Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

lunedì 23 maggio 2016

A ISTANBUL IL VERTICE UMANITARIO MONDIALE

Dalle pagine dell' Osservatore Romano già due giorni fa Fausta Speranza annunciava - con lo scritto che proponiamo nella sua interezza - la celebrazione dell'evento che oggi sta realizzandosi a Istanbul.
"L'impegno per la pace" tra gli uomini e tra le nazioni, da mettere in atto con i fatti e non con le parole, da parte dei responsabili religiosi e politici, senza dimenticare la necessità di svegliare la coscienza e la responsabilità  di ciascuno, come appartenente al genere umano e, quindi, indiscusso corresponsabile.  

"Seimila partecipanti, tra cui cinquanta leader mondiali. Prende il via, lunedì 23 maggio a Istanbul il primo vertice umanitario mondiale, voluto dal segretario generale dell’Onu, Ban-Ki-moon. Per due giorni, nella capitale turca si riuniranno rappresentanti di governi, agenzie per gli aiuti umanitari, comunità colpite, società civile e settore privato.  

Parteciperà anche la delegazione della Santa Sede presieduta dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, della quale faranno parte l’osservatore permanente presso le Nazioni Unite a New York, arcivescovo Bernardito Auza, e l’osservatore permanente presso l’ufficio delle Nazioni Unite ed Istituzioni specializzate a Ginevra, arcivescovo Silvano Tomasi.  

Lo scenario è drammatico e noto. Ogni giorno, le cronache parlano di nuove vittime della violenza. Su dieci, nove di queste sono civili. E sono centoventicinque milioni le persone direttamente coinvolte in questa vera e propria guerra mondiale a pezzi.  

L’obiettivo ultimo della mobilitazione che ha portato al vertice è, in sostanza, tutelare l’umanità, mettendo in campo una cooperazione davvero mondiale. Dalle guerre più diverse ai disastri ambientali più dimenticati. Lo scopo è ambizioso e i piani di azione sono innumerevoli e complessi.  

Le leggi internazionali non mancano ma il punto è «far rispettare le norme che tutelano l’umanità», come è scritto nel titolo di una delle tavole rotonde. Oggi le guerre, che restano comunque drammatiche, sono asimmetriche, senza una contrapposizione precisa di eserciti o schieramenti di forze, e troppo spesso non c’è rispetto dei più basilari principi dei regolamenti internazionali.  

In tema di umanità, un presupposto è fondamentale, anche se troppo spesso dimenticato. È l’idea che, per parlare di umanità nel suo complesso, nessuno debba essere lasciato indietro. Da qui, il dovere di assicurarsi che sempre meno persone siano penalizzate da un’economia globale che non conosce sostenibilità. 

C’è poi una tavola rotonda dedicata a un tema sintetico quanto essenziale: ridurre i rischi. Infine, il dibattito che appare più concreto di tutti, quello su come aumentare i finanziamenti.  

L’appello, che emerge già prima del summit, arriva anche alle religioni e nello stesso tempo è lanciato proprio dalle religioni. A Istanbul infatti ci sarà un dibattito speciale proprio sull’impegno delle confessioni religiose. 

 C’è un antefatto: in vista del vertice umanitario mondiale, un anno fa, a Ginevra, i rappresentanti di quattro religioni hanno partecipato alla giornata di dibattito dedicata proprio al ruolo speciale svolto dalle istituzioni e organizzazioni religiose nelle zone di conflitto. All’incontro, promosso dall’Ordine di Malta, hanno partecipato cristiani, musulmani, ebrei, buddisti. 

In quell’occasione Jemilah Mahmoud, per anni medico in prima fila in vari conflitti e scelto da Ban Ki-moon per guidare il team internazionale di preparazione del vertice di Istanbul, ha ricordato che le organizzazioni a carattere religioso assicurano la maggior parte dell’assistenza umanitaria da cui attualmente nel mondo dipendono, per la stretta sopravvivenza, ben ottanta milioni di persone. Le organizzazioni religiose sono spesso le prime a intervenire sul campo nelle situazioni di emergenza umanitaria e per questo godono della fiducia delle comunità locali. Un’altra caratteristica fondamentale è che il loro arrivo non è legato a interessi politici.  

Ma anche i leader religiosi hanno un obiettivo preciso da raggiungere, lavorandoci molto. Ed è far sì che tutti si impegnino a giocare un ruolo nella battaglia contro i fondamentalismi. 

Più in generale, da parte dei leader politici, è necessaria una doverosa assunzione di responsabilità affinché cooperazione faccia rima con riconciliazione, e perché l’impegno all’assistenza proceda di pari passo con un impegno serio per la pace". (Fausta Speranza)

venerdì 29 aprile 2016

DEMOCRAZIA E CAPITALISMO INDUSTRIALIZZATO TRA OTTIMISMO (IDEALE) E NICHILISMO (REALE)

Pubblicato su Affaritaliani il 10 aprile 2016

“Corrono brutti tempi” è la sensazione dominante, tra stupore e incredulità, appena si dà uno sguardo alle realtà sociali e politiche dei nostri giorni. Viene subito in mente l’indignazione con cui duemila anni fa il console Cicerone, seriamente preoccupato, lamentava l’andamento delle cose nella Repubblica romana del suo tempo, inquinata dalla corruzione devastante, dallo smarrimento dell’etica pubblica e dalla perdita dei valori morali a ogni livello. 

“Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico” accusava, da parte sua, Herbert Marcuse, quando mezzo secolo fa analizzava e descriveva le condizioni reali di vita nelle attuali società industrializzate, anche se guidate da governi che si designano come democratici. In essi, infatti, risaltano alcune caratteristiche dannose: manipolazione della verità, usurpazione della libertà individuale, baratto dei valori fondativi la democrazia, lotta smodata per scalare il potere, insaziabili ambizioni di benessere e di accumulo di ricchezze. Tutto abilmente camuffato da allettanti promesse di crescita generale sicura e godibile da tutti. 

Grazie, poi, ai rapidi processi industriali, alle enormi conquiste scientifiche e tecnologiche sempre più efficienti, l’uomo viene fatto sentire padrone della natura, e, disponendo di sempre più veloci mezzi di comunicazione, viene fatto illudere d’essere ormai divenuto l’invincibile dominatore dell’universo e di tutti i meccanismi della vita, compresa quella umana. Per poi, però, farlo ritrovare di fatto inadeguato alle nuove situazioni e sprovvisto delle capacità necessarie per l’enormità della sfida da affrontare. Con gravi imprevedibili conseguenze per gl’individui e le collettività. Non a caso negli stessi anni Hans Jonas proponeva la nuova formulazione dell’imperativo categorico kantiano: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla terra”. 

A questo punto s’impone la necessità d’una riconsiderazione dell’intero modello culturale dell’attuale società industrializzata: proposto come fondato sulla verità, proclamato come salvaguardia di libertà e come garanzia d’innovazione e di futuro, nella realtà significa, però, soltanto liberismo e capitalismo, in cui sono proprio la verità, la libertà e l’equità che, benché ammesse formalmente, nella realtà rimangono del tutto esautorate e annichilite, tanto che non c’è alcun posto né per una verità oggettiva, né per un comune senso morale riconoscibile, né per un’etica pubblica cogente e condivisibile. Infatti, nel capitalismo industrializzato è possibile affermare e negare indifferentemente ogni cosa, in qualunque tempo; di conseguenza, solo il “nichilismo” (da dottrina filosofica divenuta categoria sociale) rimane l’unica visione in grado di sorreggere e avallare i contenuti e le implicanze del liberismo e del capitalismo, che s’arrogano il potere di elaborare e imporre soltanto le norme che si dànno da soli, in quanto devono essere atte a promuovere sempre e solo gli interessi del libero mercato e a inseguire gli umori variabili dell’offerta-domanda, assecondando la logica dominante della “volontà di potenza”. E fidando, naturalmente, nell’intervento salvifico della “mano invisibile”, che tutto adatta e tutto seleziona in una dinamicità interattiva.  

Le proposte alternative non saranno certamente né la rassegnata accettazione né il radicale violento rifiuto: sarebbero risposte entrambe utopiche e inconcludenti, e aggraverebbero ulteriormente la situazione. E’ necessario, invece, analizzare la vera natura delle cause che conducono ai risultati umanamente negativi e socialmente inaccettabili. Ora, davanti a noi si presenta un quadro sociale e culturale caotico: c’è una confusione generale dei princìpi, che causa un pericoloso rovesciamento dei valori reali. Infatti, mentre da ogni parte si ribadiscono la centralità dell’uomo e la dignità della persona, invece s’assiste a realtà di sfruttamento disumano, di disuguaglianze e di ingiustizie talmente gravi e offensive da far scrivere all’ONU giovedì scorso (7 aprile) dall’attuale Papa: “La grave questione della schiavitù moderna e del traffico di esseri umani continua a essere una piaga in tutto il mondo” da ritenersi un vero e proprio “crimine contro l’umanità”. A porre ordine e a tentare di sanare le disumane condizioni delle nostre società cosiddette avanzate è necessario che lo scopo ultimo ritorni a essere l’Umanità in tutte le sue dimensioni, e i mezzi siano gestiti come mezzi. Soltanto quando non sarà dimenticata la dignità d’ogni persona e si daranno i dovuti riconoscimenti a coloro che il capitalismo ha reso emarginati e ridotto a utili strumenti di produzione-consumo, allora si può ragionevolmente sperare che le società saranno comunità di individui dello stesso genere e della medesima dignità: ognuno fine ultimo della vita e non ridotto a mezzo di ricchezza economica o di potere politico.

Occorre mettere in atto ogni possibile iniziativa, per impedire il diffondersi d’una coscienza palesemente falsa e promuovere la formazione d’una coscienza umana autentica: ossia, uscire dagli interessi immediati e privati e mirare e tutelare i diritti reali della società intera. Bisogna cominciare dal prendere atto quanto sia deleterio per tutti, anche per le stesse imprese e gli stessi governi, concentrarsi soprattutto sulla creazione di profitti. Già quattro secoli fa nella “Nuova Atlantide” (1626) Francesco Bacone insisteva sulla necessità di un'organizzazione di ricerca coordinata tra “sapienti”; in essa nutriva concreta fiducia per un progresso scientifico e tecnico a dimensione umana e tratteggiava il disegno d’una società del futuro amministrata e governata grazie al dominio della scienza e della ricerca da parte dell’umanità: gli scienziati – in proficua leale collaborazione con i governanti delle nazioni - saranno quei “mercanti della luce”, che divulgheranno ogni scoperta e ogni conquista in tutte le parti del mondo, perché la Terra è di tutti e nessuno può essere escluso dalla fruizione del progresso. Ma un patto: che il vero fine sia “la conoscenza delle cause e dei segreti movimenti delle cose per allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo”, e non l’asservimento dell’Umanità e della Natura sotto la schiavitù dell’egoismo e delle passioni.  

Utopia? Forse. Ma Kant ha dimostrato abbondantemente l’energia e la potenza delle idee: mete da non perdere mai di vista, ma a cui guardare costantemente come fari di luce, per un cammino sicuro e umanamente degno verso le Altezze della libertà e della giustizia. Senza ideali, cui tendere con umana ma incrollabile speranza, l’uomo “si fa vivere” dai flussi incontrollati della storia e del mondo: da attore o co-attore protagonista della storia si riduce a insignificante comparsa sulla scena del teatro dl mondo.




martedì 22 marzo 2016

PARTITI POLITICI: “MUTAZIONE GENETICA” O DETERIORAZIONE ETICO-GIURIDICA?


Su Il Foglio di giovedì scorso 17 marzo è stata proposta ai lettori un’interessante e articolata “chiacchierata con Giuliano Amato”, in cui l’ex premier e attuale giudice della Corte Costituzionale propone un’analisi delle vicende dei partiti politici nelle attuali situazioni sia dell’Italia e sia di altre parti del mondo; analisi in parte condivisibile, ma in parte suscettibile di osservazioni e di necessarie puntualizzazioni. E’ indubbio, infatti, che le società umane – proprio perché umane - mutano, che le generazioni si susseguono con caratteristiche proprie sempre nuove, che gli ordinamenti etici s’aggiornano, le istituzioni s’adeguano e, quindi, l’evoluzione anche dei partiti politici non è “né buona né cattiva: è semplicemente inevitabile, è l’unico modo per andare avanti”. 

L’insigne giurista parte da un dato oggettivo inconfutabile: in Italia e in altre nazioni europee (e non solo) si moltiplicano formazioni politiche nuove, s’assiste a inarrestabili travasi da uno schieramento all’altro, si stringono ibridi connubi fra forze antagoniste, divenute d’un tratto associate nella gestione del potere: sempre, ovviamente, con la dichiarazione di voler solo contribuire alla soluzione di problemi di “economia, di politica estera e di riforme costituzionali”. Tradotto in termini più espliciti: nell’attuale realtà politica delle Nazioni e degli Stati è ormai impossibile pensare a vecchi o nuovi partiti maggioritari oppure sperare in qualche coalizione pluripartitica stabile, cui affidare il governo. Non c’è posto, dunque, per un “centro di governo”, ai cui lati si collocano una “destra” e una “sinistra” minoritarie e destinate al loro ruolo insostituibile di opposizione critica e costruttiva. Il partito politico, pertanto, non è né può essere più quello previsto dall’articolo 49 della Costituzione italiana, ma diventa quello che, captando gli umori  delle varie fasce sociali del momento, propaganda progetti e promette riforme “buone”, mirando però all’incremento del proprio numero di elettori che andranno a votare. Calcoli, quindi, d’interesse partitico a beneficio solo di una parte  e, perciò, avulsi dal bene comune e indifferenti ai valori umani sottesi e alle finalità sociali da perseguire. 

E’ un’analisi improntata a trasformismo governativo e a pragmatismo politico, legittimi e rispettabili, ma che suscitano alcune perplessità riguardo soprattutto due punti. In primo luogo, infatti, è necessario stabilire quali sono – sempre e comunque – la ragion d’essere, la natura e il ruolo del partito politico in una repubblica democratica. Bisogna stabilire se esso è la risultante del libero e responsabile “concorso dei cittadini con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (articolo 49 della Costituione) oppure il risultato variabile e transitorio dei giochi tra i capi-partito. Preoccupano gli spettacoli quotidiani, in cui s’è costretti a confermarsi nella convinione che i partiti odierni mirano solo a imporsi contro tutto e contro tutti, attenti esclusivamente a demolirsi reciprocamente; e, quando lo spettacolo è meno indegno, appaiono sempre più inequivocabili due livelli sociali ben separati tra di loro: quello dei cosiddetti leaders che si denigrano, scommettendo a chi offende di più, e quello del popolo laborioso e serio, ormai disincantato e del tutto disinteressato alle umilianti e sconcertanti beghe partitiche. E’ necessario chiarire, quindi, se i partiti politici – nelle loro oggettive “mutazioni genetiche” storiche – si trasformano per la spinta di nuove esigenze del bene comune oppure vengono costruiti per calcoli settoriali e con tatticismi di dominio di alcuni settori, del tutto estranei ai problemi dei cittadini. 

In secondo luogo sembra necessario intendersi su cosa siano “centro, destra e sinistra” nella vita politica d’una repubblica democratica, intesa come potere del popolo, da parte del popolo, per il raggiungimento di finalità di bene comune. Tradotto in vita pratica, la democrazia è il “vivere insieme” nel rispetto della giustizia sociale e nella salvaguardia della libertà individuale e collettiva. Senza assiduo, attento e leale ascolto del popolo si rischia di “proporre e imporre” modelli di giustizia e di libertà forse belli e affascinanti, ma non aderenti alla realtà del popolo in un determinato momento storico e con particolari problematiche etiche e sociali. La vita politica veramente efficace ha bisogno di un “centro” inteso come punto di saggia e coraggiosa onvergenza delle istanze della “destra” e della “sinistra”, che, se lasciate in balìa di se stesse, la prima rimane puro cinismo (che può giungere a detestare la giustizia sociale e a svilire alcuni sentimenti umani) e la seconda si rifugia in un puro irrealismo (che – secondo l’insegnamento di Rousseau – preferisce sempre “ciò che non è a ciò che è”). 

Per quest’opera di mediazione culturale e politica essenziale la democrazia ha bisogno dei suoi tempi e dei suoi ritmi, che vanno sempre e comunque rispettati da chiunque sia chiamato al compito di governare. Solo così si governa in nome e per conto di tutti i cittadini, qualunque sia la loro fede politica. I cittadini, da parte loro, vanno necessariamente “educati alla politica” quale loro dovere di solidarietà pubblica, per divenire attori e protagonisti di politica e non rimanere individui “governati” perché bisognosi di guida e di sostegno. E il luogo naturale, dove i cittadini possono educarsi politicamente e agire attivamente nella società, è il partito politico. Non quello, però, mutato in associazione di interessi settoriali e privati a sostegno di precarie e mutevoli oligarchie partitiche, bensì come formazioni libere e animate da ideali ed energie sempre nuove e disponibili a ogni mutamento richiesto da realtà oggettive. Diversamente molti cittadini s’appartano, ma non per negligenza politica o insensibilità etica, bensì per salvaguardare la loro lucidità razionale e la loro libertà di pensiero: per proteggere, cioè, la propria dignità umana dalle insidie d’una politica ridotta a furbizia messa al servizio delle passioni di alcuni.

giovedì 17 marzo 2016

TEMPO DI DIRITTI E FORZA DELLA POLITICA

Pubblicato in Affaritaliani il 02.03.2016

Nelle ultime settimane s’è assistito in Italia a fatti veramente significativi, che hanno suscitato stupore e preoccupazione insieme. Mentre, infatti, in due diverse piazze numerosi cittadini esprimevano le ragioni e rivendicavano i diritti di due diverse concezioni di famiglia e di matrimonio, e mentre nella propria Aula Legislativa i senatori della Repubblica discutevano per raggiungere un accordo e legiferare al meglio sul riconoscimento dei diritti delle unioni civili omo ed eterosessuali, i capi dei partiti politici moltiplicavano e diversificavano la propria posizione, mutandone spesso, e talora anche sostanzialmente, le conclusioni, palesemente più motivati da tatticismi di carattere elettorale che guidati da fedeltà a valori morali e coerenza con principi giuridici. Salomonicamente è intervenuto il Governo, il Potere Esecutivo. Forse s’allungavano i tempi, di certo c’era la dichiarata incomprensibile urgenza di “portare a casa” anche questa legge: e allora, con l’arma della questione della fiducia, estorceva ai legislatori l’approvazione della “sua buona legge”, che doveva leggersi come “fatto storico”, in quanto venivano finalmente “concessi diritti alle coppie omosessuali che prima non avevano”; si tagliava, quindi, un “traguardo importante”, dato che era una “legge molto complessa e difficile, perché tocca le sensibilità di ogni parlamentare e che viene approvata dopo due anni e mezzo di discussione”.


Premesso che venivano riconosciuti i diritti delle “unioni civili” e, quindi, non solo delle “coppie omosessuali”, ma anche di quelle eterosessuali, eliminando finalmente la discriminazione anticostituzionale fatta sull’orientamento sessuale, s’impongono almeno due osservazioni. In primo luogo: i “diritti” non vengono mai concessi da alcun potere democratico, ma debbono essere da esso solo riconosciuti e garantiti, soprattutto mediante l’eliminazione degli ostacoli, che ne impediscono la fruizione, com’è il caso delle unioni civili, stando ai pronunciamenti della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione e persino della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In secondo luogo: la politica governativa rivendica quotidianamente d’essere protagonista d’una luminosa e florida stagione di riforme e di diritti sociali e civili, con attenzione particolare alle classi più indifese e meno abbienti. La realtà, però, mostra un Esecutivo piuttosto timido, sempre disponibile ad accordi minimali, pur di poter sostenere di “aver fatto” qualcosa e di aver realizzato con i fatti riforme dai predecessori sempre annunciati e subito dimenticati.

Mancando di lungimiranza politica e non avendo la cultura del rispetto di tutte le minoranze (anche se scomode), il Governo in carica rischia di rimanere ostaggio di compromessi, che sfociano con certezza in controversie e rancori. Ed è il caso della legge sulle unioni civili da poco approvata. Infatti, lo stralcio dell’adozione dei figli del partner probabilmente dimostra capacità di mediazione politica, ma certamente testimonia mancanza di audacia ed energia governativa. I campi della scienza, della morale e della politica sono e debbono rimanere intrinsecamente separati. Ciò che scientificamente è possibile, non è automaticamente lecito in morale, né la politica deve rimanerne succube. L’adozione del figlio (ovviamente già in vita) del partner non ha nulla a che fare con altre pericolose immorali pratiche riproduttive che si chiamano in causa più o meno in buona fede. Tocca, quindi, alla politica mostrare il coraggio di definire con rigore ogni ambito, sbarrando ogni abuso e smascherando ogni furbizia. Il riconoscimento e l’affermazione di nuovi diritti pesano sull’ordine sociale esistente, ridistribuiscono poteri, rimodulano princìpi e norme. A chi governa il compito di produrre norme tempestive e chiare:  a ogni minore esistente deve garantirsi il diritto di una vita degna d’ogni uomo; è veramente doveroso, allora, svelare l’ipocrisia, con cui si giustifica lo stralcio concordato e accettato sulle adozioni del figlio del partner, chiamando in causa l’interesse dei minori, i quali, invece, resteranno vittime d’una sopraffazione, che è vera riesumazione della discriminazione tra figli legittimi e figli nati fuori dal matrimonio, civilmente e felicemente eliminata quarant’anno fa.

Indubbiamente la società è una struttura complessa e articolata, nella quale i singoli individui, inserendosi in sistemi relazionali già preesistenti e consolidati, operano ciascuno secondo la propria posizione e il proprio ruolo, al fine di perseguire il soddisfacimento di ben definiti bisogni comuni, pianificati nelle istituzioni. Tuttavia, la società umana non è qualcosa di astratto e ideale, ma una realtà storica concreta, costituita da generazioni umane diverse che convivono, si susseguono e si rinnovano; per questo essa si pone e si realizza come un organismo vivente e in continuo divenire, che si modifica perennemente, progredisce con gradualità sia materialmente che moralmente, salvaguardando ciò che in essa è e resta oggettivamente valido per tutti e acquisendo, nello stesso tempo, ogni novità utile e positiva per l’intera comunità. Considerare la società diversamente, come un insieme di strutture stabilite una volta per tutte e immutabili, significherebbe mitizzarla o addirittura deificarla, illudendosi di poter contenere e costringere nei suoi archetipi i sempre nuovi insorgenti dinamismi della vita sociale. La solidità e la stabilità d’una società si fondano, pertanto, sulla sua reale capacità di operare con rinnovata efficacia e con continuità, al fine di produrre risultati apprezzabili e vantaggiosi per tutti.

Questo dinamismo intrinseco d’ogni società provoca continui movimenti per il riconoscimento di nuovi diritti richiesti per la soddisfazione di  nuovi bisogni o di singoli o di gruppi. E non è un’operazione sempre facile e indolore. Talora, infatti, è un processo che richiede la demolizione di modelli culturali saldamente consolidati oppure esige l’ammissione almeno giuridica di istituti, che contrastano col senso comune dominante. In questo caso c’è bisogno di una prudente negoziazione socio-culturale, con cui si armonizzi gradualmente l’esistente con il nuovo, giustificando ragionevolmente e adattando cautamente le rispettive categorie mentali e morali.

E’ l’odierno caso italiano del riconoscimento dei diritti delle cosiddette unioni civili, che coinvolgono la visione degli istituti della famiglia e del matrimonio, oltretutto già acquisiti nostra Carta costituzionale del 1946 con i mutamenti sostanziali e rivoluzionari per quei tempi. Infatti, con il dettato dell’articolo 29, concordato dopo un lungo confronto e serrate discussioni tra i costituenti, fu eliminato il ruolo assolutamente maschilista ed egemone del padre di famiglia e riconosciuta la pari dignità morale e giuridica della madre di famiglia, rendendo la comune genitorialità unica responsabile del rispetto verso l’eventuale figliolanza. Ovviamente l’istituto del matrimonio e la concezione di famiglia  ne rimasero talmente coinvolti e trasformati che tuttora non è agevole stabilire chi e che cosa ne fondano la legittimità: se la filiazione legittima o la fedeltà reciproca o l’indissolubilità del legame o gli aspetti patrimoniali, considerato che l’adozione del divorzio e della separazione dei beni hanno svuotato il contenuto di queste categorie. Da ciò consegue chiaramente che l’istituto socio-giuridico del matrimonio non corrisponde più a una categoria ben definita, per cui non è impossibile, ma si può e si deve trovare la soluzione giusta ed equilibrata che consenta anche la legittimazione giuridica d’un legame socio-affettivo tra due persone, che ne facciano richiesta, nel rispetto del dettato dell’articolo 3 della Costituzionale, cioè nel rispetto della “pari dignità sociale e l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.


domenica 6 marzo 2016

“LEZIONE” DAL PASSATO PER UN “RIFORMISMO NON IDEOLOGICO”


Un antichissimo adagio recita: la storia è maestra di vita. Qualcuno, per esperienza o per burla, lo traduce: la storia  ha insegnato e insegna che gli uomini da essa non hanno imparato e non vogliono imparare mai nulla. Considerando, infatti, come viene considerato, giudicato e rispettato il passato, sia nei suoi aspetti negativi che nei suoi apporti positivi, non si può negare che la storia, da scrigno prezioso di saggezza e di esperienza, è trattata spesso come vecchio ripostiglio ingombro di oggetti inutili e spesso di ostacolo. Si valutano, pertanto, e si esaltano progetti futuribili belli e accattivanti, ma che sembrano spesso sradicati dalla realtà concreta, più volatili delle radici aeree. Progetti, tuttavia, che, se validamente sostenuti da  responsabile disponibilità a fruire - come si sostiene nell’articolo allegato -  di “ competenze che ci sono e attingendo al capitale inestimabile dell’esperienza in casa e fuori”, sarebbero veramente conquiste di valori umani e di traguardi di sviluppo sociale.

Nel “Domenicale” de Il Sole24Ore di qualche settimana fa è apparso uno scambio di corrispondenza tra Adolfo Battaglia e Roberto Napoletano dal titolo “La lezione italiana di un riformismo non ideologico”. I toni eloquentemente pacati, i contenuti esposti con sintesi magistrale, il suggerimento a riflettere e a nutrire una qualche pur timida speranza, fanno dello scritto qualcosa che merita d’essere letto,. E soprattutto d’accettarne la “lezione”

Lettera di Adolfo Battaglia

Caro Direttore,
la sua nota sul senso e l’importanza dello schema Vanoni pubblicata nello scorso Domenicale ha il raro merito di puntualizzare la trama politico-culturale che la nostra storiografia normalmente trascura e che è invece uno dei pochi pilastri solidi su cui si è retto lo Stato repubblicano per alcuni decenni. Nella concretezza del riformismo italiano stanno certamente uomini e forze dalle posizioni per tanti altri versi differenti. E accanto a De Gasperi, Einaudi, Vanoni, Saraceno, Ugo La Malfa, Ciampi vengono anche i Menichella, i Siglienti, i Cosciani, i De Gennaro, i Visentini, i Giordani; e perfino, in tempi differenti e per obiettivi differenziati, Fanfani e Moro, che realizzeranno in verità i due soli governi realmente riformatori avutisi in cinquant’anni (in ambedue, vedi caso, aveva un peso La Malfa).

Quella linea richiama senza dubbio alla dirigenza dell’IRI e della Banca d’Italia negli anni ’30-60; ma anche al grande turmoil keynesiano, generatore delle esperienze riformatrici americane e nord-europea. In Italia, occorrerebbe ripensare a Beneduce, al Nitti di inizio secolo, alla comprensione della struttura economico sociale moderna che fu nel ’24-26 dell’ultimo Amendola, fino al “Socialismo liberale” di Rosselli. La storiografia ha difficoltà a compiere un salto che implica la visione di una linea del riformismo italiano a prescindere da posizioni e da ideologie dei partiti. È un fatto invece che quella linea esiste ed è esistita nella concretezza delle opere di governo, come il portato di un sentimento democratico, e di una cultura economica largamente comune, aldilà di ogni teoria generale. Ed è sull’aggiornamento e sulla innovazione di quella trama riformatrice che le presidenze di Carlo Ciampi e di Giorgio Napolitano sono riuscite a salvare il Paese. Pensa che sarebbe male se oggi l’opera di governo si ispirasse di più a una tradizione così ricca? Adolfo Battaglia

Risposta di Roberto Napoletano


Adolfo Battaglia rivela i segni della sua storia politica repubblicana, dimentica qualcuno tra gli uomini del fare del miracolo economico italiano, penso a Gabriele Pescatore, e loda a ragione come riformatori i governi Fanfani e Moro di “impronta lamalfiana”, ben distanziati tra di loro, ma dimentica ciò che di buono è venuto ancora un bel po’ dopo: la stagione della politica dei redditi dell’esecutivo Ciampi e il primo governo Prodi che vinse la battaglia dell’euro, entrambi vanno di diritto considerati dentro quell’alveo di riformismo non ideologico che ha dimostrato di saper coniugare visione politica e buona amministrazione, di fare le cose, custodendo negli anni i cromosomi delle persone perbene e lo spirito forte della Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa.

Soprattutto Battaglia ha ragione da vendere quando chiede al governo Renzi, che dimostra coraggio politico e capacità di azione ma eccede a volte in semplicismi e sicurezze di risultato, di attingere al capitale di valori della tradizione di governo più bella e ricca del Paese. Negli anni della ricostruzione e del miracolo economico italiano intelligenza tecnica, riformismo cattolico e cultura laica si seppero intrecciare positivamente e riuscirono a trasformare un Paese agricolo di secondo livello prima in un’economia industrializzata poi in una potenza economica mondiale. I De Gasperi, i Fanfani nell’età dell’oro italiana non rinunciarono mai al capitale della esperienza e della competenza, vollero intorno a sé uomini del fare del calibro di un Menichella, che come governatore della Banca d’Italia fece vincere alla lira l’oscar mondiale delle monete, e di un Pescatore, chiamato alla guida della prima Cassa del Mezzogiorno organizzata come un’agenzia americana di sviluppo, che tennero sempre fuori la politica dalle scelte di gestione, unirono le due Italie con gli acquedotti, le dighe e le strade, riuscirono a portare in casa i primi soldi esteri fino ad arrivare a raddoppiare il prestito Marshall. Per capire di che pasta erano questi uomini è sufficiente ricordare che quando andarono in America a raccogliere risorse per l’Italia, impresa che riuscì alla grande, si imposero di consumare un solo pranzo frugale al giorno perché nessuno potesse nemmeno pensare che erano andati a fare baldoria con i dollari che avrebbero dovuto raccogliere per contribuire a ridare una casa e un lavoro agli italiani.

Che cosa dire, poi, dei discorsi parlamentari di Ugo La Malfa quando metteva in guardia dai rischi di un eccesso di regionalismo che avrebbe moltiplicato i capi di gabinetto, i direttori di divisione e di sezione, avrebbe elevato al cubo le clientele e smarrito, di fatto, la capacità realizzativa, cioè, la qualità di fare le cose giuste con la velocità giusta? Quella storia di malaffare, profeticamente paventata dal “realismo visionario” di La Malfa, si verificò puntualmente, determinò quasi sempre la paralisi e si intrecciò, spesso, rovinosamente con un capitalismo lazzaronesco-feudale e una politica corrotta. Le macerie di questa storia di immobilismo e di clientele sono arrivate fino ai nostri giorni: a decidere di fare un tentativo serio di rimuoverle, per la prima volta, è stato proprio il governo Renzi riformando il Titolo V con il suo carico di distorsioni e di corruzione. Ancora una volta la scelta compiuta è quella giusta, e ne va reso merito, ma perché si traduca poi in atti concludenti ci vogliono ancora un paio di passaggi e proprio lo spirito e l’orgoglio di quegli uomini che hanno scritto la trama politico-culturale del miracolo economico italiano, la stessa fame di fare e cambiare le cose e la stessa, identica, voglia di affrontare e risolvere i problemi senza un approccio ideologico, puntando a unire non a dividere, seguendo le competenze che ci sono e attingendo al capitale inestimabile dell’esperienza in casa e fuori.


giovedì 3 marzo 2016

SENZA PARTITI (VERI) NON C’E’ POLITICA DEMOCRATICA (VERA)

Pubblicato su Affaritaliani il  23 febbraio 2016

Lo spettacolo che sta dando il mondo della politica italiana non è certo dei più esaltanti, anzi è di livello talmente deludente che spinge a riflessioni attente, per poter valutare oggettivamente e con responsabilità ogni circostanza. Infatti, sembra che regnino – sia nelle strutture partitiche sia negli organismi istituzionali legislativi e di governo – uno smarrimento generale e un’incontrollata frettosa premura di salvaguardare gli interessi di parte, probabilmente anche legittimi, ma certamente avulsi dalle reali esigenze del bene comune. 

Certo, come tutte le organizzazioni sociali, anche i partiti attraversano momenti di floridezza e momenti di fiacchezza, determinati o da infondate interpretazioni dei disagi della società o da inadeguatezza dei leader del momento oppure da comportamenti suggeriti più da tattica partitica che da strategia politica. Il malessere e il disagio aumentano, poi, allorquando i partiti giungono a occupare spazi pubblici non propri, fino a impadronirsi delle istituzioni e abusarne. Allora ne consegue la loro delegittimazione, smarrendo sempre di più il contatto vitale con i cittadini, i quali, non vedendone l’utilità, nutrono e accrescono i latenti sentimenti di antipolitica, fino al qualunquismo e all’assenteismo. S’impone, allora, l’urgenza di riannodare il legame società-politica-istituzioni, ricollocando ciascuno nell’alveo del proprio spazio, secondo le funzioni e i ruoli propri. Il problema non si risolve, però, riconoscendo e denunciando lo scollamento tra politica e base popolare. Devono, invece e in primo luogo, rinnovarsi i partiti, riconquistando la loro natura originaria, servendosi d’ogni mezzo nuovo messo a disposizione dall’evoluzione e dal progresso: cioè devono tornare ad essere aggiornati e validi strumenti di partecipazione dei cittadini e non costruzione di classi a loro ostili.


E i partiti politici, pur nella loro molteplicità talora eccessiva, sono insostituibili per una politica veramente democratica. Il popolo d’un Paese libero si munisce sempre di forme associative, mediante le quali vive e agisce nella vita politica da soggetto responsabile e attivo; così come è ovvio che ogni governo, che voglia essere democratico, esercita il potere nel rispetto morale e con l’ausilio delle rappresentanze sociali territoriali, prime fra tutte i partiti politici e le organizzazioni sindacali. Indubbiamente non mancano vie alternative per una partecipazione politica, ma i corpi territoriali intermedi, liberamente organizzati e abilmente diretti, garantiscono con maggiore efficacia molte opportunità, tra cui due veramente fondamentali: quella d’individuare decisioni concrete e pertinenti al bene comune e quella di preparare il ricambio della classe politica con soggetti validi e capaci. 


Questo è confermato dalla storia e sostenuto da studiosi esperti. Alla fine del primo conflitto mondiale, per esempio, il giurista James Bryce sostenne categoricamente: “Nessun grande paese libero è stato senza i partiti. Nessuno ha mostrato come un governo rappresentativo possa operare senza di essi. Essi creano l’ordine dal caos di una moltitudine di elettori”. E dopo le sciagure della seconda guerra mondiale, i nostri Padri Costituenti hanno stabilito concordemente: “L'Italia è una Repubblica democratica” (art, 1), per cui, dovendo “riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali” (art. 2), hanno riconosciuto ai cittadini il “diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale” (art. 18), concludendo con l’articolo 49, in cui hanno indicato i partiti politici come il luogo naturale dove i cittadini si riuniscono e si confrontano liberamente, “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. 

E’ nei partiti, quindi, che i cittadini elaborano liberamente idee proprie, lontani dal rischio di rimanere ostacolati o addirittura fuorviati da pericolosi giochi politici. Non pare, quindi, sia stato un gesto di pura formalità il richiamo che il Presidente Mattarella ha rivolto al Parlamento nel suo discorso d’insediamento: “La strada maestra di un Paese unito è quella che indica la nostra Costituzione, quando sottolinea il ruolo delle formazioni sociali, corollario di una piena partecipazione alla vita pubblica”. E, manifestando preoccupata attenzione al mutamento dei tempi, annotava che “la crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione”, divenuti ormai un forte ostacolo per il dispiegarsi delle energie del paese, per cui s’impone una riconsiderazione e una ristrutturazione delle rappresentane sociali e soprattutto dei partiti e delle forze sindacali.


E’ evidente che in Italia i partiti politici  attraversano ormai da qualche decennio una profonda crisi, mostrando sempre di più d’aver smarrito la ragion d’essere assegnata loro dalla Costituzione.  Da organizzazioni libere di cittadini liberi sono diventati associazioni d’interesse privato, sia elettorale sia economico e sia di potere; non operano più come laboratori di progetti d’interesse generale, ma come fucina di personalismi decisionisti; non vivono più come presidio di dialogo aperto tra cittadini benpensanti, ma come colonia di leader da ascoltare e ubbidire. Faticano a riconoscere e denunciare che la causa profonda della loro crisi è ancora più drammatica: è la loro intrinseca incapacità di darsi un ordinamento interno e un metodo di interconnessione reciproca, causata dalla sempre più massiccia personalizzazione del potere, incarnata nel leader del momento.


La personalizzazione dei partiti s’è rivelata ancor più incisiva, da quando il medesimo leader occupa la guida d’un partito (che ha compiti di progettazione e di programmazione) e nello stesso tempo presiede la massima istituzione del potere esecutivo (ovviamente controllandola). Con la legge 400 del 1988 l’Italia s’è dotata d’un Presidente del Consiglio dei Ministri con prerogative e competenze adeguate ai suoi poteri esecutivi; gradualmente, con successivi procedimenti di riforme sostanziali, la Presidenza del Consiglio è divenuto di fatto il fulcro operativo dell’attività dell’intero governo, sul piano sia organizzativo e sia legislativo. E’ utile ricordare, inoltre, che il rafforzamento dei poteri del Primo Ministro italiano ha coinciso con il progressivo spostamento di una vasta serie di funzioni normative dal Parlamento all’Esecutivo. E tutto ciò è avvenuto nei tempi della grave crisi dei partiti tradizionali, offrendo, così, ai Presidenti del Consiglio l’opportunità di servirsi d’ogni occasione per consolidare il partito d’appartenenza o di formarsene uno proprio. Ma il tempo scorre, e tutto o cambia o viene travolto: ogni assetto sociale, politico, istituzionale. La divisione dei poteri, la separazione tra governanti e governati, la diversità controllori e controllati non sono invenzioni astratte, ma insegnamenti concreti che la storia millenaria dell’umanità consegna ai nuovi tempi. Alla saggezza e all’onestà degli uomini farne buon uso.


giovedì 11 febbraio 2016

DON LORENZO MILANI PER UNA SCUOLA DEL DOMANI

Nella trasmissione odierna de “Il pane quotidiano”, condotta da Concita De Gregorio, è stato presentato il volume “L’uomo del futuro” (Mondadori), scritto da Eraldo Affinati, in cui l’Autore descrive alcune intuizioni e commenta l’opera di don Lorenzo Milani, il contestato “maestro” della Scuola di Barbiana e autore della Lettera a una professoressa del 1967.  “Avere il coraggio – vi scriveva con ardita convinzione il prete disubbidiente - di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni; che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio; che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto”.

Elisabetta Rosaspina, dalle colonne del Corriere della sera rimarcava lo straordinario lavoro dell’Affinati: “Se n’è andato per il mondo, a cercare tutti i don Milani - sostiene -. Tutti coloro che mettono in pratica quella lezione. Ma forse il fatto più sorprendente è che li abbia trovati davvero: a Benares, a Pechino, a Volgograd, in Gambia, a Città del Messico, a New York, a Berlino. E anche dentro se stesso; ma, questo, Eraldo Affinati tutt’al più lo lascia intendere”. E in verità Affinati - come è stato scritto - ha cercato l'eredità spirituale di don Lorenzo nelle contrade del pianeta dove alcuni educatori isolati, insieme ai loro alunni, senza sapere chi egli fosse, lo trasfigurano ogni giorno: dai maestri di villaggio, che pongono argini allo sfacelo dell'istruzione africana, ai teppisti berlinesi, frantumi della storia europea; dagli adolescenti arabi, frenetici e istintivi, agli italiani di Ellis Island, quando gli immigrati eravamo noi; dalle suore di Pechino e Benares, pronte ad accogliere i più sfortunati, ai piccoli rapinatori messicani, ai renitenti alla leva russi, ai ragazzi di Hiroshima, fino ai preti romani, che sembrano aver dimenticato, per fortuna non tutti, la severa lezione impartita dal priore”.

Don Milani ha anticipato tante idee, tanti avvenimenti - dichiara lo stesso Autore del volume. Lo si capisce guardando la sua foto con un bambino congolese in braccio, leggendo quanto aveva scritto nella sua Lettera a una professoressa. Oggi i ragazzi di Barbiana vengono dall’Africa, dal Medio Oriente. Lorenzo poteva immaginare che li avremmo accolti così? Sì, avrebbe potuto sospettarlo. Era l’uomo del futuro, soprattutto perché aveva sognato una scuola che oggi stentiamo ancora a realizzare, ma cui non possiamo rinunciare. È la scuola del maestro che si mette in gioco e guarda negli occhi il suo scolaro. Uno a uno. Irrealizzabile? No, ho viaggiato molto nelle scuole italiane e tanti professori lavorano così”.

Pensavano queste cose e in questo modo i governanti italiani nel programmare la “Buona Scuola”?

mercoledì 20 gennaio 2016

DRAMMATICA ATTUALITA’ DEL “MANIFESTO RUSSEL-EINSTEIN”

Pubblicato su Affaritaliani il 16.01.2016

 “Questo è, dunque, il problema che vi presentiamo - affermavano sessant’anni fa il filosofo Russel e lo scienziato Einstein -, è problema orrendo e terribile, ma non eludibile: metteremo fine al genere umano oppure l'umanità saprà rinunciare alla guerra? La gente non vuole affrontare questa dicotomia, perchè abolire la guerra è difficile”. Anche oggi, purtroppo, nonostante siano trascorsi sessant’anni ricchi di esperienze umane e di conquiste culturali, l’umanità si ritrova in situazioni ugualmente “orrende e terribili”. 

Alla metà del secolo scorso dominava paurosamente la “guerra fredda” e incombeva pericolosamente il rischio d’una guerra nucleare, che avrebbe devastato il pianeta terra e annichilito l’umanità intera. Nel marzo 1954, infatti, gli USA avevano sperimentato la potentissima bomba all’idrogeno, provocando una pioggia radioattiva vasta e micidiale. La BBC inglese, allora, invitò lo scienziato polacco Joseph Rotblat a evidenziare gli aspetti tecnici della bomba H insieme all’arcivescovo di Canterbury e al filosofo Bertrand Russell, che ne avrebbero discusso le implicazioni morali. Fu l’occasione perché ci si rendesse concretamente conto dell’enorme pericolo che incombeva sull’umanità intera. Russel partecipò le conclusioni del confronto ad altri intellettuali e fisici, tra cui Einstein, col quale concordò sull’opportunità di estendere a tutti la conoscenza del rischio, coinvolgendo soprattutto i maggiori responsabili della vita dei popoli e della salvaguardia della terra: il mondo dell’intellighenzia, i governanti, i pionieri dell’industria, i magnati dell’economia e della finanza.  Nacque il documento noto come “Manifesto Russel-Einstein”, ma che fu subito condiviso e sottoscritto anche da Max Born, Percy W.Blidgeman, Leopold Infeld, Frederic Joliot-Curie, Herman J. Muller, Linus Pauling, Cecil F. Powell, Joseph Rotblat e Hideki Yukawa. Il Manifesto fu pubblicato ufficialmente il 9 luglio 1955, proprio nel pieno della Guerra Fredda. 

Sono trascorsi ormai 60 anni, ma ancor oggi l’umanità corre gravi rischi di catastrofe umanitaria e di distruzione planetaria. Siamo nel pieno di quella che è stata definita a ragione “guerra mondiale a pezzi”, combattuta con armi sempre più potenti e impensabili, sino a trasformare esser umani in bombe vaganti. Una guerra “mondiale” perenne e disumana, che quotidianamente divora vite umane anche innocenti, devasta valori culturali faticosamente conquistati, schiaccia come un rullo compressore ogni sentimento proprio del genere umano. I potenti del mondo, i possessori delle ricchezze, i produttori e commercianti delle armi belliche, insieme ai governanti dittatoriali e tirannici (in qualche luogo persino sanguinari) si fanno trascinare dai loro propositi di forza e di prepotenza, divenendo sempre più insensibili agli strazi di esseri simili a loro, ma che conducono nel baratro della miseria e della morte, preludio di distruzione totale d’ogni civiltà. Fanno sospettare il peggio le rivalità, spesso mascherate ma sempre ugualmente forti e accese, tra Russia e Stati Unit d’America, tra Occidente e Medio Oriente, tra Paesi ricchi e Paesi poveri, tra Potenze consolidate e Potenze emergenti.  E non meno pericolosi sono le rivendicazioni e le azioni dei fanatismi di matrice religiosa. 

Non è fuor di luogo, quindi, rileggere e ripensare oggi quel “Manifesto Russel-Einstein”, meditandone responsabilmente alcuni passaggi significativi per la loro attualità.  

Il primo ammonimento lasciatoci in eredità è l’appello indirizzato al mondo della cultura, della ricerca, della scienza e della tecnologia. Gli intellettuali, sacerdoti di verità e di  progresso, debbono salvaguardare sempre e comunque la propria libertà di pensiero, operando con assoluta autonomia di giudizio e ispirandosi a una visione umana universalistica. “Non parliamo – avvertono gli Autori del Manifesto - come membri di questa o quella nazione, continente o fede, ma come esseri umani, membri della specie Uomo. II mondo è pieno di conflitti; per questo, chiunque abbia un qualche interesse per la politica nutre diverse opinioni su queste questioni; ma noi vorremo che ognuno metta da parte questi sentimenti e si consideri solo come parte di una specie biologica che ha avuto una evoluzione notevole, e la cui sparizione nessuno di noi può desiderare”. 

In secondo luogo rimarcano la necessità d’un modo di pensare rinnovato e richiesto dalla giusta evoluzione e mirato a un proficuo cammino di tutti i popoli, e non dettato dall’interesse economico, culturale, religioso solo di alcuni a danno di altri. La gara da affrontare non è di rendersi sempre più forti e più temibili, ma di “armarsi” di corresponsabilità e onestà. Infatti, sostengono senza esitazione: “Dobbiamo imparare a pensare in un nuovo modo. Dobbiamo imparare a chiederci, non già quali misure occorre intraprendere per far vincere militarmente il gruppo che preferiamo. Quel che ci dobbiamo chiedere è come impedire un conflitto armato, il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?”. 

Ecco, quindi, il dilemma di allora, ma anche del nostro tempo e che tutti siamo chiamati a risolvere: “Si apre di fronte a noi, se lo vogliamo un continuo progresso in felicità, conoscenza e saggezza. Sceglieremo invece la morte, perché non sappiamo dimenticare le nostre contese?”. Dalla risposta data oggi dipende, di conseguenza, tutto il futuro nostro e e il destino delle generazioni future. Solo lo sguardo lungimirante degli uomini e la cultura dell’accoglienza delle diversità e delle minoranze salveranno l’umanità. Spinti e sostenuti da questa consapevolezza, Einstein e Russel insistevano: “Ci appelliamo, come esseri umani, ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto. Se vi riuscirete, si apre la via verso un nuovo paradiso; se no, avete di fronte il rischio di morte universale”.  

L’aver smarrito il senso di comune appartenenza al genere umano è la causa prima della guerra; il riscoprirne la realtà ne sarà il rimedio. Ma è necessario uscire dagli egoismi e pensare agli altri e al futuro: “Forse – i due Autori annotavano con un velo di sfiducia - quel che impedisce maggiormente la piena comprensione della situazione è il termine ‘umanità’, che suona vago e astratto. La gente fa fatica ad immaginare che il pericolo riguarda le loro stesse persone, i loro figli e nipoti, e non solo un vago concetto di umanità. Essi faticano a comprendere che davvero essi stessi, ed i loro cari, corrono il rischio immediato di una mortale agonia”. 

Anche oggi dobbiamo meditare su questi appelli. Dobbiamo chiederci cosa è rimasto oggi di quegli insegnamenti e di quegli ideali, come possiamo riconquistare quella consapevolezza di umanità, per comprendere ciò in cui siamo immersi. Gli errori possono essere ottima occasione per correggersi e migliorare; ma quelli della storia passata e recente sembrano essere stati disastrosi allora e inutili oggi. Forse l’uomo contemporaneo deve ricercare e riconquistare la lucidità razionale necessaria per capire che non c’è più tempo; che è giunta l’ora di cambiare e di impegnarsi in prima persona a “lottare” per la salvezza e la felicità propria e dell’umanità.




giovedì 14 gennaio 2016

EINSTEIN: LIBERTÀ SPIRITUALE DEL CITTADINO E UNITÀ POLITICA

Non è mistero che i “cittadini” che abitano la “società” dei nostri tempi vivono situazioni carenti di vera libertà, a causa del dominante e sempre crescente egoismo in ogni settore e in ogni attività.
Qualunque azione individuale e qualunque relazione sociale sono sempre suggerite da interessi privati, del tutto privi d’ogni preoccupazione per eventuali ricadute sugli altri. 

Più che suggerire indicazioni opportune – che potrebbero suonare “interessate” - per combattere questi comportamenti non degni dell’uomo, è preferibile rileggere e meditare quello che circa un secolo fa ha scritto Albert Einstein.

“Senza personalità creatrici capaci di pensare e giudicare liberamente, lo sviluppo della società in senso progressivo sarebbe altrettanto poco immaginabile quanto lo sviluppo della personalità individuale senza l’apporto vivificatore della società.
Una comunità sana rimane perciò legata tanto alla libertà degli individui quanto alla loro unione all’interno di una società. È stato detto, e con molta ragione, che la civiltà greco-europeo-americana, e in particolare il rifiorire della cultura col Rinascimento italiano, che subentrò alla stasi del Medio Evo in Europa, trovò il suo fondamento soprattutto nella libertà e nell’isolamento relativo dell’individuo.
Consideriamo ora la nostra epoca. In quali condizioni si trovano oggi la società e le persone? In rapporto al passato, la popolazione dei paesi civilizzati è estremamente densa; l’Europa ospita all’incirca una popolazione tre volte superiore a quella di cento anni fa. Ma il numero di uomini dotati di temperamento geniale è diminuito senza proporzione. Soltanto un esiguo numero di uomini, a motivo delle loro facoltà creative, sono noti alle masse come personalità degne di considerazione. L’organizzazione ha in certo qual modo sostituito le qualità del genio nel campo della tecnica e, in misura notevolissima, nel campo scientifico.
La penuria di personalità si fa sentire in modo particolare nel campo dell’arte. La pittura e la musica sono oggi nettamente degenerate e suscitano nel popolo echi assai meno intensi. La politica non manca solo di capi. L’indipendenza intellettuale e il sentimento del diritto si sono profondamente ridotti nella borghesia, sicché l’organizzazione democratica e parlamentare che poggia su quella indipendenza è stata in molti paesi sconvolta; sono sorte dittature e sono state sopportate perché il sentimento della dignità e del diritto non è più sufficientemente vivo”.



sabato 9 gennaio 2016

E’ MORTO IL “DOCENTE” GIANNI RONDOLINO


Francesca Rosso annuncia oggi dalle pagine de La Stampa di Torino la scomparsa di Gianni Rondolino, uomo profondo e umile, educatore attento e discreto, consapevole del ruolo educativo e della funzione formativa della “cattedra”. In tempi in cui si parla tanto di “buona scuola”, sarebbe davvero opportuno meditare sui messaggi di figure che hanno dato la vita a “ ben insegnare” verità e valori.  
Vale la pena, intanto, leggere quanto ha scritto la Rosso. 

“È morto nella notte nella sua casa di Torino, Gianni Rondolino. Tra pochi giorni avrebbe compiuto 84 anni. Già Professore ordinario di Storia e Critica del Cinema all’Università di Torino e autore di molti libri fra cui Storia del cinema di animazione. Dalla lanterna magica a Walt Disney da Tex Avery a Steven Spielberg, Luchino Visconti, Roberto Rossellini, I giorni di Cabiria sul cinema muto torinese e soprattutto la Storia del cinema, quel volume conosciuto come “il Rondolone” per le dimensioni (quasi 800 pagine) e che accompagna gli studenti dal 1977 ad oggi in varie riedizioni. È stato critico cinematografico per “La Stampa”, direttore della collana di cinema di Utet e nel 1981 ha fondato il Festival Cinema Giovani, diventato poi Torino Film Festival.  

Ha segnato la formazione di generazioni di studenti che oggi sono critici, giornalisti, docenti, operatori culturali.  

Le sue lezioni erano semplici e appassionate. Era ossessionato dall’essere comprensibile: «Non so se è chiaro» ripeteva fino allo sfinimento, fino a che anche l’ultimo studente nell’ultima fila dell’aula 36 di Palazzo Nuovo non faceva segno di sì con la testa; come i grandi insegnanti incoraggiava ciascuno a credere in sé e a trovare una via originale di esprimersi; era innamorato dei film non narrativi, strani, originali. Oltre che della sua famiglia, di sua moglie Lina con la quale andava in giro per i festival e dei suoi figli Fabrizio e Nicola, morto 3 anni fa". 




lunedì 4 gennaio 2016

IL «GRAZIE» DI MONTALE AL PREMIO NOBEL 40 ANNI DOPO

Dal Corriere della Sera del 24 ottobre 1975, dopo l’annuncio.
(dal testo di Giulio Nascimbeni)


Ore 13 di ieri, al terzo piano di via Bigli 15, nella casa di Eugenio Montale, suona il telefono. Risponde la Gina (Gina Tiossi, un discreto personaggio di governante che da quasi 40 anni vive accanto a Montale). Il poeta sta fumando in compagnia di due amici del Corriere, Gaspare Barbiellini Amidei e chi scrive. La Gina entra nel salotto: «Chiamano dall’ambasciata di Svezia», dice. Montale si alza dalla poltrona con un po’ di fatica, spegne la sigaretta, si appoggia al braccio della Gina, va al telefono.

«Oui, monsieur… Je suis très heureux de faire votre connaisance». Dall’altra parte del filo c’è l’ambasciatore. La serie degli oui si sgrana fitta e continua. Poi comincia quella dei merci. La scena ha una castità e una semplicità straordinarie. Le pareti della casa sono vuote: i quadri non sono ancora stati riappesi dopo l’estate. L’annuncio del premio Nobel avviene nella piccola anticamera che precede la cucina, tra un vecchio frigorifero la porta del bagno di servizio. Montale con una mano si appoggia a una maniglia. Dice ancora una volta merci. Riattacca. La Gina lo bacia sui capelli, poi gli domanda: «Andiamo a tavola?». In cucina sono pronti il riso all’olio e due polpette con l’insalata.

La prima poesia. Montale chiede un piccolo rinvio: «Fumo un’altra sigaretta con questi miei amici. L’ambasciatore mi ha raccontato che scrive poesie anche lui». Torna a sedersi. «Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io?». Si sentono altri squilli del telefono. Alla porta c’è un inviato della televisione svedese. «Ciao, dice, adesso mangio, poi vado a riposare». Da tre ore Montale era in attesa. Il giorno prima, mercoledì, uno dei suoi traduttori in svedese, il Prof. Oreglia, lo aveva avvertito che l’assegnazione del premio era ormai sicura al 90%.«Come ha passato la notte?». Gli chiedo. «Con la mia solita insonnia. È sessant’anni che ne soffro. Il Nobel non c’entra», risponde. «Degli altri probabili vincitori cosa pensa?». «Ho saputo che c’era anche Simone De Beauvoir. Dicono che sia una donna terribile. Come fa Sartre a starle insieme da tanto tempo?». Sono le undici, da Roma è arrivata una giornalista svedese, Martha Larsson. Deve tracciare una rapida biografia del poeta. Si comincia dalla data di nascita: 12 ottobre 1896. «Ho scritto la mia prima poesia a 5 anni. La ricordo perfettamente: Il vaso era il posto noto – né pieno né vuoto». A poco a poco avviene una metamorfosi abbastanza consueta quando si intervista Montale.

La sua insaziabile curiosità delle cose della vita, che è una specie di reazione alla solitudine di cui si è sempre circondato, lo porta a essere lui l’intervistatore. Alla Larsson che gli chiede se ha lettori in Svezia risponde: «Sì, mi mandano delle cartoline con slitte trainate da cani. Ma come risolvete i problemi del riscaldamento con tutto quel freddo? In quanti siete? È vero che da voi non c’è modo di sfuggire alle tasse?». La giornalista gli risponde che è vero. «Allora il vostro governo non piacerebbe agli italiani», commenta Montale. La Larsson insiste: «Cosa ne pensa della situazione italiana?». La risposta è: «Finirà bene. Non ho mai visto un Paese che muore perché un bilancio è in passivo. Mio padre, ai primi del secolo, diceva sempre: “È una catastrofe, non si può andare avanti”. Sono passati più di 70 anni. I discorsi sono sempre uguali. Solo al tempo del fascismo non si faceva perché non si poteva parlare. Adesso siamo forse arrivati all’eccesso opposto: Dal mutismo alla logorrea». La Larsson vuole condurlo a pronunciarsi sul problema dell’aborto. Risponde: «Non siamo molto bravi a interpretare le leggi. Quando è arrivato il divorzio, molti hanno creduto che fosse obbligatorio. Adesso c’é il pericolo che tutte le donne si sentano obbligate ad abortire. Ma è vero che in Svezia non ci sono poveri?».

Stoccolma, 10 dicembre 1975, nel Salone della Fiera Campionaria si svolgono le prove della cerimonia di consegna del Premio Nobel: gli undici candidati, a turno, devono avanzare verso re Carlo Gustavo di Svezia e ritirare la prestigiosa medaglia. Tra loro c’è Eugenio Montale, il poeta, certo, autore di “Ossi di seppia” e “Le occasioni”, ma anche il giornalista e critico musicale del Corriere della Sera, oltre che il traduttore che collaborò con Elio Vittorini all’antologia “Americana”. Al Nobel l’ha condotto la stima smisurata del collega svedese Anders Osterling, che già nel 1960 aveva tradotto per i connazionali la raccolta “Ossi di seppia” (Archivio Rcs)

Montale ha 80 anni, soffre da tempo di vertigini e fatica a camminare, ma presenzia alle prove della cerimonia, mentre la fidata governante Gina sbuffa e dice: «Me lo stan sbatacchiando di qua e di là come se avesse vent'anni». Dopo qualche momento di smarrimento generale, data la rigidità del cerimoniale che impedisce di accompagnare i vincitori, il re Carlo Gustavo - nella foto - si offre di portargli il premio (Archivio Rcs). E di quell’occasione solenne, riconoscimento per il lavoro di una vita, oltre che orgoglio nazionale, restano alcuni esilaranti commenti a margine di Montale, come questo sui 90 milioni di lire legati al premio: «Tutti mi chiedono che cosa ne farò. Prima vorrei sapere quanti me ne restano dopo le tasse» (Archivio Rcs).

Ma a cerimonia conclusa, durante il banchetto in onore dei vincitori, lasciandosi andare all’emozione e all’orgoglio, Montale si fa serio e commenta così quella giornata speciale: «Ho sempre bussato alle porte di quell'enigma meraviglioso che è la vita, e da quell'enigma ho tratto la poesia» (Archivio Rcs).

Ultimo di sei figli, Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896 in una famiglia della media borghesia, che sceglie per lui studi tecnici a causa della sua salute precaria, pur lasciandogli coltivare la passione letteraria. Si diplomerà in ragioneria, ma negli anni verrà insignito di ben tre lauree honoris causa, di cui dirà: «Qui [in Italia], anche per diventare poliziotto bisogna essere dottore. Soprattutto nel meridione è un titolo molto apprezzato» (Archivio Rcs).

Alla passione per la letteratura accompagna quella per il canto, seguendo le lezioni dell’ex baritono Ernesto Sivori; come cantante non si esibirà mai, tranne che per i colleghi del Corriere della Sera, come racconta Vittorio Notarnicola: «Un pomeriggio al giornale, con un registratore a disco, gli si tirò una trappola: lo convincemmo a incidere “la calunnia”, del don Basilio rossiniano. Eugenio cantò, ma non sapeva tutte le parole; non si fermò, andò avanti a cantare, inventando quello che non conosceva della romanza» (Archivio Rcs).

Dopo aver preso parte alla Grande Guerra, Montale affronta gli anni ’20 e ’30 distaccandosi dal fascismo e sottoscrivendo il famoso manifesto di Benedetto Croce, che gli costerà l’espulsione dal Gabinetto scientifico letterario Vieusseux di cui era diventato direttore nel 1938. Nella foto con Maria Luisa Spaziani (Archivio Rcs). Negli anni del soggiorno fiorentino, Montale si é già fatto notare per la sua prima raccolta poetica “Ossi di seppia”, pubblicata da Piero Gobetti nel 1925, e collabora alla rivista “Solaria”, immerso nella vita culturale fiorentina e nei circoli letterari, dove ha modo di conoscere Carlo Emilio Gadda, Tommaso Landolfi ed Elio Vittorini - con lui nella foto (Archivio Rcs)

«L'argomento della mia poesia è la condizione umana in sé considerata: non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio. [...] Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia». E ancor più che in “Ossi di seppia”, ne “Le occasioni” la poesia si fa simbolica, il linguaggio meno penetrabile e carico di sottintesi (Archivio Rcs).

Nel 1948 viene chiamato a collaborare con la redazione del Corriere della Sera e del Corriere d’Informazione come critico musicale; una svolta, come già altre nella sua vita, che definirà casuale: «Non ho mai deciso nulla, cosa fare, dove andare. Gli eventi mi hanno modificato. Sono diventato giornalista dopo i cinquanta, quando si va quasi in pensione». Nella foto con il direttore Piero Ottone (Archivio Rcs).

Stoccolma, 10 dicembre 1975, nel Salone della Fiera Campionaria si svolgono le prove della cerimonia di consegna del Premio Nobel: gli undici candidati, a turno, devono avanzare verso re Carlo Gustavo di Svezia e ritirare la prestigiosa medaglia. Tra loro c’è Eugenio Montale, il poeta, certo, autore di “Ossi di seppia” e “Le occasioni”, ma anche il giornalista e critico musicale del Corriere della Sera, oltre che il traduttore che collaborò con Elio Vittorini all’antologia “Americana”. Al Nobel l’ha condotto la stima smisurata del collega svedese Anders Osterling, che già nel 1960 aveva tradotto per i connazionali la raccolta “Ossi di seppia” (Archivio Rcs).

Martha Larsson se ne va. Dalla Mondadori, la casa editrice che pubblica i suoi libri, gli chiedono una dichiarazione ufficiale. I «tic» del volto si accendono tutti all’improvviso. La bocca sbuffa con quel sibilo che a volte gela l’interlocutore. «Come si fa a dire cose non banali?», domanda. Detta qualcosa: «L’altissimo riconoscimento che mi viene dall’Accademia svedese é per me motivo di soddisfazione…». Ci ripensa. Si ferma. I «tic» riprendono il sopravvento, torna a dettare: «Non sono mai stato in Svezia e non conosco personalmente i miei traduttori in lingua svedese. Questo fatto aumenta in me la profonda gratitudine per il riconoscimento che mi viene da un Paese che ha alte tradizioni di cultura e di profonda fede democratica. Mi ripropongo di andare in Svezia e ringraziare personalmente i miei nuovi amici». 

Segue un’immediata postilla: «Andrò a Stoccolma, ma non vorrei fare discorsi». È quasi mezzogiorno. Lo prende un dubbio: «E se poi non vinco? E se poi decidono di cambiare opinione?». Ride nervoso. Gli ricordo che il Nobel coincide con i 50 anni di Ossi di seppia. «Il volume costava sei lire», risponde. «Ne furono stampate mille copie. Dovetti darmi da fare per convincere parenti e amici a prenotarlo. Il primo titolo che avevo proposto era "Rottami".

Il tempo scorre lento. Si parla di giornali: «Ho sentito che quello di Scalfari, “La Repubblica”, uscirà in un formato quasi tabloid. Che convenienze ci sono?». Poi il discorso passa al «Corriere»: «Chi c’è nella stanza dove stavo io con il povero Emanuelli? Via Solferino è diventata troppo lontana per le mie gambe. Devo muovermi ogni giorno, me l’ha ordinato il medico, ma non fare tanta strada. Se andrò a Stoccolma dovrò tirare fuori lo smoking. È da quando ho smesso di fare il critico musicale che non lo indosso più». «Ha scritto poesie in queste ultime settimane?», domando. «No, sono appena rientrato da una lunga vacanza a Forte dei Marmi. Adesso posso concedermi lunghe vacanze. Andavo alla spiaggia tutte le mattine. Ma non ho scritto poesie». Non sembra sincero del tutto. In qualche cassetto forse c’è qualcuno di quei foglietti su cui ha sempre abbozzato le sue poesie: quei foglietti che un’antica domestica, Maria Bordigoni, trovava nelle sue tasche e buttava via. Maria non sapeva leggere. Le interessava ricuperare i fiammiferi o i bottoni che si erano staccati.

Sarebbe forse ora di fare qualche domanda sull’intera sua vita, sull’intera sua opera. «Globale è un aggettivo che detesto», replica subito: «Messaggi? I messaggi è meglio non mandarli». Si stenta a superare il muro del paradosso. Montale è sempre stato così. L’imminenza del Nobel non l’ha cambiato. Concede una brevissima frase: «Per me la poesia è un invito alla speranza», ma subito se ne ritrae. «Ho sempre provato un po’ di vergogna a sentirmi chiamare poeta. Nei registri degli alberghi, mi sono sempre qualificato come giornalista». «E dopo il Nobel?», azzardo. «Magari diventerò Papa. Se c’è tanta avanguardia, tanto dissenso nella Chiesa, perché un borghese non potrebbe diventare Papa?».

È l’ultimo paradosso. Sono le tredici. Arriva la telefonata dell’ambasciatore di Svezia. La Gina apre la radio, stanno dando la notizia. Mettono in onda un’intervista di qualche anno fa, quando uscì Satura. La radio è in cucina. Per chi crede nella poesia e in Montale, non è un momento come tanti altri. Questo non se andrà mai dalla memoria. Una cucina, una pentola che fuma, le pareti vuote, il senso d’una distanza che nemmeno il Nobel riesce a valicare. Fuori c’è la città. C’è anche l’indifferenza della città. La sua «decenza quotidiana» forse è una lezione troppo ardua.