Sta per concludersi a Melissano il biennio di studio su Luigi Corvaglia (Melissano 1892 – Roma 1966) per il cinquantenario della sua morte, condotto da Cosimo Scarcella.
Aperto con la pubblicazione del volume Introduzione allo studio di Luigi Corvaglia da Melissano (Tuglie, 2017), autore lo stesso Scarcella, va in epilogo con la pubblicazione di un’opera corvagliana, a cui l’Autore teneva particolarmente: La poetica di Giulio Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo, pubblicata per la prima volta nel 1959 sul “Giornale critico della filosofia italiana” di Giovanni Gentile, sessant’anni fa. Atmosfere celebrative diffuse, se consideriamo che Giulio Cesare Scaligero, nato nel 1484, morì nel 1558, dunque 460 anni fa. La sua Poetica (Poetices libri septem) vide luce a Lione, postuma, nel 1561 a cura del figlio Silvio, a cui era stata dedicata. Quando si dice le coincidenze! Anche l’opera inedita di Corvaglia sarebbe stata pubblicata dalla figlia.
Tanto, per l’aspetto editoriale dell’evento, al netto di manifestazioni preparatorie e collaterali che hanno scandito il biennio corvagliano e che si concluderanno con un convegno nazionale nell’aprile
del 2019.
L’evento celebrativo ha avuto il supporto politico e amministrativo del Comune di Melissano, proseguirà con la creazione di un Centro Studi Corvagliani, per dare carattere meno episodico alla centralità di Luigi Corvaglia nella vita culturale del natio centro salentino. Ricordiamo che nel 1986, in ricorrenza del ventennale della sua morte, Corvaglia fu ricordato dal Comune di Melissano con un convegno, cui presero parte Donato Valli, Luigi Scorrano, Gino Pisanò e Quintino Scozzi, e fu murata una lapide sulla facciata della sua casa. Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso fu pubblicata a sua Opera Omnia, relativamente ai suoi studi vaniniani, a cura della figlia Maria e di Gino Pisanò (Galatina, 1990-1994).
Corvaglia fu anche uomo del suo tempo e del suo luogo. Profuse molto del suo impegno militante in opere politiche, che andrebbero riproposte e studiate; in opere letterarie, che contribuiscono come poche a definire quella che chiamiamo identità salentina; e in materiali documentali. Mi riferisco al suo romanzo Finibusterre, ai suoi drammi e alla corrispondenza epistolare, da lui stesso ordinata, con tantissimi personaggi del tempo, politici e intellettuali. Né ci sembra di minore importanza affrontare l’aspetto storico del Corvaglia, di cui si sa ancora poco, con un profilo biografico più rispondente a più approfondite finalità d studio.
Nella circostanza editoriale dell’Opera Omnia, oltre alle due opere del Vanini, furono pubblicati i suoi famosi inediti, quelli del terzo volume (poi terzo e quarto) degli studi vaniniani, che Corvaglia non potette pubblicare da vivo per diversi motivi, ampiamente spiegati dai curatori. Rimase fuori da quell’edizione – non è chiaro perché – il saggio sulla Poetica dello Scaligero, autore a cui pure è dedicato il secondo tomo del terzo volume, il più corposo. Forse perché quell’opera non era tra le fonti utilizzate dal Vanini e poteva non entrare organicamente in un’impresa editoriale dal titolo molto preciso: Le opere di Giulio Cesare Vanini e le loro fonti.
Quel saggio riappare oggi a cura di Scarcella, con un prodromo di Alessandro Conte (Sindaco di Melissano) e con la presentazione di Fabio D’Astore (Neviano, Musicaos, 2018, pp. 132).
Operazione azzeccata e di molta utilità per quanti si avvicinino alla conoscenza e allo studio di Corvaglia, uomo e filosofo. Scarcella ha colto un aspetto del rapporto Corvaglia-Scaligero che illumina non poco gli studi corvagliani sul filosofo veronese, fino ad evidenziare affinità caratteriali e biografiche fra i due. Nota Scarcella: “Nel leggere le singole parole con cui il melissanese descrive la psicologia dello Scaligero, viene spontaneo immaginare, per chi ha avuto relazioni amicali o di semplice conoscenza col Corvaglia in vita, ch’egli stesse descrivendo Scaligero, ma pensando a se stesso” (p. 33).
Scaligero e Corvaglia si somigliano: sono collerici, violenti, polemizzano come gladiatori, sono entrambi valetudinari. Corvaglia, estrapola dal suo studio scaligeriano la parte della Poetica e decide di affidarla al Gentile per pubblicarla perché presente di morire senza poter pubblicare l’intera monografia, a cui teneva tantissimo.
Fu facile profeta di se stesso. La sua grande monografia scaligeriana sarebbe rimasta incompiuta e inedita. Ecco perché volle almeno compiere un atto di simpatia umana e di riconoscimento all’autore della sua vita, che evidentemente non era Vanini, come si crede per altri motivi, ma proprio Scaligero. E se avesse potuto dimostrarlo, portando a compimento l’impresa, sarebbe stato il meritato coronamento del suo lungo lavoro di studioso. Volle pubblicare la genesi e lo sviluppo della Poetica, quasi in risposta a quanti avevano rilevato mende importanti nel lavoro dello Scaligero, a volte anche malevolmente e senza dare supporti critici necessari. Corvaglia, senza dare giudizi ma col suo solito metodo, quasi avvocatesto, smonta l’opera scaligeriana fino a ridurla alle sue componenti costitutive, ne analizza i contenuti con rimandi storici e filologici puntuali e con le funzionalità tecniche e dottrinarie di ognuna di esse nell’insieme.
La cornice storica e l’apparato critico che aggiunge Scarcella allo scritto corvagliano conferiscono completezza e danno risalto all’opera e al suo contesto.
Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
sabato 29 dicembre 2018
domenica 9 dicembre 2018
L’UOMO E’ UNO SCOLARO, E IL DOLORE E’ IL SUO MAESTRO
L’UOMO E’ UNO SCOLARO, E IL DOLORE
E’ IL SUO MAESTRO
“L’uomo – sentenziava il Mahatma Gandhi - è uno scolaro, e il dolore è
il suo maestro”. La massima, ovviamente, non significa pessimisticamente che la
vita umana sia sempre e solo dolore e sofferenza; è solo la constatazione realistica che solo il
dolore e la sofferenza plasmano l’essere umano forte e maturo, forgiandone
tenacemente l’intelletto, l’anima, la coscienza e la volontà. Gli eventi dolorosi
nel camminare per i sentieri impervi e bui dello scorrere del tempo e i
tormenti strazianti delle scelte periodiche richieste improvvisamente dal corso
dell’esistenza umana sono come dure e forti martellate, con cui il dolore
proprio della vita scalpella il marmo informe della natura umana, ricavandone
forme mirabili di vigore e sculture di rara sublime dignità. Non è certo con le
morbidezze d’un petalo di rosa, che accarezza dolcemente un batuffolo di lana,
che si possono incidere marmi e pietre vive. Figuriamoci caratteri vivi,
decisi, fermi e stabili: capaci, cioè, di avviarsi per il cammino ignoto e
imprevedibile della vita con decisioni
lucide e nette e con scelte radicali e definitive. E questo essere martellati comporta,
di necessità, uno stato di vita interiore di perenne sofferenza e lotta con se
stessi. Una lotta, però, che, mentre fa sanguinare le fibre più intime
dell’animo, germina il sorriso sulle labbra e la tranquillità nell’anima.
L’essere umano, infatti, agogna la tranquillità e la serenità; e si
sforza di raggiungerle e di ottenerle, rimuovendo attentamente dalla sua vita
quotidiana ogni ostacolo che gli si presenta e ogni occasione di contrasto, in
quanto è convinto che i suoi turbamenti e le sue sofferenze siano generati soprattutto
dal mondo a lui esterno e, in primo luogo, dalla rete intricata e confusa delle
sue relazioni sociali. Ma, avvertiva ancora il Mahatma Gandhi, “serenità è
quando ciò che dici, ciò che pensi, ciò che fai, sono in perfetta armonia”.
Bisogna avere il coraggio, quindi, di scoprire fino in fondo chi siamo davvero
noi, senza paura di riconoscerlo e di accettarlo nella sua totalità. Anche
perché tu e io – si dicono spesso le persone che pensano d’amarsi - non siamo
che una cosa sola. Di conseguenza, non posso fare a te del male senza, nello stesso tempo, colpire anche
me. E nessuno può farci più male di quello che noi facciamo a noi stessi.
Pertanto, è necessario, per una vita che abbia senso di realtà e di
verità, vivere nel momento concreto, ma nutrire nel cuore sogni alti, anche se
possono sembrare assurdità e follia: solo in questo modo si vive da esseri umani.
Senza covare sogni nutriti gelosamente e sperati fortemente, si smarrisce il
senso della vita, che diviene così un continuo girovagare insensato dello
spirito: il senso del vivere quotidiano si trova dove collochiamo il nostro cuore, non
dove risiede il nostro corpo. E il cuore non pulsa soltanto, ma parla e
comunica: non con urla che tutti possono udire, non con sussurri che sentono
solo i vicini, ma col silenzio – sempre tormentato e spesso doloroso - che sente solo chi ci ama.
Questo insegna il dolore: esperto maestro di chiunque voglia essere suo
scolaro attento.
mercoledì 28 novembre 2018
IL “POPOLO” E’ IL SOVRANO SEMPRE AFFIDABILE E GIUSTO?
Si esprimono queste riflessioni, con l’ausilio del
pensiero e della testimonianza di personalità del passato, non per una comoda cautela
nell’esprimere palesemente nostri convincimenti personali e nemmeno con la mira
d’accattivarci il consenso altrui, bensì perché possa sollecitare efficacemente
la riflessione critica e la valutazione serena di molte situazioni, in cui oggi
si vive, in Italia e non solo. Per questo richiamiamo il pensiero di Platone e
di Cicerone: il primo, voce esperta e autorevole della cultura greca; il
secondo, audace testimone e solutore acuto di non poche crisi della vita
politica della Roma del suo tempo; entrambi contrari a forme governative di
natura autoritaria e favorevoli a forme, che oggi chiameremmo democratiche.
Premesso che le forme di governo di quei tempi
avevano senso, modalità e nomi diversi da quelli odierni, si possono, tuttavia,
individuare alcune concezioni e alcune funzioni comuni a quelli dei nostri
giorni: come “sovrano e sudditi”, “governanti e governati”, “giustizia sociale e
libertà individuale”, “diritti e doveri”, cioè, alcuni capisaldi d’ogni
dottrina politica, morale privata, etica pubblica, convivenza civile. Ora, nel
quadro politico delle nazioni e degli stati odierni si dà quasi per scontato – eccetto per i governi
palesemente tirannici e dittatoriali - che i governi siano generalmente ispirati
a “democrazia”, in quanto di dà per acquisito che la fonte e la garanzia d’ogni
autorità sia il “popolo” nelle modalità più disparate.
Platone, già due millenni e mezzo or sono, manifestava
molte perplessità sulla democrazia, poiché dubitava della reale capacità del
popolo “governato” di dettare con saggezza e di controllare con giustizia l’azione
dei governanti. E documentava il suo atteggiamento con due considerazioni
d’ordine generale. Primo, ogni sistema democratico – come testimoniano i fatti
della storia - è destinato o a corrompersi in demagogia (oggi si direbbe
“populismo”) o a far germinare nel suo stesso seno la “malerba della tirannia” (oggi molto
diffusa, anche se in modo camuffato e sfrontatamente negato). Secondo, il
popolo è un’astrazione; nella realtà è un insieme eterogeneo di soggetti, che
vanno formati con responsabilità per tutto il corso della loro esistenza e
orientati saggiamente nelle diverse congiunture. E rimane sempre, comunque, un
attore fallibile, come dimostrarono largamente le vicende occorse al suo
maestro Socrate, il quale - primo vero martire della democrazia - fu condannato a morte, ufficialmente per le
accuse (infondate e smentire) di corrompere i giovani e di incitare
all’ateismo, ma in realtà perchè politicamente nemico della democrazia appena
nata in Atene. Fu condannato da giudici designati democraticamente proprio dal
popolo, il quale però, riconosciuto subito dopo il proprio errore, condannò e
punì gli stessi giudici che prima aveva ritenuto capaci e competenti.
A questo punto il filosofo greco cerca di trovare i
motivi per cui il popolo, che ha tanto lottato per conquistare la democrazia, fa
quasi di tutto per farsela strappare. E ritiene di giungere a questa
conclusione: “In un ambiente, in cui il maestro
teme ed lusinga gli scolari e gli scolari non tengono in alcuna
considerazione i maestri; in cui tutto si rimescola e si confonde; in cui chi
comanda, (per poter comandare sempre di più), finge di mettersi al
servizio di chi è comandato e ne blandisce tutti i vizi, per poterli
sfruttare meglio; in cui i rapporti tra gli uni e gli altri sono regolati
soltanto dalle rispettive convenienze nelle rispettive tolleranze (…) la
democrazia, per sete di libertà e per l’incompetenza dei suoi capi, precipita nella
corruzione e nella paralisi. Allora la gente si
separa da coloro, cui attribuisce la colpa di averla condotta a tale disastro e
si prepara a rinnegarla: prima coi sarcasmi, poi con la violenza. Così la democrazia
muore: per abuso di se stessa. E prima che nel
sangue, nel ridicolo (La Repubblica, cap.
VIII). In questo senso
Platone si rivela molto moderno: i giovani vogliono apparire più preparati
degli anziani e spesso pensano che con l’urlare dimostrano la maggiore validità
del proprio pensiero; gli alunni spesso deridono gli insegnanti, i quali, per
non esser considerati troppo autoritari e fuori moda, accontentano le loro
richieste, non preoccupandosi di trasmettere loro cultura sostanziata di valori
e di regole. Gli alunni, invece, che si mostrano ligi ai doveri nel rispetto
delle norme, vengono esclusi dal gruppo, divenendo talora vittime di bullismo.
Ogni popolo – si sentenzia - ha il governo che si merita. E’ probabile.
Ma, se ciò è vero, è molto più vero che ogni popolo è il risultato dell’educazione
umana e della formazione politica, che i governanti gli hanno consentito
d’acquisire. Ciò che è certo ce lo documenta la storia: in tutti i tempi molti
potenti sono sorti e si sono retti sulla “ignoranza” dei cittadini, ai quali
viene negata tutta o in parte la verità. Populismi e statalismi nascono e si
sostengono sulla progettata carenza di cultura del popolo. Di conseguenza, quando un cittadino non è tempestivamente
educato al senso d’appartenenza e al sentimento di solidarietà corresponsabile,
accade che, mirando solo a vivere bene, non s’interessa più al bene comune, ma
al bene proprio anche a danno dell’altro. Perdendo la propria libertà, in
quanto divenuto “schiavo” del suo egoismo asfittico.
“La libertà – interviene, infatti, Cicerone - non
consiste nell'avere un padrone giusto, ma nel non averne alcuno” (De Re Publica, II, 23). Non avere
alcun padrone significa, però, essere padroni di se stessi, sviluppando, controllando
e gestendo ogni dimensione propria dell’essere umano. E questo richiede la
formazione dell’uomo e del cittadino. L’uomo non nasce essere umano, ma lo
diventa gradualmente mediante lo sviluppo della propria personalità in tutti i
suoi aspetti, primo fra tutti il senso della socialità, cioè del bisogno
dell’altro per una vera completa umanità. L’altro non sminuisce né frena la
nostra totalità, anzi è l’elemento necessario grazie al quale possiamo dirci ed
essere partecipi del genere umano.
Il bambino nasce nella famiglia, cresce nella
famiglia e nella scuola, si prepara ad affrontare la vita nella società. La
adulterazione di uno di questi ambienti comporta, di necessità, la carenza di
umanità nell’adulto futuro. Per non cadere nel gioco dello scaricabarile, è
sufficiente che ciascun ambiente adempia al suo compito. Certo, dovremmo
immaginare famiglia, scuola, società ideali, e l’ideale non è e non può mai divenire
reale. Ma l’ideale è la forza motrice
dell’agire umano, in quanto indica e illumina, regolandola, la meta verso cui dirigersi.
Forse, oggi, queste tre istituzioni basilari indicano ben altri ideali. E l’uomo
e l’umanità marciano verso di essi, il cui esito finale è difficile prevedere.
mercoledì 21 novembre 2018
COMPITO DELLA CULTURA NELLA POLITICA DI OGGI
Chiunque, però, voglia
e sappia scrutare le cause profonde delle insensibilità disumane, che generano
divisioni e lotte, ingiustizie e aggressività, povertà e miseria tra gli uomini
e tra i popoli in questi tempi, non può non riconoscere che non si tratta solo
di degenerazione di alcuni organi istituzionali e di corruzione di alcune funzioni
private e pubbliche, bensì di depravazione - nell’intero organismo sociale – di
ciò che esso ha di sostanziale e di più profondo, per cui non a torto –
sembrerebbe - gli uomini di cultura hanno spesso dubitato e dubitano tuttora che
la loro presenza attiva nella vita politica (vista dai più come sontuoso paludamento
dei politici’ scaltri, ma priva di vera e fattiva rilevanza) potrebbe essere
considerata e concretamente usata solo come una collaborazione di “utili
idioti”, per cui prendono poca parte nell’attività politica, in cui palesemente
non s’ascolta la correttezza d’un parere, ma s’incorona col successo chi segue le
tendenze e si getta nell’oscurità e nell’indifferenza chi vi s’oppone.
Ai nostri giorni,
però, s’impone la necessità d’un supplemento di cultura nei “popoli” e nei loro
“governanti”, cioè nella vita politica nel suo complesso. E’ più che
sufficiente osservare la qualità e i toni della lingua generalmente usata per
esprimere valutazioni su amici e nemici (pare n esista più “l’avversario”
politico) e per lanciare giudizi su tutto e su tutti: tanta è la virulenza e il
sarcasmo che non è dato quasi mai distinguere il vero dal falso. E questo è
nocivo per tutti i cittadini. Già quindici anni or sono Norberto Bobbio
scriveva: “Non vi è cultura senza libertà, ma non
vi è neppure cultura senza spirito di verità. Le più comuni offese alla verità
consistono nelle falsificazioni di fatti o nelle storture di ragionamenti”. Affermazione
che fa meditare con preoccupazione.
A questo male non si ripara, però, facendo ricorso all’intervento nella politica
dei cosiddetti ‘tecnici’. Questi vengono richiesti dagli apolitici, che
pretendono di separare politica e tecnica, benché siano consapevoli che il
tecnico non avrà mai le competenze necessarie per capire e risolvere il tanto
decantato bene comune. E nuovamente ci ammonisce Bobbio: “Tecnica apolitica vuol
dire in fin dei conti tecnica pronta a servire qualsiasi padrone, purché questi
lasci lavorare e, s'intende, assicuri al lavoro più o meno onesti compensi;
tecnica apolitica vuol dire soprattutto che la tecnica è forza bruta,
strumento, e come tale si piega al volere e agli interessi del primo che vi
ponga le mani. Chi si rifugia, come in un asilo di purità, nel proprio lavoro,
pretende di essere riuscito a liberarsi dalla politica, e invece tutto quello
che fa in questo senso altro non è che un tirocinio alla politica che gli altri
gli imporranno, e quindi alla fine fa della cattiva politica”. Dietro le
parvenze del tecnico apolitico Bobbio intravedeva il politico incompetente, che
è privo delle conoscenze necessarie, per cui non sa come procurarsele e in
genere resta solto un politicante. Un tema, come si vede, di chiara attualità
nel dibattito politico: si deve rendere la politica consapevole dell'importanza
della conoscenza accurata dei fatti e del rigore nell'argomentazione. Cioè
della cultura.
mercoledì 7 novembre 2018
L'EUROPA NON E' SOLO DEMOCRAZIA
Vale la pena dedicare alcuni
minuti, per leggere e riflettere su alcuni stralci della “Opinione”, che Maurizio
Ferrera ha pubblicato sull’odierno “Corriere della Sera”, con l’auspicio che
sia fatto oggetto di un sereno “dialogo” fra cittadini europei.
L’EUROPA NON È SOLO BUROCRAZIA di Maurizio
Ferrera
Le elezioni europee del prossimo maggio avranno
luogo alla fine di un vero e proprio «decennio orribile» per la Ue. Prima
il terremoto finanziario importato dagli Usa, poi quello del debito sovrano. La
Grande Recessione, con i suoi costi sociali. E, ancora, gli attentati
terroristici, la crisi dei rifugiati, lo tsunami dell’immigrazione, la Brexit.
Un’inedita sequenza di choc, che hanno fatto vacillare le fondamenta
dell’Unione. Eppure l’edificio non è crollato. Al contrario, sono stati
intrapresi alcuni passi verso una maggiore integrazione economica, avviando un
delicato percorso di condivisione dei rischi. Non si è fatto abbastanza, certo,
e su alcuni fronti (ad esempio la dimensione sociale) si è persino tornati un
po’ indietro. Ma nel suo complesso l’Unione ha saputo resistere alle enormi
tensioni. Anche se insicurezza e paure non sono scomparse, la stragrande
maggioranza dei cittadini europei (Regno Unito escluso) ha recuperato oggi
fiducia nella Ue. A dispetto delle varie tempeste, quella che potremmo chiamare
l’«Europa di tutti i giorni» ha continuato imperterrita a funzionare (…).
Nel grande dibattito sulla Ue, nessuno considera
questa Europa di tutti i giorni. La ragione è semplice: fa così parte del
nostro mondo che abbiamo smesso di percepirla. Siamo diventati come i «bambini
viziati» di cui parlava il filosofo spagnolo Ortega y Gasset negli anni Trenta
del secolo scorso. Così come la democrazia liberale, diamo ormai per scontata
anche l’Europa integrata: i suoi benefici, le sue opportunità quotidiane. Della
Ue i media e i politici parlano in genere come un’entità astratta e lontana,
tendono a vederne gli aspetti che non funzionano. Per sentire parole di
apprezzamento e ammirazione dobbiamo attraversare i confini esterni, entrare in
contatto con chi vive sotto un regime oppressivo (…).
Sottolineare la vitalità e i pregi dell’Europa di
tutti i giorni non significa disconoscerne i difetti come sistema
istituzionale. Al contrario, è una ragione in più per dispiacersene e per
spronare chi ci governa a correggerli. Ortega y Gasset diceva che sono proprio
le élite a dover difendere tutto ciò che i «bambini viziati» danno per
scontato. I sondaggi rivelano che esiste ancora un vasto potenziale elettorale
per un rilancio del progetto d’integrazione. Le indagini sugli orientamenti
delle classi politiche nazionali sono meno confortanti. A questo livello
prevale una percezione «strumentale»: la Ue è un bene solo se è vantaggiosa per
il proprio Paese, è un sistema di regole da usare finché conviene. Non lo
dicono solo i leader sovranisti (che giocano a fare i «bambini arrabbiati») ma
anche segmenti importanti dei popolari e, seppur in misura inferiore, di
socialisti e democratici. Le prime comunità europee furono create da Padri
Fondatori responsabili e lungimiranti. La Ue di oggi sembra invece un’orfana
lasciata a se stessa.
L’infrastruttura dell’Europa di tutti i giorni ha
dato prova di robustezza e può procedere col pilota automatico. Ma non a
lungo. In vista delle elezioni di maggio, abbiamo un disperato bisogno di élite
capaci di far leva sul tessuto «banale» di connessioni a livello economico e
sociale per smorzare i conflitti politici. Servono nuovi leader che emergano
dal basso, espressione di quelle maggioranze silenziose che si trovano a
proprio agio in una Unione sempre più stretta. E che proprio per questo
vorrebbero che la Casa Europa diventasse meno litigiosa, più solida e
resistente alle inevitabili intemperie della globalizzazione.
Maurizio Ferrera
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