Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

lunedì 9 maggio 2011

I GIOVANI E I VALORI DELLA VITA

Nei confronti della condotta di molti “giovani di oggi” non è né difficile né raro sentire affermare - forse un po’ troppo semplicisticamente - che essi non hanno valori che li sostengano e li guidino, non nutrono ideali che li facciano impegnare responsabilmente, non si prefiggono mete elevate da raggiungere, soprattutto se richiedono sacrificio. Insomma, i giovani di oggi non coltiverebbero interessi validi né per se stessi nè per gli altri, in quanto sarebbero privi di valori morali veri.

A questo punto, però, sembra opportuno chiedersi se sia davvero così. E, soprattutto, domandarsi: quali sono i valori che i giovani di ieri avevano e che i ragazzi di oggi dovrebbero avere e non hanno? Quali sono gli ideali che hanno fatto sognare e vivere la generazione di ieri e di cui l’attuale generazione sarebbe priva? Quali sono gli interessi che hanno animato i giovani dei decenni passati e che il giovane dei nostri giorni non apprezzerebbe? Sforzarsi di trovare lealmente risposte a questi interrogativi è di grande importanza per il bene sia dei giovani e sia dell’intera società. Infatti, il futuro delle società e il destino di tutta l’umanità sono strettamente connessi alle scelte dei giovani, da cui dipendono inevitabilmente. Entrare in contatto con i giovani, però, non è sempre facile, soprattutto quando essi sono sommersi da messaggi, che li spingono verso visioni incerte e superficiali della morale.

Per ottenere qualche risposta credibile, allora, è necessario in primo luogo decidere che cosa sono i valori morali e qual è la loro funzione. Ora, si possono considerare “valori morali” tutte quelle regole, quei principi e quelle linee di condotta, che consentono a ciascuno di progettare la propria esistenza, di stabilire le proprie priorità, per compiere le scelte individuali ritenute appropriate al proprio progetto di vita. Questo, in verità, vale per tutti e per ogni età; ma è maggiormente importante per i giovani, i quali, man mano che crescono, debbono affrontare le difficoltà di un mondo, che spesso non conoscono bene, per cui debbono possedere validi punti di orientamento, che li illuminino nel fare le scelte giuste.

Quando, però, si va ad individuare quelli che debbono essere i “punti di riferimento” fondamentali e i “valori” veri, nasce il bisogno di capire quali sono le responsabilità e il ruolo degli adulti in tutto ciò. Infatti, non possiamo pensare di cambiare la cultura o d’influire sulle persone, se non ci impegniamo noi stessi nel dare testimonianza sicura di quei valori, che richiediamo che ci siano e che vogliamo che gli altri condividano e facciano propri. Gli adulti, quindi, non possono pretendere dai giovani una testimonianza di vita morale, senza avere prima essi stessi sviluppato e testimoniato un proprio modo di vivere morale degno d’essere presentato alle nuove generazioni.

Ora, non c’è dubbio che alle nuove generazioni si cerca di dare (o, in alcuni casi, almeno di suggerire) sin dalla prima infanzia un indirizzo etico, perché è stata sempre riconosciuta l’importanza per ogni uomo di vivere secondo un comportamento degno della natura umana. E da sempre ci si è resi conto che la vita dell’uomo non può essere ridotta ai soli bisogni del corpo (magari da soddisfare con ogni mezzo), e all’inseguimento del benessere materiale (magari da raggiungere sempre e a ogni costo). L’uomo, infatti, è dotato anche di ragione e di spirito, per cui, in quanto essere umano, è prima di tutto capacità di ragionare e di decidere cosa fare, per vivere in maniera piena la propria esistenza e convivere con gli altri in condizioni serene. È grazie alla ragione esercitata nella vita quotidiana che nasce e si sviluppa in ciascuno il senso di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, cioè, l'idea di bene e di male. Quindi, conquistare forti valori morali, a cui ispirarsi nell'agire quotidiano, significa compiere un percorso, mediante il quale, giorno per giorno, attraverso anche fallimenti e afflizioni, si giunge a capire quello che per ciascuno è veramente importante e pieno di significato per la vita propria e degli altri.

Ovviamente questo percorso non viene compiuto nell’isolamento né viene realizzato nel chiuso del recinto della propria individualità. Non si nasce da soli, non si cresce da soli, non si vive da soli. L’uomo è un essere sociale: e sono proprio le persone che lo circondano che influenzano la sua strada e gl’indicano la via che potrebbe seguire; sono le persone più vicine che, inevitabilmente, influenzano la scelta di quelli che saranno i valori di ciascuno. Quindi, è innanzitutto dalla famiglia che giungono le prime e più importanti informazioni. Una famiglia, fondata sull’altruismo generoso e quotidianamente alimentata dal senso di donazione gratuita, comunicherà ai suoi membri certamente i valori della corresponsabilità, della complementarietà, della dedizione, della generosità; una famiglia, invece, fondata sull’egoismo, preoccupata solo per i propri problemi e attenta esclusivamente al raggiungimento dei propri interessi, non potrà che inviare messaggi d’assoluta indifferenza per gli altri e infonderà sentimenti d’insensibilità, di ostilità e di cinismo morale. All’azione della famiglia seguirà l’opera della scuola. Se nella vita della scuola ci sono operatori professionalmente preparati, umanamente pronti a intuire i problemi dei giovani e capaci d’indicare loro nobili traguardi, da raggiungere con sistemi onesti, certamente vengono gettati semi di rettitudine umana e di sana solidarietà, i quali, sviluppandosi, creeranno futuri uomini adulti maturi, che sapranno separare ciò che è buono da ciò che è cattivo. Infatti, quando il giovane, a suo tempo, s’inserirà nella vita della società, porterà in essa le idee rette, i principi sani e i valori morali, ch’egli ha acquisito e fatto propri, e arricchirà così tutti quelli che lo circondano a livello culturale, morale, politico e religioso.

Un compito non facile, che hanno dovuto affrontare anche i “giovani di ieri”, ma forse con una differenza notevole: oggi, infatti, messaggi pubblicitari e società esterna hanno assunto un’influenza maggiore che in passato. Ma è comunque importante che i giovani acquisiscano una morale, e non sottovalutino il ruolo che debbono svolgere: è nella loro buona condotta che si nasconde la speranza del mondo; un futuro morale degno dell’uomo dipende solo da loro. Infatti, i comportamenti di oggi segneranno fortemente il domani. Il problema è che a volte non sono solo i giovani a non avere valori morali, ma hanno le loro responsabilità anche i “grandi”.

venerdì 8 aprile 2011

IL MONDO DEI GIOVANI: CHI SONO? CHE COSA CERCANO?

Tracciare il profilo dei giovani d’oggi non è compito facile, e bisogna evitare giudizi affrettati e generalizzazioni semplicistiche. Ognuno di noi, pertanto, dovrebbe esaminare e verificare personalmente, secondo le proprie esperienze, tutto ciò che viene sostenuto sull’argomento. Infatti, è vero che il mondo giovanile attuale si presenta come una realtà complessa e talora anche contraddittoria; ma, ciò nonostante, si possono individuare alcuni fatti, che accomunano il modo di pensare e di reagire di tutti i giovani, in quanto influiscono fortemente sulla loro formazione e sul loro comportamento. Basti pensare all’influsso della globalizzazione e dell’economia di mercato, alle ripercussioni dei mutamenti nella vita di coppia, alle conseguenze della crisi del modello di famiglia tradizionale, agli effetti dell’eccessivo esibizionismo della sessualità, all’impatto di certa qualità di musica, di televisione e di cinema, all’uso di internet, che ormai unifica la mentalità in ogni parte del mondo.

I “giovani” sono quelli compresi tra i 22 e i 35 anni circa (infatti, si indicano “adolescenti” quelli compresi tra i 18 e i 22 anni circa). I giovani, quindi, vivono gli anni, in cui per natura si aspira a divenire autonomi psicologicamente e indipendenti socialmente, mediante l’affermazione della propria personalità nei vari aspetti della vita e nei momenti soprattutto delle scelte decisive. I giovani, cioè, vivono fortemente il bisogno d’essere se stessi, per cui, sulla spinta del mutare delle situazioni sociali e culturali, sentono il bisogno di riesaminare quello che hanno ricevuto dall’educazione e di prendere le distanze dalle richieste (secondo loro non sempre utili) della società che li circonda. Per questo è possibile incontrare giovani, che sono già inseriti negli studi o anche impegnati in attività precarie, ma che tuttavia sentono il bisogno d’acquistare piena fiducia in se stessi, liberandosi dai dubbi sulla vita e assumendosi impegni seri e durevoli.

In questo cammino di crescita e di conquista d’una propria dimensione autonoma, però, i giovani si aspettano - e spesso lo chiedono apertamente - il sostegno da parte della società, la quale, al contrario, per diverse ragioni, sembra alimentare in loro per lo più il dubbio e la debolezza, per cui alcuni di essi sono indotti ad affidarsi a risposte superficiali e ad aggrapparsi a soluzioni banali, che non li aiutano certamente nel loro cammino verso la maturità. Oltre a queste difficoltà i giovani debbono affrontare anche quelle ancora più difficili causate dal rapido diffondersi delle moderne tecnologie e dall’uso d’internet e di videogiochi, che riempiono la mente e l’animo di tutti, ma più facilmente dei giovani, in quanto sono più malleabili e più suggestionabili, data anche la poca esperienza di vita vissuta. Infatti, queste tecnologie mediatiche predispongono i giovani a vivere nel mondo dell’astratto e dell’immaginario senza contatti con la realtà, per cui essi hanno difficoltà a entrare in contatto concreto con la vita reale, che peraltro spesso li delude e li deprime.

A questo punto ci troviamo di fronte a una situazione piuttosto strana: da una parte si lamenta che i giovani “non vogliono crescere” e si pretende che essi diventino autonomi il più presto possibile, dall’altra parte, invece, si vedono giovani che vogliono farlo, ma stentano a decidersi di separarsi dal loro ambiente d’origine. Allora forse è bene riflettere su qualche aspetto dell’educazione che oggi viene data loro; un’educazione, forse, che fa nascere nei giovani molte aspettative e li induce ad accarezzare molti sogni, spesso a scapito delle vere realtà, per cui essi finiscono per credere di poter manipolare tutto e sempre in funzione di se stessi, senza comprendere e accettare che nella vita concreta ci sono non poche situazioni che limitano il campo delle proprie scelte e talora costringono a decisioni amare. Oggi, l’educazione forse si concentra troppo sul successo personale a qualunque costo, a scapito della realtà sociale, delle possibilità economiche, della preparazione professionale e della formazione di valori culturali e morali. E tutto questo non aiuta certo il giovane a costruirsi una propria personalità.

I giovani, inoltre, debbono far fronte ad altri due condizionamenti, che determinano il loro comportamento: da una parte, l’aspettativa d’una vita umana più lunga (per cui si suppone che ci sia tantissimo tempo per prepararsi nella vita, e comunque per impegnarsi sul serio) e, dall’altra parte, la vita sociale che li costringe ad un’adolescenza sempre più prolungata. Si tratta di due aspetti che giocano a sfavore dei giovani, che restano tentati, se non addirittura invogliati, a rimandare sempre al più tardi ogni loro risoluzione. Questa loro indecisione non è altro che una tacita richiesta di aiuto, per maturare la propria capacità affettiva e per rapportarsi con le nuove ideologie. In primo luogo, il giovane, per naturale aspirazione della sua età, vuole conoscersi e autostimarsi; però, molte sue richieste restano senza risposta, per cui incorre in dolorosi insuccessi e penosi fallimenti, che lo costringono a rimettersi continuamente in discussione: all’improvviso, si sente più fragile, teme di non essere più capace di sostenere il suo ruolo. Se si pensa che questi disagi si protraggono fino ai 35 anni (se non oltre), è facile capire la sua angoscia e le sue reazioni aggressive. In secondo luogo, la vita affettiva del giovane, sotto l’influsso delle scene erotiche sregolate cui assiste, è portato a pensare che l’affettività è qualcosa d’immediato, senza rispetto di tempi e di modi propri della costruzione di un rapporto che abbia senso umano. La pornografia, le situazioni di separazione e di divorzio, la banalizzazione e l’esibizionismo esplicito della sessualità, sono tutti ostacoli per la maturazione del giovane. E, infine, il crollo delle ideologie politiche e il sorgere di movimenti improntati al liberalismo, al consumismo e all’individualismo hanno compromesso il senso della vita veramente democratica: gli altri non esistono, vale solo l’individualismo morale e l’egoismo economico. Come meravigliarsi, allora, se i giovani brancolano nello scetticismo e si smarriscono nel disordine. Eppure cercano la valorizzazione del matrimonio, i valori della famiglia, la dignità della legge morale e civile, l’inserimento onesto nel campo sociale e professionale, la qualità dell’ambiente, il senso della giustizia e della pace.

martedì 8 marzo 2011

UNA LAICITÀ “NUOVA” PER RIPARTIRE

Nel definire il significato di “laicità” e nel fissarne compiti e ruolo, talora si frappongono alcuni equivoci, che alterano la serenità del dialogo e fuorviano dalle reali intenzioni della discussione. Quindi, è necessario innanzitutto precisare il senso autentico della parola “laicità”, che, pur essendo ricca di contenuto e di valore, non sempre è intesa e adoperata in maniera appropriata. Essere laico, infatti, non significa, come purtroppo spesso si pensa, essere un avversario della religione in generale e del cattolicesimo in particolare; la parola “laico”, di per sé, non vuol dire l’essere né “credente” né “indifferente” né “miscredente”. A essere ostile alla religione e a combatterne ogni forma di predicazione è il “laicismo”, cioè quell’atteggiamento estremista, che disprezza e odia la religione e le chiese per pregiudizio. La vera “laicità”, invece, anche quando non condivide dottrine e regole dei diversi campi religiosi (o anche modelli proposti dalla politica, dalla società, dall’economia, dalla morale, dalla scienza, dalla teologia, ecc)), tuttavia li valuta con serena imparzialità, li rispetta con lealtà e li apprezza con onestà, senza fare confusione tra le rispettive facoltà e, soprattutto, tenendo ben separate – con intelligenza e fermezza – le rispettive competenze delle Chiese e degli Stati.

La “laicità”, pertanto, non è un insieme di dottrine particolari, ma è soltanto un abito mentale, grazie al quale si distingue ciò che è dimostrabile con la ragione da ciò che si accetta per fede. La laicità, quindi, non s’identifica con alcun credo specifico e non sostiene alcuna filosofia o morale o politica o ideologia particolare; essa è soltanto la capacità di articolare le proprie convinzioni (siano esse religiose, filosofiche, sociali, culturali) secondo regole che sono proprie della logica razionale, la quale, per la sua stessa natura, non può accettare o subire condizionamenti esterni, perché perderebbe la sua validità. Infatti, la logica razionale è veramente tale, solo se opera nella sua assoluta autonomia, cioè solo se è libera e, quindi, “laica”: tanto in un San Tommaso d'Aquino quanto in un pensatore ateo, la logica s’affida sempre e solo a principi di razionalità, allo stesso modo in cui, nella matematica, la dimostrazione d’un teorema obbedisce solo alle leggi della matematica, indipendentemente dal fatto che essa sia fatta da un Santo o da un miscredente.

La laicità, così intesa, crea la cultura della tolleranza: quella tolleranza che si concretizza nella sapiente umiltà che fa dubitare delle proprie certezze. Il laico è veramente tale, quando è “libero” davvero, cioè quando non si crea propri idoli da adorare né accetta miti altrui da venerare. Egli crede con forza e coerenza in alcuni valori che fa suoi, ma nello stesso tempo non dimentica mai che esistono anche i valori degli altri, che sono pur’essi nobili e validi e, perciò, meritevoli di stima e di rispetto. Laicità significa, allora, avere il coraggio di fare le proprie scelte, assumendosi la responsabilità delle eventuali rinunce necessarie e degli eventuali errori e fallimenti, senza confondere in nessun caso il pensiero rigoroso con i convincimenti fanatici e senza mescolare il sentimento sincero con le reazioni emotive e passionali. Per queste sue caratteristiche la laicità crea e difende una moralità appropriata, con cui si evitano sia gli eccessi del moralismo fazioso sia le licenziosità del permissivismo. Solo il “laico”, dunque, è e vive da uomo libero, perché solo lui aderisce a un'idea, senza restarne succube; s’impegna politicamente, senza perdere la propria indipendenza critica; non resta schiavo delle sue stesse idee e non denigra quelle degli altri; non inganna se stesso, trovando mille giustificazioni ideologiche per le proprie mancanze.

Questa concezione di laicità è stata condivisa e raccomandata anche dal Concilio Ecumenico Vaticano II, nel quale viene delineata una Chiesa aperta alle esigenze del mondo, attenta ai “segni dei tempi”, alla ricerca di un dialogo fecondo con il “Mondo” nelle sue varie dimensioni. Perciò, si rivendica per l’uomo una fede religiosa integrale, cioè che non può essere ridotta a un affare privato riguardante solo la sfera personale, poiché il credente, in quanto “laico”, non può né deve essere relegato nel recinto del suo tempio, così come chi professa idee diverse deve godere del diritto a realizzare nella vita sociale le sue idee. Il volere per forza chiudere il credente nella sua cappella o il pretendere di scacciare dal proprio recinto chi la pensa diversamente, fa parte d’un laicismo arrogante. Del resto, se si vuole una “Chiesa aperta al mondo” e disponibile a capirne e ad accoglierne – sia pur criticamente - le esigenze, si deve ammettere anche un “Mondo aperto alla chiesa”, disponibile, cioè, a comprendere e ad accettare – sia pur criticamente - le sue opinioni e le sue prese di posizione su temi pastorali, che abbiano eventuali implicazioni sociali e indirettamente anche politiche. Autorevoli pensatori religiosi hanno offerto frequenti esempi di questa chiarezza e continuano tuttora a testimoniare l’esigenza di rispettare la ragione e le sue frontiere. Essi, infatti, rivendicano il ruolo che il Vangelo può e deve avere nell’ispirare una visione del mondo e, quindi, nel contribuire a creare una società più giusta; ma, nello stesso tempo, sostengono che la predicazione del Cristo non può mai tradursi direttamente e immediatamente in articoli di legge, per cui esigono un senso profondo della distinzione tra Stato e Chiesa, tra ciò che spetta all'uno e ciò che spetta all'altra.

La laicità, però, s’oppone anche al cosiddetto pluralismo culturale, spesso falso e ostentato dalla società del nostro tempo, la quale esalta tutte le differenze, ma in realtà, sotto l’ingannevole apparenza d’accogliere tutto indistintamente, persegue soltanto il qualunquismo, in cui ogni proposta è considerata come “valore”: c’è posto per tutto e per tutti, perché in esso regna la più piatta indifferenza. Invece la laicità vera, quella che garantisce il pluralismo autentico, riconosce non tutto senza distinzione, ma ogni reale positività di chi operi con efficacia alla costruzione della vita dei popoli e degli stati, i quali non sono contenitori vuoti da riempire con tutto quello che si vuole, ma sono uno spazio, nel quale ciascuno può e deve portare il suo contributo all’edificazione del bene comune. Oggi c’è bisogno di questa laicità “nuova”, per ripartire verso traguardi di civiltà vera.

domenica 6 febbraio 2011

LA BIOETICA TRA SCIENZA DIRITTO E MORALE PER LA DIFESA DEI DIRITTI DELL’UOMO

Alla domanda perché sia nata la bioetica vengono date risposte differenti, perché esse vengono costruite su visioni storiche discordi e restano influenzate da interessi culturali diversi. Tuttavia, una tesi dominante è che la bioetica è nata per proteggere l’umanità dalle conquiste talora incontrollabili della scienza e dalle applicazioni spesso pericolose della tecnologia, per cui è ritenuta una disciplina “difensiva”, in quanto ad essa è delegato il compito di salvaguardare l’umanità dai pericoli che deriverebbero dal mondo della scienza, la quale, pertanto, deve essere riportata sotto la tutela della morale. Anche per questo motivo ogni altra idea e progetto di bioetica, che mirino ad evidenziare i non pochi benefici della scienza e a documentare i non trascurabili vantaggi della stessa tecnica ben applicata, sono visti come il tentativo ingannevole di prevaricare i limiti opportunamente segnati dal senso morale e dalle leggi delle società.

Per verificare l’attendibilità di queste affermazioni, sembra quanto mai opportuno partire da una constatazione indiscutibile: oggi viviamo in tempi dominati da grandi richieste, spesso paradossali e talora persino contrastanti. Infatti, alcuni pretendono d’affrettare la morte di chi soffre (eutanasia), altri gridano alla sacralità della vita e lottano per avere un trapianto; alcuni rivendicano la libertà assoluta per la ricerca scientifica (per giungere a debellare malattie ora inguaribili), altri reclamano la liceità e la bontà del rifiuto di terapie intensive e artificiose, condannate comunque all’insuccesso; alcuni predicano la sacralità inviolabile della vita, altri rivendicano l’irrinunciabile diritto-dovere di migliorarne sempre di più la qualità, rendendola più a dimensione della dignità della natura umana.

A questo punto, non solo è lecito chiedersi cosa determini questa situazione di conflittualità tra scienza medica, leggi della società e norme morali, ma è anche doveroso e urgente trovarvi soluzioni leali e risposte adeguate, considerato che rimangono coinvolti esseri umani (e talora non solo), che concretamente vivono una sola volta e che vogliono, perciò, capire sul serio il valore e il senso della loro vita, per accettare ragionevolmente le situazioni (positive e negative), nelle quali si trovano o potrebbero venire a trovarsi.

Come documenta tutta la tradizione (soprattutto quella che fa riferimento a Ippocrate) l’arte medica alle sue origini consisteva in una pratica clinica affidabile. Il medico, cioè, combatteva la malattia grazie alla sua esperienza; quindi, se un medico dimostrava con i fatti di possedere questa abilità, allora riscuoteva la fiducia dei pazienti, i quali lo giudicavano medico “dotto” e medico “buono”, in quanto con le sue conoscenze operava sempre bene, debellando sofferenze e ridando salute. In sostanza il medico dipendeva dal giudizio e dall’approvazione del paziente, che gli confermava o negava la fiducia oppure ne decretava l’inefficienza e la pericolosità. Il paziente si sottoponeva alle cure anche dolorose che il medico prescriveva, solo perchè era convinto che gli venivano prescritte secondo alcune norme e miravano esclusivamente al suo bene.

Con il trascorrere del tempo il contenuto del sapere della medicina muta gradualmente, arricchendosi sempre di più. Le conoscenze che il medico deve dimostrare di possedere cominciano a costituire il presupposto indispensabile per ogni suo intervento curativo. La medicina dovrà essere in grado di prevedere malattie e affezioni, che avrebbero interessato sia i singoli e sia le collettività; quindi, essa assume il ruolo di utilità anche sociale, potendo – attraverso una propria adeguata organizzazione - divenire lo strumento indispensabile per il mantenimento dell’igiene pubblica e per la tutela della salute d’intere società. Nello stesso tempo, però, scaturiscono le responsabilità anche delle pubbliche autorità, le quali, dovendo tutelare la salute di tutti i cittadini, hanno la responsabilità di “orientare” il sapere e l’arte medica attraverso leggi, alle quali dovranno attenersi sia gli operatori sanitari e sia i pazienti. Le scelte riguardanti la salute anche individuale non stanno più nelle mani del singolo paziente, ma passano attraverso le decisioni pubbliche della società, che attraverso le leggi dello Stato controlla la medicina.

Questo stato di cose genera una sorta di valida alleanza e d’operosa collaborazione tra società e scienza medica, in quanto era più semplice per tutti determinare un bene pubblico omogeneo d’un’intera comunità anziché capire e soddisfare le diverse esigenze dei singoli pazienti. Nello stesso tempo, però, per gli individui nascono delicati e spinosi problemi su cosa intendere e cosa fare per la tutela della salute “propria”, dal momento che – in sostanza - è lo Stato che con la forza dei suoi ordinamenti giuridici decreta l’inizio e la fine della vita, decide quali interventi sono leciti e quali vietati, determina quali scelte sono possibili e quali vietate.ù

I problemi s’accrescono e s’acuiscono ancora di più, quando la scienza conquista nuove conoscenze importanti, che la medicina, però, non può rendere operative per colpa dell’autorità politica, che non riesce a deliberare a tempo debito regole di comportamento adeguate ed efficienti. La situazione s’aggrava ulteriormente, quando al processo di Norimberga emerge che in Germania, che aveva tutta una propria legislazione a garanzia della sperimentazione scientifica, gli internati d’un campo di concentramento erano stati usati per la sperimentazione. E’ a questo punto che nasce e s’impone la bioetica, con lo scopo di sollecitare una possibile armonia tra l’utilità della scienza medica e la tempestività di norme comportamentali. Quindi, storicamente la bioetica nasce per garantire la dignità dell’uomo, pesantemente violata dall’irresponsabilità di certi ricercatori scientifici e gravemente compromessa dall’inerzia legislativa degli Stati. Essa intende raggiungere questo scopo mediante due suggerimenti: riportare al centro delle scelte mediche la libera volontà del singolo cittadino, che deve ritornare ad essere il primo e maggiore protagonista nelle decisioni riguardanti il suo diritto alla salute e ripristinare la fiducia nella vera scienza, intesa come forma di conoscenza controllata e continuamente rielaborata attraverso metodi trasparenti e socialmente aperti, in quanto così non rappresenta un pericolo per l’uomo; anzi, al contrario, rappresenta il sistema più efficace per la tutela dell’ambiente e per la soluzione di problemi, che l’evoluzione biologica e quella culturale hanno prodotto e producono nella lunga storia della vita sulla terra.

Si nota facilmente come in tutto questo contesto rimane quasi scontato il presupposto che la medicina e la scienza in genere debbano essere ancorate e racchiuse naturalmente da regole morali. Ed è giusto. Come è giusto che, dinanzi alla fallibilità e addirittura alla devianza disumana di certa sperimentazione scientifica, la morale intervenga con decisione e fissi con chiarezza dei limiti ben precisi a difesa della vita umana; e ciò vale soprattutto da quando alcuni Stati si sono dimostrati incapaci di tutelarne i diritti contro l’imbarbarimento generato da certo mercato dei prodotti realizzati grazie alla ricerca scientifica. Solo che queste regole morali spesso pretendono di essere valide perennemente, se non addirittura in sé e per sé immutabili e, quindi, inviolabili, tanto da ritenerle naturalmente incorporate in qualunque campo scientifico. Ma forse non è proprio così. Infatti le norme della morale, nella scienza e in ogni campo dell’agire umano, debbono accompagnare e seguire anche i mutamenti storici e gli avanzamenti culturali, a rischio di rimanere inefficaci e sterili, quando non addirittura dannose, in quanto incapaci a indicare giuste finalità e di proporre opportune modalità. E questa è un’opinione fondata su riscontri di fatto. Infatti, se si esaminano alcuni problemi fondamentali, che stanno alla base della bioetica (quali, ad esempio, l’aborto e l’eutanasia), non è difficile notare che essi sono divenuti “problemi” non in seguito ai progressi e ai mutamenti ritenuti incontrollati della scienza, e nemmeno del tutto all’incapacità politica di legiferare, ma anche (e, in qualche caso, soprattutto) alla tenacia persistente e inamovibile di certe dottrine etiche, che, a differenza di altre, non hanno mai accolto né condiviso alcune valutazioni morali. E’ opportuno, allora, precisare che lo sviluppo scientifico ha solo messo in evidenza alcuni conflitti morali già da tempo sorti all’interno dell’etica, e da tempo discussi tra alcune posizioni etiche dominanti e altre rimaste, invece, minoritarie. Sotto questo aspetto, forse sarebbe più utile che le diverse teorie etiche aprissero tra di loro un dialogo aperto e leale, al fine di riconsiderare e rifondare alcuni principi fondamentali etici, da cui ricavare adeguate norme attuative, che mirino non all’affermazione di qualche posizione predominante, ma alla garanzia dell’autonomia e della libertà dell’uomo, unico e ultimo responsabile della propria coscienza.

lunedì 3 gennaio 2011

LA BIOETICA: DISCIPLINA CHE SI COSTRUISCE COL DIALOGO PER LA RICERCA DEI PRINCÌPI UMANISTICI

La bioetica è la parte dell’etica, che studia i fenomeni della vita organica e va alla ricerca di risposte efficaci ai problemi relativi alla procreazione, alla vita e all’estinzione dell’essere umano; alle problematiche, cioè, riguardanti la nascita e lo sviluppo del corpo, l’età matura e la vecchiaia, la salute e la malattia, la morte. L’etica (e, quindi, anche la bioetica) è una disciplina che si fonda sulla ragione umana, in quanto cerca di conoscere con severità razionale i fondamenti generali, sui quali sarà stabilito quali comportamenti dell’uomo sono buoni, giusti e moralmente leciti, e quali, invece, sono cattivi, ingiusti e moralmente scorretti. L'etica e la bioetica, pertanto, non possono costruirsi su basi solamente sentimentali o riconducibili soprattutto a slanci emotivi d’umana solidarietà e d’amorevole compassione, che rimangono certamente sentimenti inviolabili e degni di rispetto, ma inadeguati a trovare e a mostrare la strada che nelle scelte morali devono imboccare sia gli individui che le società. Solo una disciplina sistemata con rigore logico può gettare le basi e fissare i limiti, entro i quali nè potrà né dovrà spingersi la libera volontà degli uomini e la legittima autorità degli stati.

Nella bioetica bisogna distinguere la parte “descrittiva” e la parte “normativa”.Nella bioetica “descrittiva” s’osservano e si descrivono i comportamenti riscontrabili degli uomini, al fine di capire i motivi veri della loro condotta morale e di rendere comprensibili gli atteggiamenti realmente presenti e operanti in un ben preciso contesto sociale e culturale; nella bioetica “normativa”, invece, s’individuano alcuni principi generali, sui quali si dovrà regolare il comportamento umano e dai quali successivamente si dovranno ricavare norme precise per la soluzione concreta delle singole situazioni reali. Sono entrambe parti d’estrema importanza, anche se una certa priorità va riconosciuta alla bioetica “normativa”, in quanto essa tratta i principi generali che indicano i valori da rispettare e i fini da cercare di raggiungere. Anche perché, mentre nell’ambito delle norme pratiche possono verificarsi scontri duri e contrapposizioni inconciliabili, invece, nell’ambito dei principi (che, per quanto diversi, non sono mai contraddittori, ma solo differenti e, quindi, negoziabili) non solo è possibile, ma addirittura s’impone la necessità di confrontarsi e di discutere, per raggiungere alcuni “compromessi” concepibili nel rispetto d’una scala di valori essenziali concordati, condivisi, accettati e difesi.

Così definita la bioetica, emergono due conseguenze evidenti e necessarie: in primo luogo, che essa non potrà essere mai una disciplina fissata una volta per tutte e, quindi, immutabile e valida in ogni tempo e in ogni luogo; e, in secondo luogo, che essa non è una materia assolutamente autonoma e indipendente. Infatti, con l’avanzare delle conoscenze e con il progredire delle tecnologie mutano continuamente i costumi del vivere civile, emergono sempre nuovi criteri di valutazione del comune senso morale, nascono improvvisi nuovi campi d’interesse: e da tutto ciò si generano difficoltà nuove e spesso imprevedibili, che a loro volta pongono questioni globali, che coinvolgono sempre e comunque l’essere umano in tutta la sua integralità di corpo e anima, di materia e spirito. E’ assolutamente inevitabile, allora, che si sconfini dall’ambito esclusivo della bioetica e si entri nel campo di altre discipline, il cui il contributo diventa indispensabile e insostituibile.

In ogni caso la bioetica dovrà affrontare problematiche delicate e complesse, che innegabilmente toccano sempre l’intimità più sacra dell’essere umano, che si dibatte nello sforzo di scoprire davvero il significato ultimo della sua vita e di fare onestamente le scelte più giuste per realizzarlo. Per questo la bioetica ha bisogno del contributo forte, responsabile e generoso di uomini in possesso d’una formazione qualificata, d’un’esperienza consolidata e di abilità provata; essa richiede, cioè, una salda e sicura esperienza professionale e morale, che s’acquista solo mediante l’osservazione continua, attenta, umile e indulgente dei comportamenti umani, e che si consolida solo mediante il lavoro quotidiano compiuto con benevola partecipazione e con umano coinvolgimento nel capire, nel vivere e nel risolvere i difficili problemi riguardanti la vita, la salute, la malattia, la sofferenza e la morte. Il primo sostegno richiesto è quello del medico, il quale, però, non intenda la sua professione come una merce né amministri la malattia come un funzionario, ma che, sempre con il dovuto distacco professionale, sappia percepire e condividere paure e speranze, angosce e aspettative del proprio “paziente”, instaurando con lui un rapporto anche di premurosi sentimenti di sincera umanità. Indispensabile, poi, è l’apporto dello scienziato biologo, il quale, mantenendo continui contatti con tutti gli altri soggetti interessati, metterà a disposizione le conquiste delle sue ricerche e i progressi della tecnologia. Decisiva, inoltre, è la collaborazione del giurista esperto nell’organizzare un ordinato e aggiornato registro, in cui annotare e comparare il maggior numero possibile di casi concreti, in base ai quali sia possibile verificare l’attuabilità dei principi generali. Infine, alla bioetica non può né deve mancare il sostegno del filosofo e il supporto del teologo, i quali, risalendo dalle problematiche poste dalla scienza alle questioni etiche generali, individueranno alcuni principi morali capaci di guidare la condotta da seguire nelle singole situazioni concrete.

Da queste considerazioni consegue che nel campo della bioetica nessuno - per quanto ricco di esperienza, di studi e di conoscenze - può ritenersi autosufficiente, cioè del tutto completo ed esaustivo. La bioetica avanza e si consolida solo mediante il dialogo aperto e leale tra medico, scienziato, giurista, filosofo, teologo e chiunque altro ritenga di avere qualche esperienza da comunicare e qualche valore da rivendicare. Lo spirito davvero autentico e validamente costruttivo della bioetica, quindi, sta nel dialogo: cioè, nella disponibilità di tutti a recepire con umiltà le varie opinioni, a vagliare con lealtà le idee differenti o addirittura contrastanti, a ponderare pacatamente le diverse argomentazioni, a prestare attenzione alle sensibilità anche più lontane. Questo atteggiamento, peraltro, non significherà mai un rinunciare al coraggio di dichiarare, difendere e applicare con fermezza i principi generali, cui si sia pervenuti con mente aperta e sincera e che siano stati condivisi con ragionevole chiarezza.

Non esiste, pertanto, una bioetica vera e tutte le altre false; nell’etica e nella bioetica non c’è posto per il vero e per il falso, in quanto in esse sta raccolto e conservato l’intero insieme delle risposte, che nel corso d’innumerevoli anni sono state date alle molte, diverse, nuove, imprevedibili domande, che situazioni problematiche spesso immediate hanno posto davanti alla ragione e alla volontà dei singoli e delle società. Del resto è sufficiente considerare come nel tempo si sono evoluti gli stessi principi generali etici e come, conseguentemente, sono cambiate molte posizioni morali, per rendersi conto che tutta la bioetica non è un qualcosa di astratto e che viene dal vuoto, ma è il risultato testimoniato delle scelte, che uomini e società hanno fatto in ben definiti contesti culturali prevalenti e in situazioni socio-economiche dominanti. Non c’è, quindi, alcun motivo valido, per cui si possa ritenere che la risposta di uno debba valere necessariamente anche per tutti gli altri; ma ognuno presenterà il suo problema, ipotizzerà la sua opinione, argomenterà il suo convincimento e lo offrirà agli altri, affinchè lo vaglino, lo giudichino ed eventualmente decidano se e fino a che punto possano condividerlo ed accoglierlo. In bioetica, dunque, ognuno deve poter seguire la propria strada, ovviamente sempre entro i confini stabiliti secondo i principi generali discussi e condivisi.

In questa prospettiva s’introduce anche nel campo della bioetica quel principio basilare – anch’esso per sua stessa natura fortemente “etico”, in quanto sostenuto da una valida scelta “etica” - della tolleranza. Pensare e agire secondo lo spirito “etico”, proprio della tolleranza, significa consentire a ogni cittadino di avere una propria opinione ragionevole, di fare una sua scelta responsabile, di esprimere senza timori il suo pensiero e di realizzare i convincimenti che gli suggeriscono la sua conoscenza e la sua coscienza; nella cultura della tolleranza, cioè, nessuno può imporre a un altro il proprio pensiero né può impedire ad altri di vivere secondo la propria visione di vita. Ovviamente anche la tolleranza è circoscritta da limiti ben definiti e assolutamente invalicabili, sintetizzabili tutti nel valore inviolabile del rispetto della dignità di ogni “altro”, dall’istante del suo concepimento al momento della sua morte. A garantire l’ossequio assiduo e il più rispettoso possibile di questo valore sono indirizzati il diritto e la morale. Il primo come struttura, che le società si danno per offrire norme precise per la convivenza e la collaborazione produttiva; la seconda come appello esclusivo dell’animo umano, che detta a ogni individuo i comportamenti da tenere nei diversi casi della vita. Comportamenti spesso difficili a comprendersi e a condividere, talora anche “fuori da ogni ragione”, ma tuttavia sempre profondamente “umani” e degni di rispetto.

venerdì 10 dicembre 2010

Per “ORIENTARSI” BISOGNA RAGIONARE O CREDERE?

Il problema dei rapporti tra ragione e fede, nella cultura dell’Occidente, costituisce un groviglio di molte difficoltà e si presenta come il nodo di molti problemi, che bisogna sciogliere, se si vuole tentare una qualche soluzione riguardo al significato pieno e ultimo dell’esistenza dell’uomo, che vive su questa terra solo per un periodo di tempo ben determinato. La difficoltà maggiore del rapporto ragione-fede nasce dal fatto che esso coinvolge molti aspetti e genera molteplici problemi, che s’intersecano tra di loro, quali, le tensioni fra filosofia e teologia, i contrasti tra scienza e fede, le relazioni tra ragione e rivelazione, fino alla allo stesso rapporto vitale tra la fede e il campo pubblico della politica, cioè tra lo Stato e la Chiesa.
Per orientarsi nella vita, cioè per individuare dove ci si trovi e per decidere dove si voglia andare e dove si possa giungere realmente, in altri termini, per capire il senso vero della propria esistenza e, di conseguenza, operare le proprie scelte di vita, si deve dare ascolto soltanto a ciò che suggerisce la ragione umana oppure ci si deve affidare alla fede, che chiede una piena fiducia in qualcosa o in qualcuno, che starebbe al di sopra di tutti e di tutto e che governerebbe le vicende dell’umanità e le sorti di tutto il mondo? Cioè, la ragione e la fede sono tra di loro alternative sino a stare addirittura in opposizione oppure s’incontrano in un “matrimonio d’amore e d’accordo”, grazie al quale è possibile cogliere la verità ultima sul senso della vita dell’uomo, in quanto si uniscono i risultati della lucidità della ragione (che tende a penetrare anche nei misteri della fede, per congiungersi con essi e realizzare una sempre maggiore pienezza di conoscenza) e le proposte del mistero della fede (che offre livelli superiori di conoscenza e chiede di rischiarare più vivamente anche le stesse acquisizioni della ragione)? Questo significherebbe che ragione e fede non solo non si oppongono, ma addirittura s’incontrano e collaborano almeno in tre momenti: cioè, quando la ragione si dispone per aderire consapevolmente alle proposte della fede, quando essa coopera all’interno della fede stessa, per appropriarsi del contenuto della fede medesima, e quando la luce della fede corrobora, conferma, amplia e completa ogni acquisizione della ragione. La questione fondamentale, allora, rimane quella di trovare e definire il modello della ragionevolezza della fede cristiana, per verificare se il credere alla predicazione cristiana sia un atto ragionevole, per cui anche la fede cristiana, perché venga accolta in conformità alla dignità della natura umana, esiga (da parte sua e per sua stessa natura) di essere prima pensata dalla ragione del credente. Per definire questo modello di ragionevolezza, è necessario dimostrare almeno due premesse: da una parte, che non esiste un modello di ragione unico ed esclusivo e, dall’altra parte, che la fede cristiana non può essere relegata nell’ambito esclusivo delle emozioni e dei sentimenti o anche accolta per una sua utile funzionalità sociale o per un qualche bisogno dell’anima umana, magari depressa e in cerca di consolazione.
In ogni caso, tra la voce della ragione e la voce della fede è necessario tentare di trovare una convivenza, forse difficile, ma comunque necessaria. Per meglio comprendere questa situazione, è opportuno ricordare un dato storico. Quando s’iniziò ad estendere il Vangelo fuori dal mondo ebraico, la fede cristiana s’incontrò con la cultura greca; e quest’incontro fu decisivo per la vita e la predicazione della fede cristiana. Infatti, I predicatori del Vangelo, a cominciare da san Paolo, quando annunciavano l’insegnamento di Gesù Cristo ai cittadini ebrei, si recavano nelle sinagoghe, cioè in luoghi di culto religioso; ma quando vollero rivolgersi ai cittadini greci, cioè a uomini pagani, dovettero andare nella “piazza” (nella agorà); quindi, i primi apostoli cristiani ebbero come interlocutore ebreo “il sacerdote”, ma come interlocutore pagano dovettero affrontare “il filosofo greco”, al quale essi proposero la loro fede in quanto “vera” e, perciò, meritevole della giusta attenzione e degna d’essere accolta da chiunque ricercasse la verità mediante la ragione, cioè l’unico mezzo di cui la natura ha dotato l’uomo. L’apostolo cristiano, allora, annunciava e proponeva una verità, che, in quanto tale, si poteva e si doveva affermare davanti a ogni essere ragionevole. Questo fatto storico assume ulteriore importanza, se si considera che il filosofo greco intendeva la filosofia come “un esercizio del pensiero, della volontà, di tutto l’essere, per cercare di pervenire a uno stato (cioè, la sapienza), che d’altronde era quasi inaccessibile all’uomo”.
Il ripensamento di questo fatto storico fa comprendere come ragione e fede non sono due capacità che si sommano tra loro e nemmeno investono due campi diversi e tanto meno opposti. Ciò significa che nella loro struttura ragione e fede non si giustappongono, ma è dall’interno di ciascuna di esse che si richiamano e si postulano reciprocamene. Infatti, se la fede (cristiana in questo caso) incontra la ragione, è anche vero che la ragione (la filosofia greca) incontra la fede. A meno che una delle due non voglia “autolimitarsi”, esse si integrano in un dialogo fecondo; ma, qualora una delle due volesse irrigidirsi in posizioni di superba autosufficienza, ne conseguirebbe un suo impoverimento, che la condannerebbe a inutile sterilità. Da questo chiarimento storico consegue, inoltre, che l’atto del credere è un atto ragionevole e non contro ragione: esiste, dunque, una profonda sintonia e una perfetta armonia fra ragione e fede umana. Questa è la grande intuizione di sant’Agostino, sulla quale egli costruisce la sua dottrina della conoscenza e dalla quale partirà anche la speculazione di san Tommaso d’Aquino.
In estrema sintesi, la domanda fondamentale che bisogna porre è questa: si può accettare che la ragione dell’uomo non verifichi la verità delle risposte che vengono date dalla fede ai grandi interrogativi, quali quelli del “da dove vengo” e del “verso dove vado”, e quelli etici circa l’esercizio della propria libertà? È questa oggi una domanda che non può più essere censurata; anzi esige una risposta urgente, data la situazione storica, in cui l’Occidente è venuto a trovarsi a causa dell’esaltazione o di una ragione mutilata di fede o di una fede mutilata di ragione, entrambe incapaci di risposte pienamente umane e, quindi, di un vero dialogo tra culture e religioni diverse, di cui oggi s’avverte un così urgente bisogno.
Scendendo sul terreno del concreto e delle proposte, non si può sottacere che uno degli ostacoli maggiori e più pericolosi è costituito dalla tenace arroganza di certe parti del mondo della scienza e della teologia di possedere solo esse l’unica indiscutibile verità. Da una parte, infatti, alcuni settori della ricerca scientifica vogliono imporre come indiscutibile ogni loro nuova conquista “sperimentale” senza alcun argine morale o implicanza etica; dall’altra parte, alcune concezioni teologiche esigono un assenso acritico, incondizionato e indipendente da ogni valutazione razionale. Invece, se, lungi dall’affidarsi a una presunta infallibilità dei “fatti” scientifici o dall’aggrapparsi a un’ostinata inviolabilità d’un’opinabile “trascendenza” prospettata come assolutamente indiscutibile, ci si affidasse alla piena e totale “razionalità umana”, forse gli uomini dialogherebbero veramente tra di loro e l’umanità non assisterebbe a così frequenti e cruente lotte, frutto di assoluta irrazionalità. Infatti, la piena e totale “razionalità umana” non è solo ragione e fede, ma è costituita anche da intuizioni e percezioni, da emozioni e sentimenti, da affetti e desideri, da delusioni e speranze, da paure e coraggio. Cioè, un insieme sublime di facoltà, che sostanziano la mirabile ricchezza dell’essere umano, fatto certamente per se stesso, ma aperto anche all’altro; amante di sé, ma bisognoso dell’altro; desideroso di “comandare” e d’intervenire nelle vicende del mondo, ma disposto anche a “ubbidire” ai principi che fanno vivere questo mondo stesso. Questo è il suggerimento d’ogni saggia, umana filosofia, che, sulle orme dell’antico “filosofo greco” Platone e del vecchio “filosofo cristiano” Agostino, indica nella “modestia” della ricerca filosofica della verità l’unica via per una vita individuale serena (se non felice) e una convivenza tra i popoli e le nazioni non belligerante (se non pacifica). Questa “modestia filosofica”, infatti, ricorda a ogni uomo che, per quanto grande e potente egli sia, rimane sempre un essere fallibile: tutte le sue facoltà sono certamente sublimi, ma anche fallibili e, quindi, continuamente ripensabili ed emendabili. E questo può realizzarsi solo grazie a una cultura fondata sul dialogo retto e sincero.

domenica 26 settembre 2010

“ORIENTARSI” ovvero SAPER FARE SCELTE E PRENDERE DECISIONI

Quando si parla di “orientamento”, si pensa quasi sempre alle attività che si fanno in genere nelle scuole, per indirizzare gli alunni e gli studenti nelle scelte degli studi o delle professioni, oppure ai suggerimenti che molti settori della produzione e dell’occupazione propongono, affinchè si trovi qualche collocazione lavorativa, o anche ai consigli che vengono offerti soprattutto agli anziani, affinchè dedichino il loro tempo ad attività “socialmente utili”.
Questi sono tutti aspetti importanti dell’orientamento, ma non ne costituiscono la vera sostanza, che è molto più vasta e profonda. Infatti, la parola orientamento significa rivolgersi verso l’oriente e riconoscere i punti cardinali del luogo, in cui uno si trova. In senso figurato, quindi, significa la capacità di individuare dove si è e dove si può andare; quindi, a qualunque età, dall’adolescenza alla terza età, l’uomo rivolge a sè, anche se in maniera diversa, le domande: “Dove sono? Dove vorrei andare? Dove posso realmente andare?”: cioè, ha bisogno di orientarsi, per operare le proprie scelte di vita.
Dobbiamo considerare, inoltre, che nel nostro tempo le conoscenze crescono e si diffondono con velocità straordinaria, che il mondo del lavoro cambia continuamente e richiede abilità sempre nuove; che i modelli del vivere nella società si modificano ininterrottamente ed esigono continuamente scelte nette e coraggiose. Allora appare chiaro che l’orientamento non può limitarsi semplicemente a informare e a informarsi sugli sbocchi occupazionali né può ridursi a verificare le proprie attitudini lavorative, ma consiste in primo luogo nel riflettere sulla propria identità personale, nel prendere coscienza sicura della propria storia individuale, nel riesaminare i significati su cui abbiamo costruito la nostra vita; e poi, in secondo luogo, nell’analizzare, vagliare, comprendere i contesti culturali e le situazioni sociali, in cui viviamo e vogliamo o dobbiamo operare.
Così inteso, l’orientamento non è un intervento che si organizza dall’esterno dell’uomo (dalla famiglia, dalla scuola, dalla società, dal mondo del lavoro e delle professioni, dalle istituzioni politiche, dalle associazioni civili, dalle organizzazioni religiose), ma è un’azione che appartiene innanzi tutto all’interiorità dell’animo umano, il quale si pone, in questo modo, come l’agente principale delle scelte che ciascuno prende di volta in volta. Orientamento, quindi, significa conoscere se stessi e il proprio ambiente, per essere in grado di decidere autonomamente e responsabilmente di fronte alle diverse situazioni, soprattutto quelle che presentano più possibilità di scelta e attraggono in diverse direzioni. Ciò comporta, ovviamente, il coraggio di affrontare anche il rischio delle proprie scelte e, quindi, delle proprie conquiste, ma anche degli eventuali errori. Solo così, infatti, si scoprono seriamente le reali alternative offerte dal contesto storico e s’individuano le opportunità effettivamente presenti sulla strada, grazie alle quali ci si può inserire nella vita sociale e in quella produttiva.
Per questo è necessaria anche un’adeguata capacità di riadattamento, perché qualche volta (se non spesso) è necessario rivedere le proprie decisioni, dando prova di vera autonomia di giudizio e di forte responsabilità morale. In altri termini, non bisogna semplicemente saper fare scelte convenienti per se stessi ed efficaci per il conseguimento dei propri scopi, ma è necessario anche saper gestire l’andamento dell’intera evoluzione del mondo in cui si vive, collegando risorse, doveri, diritti e contenuti. Questo significa che, quando ci si trova in situazioni di confusione e di mancanza di senso, non bisogna ricorrere subito a soluzioni facili e immediate. Queste, infatti, liberano certamente dall’ansia e acquietano lo sconforto, ma non permettono di vincere l’affanno di un’attesa, che, invece, con i ritmi dei suoi tempi, saprà indicare la strada veramente più giusta e darà la forza di conservare integra e forte la propria esistenza anche nei momenti in cui sembra che manchi ogni motivo per continuare a vivere.
In questa prospettiva ogni uomo può essere considerato come il crocevia di una complessa serie di fattori, tra cui hanno un ruolo fondamentale la propria identità personale e il contesto sociale e culturale in cui egli deve vivere. L’identità personale, però, non è un qualcosa che, una volta acquistata, rimane stabile e immutata nel tempo, ma è il risultato sempre nuovo di un processo in continua evoluzione, che coinvolge sia le scelte dell’individuo e sia l’influsso delle relazioni sociali. Da ciò consegue che, per un valido orientamento, si devono fare le scelte, agendo sia sul proprio mondo interiore e sia sul mondo esterno, in quanto ogni scelta deve scaturire dai progetti che ognuno desidera realizzare e deve sostanziarsi delle concrete possibilità, che offre l’ambiente. L’orientamento veramente efficace, quindi, si realizza in scelte, che vengono fatte sempre nell’ambito di concrete situazioni familiari e sociali, anche a costo di dover sostenete dure lotte con i propri obiettivi o con situazioni, che di fatto impongono dei limiti insormontabili. Dall’incontro sapiente di scelte da parte dell’uomo e di opportunità da parte dell’ambiente s’incrementa, a sua volta, un terzo fattore molto importante: cioè, lo sviluppo dell’intera civiltà, grazie al quale si creano per tutti, a prescindere dall’età di ciascuno, nuove situazioni di vita e nuovi problemi particolari. Pertanto, ogni azione di orientamento non lascia mai l’individuo così come era prima né fa rimanere inalterato l’ambiente circostante. Da quest’incontro virtuoso di volontà umane e opportunità ambientali nasce un nuovo corso di vitalità. L’orientamento, quindi, non è solo un punto di arrivo, ma è anche e soprattutto un punto di partenza, in quanto non solo fa progettare finalità e obiettivi da raggiungere, ma suggerisce sempre, e validamente, anche un qualche “senso” profondo della vita per i singoli e per l’umanità intera. Infatti, gli obiettivi dei propri progetti sono descrivibili logicamente e spiegabili razionalmente, ma il senso dell’esistenza individuale e della storia del mondo è qualcosa di più intimo e non comprensibile con i nessi della sola ragione, perché è la totalità dell’uomo che intuisce e vive i moti arcani che s’agitano nel suo animo, costituito anche di sensibilità, di affettività e di sentimento.
Orientare e orientarsi, allora, costituiscono indubbiamente un difficile impegno per l’essere umano, ma anche il motivo della grandezza e della dignità della sua natura. A questo proposito Rita Levi Montalcini ricorda come l’uomo, al pari di ogni essere vivente, “porta gelosamente rinchiusa nello scrigno nucleare di tutte le sue cellule, la storia della sua specie”, ma, a differenza di tutti gli altri esseri che hanno già segnato il loro destino, lui solo possiede la facoltà di “esercitare il diritto di scegliere, tra le molteplici strade che si aprono davanti a lui, quella che ritiene più confacente alle sue aspirazioni”, perchè dotato della capacità di intendere e di volere e, quindi, di tracciare il proprio percorso di vita.

domenica 27 giugno 2010

VERITA’ LIBERTA' E SOLITUDINE

Il modello culturale dell’Occidente (che va estendendosi, purtroppo, anche in altre aree del globo terrestre) induce l'uomo a una vita di dinamismo frenetico, che, con ritmi di superficialità e vortici di celerità, lo trascina in spirali di tale confusione, che gli tolgono ogni possibilità di autodeterminazione e la capacità di rimanere consapevole del senso e della direzione della sua stessa vita. Infatti, nel sistema socioculturale occidentale dominano sempre più strutture così invasive che riempiono fino all’assurdo la mente e il cuore dell’uomo. Nelle singole persone, poi, l’assurdità si mescola a una specie di stordimento diffuso, testimoniato dalla gravità, con cui essi si dedicano all’appagamento delle proprie ambizioni. Una prima conseguenza comune a molti è una stanchezza morale, che invade l’intelligenza e la volontà, le occupa in un crescendo continuo che genera e alimenta un diffuso malessere insopportabile. Allora s’insinua lentamente un intimo bisogno d’arrestarsi, di scrutare la situazione, di vederci chiaro: con l’intento d’impossessarsi della propria esistenza, rendendosi conto dei motivi profondi di un simile stato d’animo, comprendendo le radici vere del proprio pensare e le motivazioni reali del proprio modo di vivere. A questo punto, lo stato di disagio si muta in bisogno di liberazione, e quel torpore atrofizzante viene gradualmente scosso da una silenziosa ma potente volontà di un vivere nuovo, consapevole, ragionevole, responsabile. Cominciano, così, a sprigionarsi nascoste energie insite nella natura umana; e intanto nell’animo insorgono, sempre più frequenti e intensi, improvvisi bagliori, presagi di rinnovato vigore e di forte anelito a verità autentiche. Il mondo circostante, allora, si svela in tutta la sua inconsistente appariscenza; e frana con tutto il suo apparato di finzioni e d’ipocrisie. L'uomo, quindi, se ne distacca; e va alla ricerca di spazi e tempi tutti suoi, da non condividere con alcuno, ma da vivere nell’intimità profonda del suo animo, desiderando di ritrovare il suo io vero e di riscoprire il senso autentico della sua esistenza, rimasti, forse per lungo tempo, dissacrati e smarriti nei quotidiani affanni disumananti. Tenta, allora, la via della meditazione solitaria; si sforza di rifugiarsi nel silenzio interiore popolato di sole voci “umane”; deve affrontare e vincere non poche difficoltà, perché è stato disabituato alla riflessione e all’ascolto: non sa più ritrovare la strada per addentrarsi sul serio in se stesso. Infatti, la strada per trovare e vivere questa dimensione di vita interiore è una sola: conquistare autodisciplina e padronanza di sè tali che, proprio mentre consentono di essere parte attiva e operante del tutto sociale e cosmico, rendano liberi da tutto e da tutti. Solo nell’assoluta libertà potranno instaurarsi quei valori che, proprio perché evidenti, onesti, schietti, umani, diventano i valori anche “suoi”. Saranno valori difficili a comprendersi e ardui a viversi, ma saranno quelli che sosterranno ogni vita a reale dimensione di umanità integrale. La vera solitudine, quindi, non è il vuoto che creiamo attorno a noi, ma è la nostra interiorità che riempiamo di verità autentiche nella maggiore libertà possibile. Non è, perciò, un tagliarsi fuori dal mondo concreto, ma un vivere e un viversi dentro. Questo significa scegliere la solitudine, che fa vivere nella verità che libera e che salva. A questa verità non potrà mai arrivare – ovviamente – chiunque presuma o di possederla già o di trovarla fuori da sè. La verità, infatti, abita solo nell’arcana interiorità d’ogni cuore umano, come ha testimoniato Agostino, sull’esempio di non pochi filosofi greci, tra cui Parmenide, Socrate e Platone. E’ questo l’unico itinerario che conduce alla verità assolutamente innegabile, che nè mutamento di tempi storici, né trasformazioni di cultura, né alternanze di egemonie politiche possono intaccare o modificare. Se, invece, ci s’inoltra in percorsi inadeguati a condurre alla verità (e sembrano dominanti), il discorso è chiuso e non c’è alcuna possibilità di autenticità dialogante. Con questi procedimenti, infatti, nessuno ha mai trovato la verità, nè mai la troverà, in quanto non si può “trovare” ciò che si possiede già e da sempre in se stessi. La verità “cercata e trovata” fuori da sé è destinata a tramontare fino alla sua totale scomparsa, in quanto si tratta del prodotto di una cultura storica e, quindi, datata, contingente, transeunte: verità, cioè, negabile, destinata a durare quanto il tempo che l’ha determinata. La verità assolutamente innegabile, invece, non conosce né tramonti né eclissi; e Agostino ammonisce: “Non la luce che vedono i nostri occhi, ma quella che vede il cuore, quando sente dire: ‘è la Verità’. Non cercare di sapere cos'è la verità, perché immediatamente si interporranno la caligine delle immagini corporee e le nubi dei fantasmi e turberanno la limpida chiarezza, che al primo istante ha brillato al tuo sguardo, quando ti ho detto: ‘Verità’! Resta (se puoi) nella chiarezza iniziale di questo rapido fulgore, che ti abbaglia, quando si dice: ‘Verità’! Ma tu non puoi. Tu ricadi in queste cose abituali e terrene”. Lasciarsi folgorare dalla luce che solo il cuore è capace di vedere; quindi, non “ragionare” sulla verità, ma “vedere” la verità. Allora, nella solitudine totalmente “vuota” s’avvera il prodigio: finito e infinito si fondono nell’esistenza; mortale e immortale si compenetrano nella contingenza; contingente e assoluto s’arricchiscono reciprocamente; singolarità e cosmicità s'intersecano e si realizzano in tutta la loro pienezza, proprio mentre sono attivamente operosi nel tracciare nuovi solchi alla storia e nell’indicare nuove direzioni all’umanità. Agisce come un piccolo sasso che, lanciato nel gran mare dell’essere, smuove tutta la storia dell’umanità e del cosmo, generando, con la sua umile e silenziosa fedeltà alla verità libera, un movimento di cerchi concentrici, forse lento ma certamente irrefrenabile. E così, la paura dell'essere soli si trasforma in potente energia, promotrice di tempi nuovi e più a dimensione umana. E Nietzsche dà quest’importante indicazione: “Chi sa di essere profondo, si sforza di esser chiaro. Chi vuole apparire profondo alla folla, si sforza di esser oscuro. Infatti la folla ritiene profondo tutto quel di cui non riesce a vedere il fondo: è tanto timorosa e scende tanto mal volentieri nell'acqua!”. Solo chi osa scendere nel profondo del proprio essere avrà chiaro davanti a sé il fulgore della verità, che risplende solo nella libertà.

domenica 14 febbraio 2010

Spigolature di pensiero 2010

In questo libro troviamo all’opera un ‘essere sotterraneo’, che penetra, scava, rimuove di sotterra. Ammesso che si disponga di occhi capaci di vedere questo lavoro in profondità, lo si vedrà avanzare lentamente, cautamente, delicatamente, implacabile.

Egli non coltiva sicuramente una fede che lo guidi, e non nutre una consolazione che lo compensi?

Vuole forse avere la sua propria lunga tenebra, il suo mondo incomprensibile, occulto, enigmatico, perché è certo che avrà anche il suo mattino, la sua liberazione, la sua aurora?

Certamente tornerà indietro: non chiedetegli che cosa cerca là sotto, ve lo dirà lui stesso”.

(Friedrich Nietzsche, Aurora).

mercoledì 30 dicembre 2009

PERCHE’ IL DOLORE E LA MORTE?

Vi sono molte discussioni e si propongono non poche argomentazioni convincenti sulle risposte che sono state avanzate e che tuttora si vanno ricercando sulle tristi realtà del dolore e della morte. Tornerebbe, però, forse più utile, e comunque più “umano”, tentare di penetrare le motivazioni vere e profonde che spingono gli “esseri razionali” a porsi la domanda stessa più che a trovarne la risposta. Infatti, è dentro il perché della domanda che sono custoditi i segreti della drammaticità di questo problema, che ogni singolo essere umano vive nell’intimità inconfessabile del suo animo, il quale – si deve riconoscere per onestà intellettuale - non è nutrito e guidato da certezze oggettive incontestabili, bensì alimentato e sorretto dagli orientamenti unici, che scaturiscono dalla particolare visione del mondo, che l’irripetibile storia personale propone a ciascuno come la più valida e la più credibile.
L’essere umano non tende, per sua necessità naturale, alla felicità; e, pertanto, non si chiede che cos’è la felicità, né la rincorre in sè e per sè. Seguendo i bisogni della propria natura, l’essere umano vorrebbe solo non soffrire, cioè, vorrebbe solo godere di un corso esistenziale biologico, spirituale e morale ordinato secondo i limiti e le finalità della sua realtà; e, per questo, si chiede cos’è il dolore in ogni sua manifestazione, fino alla sua ultima rivelazione che è la morte. Il dolore, infatti, è presente e domina ogni forma di esistenza; e la morte, conclusione ineluttabile d’ogni corso esistenziale, è l’unico evento certo, che accomuna ogni genere vivente, compreso quello umano. L’essere umano, però, è dotato non solo di sensibilità e di ragione, ma anche di sentimento, di emotività e forse soprattutto di libertà; in quanto tale, è disponibile ad accettare e sopportare qualunque evento che, però, non sia assurdo. Ma il dolore rimane un assurdo, perché contrario a ogni principio di ragionevole comprensione. Esso, infatti, sfugge a ogni tentativo di farsi conoscere, anzi si ostina a rimanere serrato nell’impenetrabile dominio dell’incomprensibile, che va al di là d’ogni limite anche dello stesso mistero. Il mistero, infatti, è un’esigenza della ragione umana protesa certamente anche verso l’ignoto, ma che sia razionalmente fondato, cioè, verso quell’ignoto che propone conoscenze e realtà superiori alle capacità cognitive umane, ma che sono supportate da elementi non irrazionali. Il dolore, purtroppo, non ha un simile fondamento, per cui rimane un assurdo, almeno fino a quando non si manifestino alla mente umana suoi eventuali aspetti “ragionevoli”.
Allora – ci si chiede – qual è il significato della sofferenza, quali sono le sue radici, che “valore” porta o aggiunge alla natura umana e alla storia della sua evoluzione? Quale ruolo storico svolge nell’inesorabile scorrere dell’esistenza dei singoli e dell’umanità? Insomma, che rapporto c’è tra sofferenza e realtà dell’essere umano (e dell’intero cosmo)? L’esistenza umana consiste in una ben determinata durata di tempo, di cui ciascuno dispone, non importa se già necessariamente programmata in ogni suo accadimento o con margini di possibile intervento umano; anche se tutti dobbiamo prendere atto almeno che la nostra nascita non è stato frutto di una scelta consapevole o inconscia. “Vivere” questo segmento esistenziale può essere o pensato e realizzato come un riempire e un concretizzare un qualche progetto “sensato” (per usare il linguaggio del Popper) oppure concepito e vissuto come un esaurire e un consumare un qualcosa, che ci è dato in uso, di cui, quindi, è consentito disporre provvisoriamente e rapidamente, perché è destinato a passare inesorabilmente. L’esistenza umana, allora, è una realtà o “sensata” ma necessitata, oppure “insensata” ed effimera. O vi è qualche altra possibile visione?
L’intero arco della vita presenta momenti propizi e momenti avversi, stati di felicità e stati di dolore. A questi modi di essere non si vuole attribuire alcun giudizio valutativo; si vuole soltanto indicarne la presenza certa e ricercarne un significato plausibile. Appare razionalmente appagante ma umanamente insoddisfacente, la convinzione, secondo cui ogni “essere” è sempre e comunque positività e valore (buono, vero, bello, giusto, ecc.), per cui ogni negatività e disvalore devono ricondursi a una qualche carenza di essere, dovuta alla natura stessa d’ogni essere finito e contingente. Tuttavia - a prescindere che non è del tutto agevole accettare la presunta compresenza di essere e di non-essere - questa non è una risposta al perché sia proprio “l’essere finito e contingente” a interrogarsi sul proprio dolore e sulla propria morte; mentre è quest’ultima la domanda, dentro la quale si cela l’arcano della drammaticità del senso dell’umana esistenza e alla quale si vuole trovare una possibile soluzione.
E’ una partita, questa, che ciascun essere umano si trova a dover giocare sempre da solo. Infatti, non si può delegare ad altri la propria sofferenza né ci si può fare sostituire nella propria morte. E sofferenza e morte sono sempre collegati durante tutta l’esistenza, anzi sono tali che l’una richiama sempre l’altra. Infatti, il dolore fisico e morale è, in sostanza, sottrazione di vitalità, per cui è preannuncio della morte, che giunge come assenza totale di vita. Per l’ineluttabilità di questo destino - individuale ma universale, in quanto accumuna tutti nella medesima sorte - l’essere umano, finito e contingente, proprio in quanto tale, vive costantemente in compagnia del suo progressivo “estinguersi”.
Per andare verso quale meta? Ogni realtà – si afferma spesso e da molti – ha, anzi deve avere, in se stessa la ragione del suo esistere. La teleologia universale è veramente una connotazione reale oppure risponde a un’esigenza soltanto dello spirito umano? Che nel cosmo ogni cosa tenda alla realizzazione di un immenso e ordinato progetto armonico, all’interno del quale si assume senso e significato, è una realtà oppure concretizza solo l’anelito dell’animo ad abbracciarsi a un qualcosa che mitighi il suo smarrimento e calmi la sua ansia esistenziale?
Una realtà, comunque, s’impone in tutta la sua asprezza: non c’è alcuno che non senta l’acuto morso della domanda: qual è il senso della sofferenza che accompagna ogni attimo dell’esistenza umana, che ha l’inizio in modalità sconosciuta e la conclusione biologicamente necessitata. Certo essa può essere esaudita – come di fatto è avvenuto – in tanti modi, da quello assolutamente pessimistico a quello assolutamente ottimistico; ma ci si trova quasi sempre di fronte o a costruzioni fondate su argomentazioni logiche (stringenti ma inappaganti) oppure su intime intuizioni spontanee (intime e segrete e, quindi, incomunicabili). Risposte “credute razionalmente” o “accolte umanamente”, ma sempre minate dal dubbio e dalla nostalgia della certezza, cui anela ogni inquietudine umana. Costruzioni solide ed esigenze profondissime, dietro le quali si cela solo la tenace volontà di “credere” in qualcosa, che salvi l’animo umano dal precipitare nel baratro dell’insignificanza e del non-senso. Conclusioni temporanee, però, smentite quasi sempre dall’avventura esistenziale di ciascuno. Audacia, comunque, di non rifugiarsi acriticamente in soluzioni fideistiche o in negazioni irrazionali. Coraggio, sempre, di assumersi, umilmente ma totalmente, ogni responsabilità delle proprie scelte e della propria coerenza.

venerdì 18 dicembre 2009

Un volume di Hans Jonas: LIBERTA’ E’ DUBITARE DELL’ASSOLUTEZZA

In questi giorni è stato pubblicato, in traduzione italiana, il volume “Problemi di libertà” di Hans Jonas. In esso sono raccolte le lezioni, finora inedite, che il filosofo tenne nel 1970 a New York, e la cui lettura sollecita alcune riflessioni, che appaiono particolarmente urgenti.
Non si sa quanta fondatezza storica abbia la tradizione che tramanderebbe una relazione culturale – dialettica ma quasi amicale – tra il filosofo romano stoico Seneca e l’ebreo Paolo convertitosi alla sequela del Cristo e divenuto ‘apostolo delle genti’. E’ certo, però, che sul problema e sulla concezione della libertà li troviamo su posizioni assolutamente opposte. Ora, grazie al volume di Jonas, ritornano quanto mai attuali il confronto e la discussione delle due dottrine.
Per Seneca – e per lo stoicismo in generale – la libertà è la possibilità è di disporre di se stessi in assoluta autonomia e con piena responsabilità: cioè, la capacità personale di pensare, di volere, di sentire, di agire secondo le indicazioni della totalità del proprio essere, i suggerimenti della propria ragione, le urgenze del proprio sentimento. Lo stesso Kant, del resto, identifica la libertà con la capacità soggettiva di dare ascolto sempre e solo alla voce della propria ragione e di conformarsi ad essa; per il filosofo tedesco non c'è alcun dubbio: qualunque elemento esterno all’umana razionalità - sia esso di natura nobile o ignobile, ovvero scaturisca da fonti superiori e addirittura divine - la rende sottomessa e, quindi, non libera e non degna della natura umana. L’essere umano è anche razionale; ma la razionalità umana non coincide con la sola “ragione” intesa come facoltà di formulare pensieri astratti logicamente connessi secondo schemi linguistici e particolari convenzioni filologiche. La razionalità umana è una realtà composita e ordinata: prima e, oltre che capacità astrattiva, essa è capacità intuitiva e creativa di molteplici forme simboliche, grazie alle quali soltanto nascono le armonie della musica, le drammatizzazioni del teatro, le policrome combinazioni della pittura, le sublimi trasfigurazioni della poesia, le fantasiose costruzioni del romanzo ed anche le ricostruzioni documentarie della storia.
Invece, per san Paolo - e, quindi, per il cristianesimo - questa autosufficienza dell’uomo decreta la negazione stessa di Dio, dal quale soltanto deriva quella Legge unica, eterna e assoluta, che permette all’uomo di realizzare le sue reali dimensioni umane. Dal momento, poi, che tale Legge non solo prescrive i comportamenti esteriori, ma comanda anche i pensieri e giudica i desideri che possono e debbono albergare nell’arcano segreto dei cuori (comanda, infatti,non solo di "non commettere" adulterio, ma anche di "non desiderare" la donna di altri), essa decide il retto movimento anche delle anime. Non ci troviamo, allora, davanti a un essere umano assolutamente assoggettato a una Legge suprema, cui deve adeguarsi sempre e comunque l’essere umano?
Hans Jonas, uno dei massimi rappresentanti dell'umanesimo del secolo passato, in questo suo lavoro ci conduce, attraverso un itinerario storico e teoretico, verso l'esplorazione della rivoluzionaria idea cristiana di libertà. L'essere umano, se è libero, deve poter disporre di se stesso. Tuttavia, si trova immerso e condizionato da tutta una fitta rete di pulsioni personali, di di diritti altrui e di obblighi sociali. Il cristianesimo, da parte sua, pone sotto assedio anche quella dimensione interiore, in cui il singolo poteva credere di essere padrone, se non del mondo, almeno di se stesso. E Jonas - con arguta osservazione storica - annota: "Questo punto di vista cristiano fu formulato per la prima volta nei modi della 'Epistola ai Romani' piuttosto che in quelli di un'affermazione teoretica o come una dottrina generale".
A questo punto - accompagnati dal lucido e appassionato argomentare di Jonas - è lecito chiedersi se per il cristiano ci sia posto per una libera iniziativa dell’uomo e quale sia il ruolo della sua responsabilità nella costruzione della storia dell’umanità e del cosmo. E la domanda si mostra in tutta la sua vera valenza, quando si tenta di scoprire e capire anche quale sia veramente la fonte di questa Legge assoluta e indiscutibile, che, aldilà d’ogni tortuosità e bizantinismo possibili, di fatto governerebbe ogni forma di vita e ogni accadimento naturale e cosmico.
Si potrebbe, allora, indagare coraggiosamente, ed eventualmente riconoscere e accogliere con estrema disponibilità, la possibile esistenza d'un'autonomia umana non superficiale e di facciata, bensì sostanziata di reali dimensioni e protesa verso l'apertura alla complessità della vita esistenziale e dell'intera vicenda del mondo.

mercoledì 9 dicembre 2009

HANS KÜNG, “IN COSA CREDO”:non si crede senza capire

In Germania è stato pubblicato – con il titolo “Was ich glaube” - l’ultimo libro di Hans Küng, il celebre studioso svizzero; in Italia ne è prevista la diffusione con i caratteri Rizzoli e con il titolo “In cosa credo”. Il volume si pone come la logica conclusione di tutto il pensiero e dell’intera vita del Küng. Egli, infatti, è stato (e continua ad essere tuttora) talmente coerente con la propria mente e con la propria anima da aver saputo accettare tutte le difficoltà e aver voluto superare tutte le avversità, che ha incontrato durante il corso della sua vita: anche quando, nel 1978, dopo aver pubblicato il suo “Dio esiste”, gli fu revocata l’autorizzazione all’insegnamento della teologia cattolica. Fu un passaggio molto penoso, che, comunque, non ha mai indebolito il suo impegno di meditazione teologica, di riflessione filosofica e di interesse nei confronti anche delle scienze sperimentali, da lui sempre stimate e rispettate nei loro metodi e nelle loro conquiste.
La preoccupazione dominante e l’intento ultimo dell’intera attività speculativa – teologica e filosofica - di Hans Küng sono stati il ricercare la possibilità concreta d’un’etica universale fondata sulla comprensione sincera e sul rispetto reale degli “altri”, i quali vengono considerati e trattati effettivamente come tali, quando sono considerati e trattati concretamente nella loro individuale dignità di singola persona umana: l’altro, quindi, è ciascun essere umano, qualunque differenza etnica e morale egli presenti, qualunque pensiero filosofico condivida, a qualunque fede religiosa aderisca (non esclusi l’agnosticismo e l’ateismo).
“La mia spiritualità – dichiara Hans Küng in questo suo ultimo libro – ha sempre avuto a che fare più con la razionalità che con la sensibilità. Non ho mai voluto semplicemente ‘credere’, ma anche ‘capire’. Come teologo mi sono sempre ritenuto anche filosofo, ho studiato filosofia e l’ho praticata”. Ed esprime pacatamente, con umile semplicità ma anche con sostenuta convinzione, la sua certezza d’aver contribuito a colmare una grave lacuna che presenta l’attuale pensiero filosofico, da ormai lungo tempo impoverito di quella ricchezza, che è apportata dalla riflessione sui problemi della metafisica: “Forse che con la mia teologia – scrive con fiducioso ottimismo – io riesca a porre rimedio a quella dimenticanza di Dio sopravvenuto nella filosofia e a quella dimenticanza della filosofia avvenuta nella teologia?”. E animato proprio da questa fiducia ha voluto (e saputo) unire al metodo del razionalismo cartesiano l’incessante e pressante “voce del cuore” invocata da Pascal: l’essere umano - secondo Hans Küng - non è solo ragione, ma possiede tutto un complesso e ricco patrimonio di umanità profonda, costituita anche da emozioni e intuizioni: “Ci sono tanti fenomeni specificamente umani, come l’arte, la musica, l’umore, il riso, e certo il dolore, l’amore, la fede e la speranza, che non si lasciano cogliere in maniera critico-razionale nelle loro varie dimensioni, bensì che è possibile avvertire solamente nella loro pienezza”.
La totalità dell’essere umano richiede analisi ardite e risposte approfondite. Non ci si può fermare all’approssimazione e alla superficialità: “Come filosofo e teologo – afferma Hans Küng – non posso accontentarmi della problematicità superficiale del nostro mondo secolarizzato e ridotto solo a razionalità e funzionalità, bensì debbo cercare di penetrare nella sua dimensione più profonda. Come si può altrimenti trovare una risposta alla domanda sul fondamento della vita?”.
La lettura di questo scritto “autobiografico” di Hans Küng sembra essere particolarmente adatta per la nostra umanità, specialmente in questo periodo, in cui essa appare essere dominata dal pragmatismo e dall’utilitarismo, imperanti ormai in ogni campo della vita individuale e degli assetti sociali. Convincimenti e atteggiamenti, questi, che pretendono di tutto giustificare e tutto rendere “normale”, condannando al progressivo decadimento intellettuale le menti e alla lenta insensibilità morale i cuori dell’essere umano.

venerdì 30 ottobre 2009

IDEALITA' E REALTA' ovvero SOLITUDINE E TOTALITA’

Mondo delle idealità e mondo delle realtà, confini della spiritualità e confini della concretezza, sfera della progettualità e sfera della realizzabilità: sembrerebbero due mondi distinti, forse anche contrastanti e inconciliabili, per cui sarebbe assurdo anche ipotizzare la possibilità di una loro interazione. Sembra opportuno, tuttavia, indagare se possano esserci – o se ci sono con certezza – rapporti tra il mondo “interiore” proprio dello spirito umano individuale e il mondo “esteriore” proprio della vita che si svolge nelle società umane e nel mondo della realtà. Il primo è il mondo, che ognuno concepisce negli intimi recessi del suo spirito, feconda nell'arcano calore del suo sentimento, alimenta nella segreta intimità del proprio animo (è il mondo, quindi, fatto di interiorità, di risevatezza, di segretezza, di “nessi logici” umani, ma incomunicabili); il secondo è il mondo della vita reale, quel mondo che ciascun uomo deve progettare nelle maglie spesso ingovernabili dei rapporti interindividuali, deve vivere nell'intreccio imprevedibile dei rapporti tra gruppi e tra società, deve realizzare durante il tempo che passa inesorabilmente, e dentro gli spazi quasi sempre imposti dalle situazioni storiche oggettive e contingenti (è il mondo, quindi, fatto di esteriorità, di verificabilità, di ostentazione, di “nessi logici” umani comunicabili, che si traducono, per lo più, secondo l'espressione di Ipponatte, nelle “ipocrisie della vita”).
Ciascun uomo, esistenzialmente, nasce “situato” in un luogo e in un tempo definito, del tutto indipendentemente da ogni sua scelta, consapevole o inconsapevole; si viene a dover stare, quindi, in un contesto sociale, economico e culturale ben stabilito; e da questo contesto, di cui è “figlio”, gli derivano i fondamentali caratteri specifici che lo “segneranno”, cioè lo definiranno, lo condizioneranno, lo determineranno per l'intero corso della sua esistenza, investendone non solo i suoi aspetti corporei e le sue connotazioni psichiche, ma anche le modalità essenziali del suo pensiero e del suo comportamento. Sotto questo aspetto, perciò, ciascun uomo è “segnato” biologicamente e culturalmente; cioè, è un soggetto che “deve” pensare e agire nell'alveo di tradizioni consolidate, di valori comuni, di doveri e diritti sociali concordati e sanciti. Diversamente diventerà un apolide, “asociale” e “incivile”: rimarrà estraneo e rigettato da tutti, cioè non avrà una propria identità sociale e culturale storica. E così ridotto, sarà considerato e trattato come un povero “idiota” da sopportare e da commiserare: sempre, comunque, inutile, se non addirittura nocivo, perchè di peso e di ostacolo al cosidetto vivere civile.
Nello stesso tempo, però, ciascun uomo, esistenzialmente, nasce “dotato” di un proprio mondo interiore, tutto e solo suo, dentro il quale egli cova, feconda e alimenta sentimenti spontanei suoi e sue emozioni involontarie, affetti liberi suoi e sue speranze inaspettate, desideri impensati suoi e sue paure improvvise, incertezze incontrollate sue e suoi progetti accarezzati, suoi sogni sempre bramati e mai abbandonati: cioè, tutto quel mondo interiore, che costituisce la sostanza più vera della singola vita umana; quella sostanza che dà l'audacia delle proprie visioni totali e delle scelte vere, radicali e definitive, che niente e nessuno, nemmeno la morte, potrà mai mutare e nemmeno soltanto scalfire. La realtà storica, tuttavia, condizionerà le idealità e addirittura determinerà le modalità della realizzazione delle scelte; il mondo reale imporrà tempi e spazi d'azione e di comportamento, richiederà coraggio estremo, causerà dolori sovrumani, infliggerà tormenti strazianti. Però, rimarrà intatta, sempre e comunque, l'essenza reale del mondo ideale d'ognuno, cioè dell'unico mondo veramente pieno, perchè popolato dalle scelte autentiche, perchè scelte libere, estreme, “ideali”, totali, che l'uomo, dovendo vivere concretamente negli angusti confini della storia terrena, momentaneamente realizza solo nelle dimensiomi della speranza e dell'attesa, ma che che è sicuro di realizzare nella piena totalità della loro entità nell'eternità dell'Infinito. Il mondo delle idealità è il mondo che ognuno vive nel proprio animo: e lo gestisce liberamente, lo custodisce gelosamente, lo difende tenacemente. Ecco perchè abbiamo definito l'animo umano come “lo scrigno più prezioso, più sicuro, più impenetrabile, più sacro che è dato in dote a ciascun uomo”. E la dimensione dell'animo umano è così importante che l'abbiamo considerato “l’essere sostanziale d’ogni individuo, la sua vera essenza esistente e vivente in sé e per sé, nella sua singolarità totale, che rende l’esistente umano (che in sé e per sé è individuale e contingente) partecipe della Totalità somma dell’unico Essere infinito: quell’Essere che tutto comprende e tutto accoglie; che tutto realizza e tutto esprime; che tutto verifica nell’assoluta trasparenza immediata della verità immortale (…); che mai viene meno, mai dubita, mai tradisce; quell’Essere totale che nessuno e nulla può ingannare”.
Ecco la drammacità della situazione esistenziale dell'uomo. Da una parte, egli è un essere storico, che “deve” vivere in tempi storici ben definiti e dentro spazi geografici ben circoscritti, per cui è “parte” di una ben determinata cultura, dentro la quale “deve” realizzare la sua esistenza. Si trova immerso, quindi, in un mondo storico, che s'impone per la concretezza degli elementi che lo costituiscono: cioè, successo, benessere, ricchezza, potere, piacere, salute... E' un mondo che forma un insieme ben compatto di solidi elementi che interagiscono tra di loro, condizionandosi e determinandosi, creando, così, “situazioni oggettive” concrete e inoppugnabili, che governano sostanzialmente la vita storica degli uomini. Dall'altra parte, però, l'uomo, in quanto dotato anche di animo, di mente, di cuore, di sentimento, è pure un essere che vive – anche se in un mondo fatto di tempo e di spazio - un'esistenza “senza tempo e senza spazio”, un essere incondizionato, “libero”, tendente all'infinito. Come tale, l'uomo è ”cittadino” del mondo “ideale” (non meno reale del primo): quel mondo che vogliamo indicare come il “mondo ideale dei sogni”, che, sgorgando e sviluppandosi nella profonda intimità dell'animo umano, abita totalmente nel pensiero e vive pienamente nei cuori degli uomini.
I due mondi, quello delle idealità e quello delle realtà storiche, si trovano spesso in disaccordo e in contrasto tra di loro e generano, perciò, dissidi interiori e tormenti esistenziali. Molti pensatori hanno rappresentato esemplarmente questo stato umano: poeti, artisti, filosofi. La sofferenza maggiore deriva dall'impotenza umana di dare pieno sviluppo a tutti gli aneliti dell'animo, mortificati dalla necessità che domina la contingenza dei fatti umani. Il divario tra realtà e idealità è troppo grande e, storicamente durante questa vita, a dominare è la tirannia della realtà. Però, quanto maggiore è il dominio del mondo reale tanto più si rinforza la “fede razionale” nelle idealità, che accrescono sempre di più la loro consistenza e la la loro urgenza. Addirittura, si assiste al paradosso per cui quanto più vuole prevalere la realtà, tanto maggiore diventa la forza dell'ideale, vincendo ogni ostacolo e superando ogni difficoltà. L'animo umano, allora, si slarga gradualmente e incessantemente, sentendo sempre più urgente il bisogno dell'infinitudine, tanto da desiderare sempre di più di liberarsi dai suoi limiti esistenziali e sciogliersi nella Totalità dell'Essere, dove albergano solo certezze e regnano solo scelte estreme, definitive ed eterne.
Questo mondo ideale – si chiedeva, tra gli altri, Kant - raggiungerà mai la sua piena realizzazione, o è condannato a rimanere un'aspirazione dell'animo e un anelito dello spirito umano? Mondo ideale e mondo reale, pur essendo in dissonanza e talora anche in contrasto, tuttavia interagiscono; anzi, è proprio la loro interazione che tesse la trama concreta dello svolgersi dell'esistenza umana. E, mentre il mondo della storia à destinato a passare, il mondo delle idealità è destinato all'eternità, dove c'è solo vita perenne e indistruttibile. Per cui la realtà più solida è quella delle idealità, che costituiscono la vera forza motrice dell'esistenza umana: sono le idealità che dànno impulso al vivere umano. L'uomo vive in questo mondo, ma non è di questo mondo: la sua avventura esistenziale è un perenne tendere e un progressivo avanzare verso i cieli dell'immortalità e dell'eternità. Vive incatenato ai ceppi della contingenza e del transeunte, ma “sogna” e tende all'assoluto, per il quale è fatto, per il quale vive e a cui aspira. Tutto ciò può sembrare piuttosto astratto, se non poco sensato; e non a caso è lo stesso Kant che, prevenendo tale osservazione, ammonisce gli uomini: se, anziché deridere le “idee” platoniche, essi si impegnassero e si dedicassero a realizzarle nella storia del mondo, il mondo sarebbe certamante meno ingiusto e più a dimensione d'uomo.
Felice, allora, chi può pregustare, già durante la sua esistenza storica, le gioie del mondo “ideale”. Egli vivrà sicuramente momenti anche di strazio e di sofferenza, ma si sentirà sempre più puro e sempre più vicino all'Assoluto: si vivrà sempre più estraneo al mondo reale e sempre più partecipe del mondo ideale, dove sa che diverrà Unità indissolubile. L'animo umano, allora, s'espande fino a bramare di contenere in sé l'Universale e l'Infinito, anche se nelle sole dimensioni della speranza e dell'attesa. Paradosso: solo così l'animo umano “finito” supera le limitazioni e le angustie della realtà storica e si slarga sempre più fino a contenere in sé lo stesso “infinito” perennemente bramato e sempre più intensamente agognato. Nello stesso tempo l'Infinito accoglie e scioglie in sé l'animo dell'uomo, che ha coltivato idee rette e sublimi.Tutto ciò, mentre scorre il tempo, fatto di frammenti che svaniscono, perdendosi nel nulla del passato; mentre il dominio dell'Eterno Infinito s'accresce.
Questo percorso conduce all'isolamento dell'individuo, sfocia nel solipsismo, condanna al nichilismo? No, si risponde con l'autorevolezza dello stesso Platone, prima che lo facesse Kant. In questa avventura esistenziale si autocondanna all'isolamento e al nichilismo solo chi si pasce del suo miope egoismo e si chiude grettamente a ogni forma di gratuita generosità. Ma chi ama l'Umanità e la Realtà, chi ricerca l'Infinito e la Totalità, chi si vota sinceramente al culto della Verità non sarà mai solo, ma possederà una vita colma di senso, a patto però che nutra il bisogno sincero di ricercare l'afflato dell'Amore Totale e senza riserve, che coltivi il coraggio d'intuirne la presenza viva, d'ascoltarne con disponibilità tutte le richieste, d'accoglierne tutte le esigenze con audacia e fino all'estremo, rimanendovi fedele, sempre e comunque, fino a essere pronto al supremo sacrificio del proprio io, se sarà necessario, perchè vi rimanga fedele per l'eternità. Quest'afflato universale, che unisce e sublima, storicamente non è un'astratta aspirazione, né si concretizza solo nel solitario quotidiano operare dell'individuo; ma, perchè sia autentico e vivificante, ha bisogno - come direbbe Jonas - d'incontrarsi con qualche “Altro” dotato di uguale sensibilità e capace di simili eroiche scelte. Solo chi ha la bella ventura d'incontrare sulla sua strada, nel corso della vita, altra anima assetata d'Amore Universale e di senso della Totalità dell'Infinito, vive veramente la pienezza dell'esistenza e realizza tutto il senso della vita umana. Nell'incontro di queste due esistenze s'incarnerà e durerà imperituro l'Amore Universale: quell'Amore che rimarrà l'unico vero Angelo che annuncia l'Aurora di giornate sempre radiose, anche quando saranno momentaneamente turbate dal rumore di qualche tuono, brutto nunzio d'ingiustizia e d'assurdità: ma niente scuoterà l'unità ormai indissolubile dei due esseri, i quali, votatisi insieme alla sublime purezza della generosa gratuità e della fiduciosa libertà, vinceranno tutto il mondo storico, rimarranno in mirabile intima fusione e attenderanno, con fiducia ed entusiasmo, di realizzare le idealità, per le quali sono vissuti, nella loro pienezza totale. Felice chi già in questo mondo incontra, conosce, sceglie, accoglie l'altro, donandosi, a sua volta, senza alcuna riserva e preoccupandosi solo di non venir mai meno alle promesse giurate. Vivrà non nell'isolamento, ma nella “suprema solitudine” piena d'ogni scelta imperitura che condurrà all'assoluta Totalità: eterno evento cosmico retto da arcane ragioni, ignote a noi, che forse conosceremo, quando esse vorranno svelarsi. Mistero di oggi, che sarà verità chiara di domani: così sente l'animo umano, che crede e vive il mondo delle idealità.
Solo nell'intimità dell'animo umano, cioè nel segreto dello “scrigno più prezioso, più sicuro, più impenetrabile, più sacro che è dato in dote a ciascun uomo”, si intuisce il senso dell'avventura esistenziale dell'uomo. Sarebbe molto facile scegliere di riconoscere solo uno dei due mondi (il mondo delle idealità o il mondo delle realtà), sarebbe comodo decidere di rimanere entro i confini o della sola spiritualità o della sola concretezza, sarebbe agevole accogliere la sfera o della sola progettualità o della sola realizzabilità: ma sarebbe solo debolezza e ipocrisia. L'uomo integrale è fatto di molte dimensioni; e, se vuole portare a termine tutto il suo compito e realizzare l'intero senso del suo esistere, deve avere la forza di realizzare l'intera armonia del suo essere e la totalità della sua natura. Negare una qualunque dimensione della natura umana significa rinnegare il proprio ruolo nella sorte dell'intera Umanità, lasciandola carente e imperfetta; intuire e rispettare, invece, la complessa e sublime Armonia della Totalità significa essere consapevoli del proprio ruolo e realizzare il senso del proprio esistere. E non è impresa facile capire sempre il giusto posto da assegnare a ogni elemento che costituisce l'Armonia Universale, la quale talora richiede estremi sacrifici, talora veramente duri ad accettare e a portare fino in fondo: ma l'Amore vince tutto! Felice chi saprà affrontare e superare ogni prova fino in fondo, rimanendo sempre affascinato dal mondo delle idealità, dove tutto è trasparenza e certezza definitive.

mercoledì 15 aprile 2009

QUANDO NULLA E’ VERO …

Una riflessione sulla sensibilità del paradosso di Nietzsche

Nella storia dell’umanità restano confermati tutti gli sforzi compiuti dall’uomo, per tentare di trovare una risposta convincente e condivisibile all’inesplicabile, perenne, misteriosa domanda: cos’è vero?
C’imbattiamo in immensi sforzi veramente encomiabili, che sono rimasti, però, sempre e inesorabilmente senza alcun concreto risultato positivo. Le stesse vicende storiche delle numerose chiese e le traversie delle innumerevoli dottrine religiose testimoniano il fallimento d’ogni speranza da parte dell’uomo di conquistare qualche scaturigine feconda di certezze umane attendibili; e la delusione si acuisce, quando a naufragare sono dottrine, che si propongono nelle vesti di depositarie uniche e autentiche di messaggi trascendenti ogni umana capacità. Da parte loro, nemmeno le vicende della ricerca scientifica hanno prodotto migliori punti d'arrivo.
Dove cercare, allora, una qualche garanzia di una verità che possa, se non appagare, almeno sorreggere lo spirito dell’uomo, che aspiri a incamminarsi verso mete suggerite da motivazioni ragionevoli? Tendere alla conoscenza della verità è un’eccelsa connaturata aspirazione umana, che però viene puntualmente delusa nella realtà: ecco il conflitto esistenziale tra ideale e reale, tra aspirazione e realtà, tra essere e dover essere, di cui già Kant aveva sottolineato la drammaticità e nello stesso tempo l’elevatezza. In ogni uomo, che viva in totale pienezza il senso della propria vita, convivono l’insopprimibile aspirazione a mete impossibili e la realtà che inesorabilmente la nega. Gli esiti di questo contrasto possono essere diversi: o di avvilente depressione rinunciataria o di straordinaria vivacità creativa.
E questo è il risultato del pensiero e della vita di Nietzsche. Sembra, infatti, che, per approdare a una qualche certezza solida, sia necessario armarsi dell’audacia di macerarsi eroicamente negli intrichi d’un intimo radicale scetticismo: sembra, cioè, che, per conquistare qualche punto fermo non resti altro che la riflessione filosofica, da perseguire con perseveranza e con l’unico strumento di cui dispone realmente l’essere umano, ossia la propria ragione. E l’umana ragione è ben consapevole di poter contare solo su stessa e sulle qualità che la costituiscono: cioè, il suo limite, che la esorta a non cedere a false smanie; la sua fallibilità, che le rammenta di non congetturare mai l’indiscusso; la sua provvisorietà, che le suggerisce di non contare mai d’aver toccato il definitivo, ma solo qualche breve momento, che presto sarà oltrepassato. La filosofia, quindi, resta l’unica fonte, dalla quale gli esseri razionali possono attingere ciò che dà lucida stabilità all’uomo che vuole decidere liberamente del proprio destino, soprattutto quando gli vengono meno le certezze delle religioni e delle scienze. E la filosofia assolve a questo compito proprio perché è la sentinella della razionalità e della libertà, grazie alla quale si può coltivare la speranza del ritrovamento di verità. E’ la filosofia, infatti, che affissa lo sguardo anche sull’irrazionalità di molti aspetti della vita individuale e collettiva anche dei nostri tempi: e ne scruta argutamente la frammentazione e il paradosso, ne comprende amorevolmente le contraddizioni, ne esamina impietosamente persino le assurdità.
La ragione filosofica, però, vive già con se stessa un rapporto di paradosso e di contraddizione: è, infatti, un rapporto di fiducia in se stessa e nell’altro, e conseguentemente anche di libertà dall’altro e persino da se stessa. Un rapporto, quindi, d’intimo contrasto doloroso, ma costitutivo della totalità concreta dell’essere umano. Infatti, i sentimenti di fiducia e di libertà (certamente autentici, sinceri, validi, provati e reali) s’accompagnano a stati d’animo spontanei (ugualmente autentici, sinceri e reali) di cupo turbamento: turbamento talora pungente e momentaneo, talora profondo e duraturo, talora diffuso e insopprimibile; turbamento che diviene in alcuni momenti straziante spasimo, che straccia l’anima e sfibra lo spirito. Difficile distinguere, allora, i confini di fiducia e di diffidenza, di libertà e di zelo, di amore e di egoismo. Ma è un turbamento, comunque, che domina tutto l’essere umano e che, mettendo sottosopra tutta l’anima confusa, si ostina fino a togliere ogni forza fisica e morale, facendo precipitare l’animo in profondi abissi di buio e di disordine.
Abissi profondi ed estremi, che conducono la ragione dell’uomo quasi a uno sfinimento totale, che sembra annunciare la rassegnazione definitiva e la rinuncia assoluta. Ma ecco il disvelarsi della straordinaria grandezza della ragione umana: proprio in virtù dell’immenso carico dei suoi patimenti subìti, essa supera i successivi tormenti esistenziali, risvegliando nuova vitalità e nuova speranza: non rinuncia, infatti, pavidamente agli ulteriori sforzi che l’attendono, né si rassegna alla presunta ineluttabilità del destino; ma, arricchitasi di nuove rare sensibilità, si apre più largamente al dialogo con la vita, con l’umanità e con il mondo, fecondando nuove verità, mentre continua a rispettare verità vecchie.
Nonostante, anzi proprio grazie a questo connaturato paradosso, la filosofia ha il compito di studiare l’uomo: l’uomo in generale quale partecipe dei destini del genere che lo comprende, e l’uomo singolo quale unico responsabile d’una propria irripetibile storia. In questa prospettiva la ricerca filosofica apre una preziosa finestra, ricca d’intuizioni e di rivelazioni, sull’orizzonte dell’esistenza, la quale non si fa possedere mai sino in fondo, in quanto resta irriducibile a una parola esauriente. L’esistenza umana, infatti, è terreno della libertà; e, come tale, non si fa comprimere; soprattutto quando si tratta della “mia esistenza”, storicamente identificata, inconfondibile e singolare. Nessuno, infatti, è copia di un altro; per cui scoprirsi è la più grande conquista personale, che ci permette sia d’entrare nel territorio del significato e del senso, e sia di comunicare i nostri valori agli altri. L’uomo che si conosce consegna un sapere prezioso, che arricchisce ciascuno e collabora alla trama della storia; anche se bisogna guardarsi da eventuali distorsioni o travisamenti del pensiero, che alterano gli sviluppi, producono malintesi e inquinano i rapporti con la realtà e con la sua interpretazione.

mercoledì 25 febbraio 2009

LA DISUGUAGLIANZA PSICHICA E MORALE

Si rivendicano di solito – e a giusta ragione - le varie forme di “uguaglianza” sociale, economica, civile, giuridica. E lo si fa sempre – correttamente - in nome dell’uguale dignità d’ogni persona umana. Per queste rivendicazioni spesso si fa appello a una “natura comune” a tutti gli esseri umani; talora s’invoca anche un “destino ultraterreno comune” a tutti gli uomini, sia esso sperato sulla base di razionali convincimenti filosofici oppure sia esso conquistato con l’accoglimento di particolari credo religiosi. Tutti atteggiamenti, questi, degni e legittimi; anzi, tutte espressioni importanti e determinanti tanto per i singoli uomini quanto per comunità e popoli interi.
Desta, però, non poca perplessità il fatto che frequentemente rimane trascurata una forma di disuguaglianza, che a nostro avviso costituisce una minaccia terribilmente pericolosa per la vera e reale uguaglianza tra gli uomini: si tratta della minaccia rappresentata dalla disuguaglianza, che noi vorremmo denominare “psichica e morale”. Con questo non si vuole affermare che tutti gli uomini siano “naturalmente” dotati d’un’uguale personalità e d’uno stesso sentimento morale; anche perché sull’opinione di una natura umana predefinita, intesa quale fonte primaria ed immutabile di diritti e doveri, sarebbe necessario soffermarsi, per vagliarne l’autorità e la validità. Si vuole solo sostenere che nella realtà anche quotidiana si consumano forme disumane e brutali di disuguaglianza, che si alimentano e si sviluppano nel segreto dell’intimità del proprio animo, tanto irrilevanti per gli altri quanto lancinanti per chi ne è succube.
E questo accade nella concretezza dell’esistenza reale d’ogni singola persona: ed è solo ponendoci all’interno di questa realtà concreta, e non già proiettando su di essa le nostre preferenze ideali e morali, che possiamo individuare gli elementi che determinano simili drammatiche situazioni di estrema frustrazione esistenziale e morale.
Qualunque forma di disuguaglianza “esteriore”, infatti, ha forti ripercussioni e strascichi nell’animo umano: chi ne rimane intimamente offeso, soffre in penoso silenzio forme di triste isolamento, trovando difesa solo nella solitudine più intensa nell’intimità della sua anima, dove solo può raccogliere tutto il suo spirito.
Si tratta di situazioni che segnano profondamente l’animo dell’uomo sin dalla sua più tenera età e fino alla conclusione della sua vita. Bambini che, durante le visite formali di amici e parenti, sono costretti a confrontarsi con amichetti meglio vestiti e più curati. A quell’età nessun bambino ha meriti o colpe: il più abbiente non s’accorge d’essere origine di atroci sensi d’inferiorità, che costringono il meno favorito dalla sorte a “viversi” inferiore! Quest’ultimo, però, ne rimane marchiato, e sarà condannato a forme sottili d’impotenza sociale e d’inferiorità morale. Si sentirà sempre “meno” d’ogni altro, si vivrà sempre come incapace d’altro…; lotterà contro il mondo, che lui sentirà sempre più come qualcosa di superiore e più forte, contro il quale pensa gli sia impossibile lottare, perché lui è stato “destinato” a essere “secondo” o addirittura “ultimo”, e comunque sempre “inferiore”.
E, nell’ambito più strettamente familiare, quanta pungente sofferenza causano certe “battute”, ironiche o scherzose, da parte di alcuni maldestri genitori, che con indifferente leggerezza e disarmante superficialità valutano e giudicano i figli, ponendoli in fastidioso e irritante paragone tra di loro! Come se ogni persona umana, anche se della medesima famiglia, non fosse una realtà del tutto autonoma e irripetibile, segnata da una storia che solo essa può e deve decidere e realizzare, seguendo i dettami della sua imperscrutabile coscienza.
E, nell’ambito della scuola, quante “frecciate” incancellabili vengono lanciate da chi deve essere educatore, ma che talora si fa vincere da sentimenti di malevolenza verso i meno dotati e di nociva predilezione verso chi è (ma spesso appare soltanto) meglio dotato e più incline allo studio.
Queste ed altre sono tutte situazioni, che per lo più sfuggono alla normale osservazione della vita quotidiana, ma che lasciano segni indelebili, causando ferite che rimarranno sempre aperte e condizioneranno la stessa qualità della vita d’ogni uomo. Sino a coinvolgere ogni sua scelta di vita: dalle meno importanti alle più incisive e determinati. E tra queste non vanno escluse le modalità d’intendere e di vivere i rapporti interpersonali, compresi quelli da instaurare con la persona, con la quale si vorrebbe condividere totalmente la propria esistenza almeno terrena.
La disuguaglianza “psichica e morale”, quindi, assume un ruolo di estrema importanza nella vita dell’uomo: fortunato chi non sarà condannato a esserne vittima, e fortunato anche chi non dovrà mai rimproverasi di esserne stato causa!
Quanta inutile dolorosa fatica e quanto inutile spreco di energie per il mondo stesso! Fatica ed energie del tutto negative: senza quella fatica, infatti, si espanderebbero tante energie creative e costruttive; e senza quello dispendio di vitalità il mondo sarebbe più ricco e più pieno.
Disuguaglianza psichica e morale, che tormenta gli spiriti più pensosi e le anime più sensibili per l’intero corso della loro vita, con esiti talora imprevedibili. Certo. Perché gli altri o sono superiori o tali si stimano, e come tali si comportano, gettando fumi di frivolezze e di superficialità. Quindi, è proprio nelle persone psicologicamente e moralmente disuguali che si nascondono spesso doti rare di sensibilità, d’intelligenza, di sentimento, d’intuizione. E spesso, nella vita reale, sono proprio queste persone “perennemente frustrate” che risultano i veri vincitori, che, invidiabili, trionfano su tutto e su tutti, grazie proprio alla solitudine della loro esistenza: esse s’imponendosi – con riservatezza ma anche con risolutezza - nei vari campi della produzione autenticamente culturale: della letteratura, quale espressione genuina di sentimenti talora ignoti ai più; della musica, quale creazione di armonie profondamente umane; del teatro, quale estrinsecazione delle più recondite problematiche dell’uomo; della filosofia, quale ricerca di verità sempre più vaste e più nuove; della definizione di diritti sempre nuovi, quale processo doloroso di autocorrezione, grazie al quale si realizzano la massima concentrazione e la massima diffusione della dignità della persona.
C’è da rimanere stupiti di fronte a tanti e stupendi frutti, che vengono generosamente donati dalla sofferenza dell’uomo, che, vittima spesso dei propri simili, vive sempre e solo preoccupandosi di rendere più “bella” l’intera famiglia umana. Ma – ci chiediamo pure - è del tutto inevitabile questa forma di disuguaglianza?