatina e a Pisa, dall'altra suggella natura e sostanza dei suoi studi come predilezioni e carattere dell'uomo. L'unità è qui. La lezione sua più valida è qui. Il fraintendimento
nasce nel distinguere l'opera scritta dall'azione pratica, gli scritti letterari e filosofici dal pensiero politico e civile. Gli uni e gli altri hanno invece la stessa matrice. Gli uni e gli altri nascono in un unico atto di meditazione e di ricerca"
Aldo Vallone, Profilo di Luigi Corvaglia attraverso scritti inediti, in 'La Zagaglia XIII, n. 50, 1971.
La poetica di Giulio Cesare Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo
di Luigi Corvaglia
Riedizione a cura di Cosimo Scarcella
Presentazione di Fabio D'Astore
"Confesso di aver concepito molti anni or sono l'ambizioso disegno di questo studio integrale, proponendomi di svolgerlo con metodo filologico, il quale, senza escludere quello che vien chiamato
intuito storico, n'è presupposto insostituibile in questo campo" (LUIGI CORVAGLIA, 1959)
"Questo saggio sullo Scaligero occupa un posto particolarmente significativo all'interno della produzione filosofica del Corvaglia, che ha dedicato molto tempo della sua vita allo studio soprattutto del conterraneo Giulio Cesare Vanini. Ed è in funzione del Vanini che Corvaglia protrasse per circa quarant'anni anche la ricerca sulla produzione dello Scaligero" (dalla nota al testo)
Musicaos editore, Neviano 2018
ISBN 978-88-94966-169
giovedì 4 aprile 2019
MELISSANO. STORIA DI UN RECUPERO
L’ANTICA CHIESA PARROCCHIALE E
IL CENTRO CULTURALE Q. SCOZZI*
Il
14 gennaio 1979, giusto quarant’anni fa, sul quotidiano cattolico «Avvenire», a
firma d’un autore sottoscritto con lo pseudonimo DABO, appariva l’articolo «Il
Circolo di Melissano è un rudere pericolante», col quale richiamava l’attenzione
sugli obblighi giuridici e morali dei neoproprietari dello stabile, cioè degli
amministratori comunali d’allora, non solo noncuranti d’informare i cittadini sullo stato del sacro edificio
acquisito in permuta di suolo pubblico edificabile, ma anche gravemente ignari
essi stessi del valore storico e culturale di quel «complesso monumentale», di
cui erano venuti in possesso: si trattava di «una delle più antiche costruzioni
melissanesi», ultima testimonianza e unico documento della memoria storica del
paese. Correva voce, perdipiù, che proprio i responsabili della pubblica
amministrazione del tempo - e pare che qualcuno ne avesse dato anche palese e
disinvolta dichiarazione - non avevano alcun problema perfino ad abbattere subito
e, quindi, a cancellare del tutto ogni traccia della vita passata del paese e l’unica testimonianza storica di quello che avevano
saputo fare gli abitanti laboriosi e devoti dell’antico paesino.
In
realtà quell’antica chiesa era rimasta chiusa già da qualche tempo. Infatti, restaurata
ultimamente nel 1910, grazie al contributo del popolo e alla generosità di
Francesco Corvaglia (zio del letterato-filosofo Luigi Corvaglia), dopo un
periodo di chiusura, fu riaperta e utilizzata, in mancanza d’un’altra sede
disponibile, come «Circolo» (da cui anche l’appellativo di «Circolo Vecchio»),
nel quale, oltre agli incontri e alle attività dei vari gruppi di Azione
Cattolica, veniva insegnato il catechismo ai bambini, si tenevano conferenze e
tavole rotonde, si allestiva durante la settimana santa il sepolcro di Cristo
morto, si rappresentavano dai giovani del paese spettacoli teatrali a carattere
sacro e anche divertenti. Col passare di alcuni anni, però, a poco a poco rimase
abbandonata completamente a se stessa, tanto che fu possibile (e facile) a mani
esperte trafugare tutte le antiche pale e frantumare gli altari laterali e
quello maggiore, che, se non erano certo di materiale prezioso, erano però il
frutto del sacrificio e della fede dei nostri progenitori. Erano necessari,
quindi, interventi di risanamento e consolidamento tempestivi e a tempo utile
per sanare le gravi condizioni dell’ex-chiesa.
In
verità, sull’argomento già da alcuni anni s’era fatto sentire - unica voce
solitaria e inascoltata nel deserto della comune indifferenza - il professore
Quintino Scozzi (Melissano,1928-1991), il quale avvertiva
- e ammoniva con dati documentati e verificabili - che, «distrutto ormai, intorno al 1949, il Castello che appartenne nel
1350 agli Amendolia, nel 1384 ad Orso Minutolo e nel 1723 ai Conti Caracciolo
di Taviano, e demoliti, nei pressi del castello stesso, alcuni abituri, sono rimaste,
quale testimonianza storica di quello che fu l’antico Melessano, la torretta
del vecchio orologio e l’ex chiesa parrocchiale, meglio nota come Chiesa
Vecchia o Circolo o Chiesa di papa Ntoni, buon parroco melissanese, esumato nel
1977 a seguito del restauro di una vecchia cappella sita nel Cimitero Comunale».
Ed è stato proprio e solo lui, con la tempestività dei suoi interventi e
col forte vigore delle sue lagnanze a voce e per iscritto, a riuscire a far bloccare
la ruspa demolitrice, già preparata per sgombrare la zona occupata dalla sacra costruzione
e spianarne il suolo, onde poter accogliere probabilmente un’area fabbricabile
o destinata addirittura a pubblico parcheggio. E’ a buon diritto, quindi, che
quell’edificio «sopravvissuto» sia stato intitolato al professore Quintino
Scozzi, quale generosa - nonché doverosa
- riconoscenza da parte di tutta la cittadinanza. Anche per questo lo stabile è
stato destinato esclusivamente a ospitare iniziative e attività culturali di
chiunque avesse voluto fruirne, dando, così, un concreto contributo per la
comune elevazione intellettuale e per l’arricchimento culturale di tutti i
cittadini, e specialmente delle nuove generazioni, quanto mai bisognose di
radicarsi nella verità storica delle loro origini e nell’umana fedeltà ai
lasciti fatti loro dagli antenati, senza smarrirli nell’odierna diffusa superficialità
di pensiero e nel pressappochismo culturale dilagante.
E’ necessario, allora, conoscere
gl’intensi momenti di lavoro febbrile dedicati da Quintino Scozzi, per riuscire
a impedire la rovina e la perdita di così significativa opera sacra e storica.
Il 2 novembre 1978 il Consiglio Comunale di Melissano approvava l’«Atto di
transazione stipulato tra il Comune e la parrocchia di M. SS.ma del Rosario»,
col quale, in buona sostanza, si ratificava la permuta, per cui il Comune diveniva padrone dell’antica
quattrocentesca chiesa parrocchiale «Sant’Antonio» e la parrocchia disponeva di
un’adeguata zona di suolo edificatorio, ove avrebbe potuto erigere un sacro
edificio. Diffusasi la notizia del proposito degli amministratori comunali di
abbattere il «sacro» stabile, centoventi giorni dopo, precisamente il 28
febbraio 1979, Quintino Scozzi diffonde una «Lettera aperta» dal titolo «’Il
Circolo Vecchio’ è un’Antica Chiesa da
Salvare», indirizzata al «Sindaco di Melissano, al Vescovo di Nardò, al
parroco di Melissano, al Soprintendente alle Antichità della Puglia, a ‘Italia
Nostra’ e alla cittadinanza». In questo pubblico documento, narrata
sinteticamente la storia plurisecolare della vecchia chiesa, dopo aver
sottolineato che non è stata «Mai dissacrata e
mai profanata, ma completamente abbandonata a se stessa», lamentava che «La
vecchia grande ammalata, invece di ricevere assistenza e cure consone al suo
male, venne incredibilmente ceduta anche in affitto. (…). Mosso da un
sentimento ‘fatto’ di rispetto, di pietà e di venerazione – continua lo Scozzi - chiesi e chiedo alle
Autorità competenti che l’antica chiesa sia recuperata in tutta la sua
interezza – in omaggio al passato, al futuro, alla vita e all’arte – al culto
dei fedeli».
Una decina
di giorni dopo, constatate l’ottusità degli amministratori locali e l’ignara
indifferenza della cittadinanza (tutti - forse - persuasi che davanti a fatto
compiuto anche quell’unico fanatico cittadino si sarebbe rassegnato), Quintino
Scozzi apriva un
vero fuoco concentrico su tutti i fronti interessati. Infatti, il 2 marzo 1979 espone in una lettera privata le sue lagnanze
allo stesso vescovo di Nardò, garante del baratto. Il 21 marzo successivo invia
un esposto al Sovrintendente alle Antichità e alle Belle Arti di Bari,
segnalando il caso e richiedendone l’intervento, per comporre la delicata
questione. Il vescovo risponde il successivo 29 marzo, con altrettanta
gentilezza, ma con parole ferme e chiarificatrici. Infatti, dando atto della
nobiltà del gesto del professore Quintino Scozzi «per il Suo interessamento per
salvaguardare un antico monumento e conservagli il suo carattere sacro»,
sottolineava che nella convenzione col Comune era ben evidenziato che la
transazione mirava a «stabilire le basi per il salvataggio del monumento chiesa
coi necessari lavori di restauro, che il Comune potrà eseguire, e avere, nello
stesso tempo, la possibilità di prevedere la costruzione di una chiesa in zona
dell’abitato lontana dalle chiese esistenti, nonché di avere i mezzi per
rendere abitabile la casa del parroco e utilizzare i locali a fianco della
Chiesa Matrice. Se poi – concludeva il vescovo - la Sua azione dovesse ottenere
la conservazione, dopo restauri, dell’uso sacro della predetta chiesa, senza
compromettere le altre basi dell’accordo, sarà stata un’azione veramente
benemerita. Voglia Dio che ciò avvenga». Il Sovrintendente alle Antichità e
alle Belle Arti di Bari, da parte sua, con nota 3186 del 5 maggio 1979,
comunicava anche all’indirizzo privato dello Scozzi che l’ex-chiesa
parrocchiale era dichiarata «Complesso Monumentale» per effetto della legge1089
del 1939. Così l’unico monumento storico melissanese era salvo a comune
beneficio soprattutto delle nuove generazioni. Bisognava, però, riportarlo a
condizioni degne della sua realtà e salvaguardarlo dalle mani degli uomini e
dall’azione della natura.
E
Quintino Scozzi s’adoperò anche per questo. Dopo qualche anno, infatti,
cambiarono gli amministratori comunali, risultando eletto anche lo scrivente,
che si vide recapitare per posta un opuscolo scritto dallo Scozzi e fresco di
stampa sulla «Storia di una chiesa», accompagnato dalla seguente lettera datata
11 aprile 1982: «Al caro amico, prof. Cosimino Scarcella, con grande stima e con la speranza che Egli, da Vicesindaco di
Melissano ma soprattutto da autentico democratico e da buon cristiano quale
sempre è stato, s’adoperi nel miglior modo possibile, perché l’unico monumento
storico melissanese sia al più presto portato al suo antico splendore e restituito
(utinam!) all’uso sacro, come da aspirazione dello stesso artefice della
infelice permuta». Seguì un nostro incontro personale, che si concluse con il
proposito di collaborazione, ovviamente nei termini del possibile. Ma tempi e
circostanze non furono a vantaggio della nostra promessa. Dopo alcuni anni,
però, chiamato nuovamente a sobbarcarmi al compito di vicesindaco, non
dimenticai il problema ex-chiesa, che nel frattempo era stata risanata e consolidata
nelle strutture murarie. Con il lavoro volontario di studenti delle ultime
classi dell’Istituto d’Arte di Parabita e di alcuni architetti messi a
disposizione dall’Amministrazione Provinciale di Lecce, furono restaurate tutte
le parti dotate di antichi dipinti e il 6 dicembre 1997 l’Amministrazione
Comunale di Melissano, con una pubblica e affollata manifestazione, consegnò
alla cittadinanza il suo «complesso monumentale», che con senso di dovere e di gratitudine
fu intitolato al Quintino Scozzi.
Per
l’occasione fu ualche anno dopo,
infatti, cambiavano gli amministratorimmristampato l’opuscolo Storia di una Chiesa, arricchito con
foto documentarie del prima e del dopo il restauro e corredato, oltre a un
profilo della figura umana e professionale dello Scozzi tracciato dallo
scrivente, d’ una introduzione scritta dal sindaco protempore, in cui si legge
tra l’altro: «La intitolazione dell’ex chiesa S. Antonio al prof. Quintino
Scozzi vuole essere consapevolezza e conoscenza per questo nostro concittadino,
che, con studi attenti e accurati e con notevole impegno, contribuì ad ottenere
il provvedimento di vincolo storico-artistico da parte della soprintendenza ai
Beni Culturali ed Artistici della
Puglia, avviando così la volontà di recuperare e riportare al suo antico
splendore il monumento. Tale recupero, oggi, è stato possibile grazie
all’intervento finanziario e alla collaborazione della Provincia di Lecce. Con
uno sguardo ammirevole e riconoscente al passato, l’augurio è che tutti noi che
viviamo il presente tramandiamo questa grande opportunità alle generazioni
future, con l’impegno di utilizzare e mantenere l’ex chiesa S. Antonio, ora “Centro
Culturale Quintino Scozzi”, come veramente merita».
Pubblicato in "Presenza Taurisanese", a. XXXVII, n. 310, aprile 2019.
Pubblicato in "Presenza Taurisanese", a. XXXVII, n. 310, aprile 2019.
mercoledì 9 gennaio 2019
SBAGLIARE E’ UMANO. OSTINARSI (per superbia) E’ DIABOLICO
In queste ore l’attuale inquilino della Casa Bianca ha
parlato dallo Studio Ovale, dal luogo, cioè, dal quale un Presidente americano rivolge
i suoi discorsi ufficiali a tutto il Paese, in occasioni seriamente drammatiche
e per eventi di crisi estrema gravità, come fecero Harry Truman nel 1947, John
F. Kennedy nel 1962, George W. Bush nel 2001 e Barack Obama nel 2915. Spiegato il
desiderato innalzamento del muro sui confini del Messico come “una scelta fra
giusto e sbagliato, fra giustizia e ingiustizia”, il presidente Donald Trump, con
chiarezza di pensiero, con prosa chiara e sobria, con naturalezza disarmante
per l’ingenuità apparentemente inoffensiva, ha ricordato a chi l’aveva avvisato
che si trattava di un atto immorale, che: “Molti costruiscono recinzioni e
barriere per le loro case non perchè odiano le persone che stanno fuori, ma
perchè amano quelle che sono dentro". Quindi, a decidere le scelte umane anche
riguardo al problema epocale delle migrazioni devono essere “i muri”, che
separano e mettono i propri cittadini (sempre buoni e comunque onesti) al riparo dall’invasione capricciosa
di sventurati (sempre iniqui e comunque malavitosi), che abbandonano le proprie
cose, rinnegano affetti umani e tradiscono
doveri civici, per girovagare alla ricerca di luoghi sempre nuovi e sempre ben accoglienti.
Facile retorica e comoda difesa: è sempre gratuito
additare l’altro, meglio se il forestiero, come colui che porta il delitto,
crea disordine e causa scelleratezze. Non sarebbe onesto, giusto e necessario ricercare
chi e cosa è che causa i flussi migratoti ormai epocali? Per chi e per che cosa
si scappa dal noto, per andare incontro all’ignoto, verso non si sa dove? E se
la causa fosse l’odio seminato proprio dai potenti signori del denaro, della
droga e della corruzione? Infatti, alza un proprio muro di difesa – almeno a
lume di sensata ragione - chi si è procurato il nemico ed è, perciò, cosciente
che deve difendersi! Chiunque lo faccia aprioristicamente, agisce senza dubbio in
modo ancor peggiore, perché, pur non avendo oggettivi motivi che glielo
suggeriscano, segue acriticamente la
teoria di Hobbes, per il quale la natura dell’uomo è quella d’un lupo contro
tutto e contro tutti. Ma questa teoria ha ampiamente dimostrato a quali esiti
conduce: non è l’animale che deve essere addomesticato dall’uomo, ma è l’uomo
che deve imbestialirsi su modelli da giungla.
Certo non sono mai mancati né mancheranno mai, anche se
in numero sparuto, gli uomini-sciacallo, che non perdono occasione per soddisfare
le loro brame di potere e di ricchezza. Ma non sarà difficile – per qualunque
governo sapiente, saggio e prudente - individuarli con tempestiva accortezza e
neutralizzarli con decisa fermezza. Non sarà certo necessario “imprigionare”
dentro muri innaturali popoli interi, per difendersi da uno sparuto numero
d’individui pericolosi.
Non manca giorno in cui uomini di governo a tutti i
livelli – dai responsabili di grandi nazioni ai piccoli tirannelli che li imitano
– non rilascino dichiarazioni, che destano non poca perplessità per le loro implicite
e forse inconsapevoli implicazioni. Si ascoltano parole buttate all’aria a cuor
leggero, che rivelano in chi le pronuncia una personalità che, contrariamente a
quello che si potrebbe pensare, non ha certo nulla di “diabolico”, ma solo
assenza totale di pensiero e di riflessione. Si tratta di una nuova “banalità
del male”, come la definì Hannah Arendt, la filosofa ebrea che seguì, come
giornalista, il processo contro Heichmann (il criminale nazista responsabile
della eliminazione di milione di vite umane innocenti), ascoltando attonita e
incredula le risposte date ai giudici dall’imputato; erano risposte
agghiaccianti proprio per la loro irresponsabile ma tragica superficialità; e
scrisse: “Restai
colpita dall’evidente superficialità del colpevole, superficialità
che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi
atti a un livello più profondo di cause e motivazioni. Gli atti erano
mostruosi, ma l’attore risultava quanto mai ordinario,
mediocre, tutt’altro che demoniaco e mostruoso (…). E prese forma
l’immagine di un uomo incapace di distinguere la
realtà dalla finzione, che non riusciva a distinguere il bene dal male”.
I potenti, che oggi detengono
nelle loro mani i destini dei popoli, dovrebbero indagare responsabilmente,
interpretare con perspicacia e individuare onestamente le cause reali, che
costringono popolazioni intere a migrare e chiedere umana accoglienza. Se
dovessero ravvisare eventuali furbizie e distorsioni hanno i mezzi per
smascherale e fermarle, senza sparare sul mucchio degli innocenti. Ma hanno –
nello stesso tempo – potere e mezzi per fermare all’origine i veri “autori” di
tali fenomeni: scoprirli e punirli con la stessa fermezza, che si usa con i
milioni di esseri umani inermi è loro dovere improrogabile. Ma è più agevole e
indolore urlare con voce trionfante – alla sequela ossequiosa ora di Trump e
domani d’un altro signore - “Altro che farne sbarcare altri o andarli a prendere con barconi
e aerei, stiamo lavorando per rimandarne a casa un bel po'. Scafisti e
terroristi: a casa!".
Infatti il pianeta è invaso solo da scafisti e solo da terroristi! I loro mandanti stanno al sicuro e ben
protetti.
venerdì 4 gennaio 2019
L’UOMO. L’ESSERE CHE “RAGIONA” COL CUORE
“Quella
vita ch'è una cosa bella – fa dire Giacomo Leopardi al ‘Venditore d’almanacchi
a un passeggere’ - non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce;
non la vita passata, ma la futura”. Il poeta recanatese, però, non sembra
essere nel vero. Infatti, solo il passato della vita (sia vissuto
come bello o come brutto) è ‘certo’ e, quindi, ‘bello’, in quanto la bellezza
coincide col reale e col certo. Solo il passato, pertanto, può essere bello,
perché assolutamente certo e ormai del tutto libero dal volere di chiunque e al
riparo da qualsiasi evento; il presente, invece, è solo un debole barlume di
vita in un brandello fugace di tempo morente; il futuro, poi, è addirittura totalmente
imprevedibile e inimmaginabile, in quanto non nel mondo dell’essere. L’uomo,
quindi, dovrebbe rallegrarsi o dolersi del passato, non del presente (che è solo
fugacemente nelle sue mani) né del futuro (che è spesso inaspettato e mai
totalmente in suo potere). Tuttavia, l’uomo – sulle tracce del cantore
dell’Infinito - si tormenta per il suo presente e s’interroga sul suo futuro, e
vive ogni rimembranza, che lo riconduca ai suoi giorni vissuti, come un atto solo
di malinconica nostalgia o di dolorosa impotente invidia. Non è così, però, per l’uomo che prende per guida
dell’intero percorso del suo esistere e per consigliera quotidiana delle sue
scelte la razionalità integrale propria della persona umana, che deve rimanere sempre
vigile e benpensante, attenta e disponibile.
“Il fatto che l’uomo - ha scritto Immanuel Kant - non soltanto pensi, ma possa anche dire a se stesso ‘Io penso’,
fa di lui una persona”. Per molti la differenza tra pensanti e non pensanti è la
vera precondizione necessaria, per poter comprendere e valutare ogni altra
differenza tra gli uomini, come tra individui credenti e non, socievoli e non,
altruisti e non. Molti, infatti, sono convinti che, se è certo che tutti viviamo
una vita, non è altrettanto certo che tutti siamo consapevoli di cosa sia
realmente la vita che stiamo vivendo, in quanto non ci poniamo sensatamente le
domande di quale sia il significato del nostro trovarci nell’esistenza, della
motivazione vera e della finalità ultima delle nostre scelte. L’uomo, comunque, sente spesso tutta la difficoltà d’una
vita, ch’egli non ha chiesto di vivere e che gli pone frequenti domande
dall’incerta risposta e addirittura coinvolgenti misteri inspiegabili: chi o cosa manipola la mia volontà apparentemente
libera; ove porta il mistero irrisolto del soffrire e del morire di
tutte le creature ospitate sulla terra? “Che fai tu luna in ciel? - egli chiede, con il Poeta dell’Infinito, all’astro
notturno confidente fidato e discreto dei segreti degli umani -. Ove
tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale? (...). Che
vuol dir questa solitudine immensa? Ed io che sono?”. Senso e sostegno,
allora, gli saranno offerti soltanto dall’uso della sua ragione integrale, cioè
– secondo il pensiero del tedesco Kant – dall’umana razionalità, la quale coinvolge
tutte le dimensioni della natura umana: le fuggevoli sensazioni del corpo e le
profonde intuizioni dello spirito, l’interiorità segreta della persona e la sua
generosa apertura all’altro, l’intelletto che conosce, la volontà che vuole,
l’affettività che abbraccia e vive ogni situazione di vita . Cioè, il cuore
dell’uomo: unico centro capace di comprendere e di gestire le diverse
dimensioni. Infatti, secondo anche un adagio induista, si ragiona non con la
mente, ma col cuore, il sicuro e valido punto-forza dell’uomo razionale. Solo
la vitalità del cuore, cioè l’amore, alimenta la fedeltà e rinvigorisce la
coerenza in ogni situazione della vita. E’ l’amore che dà il giusto colore ai
fatti e il dovuto sapore ai pensieri, illuminandoli con la sua luce
insostituibile, collocandoli ciascuno a suo posto.
Fiumi abbondanti e piogge copiose - annotava Seneca - gettano le loro acque nel mare salato, ma non ne alterano né attenuano il sapore. Allo stesso modo, la violenza delle avversità non sconvolge né turba l’animo dell’uomo forte: egli resta saldo e immoto nel proprio stato e converte a proprio beneficio qualunque vicenda, perché egli è più forte d’ogni evento esterno. Non è che egli non lo senta, ma lo vince: quieto e placido, si erge contro ciò che lo attacca. Del resto – continuava il filosofo stoico - non è stabile né forte un albero che non venga incessantemente sballottolato dall’infuriare dei venti; anzi, è irrobustito dalla continua violenza e rinsalda più tenacemente le sue radici. Sono fragili le piante cresciute in una valle solitaria al riparo delle turbolenze atmosferiche. E le radici dell’autentico uomo forte allignano soltanto nel cuore: totale e indivisibile, che coi suoi battiti scandisce il ritmo della vita vissuta degnamente.
Davanti a queste considerazioni non pochi sentono fastidio e tedio e,
presi dall’importanza dei loro impegni, non perdono occasione di far notare che
il rapido trascorrere del tempo impone ben altro che occupare forze ed energie
in piacevoli ma inutili passatempi, per cui è già abbastanza l’impegnarsi e
l’industriarsi a risolvere al meglio i problemi concreti della giornata, che ciascuno
vive nel posto in cui ha scelto di operare.
Ma sono proprio queste persone che, sballottolate dal susseguirsi
confuso degli eventi, generano non poca inquietudine e preoccupano per la loro
inconsapevolezza. “Coloro – ha scritto Hannah Arendt - che non sono innamorati
della bellezza, della giustizia e della sapienza sono incapaci di pensiero”: l’uomo
ha bisogno di pensare, ma con la totalità della sua razionalità, che abita nel
cuore, centro di confluenza d’ogni moto dell’animo umano. Solo così la vita non
si riduce a un anonimo e insipido passaggio sulla terra, ma è una consapevole e
costruttiva collaborazione alla felicità propria e dell’umanità intera: a questi
impensati ampi confini ci conducono l’auspicio e il monito anche del Mathama
Gandhi: “Il giorno in cui il potere
dell’amore supererà l’amore per il potere il mondo potrà scoprire la pace”.
Iscriviti a:
Post (Atom)