Nelle ultime settimane s’è assistito in Italia a fatti veramente significativi, che hanno suscitato stupore e preoccupazione insieme. Mentre, infatti, in due diverse piazze numerosi cittadini esprimevano le ragioni e rivendicavano i diritti di due diverse concezioni di famiglia e di matrimonio, e mentre nella propria Aula Legislativa i senatori della Repubblica discutevano per raggiungere un accordo e legiferare al meglio sul riconoscimento dei diritti delle unioni civili omo ed eterosessuali, i capi dei partiti politici moltiplicavano e diversificavano la propria posizione, mutandone spesso, e talora anche sostanzialmente, le conclusioni, palesemente più motivati da tatticismi di carattere elettorale che guidati da fedeltà a valori morali e coerenza con principi giuridici. Salomonicamente è intervenuto il Governo, il Potere Esecutivo. Forse s’allungavano i tempi, di certo c’era la dichiarata incomprensibile urgenza di “portare a casa” anche questa legge: e allora, con l’arma della questione della fiducia, estorceva ai legislatori l’approvazione della “sua buona legge”, che doveva leggersi come “fatto storico”, in quanto venivano finalmente “concessi diritti alle coppie omosessuali che prima non avevano”; si tagliava, quindi, un “traguardo importante”, dato che era una “legge molto complessa e difficile, perché tocca le sensibilità di ogni parlamentare e che viene approvata dopo due anni e mezzo di discussione”.
Premesso che venivano riconosciuti i diritti delle
“unioni civili” e, quindi, non solo delle “coppie omosessuali”, ma anche di
quelle eterosessuali, eliminando finalmente la discriminazione
anticostituzionale fatta sull’orientamento sessuale, s’impongono almeno due
osservazioni. In primo luogo: i “diritti” non vengono mai concessi da alcun
potere democratico, ma debbono essere da esso solo riconosciuti e garantiti,
soprattutto mediante l’eliminazione degli ostacoli, che ne impediscono la
fruizione, com’è il caso delle unioni civili, stando ai pronunciamenti della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione e
persino della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
In secondo luogo: la politica governativa rivendica quotidianamente d’essere
protagonista d’una luminosa e florida stagione di riforme e di diritti sociali
e civili, con attenzione particolare alle classi più indifese e meno abbienti.
La realtà, però, mostra un Esecutivo piuttosto timido, sempre disponibile ad
accordi minimali, pur di poter sostenere di “aver fatto” qualcosa e di aver
realizzato con i fatti riforme dai predecessori sempre annunciati e subito
dimenticati.
Mancando di lungimiranza politica e non avendo la
cultura del rispetto di tutte le minoranze (anche se scomode), il Governo in
carica rischia di rimanere ostaggio di compromessi, che sfociano con certezza
in controversie e rancori. Ed è il caso della legge sulle unioni civili da poco
approvata. Infatti, lo stralcio dell’adozione dei figli del partner probabilmente
dimostra capacità di mediazione politica, ma certamente testimonia mancanza di audacia
ed energia governativa. I campi della scienza, della morale e della politica
sono e debbono rimanere intrinsecamente separati. Ciò che scientificamente è
possibile, non è automaticamente lecito in morale, né la politica deve rimanerne
succube. L’adozione del figlio (ovviamente già in vita) del partner non ha
nulla a che fare con altre pericolose immorali pratiche riproduttive che si
chiamano in causa più o meno in buona fede. Tocca, quindi, alla politica mostrare
il coraggio di definire con rigore ogni ambito, sbarrando ogni abuso e
smascherando ogni furbizia. Il riconoscimento e l’affermazione di nuovi diritti
pesano sull’ordine sociale esistente, ridistribuiscono poteri, rimodulano
princìpi e norme. A chi governa il compito di produrre norme tempestive e
chiare: a ogni minore esistente deve
garantirsi il diritto di una vita degna d’ogni uomo; è veramente doveroso,
allora, svelare l’ipocrisia, con cui si giustifica lo stralcio concordato e
accettato sulle adozioni del figlio del partner, chiamando in causa l’interesse
dei minori, i quali, invece, resteranno vittime d’una sopraffazione, che è vera
riesumazione della discriminazione tra figli legittimi e figli nati fuori dal
matrimonio, civilmente e felicemente eliminata quarant’anno fa.
Indubbiamente
la società è una struttura complessa e articolata, nella quale i singoli
individui, inserendosi in sistemi relazionali già preesistenti e consolidati,
operano ciascuno secondo la propria posizione e il proprio ruolo, al fine di perseguire
il soddisfacimento di ben definiti bisogni comuni, pianificati nelle
istituzioni. Tuttavia, la società umana non è qualcosa di astratto e ideale, ma
una realtà storica concreta, costituita da generazioni umane diverse che convivono,
si susseguono e si rinnovano; per questo essa si pone e si realizza come un
organismo vivente e in continuo divenire, che si modifica perennemente, progredisce
con gradualità sia materialmente che moralmente, salvaguardando ciò che in essa
è e resta oggettivamente valido per tutti e acquisendo, nello stesso tempo,
ogni novità utile e positiva per l’intera comunità. Considerare la società
diversamente, come un insieme di strutture stabilite una volta per tutte e immutabili,
significherebbe mitizzarla o addirittura deificarla, illudendosi di poter
contenere e costringere nei suoi archetipi i sempre nuovi insorgenti dinamismi
della vita sociale. La solidità e la stabilità d’una società si fondano, pertanto,
sulla sua reale capacità di operare con rinnovata efficacia e con continuità, al
fine di produrre risultati apprezzabili e vantaggiosi per tutti.
Questo
dinamismo intrinseco d’ogni società provoca continui movimenti per il riconoscimento
di nuovi diritti richiesti per la soddisfazione di nuovi bisogni o di singoli o di gruppi. E non
è un’operazione sempre facile e indolore. Talora, infatti, è un processo che richiede
la demolizione di modelli culturali saldamente consolidati oppure esige
l’ammissione almeno giuridica di istituti, che contrastano col senso comune dominante.
In questo caso c’è bisogno di una prudente negoziazione socio-culturale, con
cui si armonizzi gradualmente l’esistente con il nuovo, giustificando ragionevolmente
e adattando cautamente le rispettive categorie mentali e morali.
E’
l’odierno caso italiano del riconoscimento dei diritti delle cosiddette unioni
civili, che coinvolgono la visione degli istituti della famiglia e del
matrimonio, oltretutto già acquisiti nostra Carta costituzionale del 1946 con i
mutamenti sostanziali e rivoluzionari per quei tempi. Infatti, con
il dettato dell’articolo 29, concordato dopo un lungo confronto e serrate
discussioni tra i costituenti, fu eliminato il ruolo assolutamente maschilista
ed egemone del padre di famiglia e riconosciuta la pari dignità morale e
giuridica della madre di famiglia, rendendo la comune genitorialità unica responsabile
del rispetto verso l’eventuale figliolanza. Ovviamente l’istituto del
matrimonio e la concezione di famiglia ne
rimasero talmente coinvolti e trasformati che tuttora non è agevole stabilire chi
e che cosa ne fondano la legittimità: se la filiazione legittima o la fedeltà
reciproca o l’indissolubilità del legame o gli aspetti patrimoniali, considerato
che l’adozione del divorzio e della separazione dei beni hanno svuotato il contenuto
di queste categorie. Da ciò consegue chiaramente che l’istituto socio-giuridico
del matrimonio non corrisponde più a una categoria ben definita, per cui non è
impossibile, ma si può e si deve trovare la soluzione giusta ed equilibrata che
consenta anche la legittimazione giuridica d’un legame socio-affettivo tra due
persone, che ne facciano richiesta, nel rispetto del dettato dell’articolo 3
della Costituzionale, cioè nel rispetto della “pari dignità sociale e
l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza distinzione di
sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali”.
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