Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

venerdì 10 luglio 2015

BERGOGLIO. IL PAPA CHE FA SPERARE E TREMARE

Pubblicato su Affaritaliani  l’8 giugno 2015

 

Papa Bergoglio stupisce ogni giorno di più. Apparentemente “normale”, solitamente misurato e calmo, con il suo gesto calcolato e “senza parole” trasfonde fiducia rigeneratrice ma, nello steso tempo, scuote le coscienze degli “uomini e donne di buona volontà, tutti fratelli e sorelle”, e spesso genera riflessioni serie e incute paura e tremore. Mentre coloro che guidano popoli interi e governano nazioni vaste o piccole dissertano sui temi d’equilibrio di bilancio, di crescita e decrescita misurate in piccoli decimali, e talora si spingono a sfiorare il problema dei poveri, dei migranti e dei profughi (perlopiù attenti alle ripercussioni sul proselitismo elettorale), Papa Francesco ha individuato a tempo e senza rumore una struttura nei pressi del Vaticano, in cui sono stati già avviati i lavori per realizzare un dormitorio per ospitare una trentina di senzatetto.

Nel frattempo, sabato scorso 6 giugno, a Sarajevo, in Bosnia, ha ripetuto il suo appello: “Mai più la guerra! La pace è opera della giustizia”; e ha sottolineato con estremo realismo che la pace non va predicata, ma va costruita quotidianamente con “passione, pazienza, tenacia”, senza lasciarsi scoraggiare dal fatto che “nel mondo sono in atto numerosi conflitti armati e una sorta di terza guerra mondiale combattuta a pezzi”.

Come ogni domenica, anche ieri alle ore 12, papa Francesco s’è affacciato con rispettosa puntualità alla finestra dello studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per la recita dell’Angelus con i fedeli e i pellegrini, che lo attendevano, numerosissimi come sempre, in Piazza San Pietro. “Sono andato a Sarajevo, per incoraggiare il cammino di convivenza pacifica tra popolazioni diverse”, ha esordito, per evitare ogni distorsione del suo gesto e qualunque strumentalizzazione delle sue parole e dare l’unico significato autentico del suo viaggio in Bosnia ed Erzegovina. Lì, infatti, aveva rilanciato il grido già di Wojtyla: “Basta guerra e nazionalismi esasperati!” e, durante il breve viaggio di ritorno a Roma in aereo, concedendosi come solitamente alle domande dei giornalisti, aveva denunciato con forza la vigliaccheria dei potenti e l’ipocrisia degl’indifferenti: “C’è l’ipocrisia, sempre! Per questo ho detto che non è sufficiente parlare di pace: si deve fare la pace! E chi parla soltanto di pace e non fa la pace è in contraddizione; e chi parla di pace e favorisce la guerra – per esempio con la vendita delle armi – è un ipocrita!”.

Mercoledì prossimo, 10 giugno, sarà ricevuto in udienza privata il presidente russo Vladimir Putin, in Italia per la visita all’Expo di Milano. Sarà il quinto incontro che Putin avrà con un papa: nel 2000 e nel 2003 con Vojtyla, nel 2007 con Ratzinger e 2013 con lo stesso Bergoglio. In quell’occasione, argomento principale del loro colloquio – al quale il leader russo si presentò con ben 50 minuti di ritardo – fu la crisi siriana, per la soluzione della quale era stata tenuta circa due mesi prima una veglia di preghiera, durante la quale il pontefice da poco eletto aveva precisato: “Anche oggi ci lasciamo guidare dagli idoli, dall’egoismo, dai nostri interessi; e questo atteggiamento va avanti: abbiamo perfezionato le nostre armi, la nostra coscienza si è addormentata, abbiamo reso più sottili le nostre ragioni per giustificarci. Come se fosse una cosa normale, continuiamo a seminare distruzione, dolore, morte! La violenza, la guerra portano solo morte, parlano di morte! La violenza e la guerra hanno il linguaggio della morte!”. Il giorno dopo quella veglia, all’Angelus, il Papa, si era spinto ancora più oltre, affermando che “sempre rimane il dubbio se questa guerra di qua o di là è davvero una guerra, oppure è una guerra commerciale, per vendere armi o è per incrementarne il commercio illegale”.

Per il prossimo 18 giugno è stata annunciata la pubblicazione della prima enciclica “scritta” di papa Francesco. La giustizia, la pace e la libertà degli uomini e dei popoli d’ogni nazione non sono una chimera da deridere, ma un obiettivo da credere e da cercare di raggiungere. Saranno questi – stando a indiscrezioni editoriali – la natura e il contenuto dell’enciclica. Non un trattato scientifico, non un manuale di sociologia, non un libercolo provocatorio, e nemmeno un manifesto politico per la conquista d’un potere. Ma una semplice lettera pastorale che, fotografando situazioni concrete verificabili, mira a  ricordare e difendere i valori morali propri della dignità dell’uomo. Un appello, quindi,     a costruire la pace, la giustizia e la libertà minacciate dalle ideologie dell’autonomia incondizionata di mercato globale e della sfrenata speculazione finanziaria. Forse per questo molta parte di umanità attende e spera, ma altra parte di politica e di finanza trema.

Ma Bergoglio va avanti. E molti attendono nuovi suoi interventi, che facciano germogliare fecondi semi di libertà concreta, fatta di giustizia e di pace. Infatti, fra circa 48 ore papa Francesco colloquierà col capo della Russia; il 24 settembre prossimo sarà in visita negli Stati Uniti. Sarà il primo pontefice a rivolgersi ai deputati americani del Congresso riuniti in seduta straordinaria: questo testimonia l’autorevolezza del pontefice. Una nota diffusa qualche mese fa dalla Casa Bianca comunica che la vigilia dell’incontro ufficiale i due leader avranno un colloquio privato, per ribadire il comune impegno nell’affrontare molti problemi, ma con particolare attenzione “per gli emarginati e i poveri, la necessità di dare opportunità economiche a tutti, la salvaguardia dell'ambiente (…) l'accoglienza dei migranti e dei rifugiati nelle nostre comunità”.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

2 GIUGNO: LA FIABA DEL DIRITTO AL LAVORO

Pubblicato su Affaritaliani il 01.06.2015

Domani, 2 giugno 2015: 68° anniversario della Festa della Repubblica Italiana e della sua Costituzione. Cioè la Festa degli Italiani. Sarà celebrata con spettacoli solenni e manifestazioni significative, tra cui la tradizionale deposizione della corona d’alloro all’Altare della Patria, simbolo dell’Unità e della Libertà, come è scolpito sul marmo bianco dei propilei del Vittoriano a commento delle due quadrighe. Giornata, quindi, di festa, ma soprattutto di ammonimento e di riflessione per il popolo italiano, chiamato da quest’occasione a ricordare la passione e i sacrifici con cui i Padri hanno fatto l’Italia libera, unita, repubblicana e democratica. Un ricordo non retorico e fugace, ma ponderato e impegnato a verificare la fedeltà e la coerenza con cui oggi esso rispetta e onora il patrimonio culturale, morale, civile e politico da loro ricevuto in eredità.

 

L’Italia – dichiara l’articolo 1 della Costituzione - è “repubblicana” e “democratica”, in quanto “fondata sul lavoro”. Infatti, durante i lavori preparatori Giorgio La Pira aveva proposto di esplicitare maggiormente: “Il lavoro è il fondamento di tutta la struttura sociale, e la sua partecipazione adeguata negli organismi economici, sociali e politici è condizione del nuovo carattere democratico”; e Palmiro Togliatti aveva dettato ancora più incisivamente: “Lo Stato italiano è una Repubblica di lavoratori”. Dopo lunghi mesi di confronto e di dialogo fu accolta come lettura definitiva quella proposta da Amintore Fanfani, Aldo Moro e altri: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. I Costituenti, quindi, non hanno posto come fondamento della nostra repubblica democratica valori universali e, quindi, facilmente condivisibili e consocianti, quali l’uguaglianza, la fratellanza, la libertà, ma il lavoro considerato come strumento di liberazione del singolo cittadino, il quale, però, è chiamato a inserire la sua attiva operosità individuale nella cornice di progetti d’interesse generale per l’intera Nazione. Per questo motivo la Costituzione afferma in primo luogo i diritti inerenti al “pieno sviluppo della persona umana”, in quanto essi preesistono allo Stato e, in secondo luogo, assegna alla Repubblica il dovere di realizzare tutte le condizioni effettive di uguaglianza tra i cittadini (art. 3); in questo modo viene consegnata una Repubblica, che mira a obiettivi veramente grandi sia di gratificazione per il singolo e sia di servizio attento verso tutta la società. Però, questo significa anche che, finchè non si realizzerà questo dettato della Carta, in Italia non c’è una repubblica che si possa dire di fatto “democratica, fondata sul lavoro”.

 

A queste affermazioni molti cittadini italiani – e non solo dell’ultima generazione - avrebbero la sensazione di sentire il racconto d’una fiaba incantevole. Ai nostri giorni, infatti, il mondo del lavoro sembra piuttosto l’arena d’un circo, in cui si può assistere a spettacoli di scene tra l’umorismo dell’opera buffa e la disperazione della tragedia greca. Mentre molti “attori” dànno uno spettacolo allucinante fatto di annunci mirabolanti e rivendicazioni strabilianti, un’immensa folla di spettatori s’accalcano, si sfidano, competono, lottano nel tentativo fortunoso d’imbattersi in qualche generoso “donatore di lavoro”, che conceda loro – alle sue condizioni e per un tempo sempre definito - almeno lo stretto necessario per la sopravvivenza sua e dell’eventuale sua famiglia. Pian piano, forse senza avvedersene, gli italiani vivono e operano in una repubblica della precarietà, e non solo lavorativa. Ma una società precaria è necessariamente una società ferma e senza vitalità, spesso facile ostaggio della prepotenza e vittima sicura dell’indigenza. Il pericolo è grave, poiché è tutto l’assetto della Repubblica e della Costituzione che perde la sua struttura portante e smarrisce i suoi princìpi conduttori.

 

Per intercettare e interpretare adeguatamente il messaggio principale della festa del 2 giugno, allora, è opportuno ripensare come nacquero la Repubblica e la sua Costituzione. In ciò è di ausilio ciò che disse nel gennaio 1946 a un gruppo di giovani il padre costituente Piero Calamandrei: “Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate sulle montagne, dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità andate li, o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione”. E con preoccupata riconoscenza annotava: “Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse d’un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservati la parte più dura e più difficile (…). A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana”.

 

Il testo di tutta la Costituzione è nato dalla confluenza delle tre più importanti culture allora presenti in Italia, notevolmente diverse tra loro, ma pronte a cooperare per la ricostruzione del Paese: la cultura cattolica, quella liberale e quella socialista. In particolare, nella scelta di adottare una concezione peculiare di “persona” s’evidenzia il contributo ricevuto dall’ispirazione cristiana. E non sembra fuor di luogo, pertanto, che anche in questi nostri tempi, si faccia ricorso alle preoccupate diagnosi e alle illuminanti esortazioni dell’attuale papa riguardo il problema del lavoro umano. Quest’uomo fatto venire “dall’altra parte del mondo”, in quanto vescovo di Roma guarda i problemi italiani del lavoro; ma, in quanto responsabile universale d’una religione diffusa in ogni continente, conosce dall’alto del suo osservatorio la situazione del lavoro anche in prospettiva assolutamente universale. Da qui l’importanza e il significato più vero delle sue parole pronunciate in questi ultimi trenta giorni. Il 1° maggio scorso, infatti, intervenendo all’inaugurazione della Expo di Milano, esortava il mondo ivi convenuto a non vivere quell’evento come un bell’argomento, ma come preziosa opportunità per una ricognizione e un impegno comune a prendere consapevolezza e coscienza dei “volti” di milioni di persone che hanno fame; e sollecitava i rappresentanti delle numerose Nazioni presenti a prendere e usare il progetto dell’Expo come mezzo per dare “piena dignità al lavoro di chi produce e di chi ricerca (…). Che nessun pane – scandiva con energico convincimento – sia frutto di un lavoro indegno dell’uomo! E che non manchi il pane e la dignità del lavoro a ogni uomo e donna”. Il successivo 23 maggio, poi, ricevendo i militanti delle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, dopo aver evidenziato la globalizzazione della gravità dei problemi del lavoro, senza paura di divenire bersaglio di critiche e motivo di scandalo, ma imperterrito accusava: “L'estendersi della precarietà, del lavoro nero e del ricatto malavitoso fa sperimentare, soprattutto tra le giovani generazioni, che la mancanza di lavoro toglie dignità, impedisce la pienezza della vita umana e reclama una risposta sollecita e vigorosa”. E senza alcuna considerazione di prudenza, accusava a volto aperto e a chiare lettere la vera radice prima della mancanza di lavoro e dello sfruttamento dei lavoratori: “Troppo spesso – constatava - il lavoro è succube (…) di nuove organizzazioni schiavistiche, che opprimono i più poveri; in particolare, molti bambini e molte donne subiscono un’economia che obbliga a un lavoro indegno”. Sa di non fare alcuna invasione di campo ed è forte della sua quotidiana testimonianza personale di altruismo solidale e gratuito: senza parlare, ma coi gesti e coi fatti, dimostra ogni giorno che l’unico Dio è di tutti gli uomini, per cui tutti debbono vivere a immagine e somiglianza divine. E per primi ammonisce i “suoi”; pochi giorni prima, infatti, incontrando gli aderenti alle ‘Comunità di vita cristiana’ aveva detto: “Impegnatevi in politica, ma non a un partito, perchè è realmente convinto che non è nella natura e nei compiti della Chiesa essere o fare partito, ma che l’uomo anche cattolico deve fare politica, ma come servizio umile e dovuto, “come De Gasperi e Shuman, che hanno fatto politica pulita, senza sporcarsi”.

 

E’ una voce, di cui tutti gli uomini, in quanto uomini, hanno immenso bisogno soprattutto oggi. In tempi di smarrimento culturale e di confusione etica, di fronte a esempi privati e pubblici d’insensibilità umana e di gretto egoismo, davanti al vuoto di valide guide e di esempi illuminanti, bisogna salutare davvero provvidenziale ogni luce di speranza che viene offerta all’umanità.

giovedì 4 giugno 2015

LA RIFORMA DELLA SCUOLA VA AL SENATO

Pubblicato su Affaritaliani, Giovedì, 21 maggio 2015

La Camera dei Deputati congeda e invia all’esame del Senato il testo della riforma scolastica dal governo indicata come “Buona scuola”, ma osteggiata come “esecrabile” da docenti e studenti sostenuti da famiglie, forze politiche e sindacali. I senatori, quindi, hanno come compito primario esaminare quali potrebbero essere stati (e se continuano ad esserci tuttora) i motivi d’un così opposto giudizio.

In verità, per tanti decenni nell’Italia repubblicana s’è tentata una riforma della scuola, che ne segnasse davvero una svolta storica; ma s’è concluso sempre col produrre qualche ritocco marginale e talora persino negativo, a causa di resistenze in parte condivisibili, ma in parte biasimevoli, e che ora, in quest’ultima circostanza, sarebbe opportuno che anche Palazzo Madama ponderasse con imparzialità e decisione. La “Buona scuola” sostanzialmente contiene come princìpi ispiratori alcuni temi caldi: le competenze dei dirigenti da verificare periodicamente, la valutazione dell’operato dei docenti per un oggettivo riconoscimento anche economico, l’assunzione definitiva dei molti e diversi precari.

E’ appurato che la natura e il ruolo della scuola ne fanno una realtà atipica, composita e del tutto speciale, per cui richiede un approccio prudente e adeguato da parte di tutti: famiglia, società, politica, sindacati. Non si può fare a meno, comunque, di chiedersi, in prima istanza, chi e perché dovrebbero allarmare gli interventi proposti dal governo. E’ normale che il dirigente d’ogni struttura abbia l’incarico di decidere un progetto e scegliere almeno alcuni strumenti operativi con procedure appropriate e il più possibile condivise, al fine del perseguimento più sicuro degli obiettivi. Si pensi, tra l’altro, a un direttore sanitario, a un manager d’impresa, a un agente di eventi culturali: in tanto saranno chiamati a rispondere del proprio operato, in quanto sono essi stessi almeno corresponsabili della scelta e della gestione delle risorse economiche e umane a disposizione. Ogni componente del gruppo di lavoro, d’altra parte, s’interesserà certamente che vengano riconosciuti e valutati i propri meriti e demeriti con le ovvie conseguenze di successi professionali e di estimazione umana. Esitazioni per una qualche forma di valutazione potrebbe significare disistima personale, sfiducia negli altri, senso d’inferiorità.

Certo in questi termini si rappresenta la scuola ideale e si delineano le figure di dirigenti, docenti e operatori scolastici ipotetici, preparati professionalmente, corretti eticamente, integri moralmente, per cui sembrerebbe un discorso bello, ma vuoto d’ogni concretezza e utilità pratica. Eppure in ogni campo prefigurare l’ideale costituisce il primo passo concreto da cui partire, decisi a percorrere poi per intero il cammino necessario. Si tratta, allora, di prevedere pericoli e distorsioni. In primo luogo s’impone urgente l’adeguato investimento strutturale ed economico per la formazione professionale integrale anche in itinere sia dei dirigenti che dei docenti. E a questo riguardo bisognerebbe porre mano a non poche dinamiche delle università italiane. In secondo luogo è fondamentale individuare e fissare - ovviamente con metodi ispirati a democrazia e acquisiti nel massimo rispetto reciproco - norme precise di reclutamento, criteri oggettivi di selezione e di valutazione, per evitare i pericoli non infondati di discrezionalità, clientelismi e favoritismi.

Ma una periodica palese valutazione dell’attività e dei risultati della vita della scuola è assolutamente necessaria e doverosa nei confronti delle famiglie, che affidano i loro figli, e della società che impegna risorse di varia natura. Ora, osservando l’attuale realtà della scuola italiana è innegabile che negli ultimi decenni s’è assistito a un suo graduale e spesso radicale discredito. L’insegnamento è stato recepito sempre più come un generalizzato ripiego occupazionale soprattutto femminile, gli insegnanti sono stati descritti in molte sedi anche pubbliche come inadeguati, inoperosi, recalcitranti a ogni forma di rinnovamento e aggiornamento. Opinioni avvalorate, forse tacitamente ma sempre efficacemente, dal trattamento economico davvero ai limiti d’ogni decoro. Opinioni, però - altrettanto onestamente - non sempre ingiustificate e non del tutto infondate, se si riscontrano i comportamenti di alcuni dirigenti e docenti, riguardo le abilità manageriali, la serietà della preparazione delle lezioni, l’assidua puntualità della presenza e l’esemplarità nell’assolvimento d’ogni compito connesso alla funzione educativa. Ma perché gridare allo scandalo! E’ ovvio che anche nella scuola, come in ogni altro settore, ci possono essere persone censurabili, ma che non motivano né giustificano generalizzazioni fuorvianti e offensive.

Nella scuola, infatti, a fronte di alcuni casi negativi se ne registrano innumerevoli veramente nobili e degni d’ogni rispetto: è noto, del resto, che da sempre la scuola si è retta sulla dedizione professionale e sulla abnegazione umana soprattutto degli insegnanti, che hanno saputo scindere la consapevolezza dell’importanza del loro ruolo dalla considerazione da parte della società e della politica. Non si può sottacere una preoccupazione di più ampio respiro. Nel decidere i mutamenti nella scuola, è stato dato peso eccessivo (se non esclusivo) alle problematiche di natura economica, occupazionale e lavorativa soprattutto dei giovani, trascurando gli aspetti del loro sviluppo umano completo e integrale. E’ vero che oggi la dimensione della cultura prevalente (se non unica) è quella dell’economica, cui tutto il resto dev’essere commisurato e subordinato. Ma la scuola, se deve necessariamente restare aderente alla realtà storica, non può nello stesso tempo non salvaguardare con coerenza la sua missione essenziale: deve agire per preparare operatori e clienti del mercato globalizzato, ma nello stesso tempo per formare futuri cittadini di società sempre più a dimensione della dignità umana.