Socrate,
rivolgendosi ai giudici che gli avrebbero confermato la sentenza di condanna a
morte, faceva loro notare ch’egli era ormai molto vecchio, per cui riteneva di
non doversi affliggere della sorte che l’attendeva, in quanto non gli sarebbe
rimasto comunque molto altro tempo da vivere sulla terra. Ma li avvertiva di
una conseguenza certa. Essi, condannandolo a morte, sarebbero stati immortalati
dalla fama d’aver ucciso un uomo sapiente; egli, invece, nonostante non si ritenesse
sapiente, sarebbe sopravvissuto come martire e sarebbe stato non solo perpetuato,
ma anche imitato da molti discepoli e amici. La conseguenza, quindi, era
inevitabile: se fino allora il fastidioso fustigatore dei vizi dei potenti era
stato uno solo, in seguito si sarebbero moltiplicati. Gli uomini virtuosi,
saggi e onesti non muoiono mai del tutto, ma vivono in eterno: la virtù e la
rettitudine rendono immortale. E Socrate, infatti, è tuttora vivo, e tale
resterà proprio grazie all’integrità conservata fino all’ultimo, fino agli
estremi d’ogni umana possibilità. Primo martire della filosofia occidentale,
egli non solo non invoca pietà, ma non usa nemmeno parole di suadenti lusinghe per
impietosire o false argomentazioni per fuorviare i giudici; si rimette totalmente
al loro giudizio qualunque esso sarà; rimane calmo nella serenità propria dell’uomo
giusto e onesto. Vissuto nella rettitudine e nella giustizia, è profondamente
convinto che può attendersi solo il bene e la felicità anche dall’eventuale condanna
a morte, ch’egli immagina o un amabile profondo sonno o un felice ritrovarsi
nel regno degli inferi con i grandi eroi d’ogni tempo. E conclude verso i
giudici: “Vedo che è tempo ormai di andar via, io a
morire, voi a vivere. Chi di noi avrà sorte migliore, è a tutti ignoto, tranne
che al nume”.
In queste parole conclusive di Socrate resta scolpito l’interrogativo
che s’è posto da sempre e continuerà a porsi l’uomo d’ogni tempo: cos’è la vita
e cos’è la morte. Interrogativo senza risposta umanamente certa: nessun essere
mortale, infatti, ha mai saputo veramente cosa sia quello che si considera “vita”
e quello che si definisce “morte”; lo stesso Socrate si limita solo a rappresentarsi
due congetture, che scaturiscono dal profondo della sua anima, mentre sta
vivendo momenti di rara sublimità. “Quasi per sua natura – scrive a proposito l’Anonimo
autore del Sublime - l’anima si
esalta e, prendendo non so quale generoso slancio, si riempie di gioia e
d’orgoglio (…); il sublime non porta alla persuasione, ma all’esaltazione,
perché il sublime è l’eco della grandezza interiore (…); tutti partecipano di
un moto d’animo collettivo che genera un’esperienza di vita e un’iniziazione,
una comunicazione alta di concetti e di valori, che conduce quasi inevitabilmente
a una vita migliore”. Solo affidandosi a simili stati d’animo di “sublimità”,
l’uomo giungerà, riguardo al suo essere, a qualche risultato confortante e capace
di liberarlo dall’angoscia forse ingiustificata, ma non per questo meno dolorosa,
poiché è causa d’un’insopportabile oppressione di paure e di superstizioni.
A
questo proposito ritorna alla memoria il poeta latino Lucrezio, quando, momentaneamente
quasi dimentico delle sue ben salde convinzioni atomistiche e meccanicistiche che
sta esponendo nel De rerum natura, inaspettatamente
sembra cedere a una forma d’insolito realismo, armonicamente mescolato a una complicità
quasi affettiva. Immerso in uno stato d’animo di empatia universale, dà vita a versi
intensamente umani, nei quali, dopo aver evocato alla nostra considerazione
tutti gli esseri animati e inanimati, con un colpo d’occhio istantaneo ci
protende all’infinito fino a trasportarci in un’avventura meravigliosa, che ci
innalza fino alla magnificenza e al silenzio degli spazi celesti: “Quando – s’interroga
- leviamo lo sguardo agli spazi celesti dell’immenso cosmo, e più in alto
ancora all’etere trapunto di astri splendenti, e ci vengono in mente le vie
della luna e del sole, allora un’angoscia coperta nel cuore dagli altri dolori
comincia a destarsi e anch’essa a levare la testa: forse si sta mostrando un
immenso potere divino, che volge le stelle luccicanti nei loro molteplici
moti?”.
L’uomo
assiste ogni momento all’ineluttabile ciclo che scandisce la vita d’ogni essere
abitatore della terra: nascita, crescita, maturazione, declino, morte: guarda
questa legge universale con fredda audacia, senza mai sfidarla, talora forse la
teme, ma sa benissimo che è comune destino inevitabile. E tuttavia non vi si
rassegna mai del tutto. Nel suo profondo percepisce una misteriosa esigenza di
sopravvivenza. Non è vile paura di morte né arrogante anelito all’eternità tra
i viventi. E’ una nascosta ma forte, arazionale ma umana, inspiegabile ma
insopprimibile esigenza d’immortalità. Parte di una Totalità, intuisce, senza
saperselo spiegare, che egli non può essere del tutto transeunte e contingente.
E spera solo che sia un’esigenza che poggi sul fondamento di qualche realtà
immanente come lui, ma nello stesso che lo superi e lo trascenda.
E’
la convinzione nutrita anche da Socrate e da Lucrezio. Un nascosto “nume”
onnisciente, un ignoto “immenso potere divino” reggono e guidano – forse - il
cosmo: è questo il punto d’approdo dei due pensatori così lontani nel tempo e
diversi per cultura e sensibilità, ma così in sintonia davanti ai supremi misteri,
che avvolgono la vita dell’uomo e la realtà del mondo. E molti secoli più
tardi, dopo le conquiste del rinascimento e i progressi delle scienze alla
vigilia dell’illuminismo, al loro pensiero s’unirà, tra gli altri, Giambattista
Vico con l’arduo pensiero tramandatoci nella Scienza nuova: l’uomo – annota - contemplando il mondo e
considerando il magnifico misterioso avvicendamento dei suoi aspetti, viene
assalito e dominato da molti sentimenti diversi, di ammirazione e di stupore,
ma anche di paura e di sbigottimento, tanto da essere indotto a invocare
qualcosa o qualcuno come suo aiuto o comunque come forza amica, che ne
garantisca la sopravvivenza e l’immortalità. Si origina allora nell’animo
umano il sentimento della “divina provvidenza”, che poi la ragione indagherà
e la volontà accoglierà o respingerà. Secondo il Vico, infatti, l’innato desiderio
d’immortalità è spiegabile solo da un principio superiore: “Pur gli uomini –
sostiene - hanno essi fatto questo mondo di nazioni (...), ma egli è questo
mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta
contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si
avevan proposti”.
La vera “ordinatrice
del mondo delle nazioni” è, dunque, la provvidenza: “Ché senza un Dio provvedente, non sarebbe nel mondo
altro stato che errore, bestialità, bruttezza, violenza, fierezza, marciume e
sangue; e, forse senza forse, per la gran selva della terra orrida e muta
oggi non sarebbe genere umano”; e all’inizio dell’opera aveva avvertito
prudentemente e con sagacia: “Il diritto naturale delle nazioni egli è
certamente nato coi comuni costumi delle medesime: né alcuna giammai al mondo
fu nazione d’atei, perché tutte incominciarono da una qualche religione. E le
religioni tutte ebbero gittate le loro radici in quel desiderio che hanno naturalmente tutti gli uomini di vivere
eternamente; il qual comune
desiderio della natura umana esce da un senso comune, nascosto nel fondo dell’umana mente,
che gli animi umani sono immortali; il qual senso, quanto è riposto nella cagione, tanto produce quello effetto:
che, negli estremi malori di morte, desideriamo esservi una forza superiore alla natura per superargli,
la quale unicamente è da ritrovarsi in un
Dio che non sia essa natura ma ad essa natura superiore, cioè una
mente infinita ed eterna; dal qual Dio gli uomini diviando, essi sono curiosi
dell’avvenire”.
Il Vico assicura che la potenza del desiderio d’immortalità
è proprio della natura umana, ma avverte che non deve divenire e tanto meno cedere
alla tentazione d’onnipotenza. E ne indica il rimedio. L’uomo – assicura - ha
sempre e comunque il potere e la responsabilità di decidere il cammino suo e
dell’umanità; tuttavia, davanti a fenomeni d’enorme potenza ineluttabile, come
la morte, sente nascere in sé il bisogno di pensare e d’invocare un “Dio” che
lo soccorra nella sua finitezza e rimedi alla sua mortalità.
Certo, anche di recente Martin Heidegger in Essere e Tempo avvertiva, dopo le
tragedie delle dittature, che “solo un Dio ci può salvare”: ma finiva per
sprofondare in antichi sonni dogmatici, dai quali ci aveva svegliato
definitivamente Immanuel Kant. Il Vico, invece, anticipando il filosofo del
criticismo, aveva portato l’umanità fuori dallo “stato di minorità”, perché
non cedeva a qualunque forma di dogmatismo (tanto in metafisica quanto nella
stessa fisica). Il bisogno d’immortalità fa invocare un “Dio” superiore a tutto,
ma è assolutamente privo d’ogni carattere di antropomorfismo. Vico, inoltre,
si discosta dal demiurgo di Platone, dal “sommo Padre Architetto” di Pico
della Mirandola e di Isaac Newton; si avvicina e accoglie, invece, il “Dio
della Legge” degli antenati, immanente e nello stesso tempo trascendente la
mente umana, tale che illumina e guida le scelte d’ogni essere umano nei
confronti di se stesso e del cosmo intero. Il Vico, quindi, propone una
divinità, che nasce dal desiderio umano e che è vissuto come l’unico sommo
“provvedente di tutte le nazioni”, il garante dei valori della “natura umana
tutta dispiegata e riconosciuta uguale in tutti”. Per Vico questa è “la sola
luce” che fa capire che “il mondo delle gentili nazioni egli è stato pur
certamente fatto dagli uomini”, ma nello stesso tempo svela anche “due gran
princìpi di vero: uno, che vi sia provvidenza divina che governi le cose
umane; l’altro, che negli uomini sia la libertà d’arbitrio, per lo quale, se
vogliono e vi si adoperano, possono schivare ciò che, senza provvederlo,
altrimenti loro apparterrebbe”.
Ritornare a queste riflessioni di filosofi anche
del passato potrebbe sembrare superfluo, poiché la cultura come minimo degli
ultimi due secoli ha sancito senza incertezze non solo la mortalità
dell’uomo, ma anche la morte di Dio stesso. Nietzsche, infatti, in “Aurora” (1881) derideva coloro che
sognavano l’immortalità dell’uomo: “A questa bella vostra coscienza di voi stessi augurate, dunque, una 'eterna durata’? Non è un’insolenza? Non pensate a tutte le altre
cose, che dovrebbero sopportarvi per tutta l'eternità, come vi hanno sopportato
fino a oggi?”; e qualche anno dopo, nella “Gaia
Scienza” e in “Così parlò
Zaratustra” annunciava trionfalmente anche la “morte di Dio”. E in
verità, se si riflette sulle vicende solo del secolo passato, non si può nascondere
un senso di smarrimento: le guerre mondiali, le dittature e le tirannie, i
successivi eventi deludenti delle neonate democrazie, le crisi globali non
solo e non tanto dell’economia, ma anche e soprattutto delle ideologie e di
molti modelli valoriali, non farebbero davvero pensare diversamente e sperare
meglio. Preferibile, quindi, rinverdire pensieri e speranze di chi ci ha
preceduto.
A meno che non ci si voglia rifugiare nell’affascinante
profetico progetto della neonata filosofia dell’immortalità, rappresentata
soprattutto da Raymond Kurzweil, il quale, rifacendosi al Wittgenstein e alle sue ramificazioni
neopositivistiche, nutre grande fiducia, se non addirittura la certezza, di
scoprire e garantire entro pochi decenni l’immortalità umana, grazie alle
scoperte del trinomio Genetica-Nanotecnolgia-Robotica. A questo riguardo,
però, sarebbe augurabile dare ascolto ai prudenti e sofferti messaggi di Huns
Jonas: è certamente necessario dimostrare ampia apertura verso la dignità e
la libertà di ricerca, la quale deve poter compiere il suo compito, ma non si
deve mai dimenticare di verificare le reali capacità conoscitive della
ragione umana. Certo, l’allungamento della vita dell’uomo è un fatto evidente,
ed è una considerevole conquista incontestabile della ricerca scientifica; allo
stesso modo, è anche ragionevole prevedere che altri progressi ridurranno
ancora i tempi dell’invecchiamento e della mortalità. Ma è lecito chiedersi,
comunque, fino a che età si potrà vivere in futuro e se si potrà raggiungere
davvero l’immortalità. A quel punto, però, bisognerà chiedersi anche se il
bisogno di una divinità scomparirà realmente oppure sarà solo rimpiazzato dall’onnipotenza
dell’uomo. Alle porte di questo evento, comunque, potrebbe stare in agguato e
attenderci il destino prefigurato dall’onnipotente Kirillov de “I demoni” di Dostoevskij:
l’uomo realizzerà e dimostrerà la sua onnipotenza, solo quando sarà capace di
vincere e distruggere tutto: compreso, quindi, se stesso. L’onnipotenza
dell’uomo coinciderà con il nulla totale.
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