Il cammino, che percorre la vita dei singoli e delle nazioni, è sempre determinato dagli orientamenti decisi di volta in volta dalle libere scelte degl’individui e dalle responsabili gestioni da parte dei governanti chiamati o comunque posti a guida dei popoli. Certo, non si possono svalutare e men che mai misconoscere gl’indirizzi di pensiero, che sostengono la dottrina del fatalismo o la concezione del determinismo; sembra, però, forse più consono alla dimensione razionale propria dell’uomo attribuire l’accadere degli eventi anche al libero e responsabile intervento degli uomini. Si tratterà indubbiamente d’interventi storicamente condizionati e, comunque, sempre commisurati alla facoltà volitiva dei singoli, alla capacità decisionale dei reggitori degli Stati e, non ultimo, supportati dal grado di maturità morale e di autonomia politica di ciascun popolo. Ogni tempo, pertanto, è tempo fatto di scelte alternative, tutte ugualmente legittime e possibili, ma fatte – ci si augura - con valutazione seria e prudente delle necessità reali, delle possibilità concrete di realizzazione e delle utilità ipotizzabili. Da qui la necessità d’una visione complessiva dei problemi politici, che permetta scelte in grado di garantire il destino dei popoli. E non solo dell’Occidente. Oggi, infatti, tempo della globalizzazione anche dei doveri e dei diritti, ricade su tutti la responsabilità di rinvenire e condividere una concezione antropologica ed etica, su cui edificare progetti validi di vita comunitaria, indubbiamente diversificati, ma sempre e comunque garanti e salvaguardia della dignità dell’uomo d’ogni cultura e d’ogni angolo dell’universo.
Questa esigenza non pare, però, sia avvertita da tutti e nel modo più adeguato. Si constata spesso, infatti, come da molte parti, anche da esponenti del mondo dell’economia, della politica e della stessa cultura, si faccia quasi a gara a individuare e denunciare le cause presunte dei disordini, che serpeggiano nelle varie nazioni e nei diversi settori della vita sociale; quasi sempre, tuttavia, sembra prevalere in loro la preoccupazione di valutare ed evidenziare le manifestazioni esteriori delle crisi indagate, senza almeno considerare prima di tutto le radici vere di tali sintomi. Sviati, pertanto, da questo fraintendimento, ricercano e suggeriscono come rimedio interventi di natura pragmatica, funzionali a situazioni particolari e settoriali, che toccano soprattutto il governo politico e l’equilibrio economico. Il complesso delle attività umane d’un popolo, però, non è fatto da una molteplicità di attività separate e giustapposte, ma è costituito in sistema unitario e organico, nel quale ogni attività s’accorda e si armonizza nella totalità del corpo sociale, secondo la gradualità del valore intrinseco di ciascuna. E’ questa totalità organica che nel suo insieme unitario deve tendere verso un unico sommo scopo: il bene comune. La vita d’una società, infatti, è simile a quella d’un organismo vivente, per cui il mal funzionamento d’un solo organo compromette la sanità dell’intero organismo. Nelle odierne situazioni di crisi sociali globali non è in causa il pervertimento di organi della società e di funzioni dello Stato, ma prima di tutto il deterioramento dell’intero tessuto sociale e politico, che determina e alimenta comportamenti dannosi. La diagnosi e la terapia, di conseguenza, debbono essere condotte secondo criteri di giudizio richiesti dal male da curare e non proposti e azzardati alla luce d’interpretazioni personali più o meno fondate o interessate; e debbono riguardare l’intero organismo sociale in ciò che esso contiene di più essenziale ed intimo, e non solo qualche settore più o meno evidente. E’ urgente, pertanto, ritrovare una visione culturale e politica integrale, che offra un’antropologia universale, nel senso che nessuna creatura pensante ne sia esclusa.
Gli uomini, però, nonostante ricerchino continuamente quale sia la loro vera dimensione esistenziale, tuttavia trovano raramente risposte veramente appaganti; forse perché non si ha il coraggio di prendere atto e di accettare la realtà sociale e politica per quello che essa è e si mostra oggettivamente. Ma solo in questo modo può concepirsi fondatamente e perseguire fattivamente il progetto d’una decorosa convivenza di uomini tra uomini, capaci di costruirsi la città: cioè, di fare politica ciascuno secondo le proprie risorse e capacità. Questa responsabilità etica verso il futuro anche degli altri non può essere, ovviamente, né affidata agli umori dei singoli governanti né lasciata in balia degli interessi dei diversi popoli e nemmeno delegata all’arbitrio di eventuali dirigenti non sempre animati da principi validi e nobili. Si rischierebbero molti pericoli. Per evitarli, è necessario provvedere un adeguato ordine giuridico, che determini il fine verso cui indirizzare ogni iniziativa e ne definisca tempi e modalità d’attuazione. Le leggi – secondo un’utile convinzione già del Rousseau – salvaguardano dall’eventuale volubilità del governante di turno, in quanto è autorità propria delle leggi e dell’intero ordine giuridico indicare l’ideale, cioè il vero regno delle finalità, cui gli uomini possono ragionevolmente e debbono moralmente aspirare. Le leggi, pertanto, salvaguardano e concretizzano libertà e doveri dei singoli, moralità ed eticità degli Stati. Diritti e doveri, dunque, non risultano stabiliti, concordati o elargiti dall’esterno della natura umana e della storia, ma sono insiti in esse. Lo stesso Giovanni Gentile, trascendendo il rigore logico del suo attualismo, ha scritto arditamente che “la società è dentro l’uomo”.
Ecco, allora, il legame, che unisce diritto ed etica; legame affidato, nella realtà, alla responsabilità di tutti, ma in primo luogo di chi sceglie o accetta di farsi carico del governo della cosa pubblica. Il nesso politica-diritto-morale è stato ed è essenziale in ogni tempo e in ogni situazione, ma s’impone con maggiore forza in tempi, in cui nelle scelte e negli orientamenti delle nazioni, l’affannosa ricerca dell’interesse privato e dei gruppi particolari prevale talmente che il sentimento dell’altruismo e la coscienza delle comuni responsabilità restano sovrastati e talora addirittura annichiliti. Non sembra fuor di luogo, pertanto, l’opportunità di ripensare le proposte antropologiche e socio-politiche avanzate da dottrine ”integrali “ del passato e del presente e di diversa matrice culturale, quali il pensiero umanistico di Erasmo da Rotterdam, gli sforzi dei movimenti ispirati al latitudinarismo e all’irenismo in generale e del XVII secolo in particolare, i messaggi dell’induismo di Mahatma Gandhi aperto al buddismo e al cristianesimo, il personalismo cristiano e in particolare cattolico soprattutto di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain, il principio di responsabilità altruistica degli ebrei Huns Jonas e Emmanuel Lévinas, ovviamente senza disattendere le esigenze espresse e proposte anche da teorie contemporanee della filosofia sia continentale che analitica. Questi pensatori - ciascuno con specificità proprie e nel contesto storico d’appartenenza – intuiscono e ammoniscono sostanzialmente che la politica reale, cioè il costruire fattivamente la città, non è assemblare attività staccate, ma strutturare un intero integrale di attività all'altezza di veicolare l’orizzonte di universalità in ciascuna società, in modo da consentire il graduale superamento dei limiti economici ed individualistici. Dal momento che la società è un organismo eminentemente etico, consegue che lo Stato dev’essere affidato in primo luogo a uomini testimoni e difensori della dignità integrale dell’uomo e del cittadino, e non gestito soltanto da professionisti dell’arte del governo e da tecnici esperti dei meccanismi economici e sociologici. Non si può, infatti, ritenere (come sembrano fare alcune concezioni di democrazia, già rappresentate in modo esemplare nella figura di “homo democraticus” da Alexis de Tocqueville in “La democrazia in America”), da una parte di esaltare la singolarità della natura umana, come pretenderebbe il liberalismo o, dall’altra parte, di sopravvalutarne la dimensione sociale, secondo il dettato del sociologismo sulle tracce del pensiero, tra gli altri, di Auguste Comte, Karl Marx, Emile Durkeim. Tanto l’irripetibilità dell’individuo quanto la sua dimensione sociale vanno sottratte ugualmente alla glorificazione dell’assoluta libertà del singolo, alla boria d’orgogli nazionali e, soprattutto, alle spesso dissennate richieste di mercato. La creazione e il mantenimento della società vanno restituiti al gesto libero e consapevole dell’uomo. Non si tratta di capovolgere le possibilità di relazioni singolo-società, ma solo di reinterpretarle in maniera che si salvino sempre e contemporaneamente la singolarità d’ogni cittadino e le indiscutibili esigenze di convivenza. Bisogna in ogni caso riscattare il responsabile intervento del cittadino nella società: egli, non una volta per tutte, ma momento per momento, quando e se lo vuole, deve poter decidere e lavorare per la costruzione della società, cui sceglie di partecipare.
L’obiettivo finale cui aspirare, pertanto, è di ritrovare le motivazioni etiche prima che giuridiche, capaci di offrire vitalità sempre nuova alla convivenza pacifica e costruttiva tra gli uomini, in una crescente visione del dovere civile e morale dell’impegno anche politico. Il quadro spesso davvero desolato del mondo contemporaneo, però, denuncia la carenza di queste istanze, poiché talora si preferisce ubbidire a qualcuno e sottomettersi a qualcosa piuttosto che affrontare le difficoltà per conquistare la propria formazione umana totale e, quindi, anche politica. L’attuale scena politica fa assistere a “politici di professione”, che all’occorrenza si fanno affiancare anche da “tecnici” per la soluzione di particolari situazioni sociali ed economiche. Questa collaborazione è lodevole ed esemplare. Però, a considerare bene i fatti, nascono dubbi e perplessità, quando si analizzano più a fondo le motivazioni, che determinano le scelte dei tecnici e dei politici di professione. Entrambe le figure operano senza dubbio legittimamente entro la propria logica professionale e politica; ma non si sa quanto integralmente umana. Non si sa, insomma, quanto la loro azione sia ispirata a motivazioni umane generali e non dettata, invece, da contingenze particolari.
Ecco, a questo punto, l’opportunità di affiancare al politico e al tecnico una generazione di “politici di solo servizio alla politica”, che possano collaborare, nella reciproca stima, con i primi. Si tratterebbe di persone dedite ordinariamente ad un mestiere o a una professione, che danno la propria disponibilità per un loro impegno nella politica attiva e, qualora ne sia il caso, anche di assumere impegni, in cui porre a disposizione le proprie competenze ed esperienze, sempre con la pubblica e vincolante promessa di una partecipazione solo a tempo e a titolo di gratuità. Cosa forse non facile. Queste persone, infatti, hanno non pochi motivi per tenersi distanti dalla vita politica. Le ambizioni di molti, nella realtà, renderebbero vana la loro opera; e il modo di pensare comune, convalidato dal corso dei fatti, attesta che il successo spesso premia l’andazzo ed emargina nell’indifferenza e nel silenzio chiunque s’opponga. Certo, questa proposta potrebbe suonare come una nostalgica aspirazione suggerita da rimpianti d’un passatismo mesto e sterile. E’ difficile a dirsi, quindi, se possa essere obiettivo realizzabile o chimera destinata a restare nel mondo degli ideali, come sogno bello o utopia vana. E’ un dubbio, comunque, che aveva assillato già Immanuel Kant, il quale, però, senza assumere alcuna aria di sufficienza ma speranzoso nell’umana ragione, si rispondeva che importante non è che l’ideale si realizzi, ma che l’uomo viva come se lo fosse; e ai suoi contemporanei, che deridevano le idee platoniche da lui riproposte, ribatteva che se, anziché deriderle, si dedicassero al loro possibile raggiungimento, tutto il mondo sarebbe andato certamente meglio.
Non c’è bisogno, allora, di una serie di soluzioni, ma di una soluzione unica e globale, cioè perseguire una politica, che si proponga di esprimere i valori propri della persona umana, riprendendo serie indicazioni d’elevato spessore etico, tali che innalzino il livello del confronto politico, spostandolo dalla mortificante combinazione di interessi parziali a una più vasta visione di obiettivi di portata generale. Per questo è opportuno il coinvolgimento di personalità d’indiscussa esperienza, ma anche in grado di individuare gli interessi generali. E’ un progetto certamente lungo e faticoso; ma forse è l’unico capace di ridare senso alla partecipazione politica del cittadino. E’ un progetto che richiede principalmente fiducia e speranza: si tratta, infatti, di gestire il presente, ma senza rimanere oppressi dalla logica dell’immediato, soprattutto se si considera la vera essenza della democrazia, che è una visione globale dell’uomo e del mondo e uno stile di vita privata e pubblica prima e più che una forma o una tecnica di governo. Essa, se inadeguatamente intesa e perseguita, corre il rischio di rimanere seriamente tradita nella sua stessa ragion d’essere di “governo del popolo, da parte del popolo, per il bene del popolo”, e può diventare dominio del numero più grande (non necessariamente sempre dei migliori) sul numero minore di cittadini (non necessariamente sempre dei meno buoni). E questo vale soprattutto nei nostri giorni, quando la crisi dell'etica pubblica è sotto gli occhi di tutti.
Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.
mercoledì 19 febbraio 2014
sabato 30 novembre 2013
RIFLESSIONI AL FEMMINILE
La professoressa Michela Marzano, laureata in Filosofia all’Università di Pisa, è ordinario all’Università di Parigi V. E’ Autrice di numerosi saggi ed articoli di filosofia morale.
L’analisi della fragilità della condizione umana rappresenta il punto di partenza delle sue ricerche e delle sue riflessioni filosofiche.
CONFESSA
Se non avessi attraversato le tenebre, forse non sarei diventata la persona che sono oggi. Forse non avrei capito che la filosofia è soprattutto un modo per raccontare la finitezza e la gioia.
RISPONDE
Professoressa Marzano cos'è per lei l'amore?
Ah! Domanda difficile, perché in questo momento sto cercando di riflettere… proprio perché sto scrivendo il mio prossimo libro sull’amore.
Dunque, l’amore. Intanto comincerei col dire ciò che non è l’amore. L’amore non è la fusione, non è nel momento in cui io penso che l’altra persona possa colmare esattamente il vuoto che mi porto dentro, che sono confrontata all’amore, perché in quel caso confondo l’amore con il bisogno.
L’amore però, al tempo stesso, non è nemmeno indifferenza, che poi è praticamente lo scoglio di fronte al quale ci troviamo: se non posso arrivare a una fusione con l’altra persona perché l’altra persona non può colmare il mio vuoto, non posso nemmeno fare come se l’altro fosse un estraneo e quindi mettere troppa distanza tra me e l’altro. Partendo da queste due cose da evitare, l’amore è un equilibro delicato che consiste a dare e ricevere. Lacan direbbe che: “Ogni qualvolta che si ama, si dà ciò che non si ha, a una persona che non lo vuole”. Secondo me è una definizione molto bella dell’amore perché effettivamente quando si ama, si ha tendenza a voler dare alla persona che si ama, quello che si vorrebbe ricevere da questa persona. Solo che, siccome l’altra persona è altro rispetto a noi, probabilmente quello che lui o lei vuol ricevere non è quello che gli stiamo dando. Ecco perché c’è questo paradosso, io do a una persona che amo quello che non ho, anche se questa persona molto probabilmente non vuole quello che io le sto dando.
C’è sempre un’incomprensione all’interno dell’amore: si dà e si riceve, anche se il tutto in maniera sempre asimmetrica e imperfetta.
Come spiega l'esistenza della sofferenza in ogni sua forma?
Non credo si possa spiegare la sofferenza. Quando si soffre, si cerca disperatamente di trovare un perché. Il perché di questa sofferenza, però, sfugge sempre. Per certi aspetti, la sofferenza è sempre inutile e sempre senza senso. Ecco perché bisognerebbe smetterla di cercare per forza un “perché”. Quello che conta, talvolta, è spostarsi dal “perché” al “come”: non “perché soffro?” ma “come posso fare per soffrire meno?” Purtroppo quando si parla della sofferenza c’è sempre qualcosa che rinvia al mistero della condizione umana. Questo non vuol dire che si debba accettare la sofferenza. Al contrario. Si deve cercare si superarla e di diminuirla. Sapendo però che tante volte si è impotenti.
Qual è per lei il senso della vita?
Per me il senso della vita è vivere! Se si cerca di andare al di là del vivere, talvolta ci si perde.
Dunque, l’amore. Intanto comincerei col dire ciò che non è l’amore. L’amore non è la fusione, non è nel momento in cui io penso che l’altra persona possa colmare esattamente il vuoto che mi porto dentro, che sono confrontata all’amore, perché in quel caso confondo l’amore con il bisogno.
L’amore però, al tempo stesso, non è nemmeno indifferenza, che poi è praticamente lo scoglio di fronte al quale ci troviamo: se non posso arrivare a una fusione con l’altra persona perché l’altra persona non può colmare il mio vuoto, non posso nemmeno fare come se l’altro fosse un estraneo e quindi mettere troppa distanza tra me e l’altro. Partendo da queste due cose da evitare, l’amore è un equilibro delicato che consiste a dare e ricevere. Lacan direbbe che: “Ogni qualvolta che si ama, si dà ciò che non si ha, a una persona che non lo vuole”. Secondo me è una definizione molto bella dell’amore perché effettivamente quando si ama, si ha tendenza a voler dare alla persona che si ama, quello che si vorrebbe ricevere da questa persona. Solo che, siccome l’altra persona è altro rispetto a noi, probabilmente quello che lui o lei vuol ricevere non è quello che gli stiamo dando. Ecco perché c’è questo paradosso, io do a una persona che amo quello che non ho, anche se questa persona molto probabilmente non vuole quello che io le sto dando.
C’è sempre un’incomprensione all’interno dell’amore: si dà e si riceve, anche se il tutto in maniera sempre asimmetrica e imperfetta.
Come spiega l'esistenza della sofferenza in ogni sua forma?
Non credo si possa spiegare la sofferenza. Quando si soffre, si cerca disperatamente di trovare un perché. Il perché di questa sofferenza, però, sfugge sempre. Per certi aspetti, la sofferenza è sempre inutile e sempre senza senso. Ecco perché bisognerebbe smetterla di cercare per forza un “perché”. Quello che conta, talvolta, è spostarsi dal “perché” al “come”: non “perché soffro?” ma “come posso fare per soffrire meno?” Purtroppo quando si parla della sofferenza c’è sempre qualcosa che rinvia al mistero della condizione umana. Questo non vuol dire che si debba accettare la sofferenza. Al contrario. Si deve cercare si superarla e di diminuirla. Sapendo però che tante volte si è impotenti.
Qual è per lei il senso della vita?
Per me il senso della vita è vivere! Se si cerca di andare al di là del vivere, talvolta ci si perde.
sabato 5 ottobre 2013
FEDELTA’ E COERENZA DURANTE LA VITA
Nel corso dell’esistenza umana si sperimenta e,
quindi, necessariamente si deve riconoscere e accettare che la vita in ogni suo
aspetto (personale e familiare, sociale e relazionale, professionale e
lavorativo) non è mai staticità e inerzia; infatti, non sarebbe vita, ma morte.
La vita, di conseguenza, comporta inevitabilmente cambiamenti, che richiedono adeguati
mutamenti talora sostanziali.
L’uomo è chiamato a comprendere con decisione questa
verità effettuale, se ha l'intenzione di ricercare realmente il senso vero delle
varie situazioni, che si susseguono e investono casi positivi e gratificanti,
ma anche momenti avversi e infelici. Ben fermo, allora, nella sua onestà morale
e saldamente ancorato sulla sua saggia fedeltà, egli opera scelte coerenti, che
sono spesso fondamentali, decisive e talora anche difficili. Sono, infatti, scelte,
che spesso richiedono coraggio e pesano moltissimo, e tuttavia destinate a dare
senso nuovo e vero al proprio esistere. Se non si ha la forza di allargare lo
sguardo oltre l’orizzonte d’un proprio presente tranquillo e confortevole, per scrutare
un oltre per lo più misterioso e temuto, si rischia di rimanere irretiti e
schiacciati da un presente ormai privo d’ogni consistenza. Non si può restare
attaccati ai più o meno ampi confini d’un’esistenza pacifica perché immobile e immutata,
a meno che non ci s’illuda d’attribuire un peso anche all’inconsistente e un significato
all’impossibile e, proprio per questo, assurdo e insensato. Tutto scorre; anche
il tempo scorre. Scorre anche ogni giorno della vita umana. Ciascun uomo ha
ogni giorno l’opportunità o di scolpire, come su dura pietra, quotidiani documenti
imperituri di vita autenticamente vissuta oppure di scribacchiare, come su
fogli cartacei marcescibili, casuali scarabocchi degni solo del macero.
Verità certamente facile a dirsi, forse anche difficile
a comprendersi, ma sicuramente molto arduo a realizzarsi. Non è eccessivo
paragonare i momenti di questi stati d’animo ai dolori del partorire: senza dolore
lacerante non viene alla luce una vita nuova, che sarà poi anch’essa un’avventura
di luce e di buio, di bello e di brutto, di bene e di male, di gioia e di
dolore, d’entusiasmo e di sfiducia, di voglia di vivere e di tentazioni di odio
verso tutto e tutti.
Il percorso della vita si realizza, quindi, in
continui cambiamenti determinati dal mutare dei convincimenti personali e delle situazioni sociali e culturali: si
tratta, quindi, di mutamenti sollecitati dall’evolvere sia della propria personalità
e sia del mondo esterno. Se si trattasse, però, di alternative ricorrenti
normalmente, non nascerebbe alcuna difficoltà; i problemi nascono, invece,
quando i dettami del proprio animo e le richieste della storia e del mondo
socio-culturale sono differenti se non addirittura opposti. E’ in questi casi che nasce il
grave interrogativo: cosa sono la coerenza e la fedeltà?
Viene subito incontro l’ammonimento di Mahatma
Gandhi: “Meglio un
milione di volte sembrare infedeli agli occhi del mondo che esserlo verso noi
stessi”. La fedeltà e la coerenza, infatti,
sono sostanzialmente il segno e la manifestazione del benessere interiore personale.
E' una condizione di equilibrio, di serenità e di contentezza, in cui ci si
sente esattamente come si desidera essere e in cui si ha proprio ciò che si
desidera avere: “Solo
chi è fedele in se stesso – avverte Erich Fromm - può essere fedele agli altri”;
quegli “altri”, che a volte – anche pensando onestamente e comportandosi in
buonafede, addirittura mossi da zelo sincero e persino sollecitati e confermati
da elementi apparentemente indiscutibili – corrono il rischio di fraintendere verità
personali e obiettive e di snaturare realtà individuali e collettive. Anche in
questa circostanza, però, la serenità e la contentezza interiori possono essere
solo lambite da brevi momenti di tristezza morale causata da equivoci,
confusioni e ambiguità, ma giammai turbate nella loro essenza.
QuestauestaQ condizione di benessere interiore, però, non è da
confondere con la chimera della felicità (pura aspirazione dell’uomo d’ogni età)
e non è caratterizzata
dalla quantità di esperienze positive e gratificanti, in quanto in essa
permangono tutti gli elementi di fatica, di tedio, di dolore. Ogni avvenimento
in qualunque ambito accada - purchè ponderatamente deciso e definito dentro l’orizzonte
di fedeltà e di coerenza alla totalità della propria personalità - comporta
sempre un arricchimento e produce crescita, benché s’accompagni sempre a stati
d’animo di turbamento: i logici motivi della ragione non sempre sono in
sintonia con gli umani sentimenti dell’animo; e riorganizzare le nuove modalità
di vita richieste dalla propria fedeltà e coerenza è impresa non facile, ma delicata
e talora lunga e difficoltosa.
Di
conseguenza, fedeltà e coerenza in qualunque ambito non sono un valore in sè e
per sè, ma sono sempre agganciate a una scelta di vita, che abbia valore in sé
e che ne fondi la validità: coerenza e fedeltà scaturiscono sempre da una
scelta personale di fondo e sono indirizzate al raggiungimento d’un obiettivo motivato
interiormente e giustificato da situazioni storicamente concrete. Nel corso della vita sono molte le strade che si
presentano, ma una sola è quella veramente giusta: si tratta di capire quale sia, fra tutte le
altre: cosa non sempre agevole, perché può essere fra quelle meno comode e
invitanti; anzi, può presentarsi addirittura sbarrata dai rovi e soffocata da
una densa vegetazione, che ne rendono arduo il cammino. E tuttavia un richiamo
misterioso, segreto, irresistibile spinge verso di essa, se si è capaci di fare
un po' di silenzio nell'animo. Fedeltà e coerenza, pertanto, non sono due facce
del comportamento umano, bensì due elementi sostanziali, che costituiscono
l’intero spessore vitale d’ogni uomo, racchiuso in un progetto globale dettato
dalle spinte della totalità umana: ragione, mente, esperienza, cuore,
sentimento, sostenuti sempre da una volontà tenace e soprattutto da una
personalità umile e dignitosa, perché libera da tutti e da tutto, anche da se
stessa (altrimenti si trasformerebbe in idolo che schiavizza subdolamente).
Percorrere con perseveranza il cammino della vita con
fedeltà e coerenza ai convincimenti del proprio animo è difficile, anzi
significa rasentare l’eroismo etico. Chiunque, infatti lo testimoni, è uno
straniero nel mondo e un anormale nella storia (o almeno così è guardato quasi
sempre). Chiunque cammini per le strade della città senza indossare la maschera
della finzione e dell’ipocrisia è additato come un fenomeno strano e
inquietante dai più, i quali, invece, non se la tolgono mai. In verità, ogni essere
umano resta sempre uno straniero per gli altri, in quanto ciascuno porta in sè il
proprio mistero e la propria solitudine e cova nell’intimità del proprio animo suoi
interrogativi, che nessuno conoscerà mai e ai quali egli stesso forse non saprà
dare mai una risposta. A quest’isolamento costitutivo della natura umana s’aggiunge,
però, un altro isolamento, forse più amaro: quello cui è condannato chiunque si
sforzi d’essere autentico in qualunque circostanza, senza piegarsi alla
direzione da cui soffia il vento della convenienza egoistica e del calcolo
privato; è l’isolamento cui lo condannano spesso l'indifferenza proprio degli
“altri”, la sorda ostilità del vicino e, dolorosamente, la noncuranza dell’amico.
lunedì 5 agosto 2013
IMMORTALITA’ DELL’UOMO E RELIGIOSITA’
Socrate,
rivolgendosi ai giudici che gli avrebbero confermato la sentenza di condanna a
morte, faceva loro notare ch’egli era ormai molto vecchio, per cui riteneva di
non doversi affliggere della sorte che l’attendeva, in quanto non gli sarebbe
rimasto comunque molto altro tempo da vivere sulla terra. Ma li avvertiva di
una conseguenza certa. Essi, condannandolo a morte, sarebbero stati immortalati
dalla fama d’aver ucciso un uomo sapiente; egli, invece, nonostante non si ritenesse
sapiente, sarebbe sopravvissuto come martire e sarebbe stato non solo perpetuato,
ma anche imitato da molti discepoli e amici. La conseguenza, quindi, era
inevitabile: se fino allora il fastidioso fustigatore dei vizi dei potenti era
stato uno solo, in seguito si sarebbero moltiplicati. Gli uomini virtuosi,
saggi e onesti non muoiono mai del tutto, ma vivono in eterno: la virtù e la
rettitudine rendono immortale. E Socrate, infatti, è tuttora vivo, e tale
resterà proprio grazie all’integrità conservata fino all’ultimo, fino agli
estremi d’ogni umana possibilità. Primo martire della filosofia occidentale,
egli non solo non invoca pietà, ma non usa nemmeno parole di suadenti lusinghe per
impietosire o false argomentazioni per fuorviare i giudici; si rimette totalmente
al loro giudizio qualunque esso sarà; rimane calmo nella serenità propria dell’uomo
giusto e onesto. Vissuto nella rettitudine e nella giustizia, è profondamente
convinto che può attendersi solo il bene e la felicità anche dall’eventuale condanna
a morte, ch’egli immagina o un amabile profondo sonno o un felice ritrovarsi
nel regno degli inferi con i grandi eroi d’ogni tempo. E conclude verso i
giudici: “Vedo che è tempo ormai di andar via, io a
morire, voi a vivere. Chi di noi avrà sorte migliore, è a tutti ignoto, tranne
che al nume”.
In queste parole conclusive di Socrate resta scolpito l’interrogativo
che s’è posto da sempre e continuerà a porsi l’uomo d’ogni tempo: cos’è la vita
e cos’è la morte. Interrogativo senza risposta umanamente certa: nessun essere
mortale, infatti, ha mai saputo veramente cosa sia quello che si considera “vita”
e quello che si definisce “morte”; lo stesso Socrate si limita solo a rappresentarsi
due congetture, che scaturiscono dal profondo della sua anima, mentre sta
vivendo momenti di rara sublimità. “Quasi per sua natura – scrive a proposito l’Anonimo
autore del Sublime - l’anima si
esalta e, prendendo non so quale generoso slancio, si riempie di gioia e
d’orgoglio (…); il sublime non porta alla persuasione, ma all’esaltazione,
perché il sublime è l’eco della grandezza interiore (…); tutti partecipano di
un moto d’animo collettivo che genera un’esperienza di vita e un’iniziazione,
una comunicazione alta di concetti e di valori, che conduce quasi inevitabilmente
a una vita migliore”. Solo affidandosi a simili stati d’animo di “sublimità”,
l’uomo giungerà, riguardo al suo essere, a qualche risultato confortante e capace
di liberarlo dall’angoscia forse ingiustificata, ma non per questo meno dolorosa,
poiché è causa d’un’insopportabile oppressione di paure e di superstizioni.
A
questo proposito ritorna alla memoria il poeta latino Lucrezio, quando, momentaneamente
quasi dimentico delle sue ben salde convinzioni atomistiche e meccanicistiche che
sta esponendo nel De rerum natura, inaspettatamente
sembra cedere a una forma d’insolito realismo, armonicamente mescolato a una complicità
quasi affettiva. Immerso in uno stato d’animo di empatia universale, dà vita a versi
intensamente umani, nei quali, dopo aver evocato alla nostra considerazione
tutti gli esseri animati e inanimati, con un colpo d’occhio istantaneo ci
protende all’infinito fino a trasportarci in un’avventura meravigliosa, che ci
innalza fino alla magnificenza e al silenzio degli spazi celesti: “Quando – s’interroga
- leviamo lo sguardo agli spazi celesti dell’immenso cosmo, e più in alto
ancora all’etere trapunto di astri splendenti, e ci vengono in mente le vie
della luna e del sole, allora un’angoscia coperta nel cuore dagli altri dolori
comincia a destarsi e anch’essa a levare la testa: forse si sta mostrando un
immenso potere divino, che volge le stelle luccicanti nei loro molteplici
moti?”.
L’uomo
assiste ogni momento all’ineluttabile ciclo che scandisce la vita d’ogni essere
abitatore della terra: nascita, crescita, maturazione, declino, morte: guarda
questa legge universale con fredda audacia, senza mai sfidarla, talora forse la
teme, ma sa benissimo che è comune destino inevitabile. E tuttavia non vi si
rassegna mai del tutto. Nel suo profondo percepisce una misteriosa esigenza di
sopravvivenza. Non è vile paura di morte né arrogante anelito all’eternità tra
i viventi. E’ una nascosta ma forte, arazionale ma umana, inspiegabile ma
insopprimibile esigenza d’immortalità. Parte di una Totalità, intuisce, senza
saperselo spiegare, che egli non può essere del tutto transeunte e contingente.
E spera solo che sia un’esigenza che poggi sul fondamento di qualche realtà
immanente come lui, ma nello stesso che lo superi e lo trascenda.
E’
la convinzione nutrita anche da Socrate e da Lucrezio. Un nascosto “nume”
onnisciente, un ignoto “immenso potere divino” reggono e guidano – forse - il
cosmo: è questo il punto d’approdo dei due pensatori così lontani nel tempo e
diversi per cultura e sensibilità, ma così in sintonia davanti ai supremi misteri,
che avvolgono la vita dell’uomo e la realtà del mondo. E molti secoli più
tardi, dopo le conquiste del rinascimento e i progressi delle scienze alla
vigilia dell’illuminismo, al loro pensiero s’unirà, tra gli altri, Giambattista
Vico con l’arduo pensiero tramandatoci nella Scienza nuova: l’uomo – annota - contemplando il mondo e
considerando il magnifico misterioso avvicendamento dei suoi aspetti, viene
assalito e dominato da molti sentimenti diversi, di ammirazione e di stupore,
ma anche di paura e di sbigottimento, tanto da essere indotto a invocare
qualcosa o qualcuno come suo aiuto o comunque come forza amica, che ne
garantisca la sopravvivenza e l’immortalità. Si origina allora nell’animo
umano il sentimento della “divina provvidenza”, che poi la ragione indagherà
e la volontà accoglierà o respingerà. Secondo il Vico, infatti, l’innato desiderio
d’immortalità è spiegabile solo da un principio superiore: “Pur gli uomini –
sostiene - hanno essi fatto questo mondo di nazioni (...), ma egli è questo
mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta
contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si
avevan proposti”.
La vera “ordinatrice
del mondo delle nazioni” è, dunque, la provvidenza: “Ché senza un Dio provvedente, non sarebbe nel mondo
altro stato che errore, bestialità, bruttezza, violenza, fierezza, marciume e
sangue; e, forse senza forse, per la gran selva della terra orrida e muta
oggi non sarebbe genere umano”; e all’inizio dell’opera aveva avvertito
prudentemente e con sagacia: “Il diritto naturale delle nazioni egli è
certamente nato coi comuni costumi delle medesime: né alcuna giammai al mondo
fu nazione d’atei, perché tutte incominciarono da una qualche religione. E le
religioni tutte ebbero gittate le loro radici in quel desiderio che hanno naturalmente tutti gli uomini di vivere
eternamente; il qual comune
desiderio della natura umana esce da un senso comune, nascosto nel fondo dell’umana mente,
che gli animi umani sono immortali; il qual senso, quanto è riposto nella cagione, tanto produce quello effetto:
che, negli estremi malori di morte, desideriamo esservi una forza superiore alla natura per superargli,
la quale unicamente è da ritrovarsi in un
Dio che non sia essa natura ma ad essa natura superiore, cioè una
mente infinita ed eterna; dal qual Dio gli uomini diviando, essi sono curiosi
dell’avvenire”.
Il Vico assicura che la potenza del desiderio d’immortalità
è proprio della natura umana, ma avverte che non deve divenire e tanto meno cedere
alla tentazione d’onnipotenza. E ne indica il rimedio. L’uomo – assicura - ha
sempre e comunque il potere e la responsabilità di decidere il cammino suo e
dell’umanità; tuttavia, davanti a fenomeni d’enorme potenza ineluttabile, come
la morte, sente nascere in sé il bisogno di pensare e d’invocare un “Dio” che
lo soccorra nella sua finitezza e rimedi alla sua mortalità.
Certo, anche di recente Martin Heidegger in Essere e Tempo avvertiva, dopo le
tragedie delle dittature, che “solo un Dio ci può salvare”: ma finiva per
sprofondare in antichi sonni dogmatici, dai quali ci aveva svegliato
definitivamente Immanuel Kant. Il Vico, invece, anticipando il filosofo del
criticismo, aveva portato l’umanità fuori dallo “stato di minorità”, perché
non cedeva a qualunque forma di dogmatismo (tanto in metafisica quanto nella
stessa fisica). Il bisogno d’immortalità fa invocare un “Dio” superiore a tutto,
ma è assolutamente privo d’ogni carattere di antropomorfismo. Vico, inoltre,
si discosta dal demiurgo di Platone, dal “sommo Padre Architetto” di Pico
della Mirandola e di Isaac Newton; si avvicina e accoglie, invece, il “Dio
della Legge” degli antenati, immanente e nello stesso tempo trascendente la
mente umana, tale che illumina e guida le scelte d’ogni essere umano nei
confronti di se stesso e del cosmo intero. Il Vico, quindi, propone una
divinità, che nasce dal desiderio umano e che è vissuto come l’unico sommo
“provvedente di tutte le nazioni”, il garante dei valori della “natura umana
tutta dispiegata e riconosciuta uguale in tutti”. Per Vico questa è “la sola
luce” che fa capire che “il mondo delle gentili nazioni egli è stato pur
certamente fatto dagli uomini”, ma nello stesso tempo svela anche “due gran
princìpi di vero: uno, che vi sia provvidenza divina che governi le cose
umane; l’altro, che negli uomini sia la libertà d’arbitrio, per lo quale, se
vogliono e vi si adoperano, possono schivare ciò che, senza provvederlo,
altrimenti loro apparterrebbe”.
Ritornare a queste riflessioni di filosofi anche
del passato potrebbe sembrare superfluo, poiché la cultura come minimo degli
ultimi due secoli ha sancito senza incertezze non solo la mortalità
dell’uomo, ma anche la morte di Dio stesso. Nietzsche, infatti, in “Aurora” (1881) derideva coloro che
sognavano l’immortalità dell’uomo: “A questa bella vostra coscienza di voi stessi augurate, dunque, una 'eterna durata’? Non è un’insolenza? Non pensate a tutte le altre
cose, che dovrebbero sopportarvi per tutta l'eternità, come vi hanno sopportato
fino a oggi?”; e qualche anno dopo, nella “Gaia
Scienza” e in “Così parlò
Zaratustra” annunciava trionfalmente anche la “morte di Dio”. E in
verità, se si riflette sulle vicende solo del secolo passato, non si può nascondere
un senso di smarrimento: le guerre mondiali, le dittature e le tirannie, i
successivi eventi deludenti delle neonate democrazie, le crisi globali non
solo e non tanto dell’economia, ma anche e soprattutto delle ideologie e di
molti modelli valoriali, non farebbero davvero pensare diversamente e sperare
meglio. Preferibile, quindi, rinverdire pensieri e speranze di chi ci ha
preceduto.
A meno che non ci si voglia rifugiare nell’affascinante
profetico progetto della neonata filosofia dell’immortalità, rappresentata
soprattutto da Raymond Kurzweil, il quale, rifacendosi al Wittgenstein e alle sue ramificazioni
neopositivistiche, nutre grande fiducia, se non addirittura la certezza, di
scoprire e garantire entro pochi decenni l’immortalità umana, grazie alle
scoperte del trinomio Genetica-Nanotecnolgia-Robotica. A questo riguardo,
però, sarebbe augurabile dare ascolto ai prudenti e sofferti messaggi di Huns
Jonas: è certamente necessario dimostrare ampia apertura verso la dignità e
la libertà di ricerca, la quale deve poter compiere il suo compito, ma non si
deve mai dimenticare di verificare le reali capacità conoscitive della
ragione umana. Certo, l’allungamento della vita dell’uomo è un fatto evidente,
ed è una considerevole conquista incontestabile della ricerca scientifica; allo
stesso modo, è anche ragionevole prevedere che altri progressi ridurranno
ancora i tempi dell’invecchiamento e della mortalità. Ma è lecito chiedersi,
comunque, fino a che età si potrà vivere in futuro e se si potrà raggiungere
davvero l’immortalità. A quel punto, però, bisognerà chiedersi anche se il
bisogno di una divinità scomparirà realmente oppure sarà solo rimpiazzato dall’onnipotenza
dell’uomo. Alle porte di questo evento, comunque, potrebbe stare in agguato e
attenderci il destino prefigurato dall’onnipotente Kirillov de “I demoni” di Dostoevskij:
l’uomo realizzerà e dimostrerà la sua onnipotenza, solo quando sarà capace di
vincere e distruggere tutto: compreso, quindi, se stesso. L’onnipotenza
dell’uomo coinciderà con il nulla totale.
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domenica 7 luglio 2013
UNA “POLITICA DI SERVIZIO” PER IL “BENE COMUNE”
L’uomo è da sempre alla
ricerca della sua dimensione esistenziale. Individuo catapultato a caso nei
vortici assurdi d’una realtà ignota e incomprensibile, oppure esistente partecipe
d’un cosmo ordinato e razionalmente governato? Individuo collocato accanto ad altri
individui, tra loro estranei e addirittura in lotta continua tra loro per il
predominio o per la sola sopravvivenza, oppure persona protesa per sua natura verso
altre persone, tutte in uguale tensione alla reciproca integrazione? Vale a
dire, gli uomini sono singolarità intrinsecamente indipendenti e diverse oppure
individualità autonome sì, ma anche aperte agli altri, col cui ausilio ciascuno
realizzerà la propria realtà e il proprio progetto esistenziale? Insomma, cos’è
veramente l’essere umano in sè e per sè? In che rapporto stanno gli uomini e il
mondo, il singolo e gli altri, l’individuo e la società.
L’uomo
ha sentito sempre il bisogno di trovare risoluzioni adeguate e soddisfacenti a questo
problema; e, al fine di soddisfarlo, ha fatto ricorso a procedimenti logici, s’è
servito della ragione e delle sue argomentazioni, ha invocato il sostegno
dell’esperienza e l’autorevolezza della tradizione. E, tuttavia, ha trovato raramente
risposte veramente appaganti. La sete conoscitiva dell’uomo, infatti, non
s’estingue con i risultati del solo intelletto, ma esige il coinvolgimento e il
sostegno della totalità della natura umana. Spesso, invece, l’uomo si limita a
ragionare, s’aggrappa all’evidenza della sola logica astratta, ricorre a congetture
personali, formulate secondo parametri soggettivi. Ma ogni realtà va scrutata e
accettata così com’essa si mostra oggettivamente. Ora, anche le dimensioni vere
della sociabilità dell’uomo non pare possano attingersi con la sola
razionalità, ma necessitano della totalità della natura umana e, quindi, senza
facili e comodi ricorsi a eventuali realtà sovrumane e soprannaturali.
L’uomo,
allora, ponendosi da questa prospettiva e avvalendosi dell’ausilio d’ogni risorsa
a sua disposizione, s’intuirà come immerso in una realtà dialettica, di cui dovrà
cogliere e accogliere anche innegabili contrasti e opposizioni. Si sentirà,
infatti, partecipe d’un universo multiforme e armonico, ma nello stesso tempo pervaso
da strane inspiegabili contraddizioni e da assurde incongruenze. All’uomo,
però, manca talora l’ardire di guardare in faccia questa realtà con la
distaccata freddezza, necessaria per coglierne e accoglierne le verità ch’essa
svela e che, quindi, l’uomo non può farsi a modo suo, ma deve solo accettare nella
cruda oggettività, compresi, quindi, anche i tratti incomprensibili e gli aspetti
persino misteriosi. Proprio come si comporta l’uomo saggio al cospetto del sole
splendente nel cielo: egli non argomenta nè congettura nè dimostra la presenza
del sole, si limita solo a sollevare gli occhi, guardare, narrare quello che gli
si presenta davanti. Dovrebbe essere questo il comportamento da tenere anche
riguardo la realtà del mondo e dell’umanità: conoscere veramente il mondo
significa accoglierlo nella sua integralità costituita da finalità proprie, palesi
o celate.
A
fondamento d’ogni scelta teoretica e d’ogni opzione etica si deve preporre,
quindi, innanzitutto una concezione antropologica e socio-politica globale e integrale,
entro cui trovi e abbia senso il problema delle responsabilità, che ricadono
sui singoli, sui popoli e sull’umanità intera. Di conseguenza, gli uomini debbono
optare non solo e non tanto per alcuni valori anziché per altri, ma debbono prima
e soprattutto ricercare e accogliere con responsabilità una concezione chiara e
condivisibile di uomo e di mondo, su cui fondare e giustificare il senso delle scelte
storicamente concrete: si tratta, quindi, d’una scelta preliminare e globale.
Ogni
scelta storica, infatti, interessa indubbiamente il destino del singolo, ma
nello stesso tempo coinvolge anche le sorti dell’evoluzione del mondo e la qualità
della vita della società di cui è parte e, in prospettiva cosmopolita, dell’intera
umanità. Questa naturale vocazione alla responsabilità verso l’altro (inteso
come cosmo e come umanità) non può essere né affidata agli umori dei singoli né
lasciata in balia degli interessi dei popoli e nemmeno delegata all’arbitrio di
eventuali governanti non sempre animati da autentico spirito umano. Si
rischierebbero molti pericoli. Per questo s’impone la necessità d’un’adeguata “legislazione”,
cioè d’un insieme saggiamente strutturato di principi e di precetti, che determinino
il fine verso cui indirizzare ogni iniziativa, definendone tempi e modalità
d’attuazione. Il compito delle leggi e delle norme, infatti, è di indicare
l’ideale, cioè di orientare verso il “dover essere”, vero regno dei fini, cui gli
uomini possono ragionevolmente e debbono moralmente aspirare. Le leggi e le
norme non limitano né condizionano, ma salvaguardano e concretizzano libertà e
dovere del singolo, moralità ed eticità delle nazioni e dei popoli. I diritti e
i doveri così sanciti non provengono, quindi, dall’esterno della natura e della
storia dell’uomo, bensì risiedono dentro di esse e ne sono elementi costitutivi.
Ora,
è certo che non si può mai misconoscere e tanto meno trascurare il legame, che
unisce norma e morale, diritto ed etica; è un nesso essenziale, che s’impone,
però, con maggiore forza in tempi, in cui nelle scelte dei singoli e negli
orientamenti dei popoli e delle nazioni, prevale talmente l’affannosa ricerca
dell’interesse dei privati e dei gruppi che restano sovrastati e talora addirittura
annichiliti il naturale sentimento dell’altruismo e la coscienza delle comuni responsabilità.
In questi periodi è più che mai necessario rinverdire, se non addirittura
rifondare, una concezione dell’uomo il più integrale possibile, evitando chiusure
concettuali preconcette e aprendosi a comportamenti ispirati alla vera dignità
dell’uomo.
Infatti,
concezioni parziali, anche se legittime, sarebbero insufficienti e, quindi, necessariamente
non del tutto esatte ed esaustive. Non pare, perciò, possano ritenersi accettabili
le teorie dell’individualismo e del collettivismo, che considerano l’uomo
rispettivamente o individuo autosufficiente ed egocentrico (quasi atomo
insignificante d’un mondo caoticamente strutturato) oppure parte significativa
solo nel necessitante nesso col tutto (quasi tessera d’un immenso misterioso
mosaico cosmico). Non sembra fuor di luogo, pertanto, il suggerimento di ripensare
le proposte antropologiche e socio-politiche avanzate da dottrine ”integrali “
antiche e contemporanee e di diversa matrice culturale, quali il pensiero umanistico
di Erasmo da Rotterdam e del latitudinarismo in generale, l’induismo di Mahatma
Gandhi aperto al buddismo e al cristianesimo, il personalismo cattolico soprattutto di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain, il
principio di responsabilità degli ebrei Huns Jonas e Emmanuel Lévinas, ovviamente
senza disattendere le esigenze espresse anche dalle contemporanee teorie della
filosofia sia continentale che analitica. L’obiettivo finale cui aspirare è di
ritrovare quelle motivazioni etiche prima che giuridiche, capaci di offrire
vitalità nuova alla convivenza pacifica e costruttiva tra gli uomini, in una
rafforzata visione del dovere civile e morale dell’impegno anche politico, che
incombe su ogni uomo e, in primo luogo, su chiunque scelga di dedicare – a tempo
e comunque finchè ne sia richiesto - le sue energie al governo della cosa
pubblica.
Ecco, a
questo punto, l’urgenza di affiancare al politico di professione una nuova
generazione di politici “di vero e solo servizio”, che possano convivere, nella
reciproca stima, con i primi. Si tratterebbe di persone dedite ordinariamente
ad un mestiere o a una professione, che scelgono di dare la propria
disponibilità per un loro impegno nella politica attiva e, qualora ne sia il
caso, di assumere impegni, in cui porre a disposizione di tutti le proprie
competenze ed esperienze, ma sempre con il formale e pubblico impegno ad una
partecipazione “solo a tempo” nelle istituzioni.
Sembra ormai
inevitabile che una politica, che si proponga d’essere espressione di valori
fondati sull’innegabile primato della persona umana, debba riprendere con
urgenza indicazioni di elevato spessore umano e sociale, tali che innalzino il
livello del confronto politico, spostandolo dalla mortificante combinazione di
interessi materiali alla più vasta visione di obiettivi di portata generale,
capaci di orientare la condivisione e la partecipazione anche di tutti i
cittadini. Per questo è richiesta la presenza di personalità d’indiscussa
esperienza, in grado di individuare gli interessi reali sottesi alle varie
proposte politiche, dedicandosi con saggezza e prudenza alla ricerca di soluzioni sempre aggiornate
dei problemi specifici, ma nello stesso tempo tenendo sempre presente che
bisogna costruire nuove stagioni di rifioritura etica e sociale nella vita sia
tra i cittadini e sia tra e nelle
istituzioni. E’ un progetto certamente faticoso, ma è forse l’unico per ridare senso alla partecipazione del “cittadino”
all’impegno pubblico per il bene comune. E’ una proposta che richiede spirito
di fiducia e di speranza: si tratta di gestire il presente, ma senza rimanere oppressi dalla logica dell’imminente; è questo
che si richiede a una società efficacemente partecipativa nelle vicende reali
della vita comune. E soprattutto nei nostri giorni, quando la crisi dell'etica pubblica
è sotto gli occhi di tutti.
domenica 9 giugno 2013
LA NON ESISTENZA DI DIO. LA DIMOSTRA DAVVERO LA “PROVA ETICA”?
“Il
vero scoglio è la prova etica”:
così titolava a caratteri cubitali la ‘Domenica’
de “Il Sole24Ore” del 12 maggio scorso (n. 128, pag. 35) il contenuto della
conferenza tenuta da Arif Ahmed, docente di filosofia a Cambridge, giovedì 18
aprile 2013 alla Scuola Normale Superiore di Pisa, su invito del Centro di
Filosofia della Scuola.
L’assunto mira a provare il
fallimento d’ogni dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio. E questa è dottrina
saldamente sostenuta e saldamente dimostrata già da numerosi pensatori fin
dall’antichità. Poco fondate e convincenti appaiono, invece, alcune deduzioni che
si vuole far discendere dall’assunto. Sembrerebbe, infatti, che l’incapacità
della ragione di dimostrare l’esistenza di Dio ne comproverebbe, al contrario e
simultaneamente, l’inesistenza. Questa conclusione, però, rimanendo nei limiti dei
procedimenti puramente razionali, sarebbe incomprensibile: è, infatti, contraddizione palese affermare che la ragione
umana, incapace di dimostrare l’esistenza di Dio, sia in grado, poi, di dimostrarne
l’inesistenza. Ma, a parere dell’autore, a ciò supplisce adeguatamente la
testimonianza inconfutabile dei “fatti” storici compiuti nei diversi secoli dalle
“chiese”. Sono questi a costituire il solido “scoglio della prova etica”, grazie
al quale resterebbe finalmente smascherato il vero volto d’ogni “religione”:
“C’è - si chiede sin dall’inizio l’autore - una qualche religione che è vera o
che abbia qualche valore?”; e prosegue senza alcuna esitazione, asserendo: “Il
modo migliore per affrontare questa domanda è mettere da parte le proprie
convinzioni e cercare di guardare in modo spassionato alle prove disponibili”.
E quali “prove” più inconfutabili della predicazione ingannevole della
creazione d’un cosmo in sé ordinato e finalizzato alla vita degli uomini,
dell’egoismo fratricida dominante nel mondo dei credenti, delle guerre di
religione o comunque fatte spesso in nome di Dio, degli ibridi connubi delle
chiese con i potenti di turno d’ogni tempo? E ciò proverebbe l’inesistenza di
Dio.
Questi fatti sono registrati
dalla storia: ma, oltre a provare dolorosamente l’incoerenza delle chiese e
degli uomini di chiesa, hanno alcun valore riguardo anche la religiosità
dell’uomo e la possibile esistenza di una realtà che trascenda la finitudine spazio-temporale
e tenga vive le speranze d’un “aldilà della terra” e di un “oltre l’uomo”? Veramente
sarebbero sufficienti alcuni eventi storici, opportunamente scelti e
adeguatamente presentati, a documentare non solo la miseria delle chiese
(soprattutto cattolica), ma anche l’inesistenza di un Dio? Sì, l’inesistenza di
Dio; infatti, il problema della dimostrabilità razionale diventa immediatamente
problema dell’esistenza stessa di un Dio. Sembra che si giunga alla negazione
dell’esistenza di Dio, pur di poter denunciare la nociva inutilità e
addirittura la “criminalità” delle chiese, e innanzitutto della chiesa cattolica:
“Forse il crimine maggiore della chiesa cattolica – è scritto espressamente - è
quello di offrire una falsa speranza a milioni di persone,inclusi i più poveri
e gli oppressi, che inganna in modo che concedano credito a storie fantastiche
e il loro denaro per i palazzi dorati dei vescovi”. E questa convinzione è
talmente ferma da far confessare all’autore: “Sono convinto che qualsiasi
persona non animata da pregiudizio, dopo aver esaminato i dati addotti come
prova, debba concludere che la religione è priva di verità e di valore, che è
una malattia originata dalla paura e una fonte di inaudita sventura per
l’umanità”.
Si tralasci il dubbio se il
“Divus Epicurus” accettasse nel suo Giardino chi nutrisse una simile
convinzione sulla religiosità degli uomini; si tralasci pure la perplessità che
nasce di fronte al pensiero che tantissimi esseri razionali in tanti lunghi secoli
di ricerca siano stati sempre talmente “animati da pregiudizio” da essere
incapaci di una propria pur minima autonomia di giudizio. Certo, dev’essere sempre
costante il rispetto del pensiero degli altri; ma non si può nemmeno essere
timidi e accoglierlo acriticamente, e nemmeno moralmente indifferenti per non segnalarne
probabili conseguenze inesatte teoreticamente e imprudenti praticamente.
A sostegno della sua tesi l’autore
avanza – talora anche con toni irridenti - la testimonianza che “la ragione
umana si è mostrata sufficientemente ostinata da trovare fallaci tutti gli
argomenti dei teologi, da Tommaso d’Aquino fino ai nostri giorni”; e si citano filosofi
degli ultimi quattro secoli, tra cui Immanuel Kant, i quali “hanno detto più di
quanto fosse necessario per stabilire, oltre ogni dubbio, che ben lungi dal
guidare la ragione a Dio, questi argomenti
sono incapaci di reggere a uno scrutinio della ragione”. Kant, però, non
azzarda coinvolgere questa debolezza della conoscenza umana con la cattiva
condotta dell’uomo né tanto meno riduce la “razionalità” propria della natura
umana alla sola attività gnoseologica.
La capacità conoscitiva dell’uomo, essendo finita, non può né deve
oltrepassare i propri confini, senza cadere nelle favole della metafisica:
quindi, saggiamente e onestamente professa un “agnosticismo” metafisico, che
investe le “Totalità” del mondo creato, dell’anima umana e di Dio.
L’agnosticismo gnoseologico non è, però, assoluta impotenza dell’umana
razionalità, in quanto essa si attua proseguendo anche nella pratica della
“volontà libera” e si conclude nell’armonia del “sentimento” che riflette ogni
totalità, superandone e conciliandone ogni apparente contraddizione.
Kant, chiude definitivamente e
inesorabilmente le porte a ogni forma di metafisica, ma apre e accoglie le sollecitazioni
della “Totalità umana”. Del resto, per Kant la confutazione delle prove dell’esistenza di
Dio fu opera facile, proprio perchè ebbe il coraggio di ammettere che
un'esperienza religiosa basata su "prove teoriche" ha un valore molto
relativo. Se dio, per poter essere creduto, va preventivamente
"dimostrato", allora non è più grande dell'uomo che lo pensa e lo dimostra.
Dio va “postulato” e rispettato per quello che la legge morale detta. Nella Prefazione della prima “Critica” (1781) scriveva: “La ragione
umana (...) ha il destino particolare di essere tormentata da problemi che non
può evitare, perché le son posti dalla natura della stessa ragione, ma dei
quali non può trovare la soluzione, perché oltrepassano ogni potere della
ragione umana”. Indubbiamente, quindi, s'egli fosse stato convinto del tutto delle
sole “ragioni” della fede, non avrebbe scritto un'opera monumentale che lo vide
impegnato ben 35 anni, al fine di cercare di risolvere umanamente quelle
contraddizioni razionalmente insostenibili. E, infatti, il filosofo prosegue la
sua speculazione, animato dall’umana ragionevole speranza di trovare appagamento
a quell’esigenza. E lo fa senza paura di dissacrazioni o violazioni, ma non
ricorrendo a metodologie di sapore pragmatico. Nella medesima prefazione, infatti,
annota: “Il tempo nostro è proprio il tempo della critica, cui tutto deve
sottostare. Vi si vogliono comunemente sottrarre la religione per la santità
sua e la legislazione per la sua maestà: ma così esse lasciano adito a giusti
sospetti, e non possono pretendere quella manifesta stima, che la ragione
concede solo a ciò che ha saputo resistere al suo libero e pubblico esame”.
Sarebbe, così, “illusione
comune” pensare che senza religione e senza Dio gli uomini sarebbero “soltanto
macchine organiche” prive di qualunque senso e destinate a una fine totale. Nessuno
ha mai risolto con razionale certezza il problema della preesistenza e dell’immortalità
dell’anima umana, nemmeno ricorrendo alla teoria della “doppia verità”
propugnata da certa filosofia araba e utilizzata infelicemente anche da alcuni
pensatori; tuttavia sembra eccessivo asserire che “numerosi adulti possono
trovare il proprio significato nella vita, mediante un lavoro creativo, o l’impegno
politico o allevando figli. Il significato di questa vita è situato all’interno
di essa, non in un qualsiasi magico regno dopo la vita”. E’ vero; ma forse è
illusorio e rassicurante andare a trovarlo nelle occupazioni dell’operosità
quotidiana. La vita non pare possa essere ridotta a uno spazio più o meno lungo
di tempo da “riempire” con opere valide o imprese mirabili, che ne darebbero
valore e significato; probabilmente è il contrario: è dal senso “della” propria
vita che derivano le vere motivazioni e la nobiltà delle scelte e dell’operare dell’uomo,
il quale prova certamente un vero tremore metafisico nel ricercare, trovare e
accogliere il profondo senso “della” sua vita nella finitudine
spazio-temporale. L’uomo probabilmente non è l’insieme delle sue azioni, ma –
forse - le sue azioni sono la manifestazione e la concretizzazione di quello
che lui è in sé e per sè. Qui interviene nuovamente con saggia prudenza Kant,
che addita nelle “idee” la via regolativa per l’uomo. Nella “Analitica
Trascendentale” ricorda agli uomini le idee platoniche, annotando con triste
malinconia: se gli uomini, anziché deridere le idee di Platone, sapessero
contemplarle e agire secondo il loro dettame, essi sarebbero più felici e il
mondo diverrebbe sempre migliore. E’ chiaro che le idee non diventeranno mai
completamente realtà, altrimenti non sarebbero più idee; ma è grazie ad esse
che gli uomini possono vivere esistenze sempre meno infelici e più degne della
loro natura. Per e nel rispetto di queste “idee” dovrebbe dedicarsi e agire la
religiosità umana, talora travisata da certe chiese e strumentalizzata da
alcune pseudo-religioni. Forse Platone, nel proporre all’uomo la purezza
trascendente delle “idee”, aveva presente l’insegnamento del maestro Socrate,
primo martire della filosofia occidentale, che con la morte ha testimoniato fin
dove può e deve spingersi il coraggio della coerenza con i grandi “ideali”.
Oggi tanto necessari per tutti, ma soprattutto per le nuove generazioni.
mercoledì 15 maggio 2013
IL SENSO DELL’UOMO TRA CONTRADDIZIONE E SPERANZA
Già Pitagora, nel dare suggerimenti perché una giornata sia vissuta proficuamente, raccomandava di tenere in massima considerazione e di dedicare particolare attenzione al momento dell’addormentarsi e a quello del risvegliarsi. Sono, infatti, questi i due momenti, in cui bisogna rientrare in se stessi in intima spirituale solitudine totale, per ritrovare se stessi, esaminarsi e giudicare con sincerità le azioni che si sono compiute e, nello stesso tempo, ponderare e decidere con saggezza e prudenza le scelte quotidiane che s’intendono realizzare. Dei propri comportamenti, infatti, si deve rendere conto innanzitutto a se stessi.
Ma quale sarà il criterio di giudizio, con cui si valuterà la propria condotta? Quali saranno princìpi, che determineranno la bontà o l’iniquità delle proprie scelte? Qual è, cioè, il “senso esistenziale” che dà contenuto e valore alla propria vita, considerata sia nella sua quotidianità sia nell’intera sua durata? Da dove scaturiscono i sentimenti d’appagamento o d’insoddisfazione, che s’insinuano e dominano alternativamente il proprio animo? Da dove sgorgano gli stati d’animo di pace rasserenatrice o di turbamento angosciante, che penetrano e riempiono a intervalli la propria anima?
Davanti a queste domande nasce un primo immediato stato d’animo, in cui l’essere umano avverte e subisce uno spiacevole opprimente sentimento di mistero, che lo stupisce e lo sbigottisce, ma nello stesso tempo lo appassiona e lo entusiasma. L’originario inevitabile sentimento del mistero si presenta, quindi, come la componente caratteristica - fondamentale e necessaria - dell’esistenza umana; esso investe la totalità dell’esperienza esistenziale. La realtà del mistero è la vita stessa, in cui sentiamo d’essere immersi: esso ci assale, s’impossessa della mente e del cuore, domina l’essere umano nella sua pienezza. Ci si sente, allora, avvolti da un’immensità indistinta, partecipi involontari e spauriti d’una realtà molto più antica e più ampia della propria singolarità. Ciascun uomo è una piccola entità vagante in un universo indistinto; è una minuscola totalità proiettata in un cosmo smisurato, del tutto sconosciuto e, comunque, ancora totalmente estraneo.
Dapprima incombono profondi sensi d’angoscia, di stupore, di vertigine. In seguito, però, s’affaccia pacatamente una luce, discreta ma vigorosa, che, dapprima lentamente e poi sempre più decisamente, rischiara l’anima, sussurrandole meditate riflessioni. Successivamente nasce e s’accresce la consapevolezza sempre più evidente della potenza delle proprie facoltà, che così s’incamminano fiduciose per un faticoso itinerario d’intuizione, di ricognizione, di vaglio, di comprensione.
Allora l’iniziale estraneità si dilegua e diviene compartecipazione consapevole e condivisa, l’angoscia svanisce e cede il passo alla fiducia che rinfranca e rinvigorisce, lo sbigottimento s’acquieta e si trasfigura in curiosità che incoraggia, la vertigine scompare e si sublima in entusiasmo.
A questo punto l’essere umano è preparato per intraprendere il cammino, che l’avvia alla ricerca e lo condurrà verso il ritrovamento del tanto agognato “senso” dell’esistenza propria, dell’umanità e dell’universo. Nell’adempiere questo sogno, egli non si risparmia alcuna fatica, non arretra davanti ad alcuna difficoltà, affronta e vince ogni ostacolo. Però, ciò nonostante, alla fine deve prendere atto che la sua ragione, con tutte le argomentazioni possibili - sicuramente importantissime e indispensabili - non può costituire o esaurire l’intero orizzonte dell’esistenza, in quanto essa non riesce a far attingere il senso totale della vita. Le dimostrazioni razionali forniscono indubbiamente molti aspetti delle realtà del mondo fisico, animale e umano; ma davanti alle pressanti domande riguardanti il “senso ultimo della vita” esse s’arrestano e, arrendendosi definitivamente, dichiarano il loro limite e la loro inadeguatezza. Infatti, per quanto la ragione umana si sforzi, rimane sempre sommersa dalla nebbia impenetrabile del mistero, che le rimane comunque inaccessibile.
Questo stato d’animo dapprima getta l’anima nello sgomento e nell’ ansia; in seguito, però, fa nascere il bisogno di superare ogni timore e ansietà e proseguire con fiduciosa audacia nella ricerca del senso vero dell’esistenza. L’uomo, allora, va avanti saggiamente nell’indagine, utilizzando il contributo e il sostegno di altre sue facoltà, delle quali riscopre tutta la validità e ricchezza. S’affida, quindi, alla volontà, che gli consente d’impadronirsi e d’arricchirsi di nuovi aspetti di realtà e di verità, precluse all’indagine solamente conoscitiva. Tuttavia, nemmeno così riesce a squarciare completamente il velo, che nasconde il senso autentico e indubitabile della vita umana e del cosmo. Anzi, qualche volta, si vive ancora più confuso e si sente smarrito nelle nebbie dell’offuscante ammasso di contraddizioni evidenti e indiscutibili.
La realtà, infatti, da un lato si presenta come un tutto ordinato e ben governato, ma dall’altro lato si mostra in una prospettiva inquietante di disordine e caos, fonte d’ingiustizia e d’irrazionalità. La complessa meravigliosa armonia del cielo stellato è quanto mai sublime, e la silenziosa contemplazione della sua smisurata vastità infonde nell’animo stupore, ammirazione e pace; e tuttavia l’astronomia documenta fenomeni giganteschi, incontrollabili, terrificanti. Allo stesso modo, il ciclo vitale del mondo vegetale e animale, nella sua molteplicità e perfezione mostra sorprendenti quadri di bellezza; e tuttavia, proprio per la concretizzazione di tale meraviglioso ordine, sono necessari atti egoistici, forse anche cruenti, ma indispensabili per la propria sopravvivenza, per la conservazione e la successione delle specie. La stessa formazione della vita umana, considerata nei suoi intimi, delicati e amabili momenti, suscita sentimenti di meraviglia e di tenerezza; e tuttavia anch’essa registra fenomeni di sofferenza, spesso impone rinunce molto dolorose, talora nasconde desolanti fallimenti. Già nell’origine della vita umana, quindi, emergono e s’impongono non poche e penose contraddizioni.
E’ innegabile, pertanto, che la realtà è ambivalente e contraddittoria. Perciò, quando si va alla ricerca del senso della vita, non si può fare a meno di riconoscere la presenza sia del mistero sia della contraddizione. E’ una situazione che richiama il pensiero di Immanuel Kant: l’umana ragione si rende conto di avere a che fare con un cosmo tanto immenso e misterioso che non potrà mai conoscerlo veramente; la contraddizione, però, è antinomia, non assurdità, in quanto consiste nel conflitto tra due leggi, entrambe legittime, anche se in contrasto tra di loro. E anche nell’indagare il senso della vita si presenteranno due leggi, le quali, intrecciandosi in modo inestricabile, costituiscono la condizione umana contraddittoria in se stessa, perciò destinata a imprigionare il pensiero dell’uomo.
Questa situazione esistenziale contraddittoria mostra con somma chiarezza una grande verità: nelle vicende dell’umanità e del mondo non tutto è prestabilito con rapporti di necessità, ma parte è affidata anche alla responsabilità di ciascun uomo, il quale con le sue scelte libere, orienta e determina gli accadimenti. Questa verità non è raggiungibile con il solo intelletto, né è data nella sua interezza dalla volontà. L’essere umano – secondo il filosofo tedesco - è dotato anche di un profondo “sentimento”, per mezzo del quale egli percepisce ogni sapore (anche i gusti, i colori, i suoni, i profumi) della vita: è il sentire dell’anima, la percezione da parte della nostra più intima personalità del sapore della vita nella sua totalità. Esso spalanca le porte del nostro piccolo io e ci fa guardare verso tutti gli esseri (non solo umani, ma anche animali, vegetali, inanimati come le pietre e le nuvole), con i quali entriamo in empatia e viviamo una comunanza di fondo, quasi come in una rete che tutti racchiude, quasi un grembo comune dal quale tutti siamo stati generati e al quale tutti desideriamo ritornare. Grazie al sentimento, gli esseri umani - ciascuno nella singolare e irripetibile personalità - intuiscono ciò che non vedono, e lo sentono come realtà originaria e finale, che abbraccia tutti gli esseri e a cui tutti gli esseri aspirano come loro ultima meta.
Allora, l’essere umano, “minuscola totalità” gettata nell’infinito cosmo imperscrutabile, apparentemente arrendendosi davanti alle dure evidenze della ragione, si rifugia nel grembo dell’imponderabile e dell’ignoto, e affida tutto se stesso al flusso spontaneo, libero, incontrollabile, primordiale dell’Essere Totale e Trascendente. Solo allora egli intuisce e rispecchia in sè l’armonia e la bellezza dell’umanità e dell’universo; s’accorge, con singolare immediatezza e straordinaria semplicità, di aver “trovato” il senso autentico della vita anche umana. Esso è la “speranza”. Lo aveva già sostenuto Immanuel Kant, insostituibile filosofo della razionalità umana considerata in tutta la sua integralità. Anch’egli s’era imbattuto nei meandri del “mistero”, dopo essersi chiesto cosa “potesse sapere” e “dovesse fare”. Le risposte razionalmente “logiche” a questi due quesiti non gli rivelavano il senso autentico e totale della vita; allorquando formulò il terzo quesito, cioè cosa gli fosse “lecito sperare”, gli risultò sciolto l’enigma. Infatti, nel suo sentimento sentiva riflettersi l’armonia cosmica e la pacificazione tra gli uomini e i popoli, come verità cui anelare e realtà da realizzare: quindi oggetto dello “sperare” legittimamente.
La speranza, pertanto, non è una virtù come o addirittura inferiore alle altre (come aveva sostenuto Aristotele). Essa, invece, è la sintesi dell’intera personalità umana. Infatti, ogni uomo è la sua speranza, in quanto egli viene definito veramente solo da ciò ch’egli spera. La speranza è il traguardo che si vuole raggiungere, lo scopo che sollecita e rinforza le scelte che si compiono quotidianamente. La salute, gli averi, il potere, il dominio su cose e persone possono essere stabiliti e perseguiti come finalità ultime della propria speranza, per cui è consequenziale che si faccia tutto in loro funzione. Lo scopo perseguito è la speranza; quindi, ogni uomo è la sua speranza. Ecco perché la speranza è la sintesi della vita umana, investendo la totalità unitaria dell’uomo, in cui ragione, volontà e sentimento si uniscono e generano qualcosa di superiore che dà il sapore complessivo alla personalità. Un uomo vero è tale non in base a ciò che possiede, né a ciò che conosce, e nemmeno a ciò che riesce a realizzare, ma solo in base a ciò che è, in quanto essere individuale e irripetibile: certamente è anche il proprio corpo fisico, la propria professione, ma è ancor più la sua speranza, cioè la tensione totale e il gusto della sua vita, che da lui s’espande e che gli altri percepiscono sempre e comunque.
La speranza, quindi, è fondamento ed essenza della vita umana. E, tuttavia, essa non è mai qualcosa d’immutabile, di risolutivo, d’indiscutibile. Infatti, la speranza rimane sempre speranza, non diventa mai conoscenza certa o realtà conquistata. Essa non è mai un dominio che si possa governare o realizzare. E, allora, che cosa si può sperare per la vita propria e degli altri? Che cosa si può sperare, senza venir meno o ingannare la propria natura razionale? Si tratta – direbbe Kant – di uno sperare legittimamente, tale, cioè, che non raggiri la propria ragione e che, nello stesso tempo, preservi dall’arroganza di quelli (non pochi) che sono convinti che la vita è un inganno, dove vanno avanti solo e sempre i furbi. Quindi, alla domanda in che cosa poter sperare, si deve rispondere – sempre con l’aiuto di Kant – in modo molto semplice e immediato: che l’ultimo orizzonte della vita umana non sia il presente e il contingente ma l’eterno e l’assoluto, non l’assurdo ma il senso, non il nulla ma l’essere, non il male ma il bene, non la morte ma la vita.
L’uomo ragionevole può legittimamente sperare solo questo: che viva per qualcosa più grande di lui, che esista una dimensione dell’essere più grande del suo piccolo io destinato a scomparire. Che esista davvero una dimensione di Infinito e di Totalità, in cui tutto trovi e abbia senso.
Ma quale sarà il criterio di giudizio, con cui si valuterà la propria condotta? Quali saranno princìpi, che determineranno la bontà o l’iniquità delle proprie scelte? Qual è, cioè, il “senso esistenziale” che dà contenuto e valore alla propria vita, considerata sia nella sua quotidianità sia nell’intera sua durata? Da dove scaturiscono i sentimenti d’appagamento o d’insoddisfazione, che s’insinuano e dominano alternativamente il proprio animo? Da dove sgorgano gli stati d’animo di pace rasserenatrice o di turbamento angosciante, che penetrano e riempiono a intervalli la propria anima?
Davanti a queste domande nasce un primo immediato stato d’animo, in cui l’essere umano avverte e subisce uno spiacevole opprimente sentimento di mistero, che lo stupisce e lo sbigottisce, ma nello stesso tempo lo appassiona e lo entusiasma. L’originario inevitabile sentimento del mistero si presenta, quindi, come la componente caratteristica - fondamentale e necessaria - dell’esistenza umana; esso investe la totalità dell’esperienza esistenziale. La realtà del mistero è la vita stessa, in cui sentiamo d’essere immersi: esso ci assale, s’impossessa della mente e del cuore, domina l’essere umano nella sua pienezza. Ci si sente, allora, avvolti da un’immensità indistinta, partecipi involontari e spauriti d’una realtà molto più antica e più ampia della propria singolarità. Ciascun uomo è una piccola entità vagante in un universo indistinto; è una minuscola totalità proiettata in un cosmo smisurato, del tutto sconosciuto e, comunque, ancora totalmente estraneo.
Dapprima incombono profondi sensi d’angoscia, di stupore, di vertigine. In seguito, però, s’affaccia pacatamente una luce, discreta ma vigorosa, che, dapprima lentamente e poi sempre più decisamente, rischiara l’anima, sussurrandole meditate riflessioni. Successivamente nasce e s’accresce la consapevolezza sempre più evidente della potenza delle proprie facoltà, che così s’incamminano fiduciose per un faticoso itinerario d’intuizione, di ricognizione, di vaglio, di comprensione.
Allora l’iniziale estraneità si dilegua e diviene compartecipazione consapevole e condivisa, l’angoscia svanisce e cede il passo alla fiducia che rinfranca e rinvigorisce, lo sbigottimento s’acquieta e si trasfigura in curiosità che incoraggia, la vertigine scompare e si sublima in entusiasmo.
A questo punto l’essere umano è preparato per intraprendere il cammino, che l’avvia alla ricerca e lo condurrà verso il ritrovamento del tanto agognato “senso” dell’esistenza propria, dell’umanità e dell’universo. Nell’adempiere questo sogno, egli non si risparmia alcuna fatica, non arretra davanti ad alcuna difficoltà, affronta e vince ogni ostacolo. Però, ciò nonostante, alla fine deve prendere atto che la sua ragione, con tutte le argomentazioni possibili - sicuramente importantissime e indispensabili - non può costituire o esaurire l’intero orizzonte dell’esistenza, in quanto essa non riesce a far attingere il senso totale della vita. Le dimostrazioni razionali forniscono indubbiamente molti aspetti delle realtà del mondo fisico, animale e umano; ma davanti alle pressanti domande riguardanti il “senso ultimo della vita” esse s’arrestano e, arrendendosi definitivamente, dichiarano il loro limite e la loro inadeguatezza. Infatti, per quanto la ragione umana si sforzi, rimane sempre sommersa dalla nebbia impenetrabile del mistero, che le rimane comunque inaccessibile.
Questo stato d’animo dapprima getta l’anima nello sgomento e nell’ ansia; in seguito, però, fa nascere il bisogno di superare ogni timore e ansietà e proseguire con fiduciosa audacia nella ricerca del senso vero dell’esistenza. L’uomo, allora, va avanti saggiamente nell’indagine, utilizzando il contributo e il sostegno di altre sue facoltà, delle quali riscopre tutta la validità e ricchezza. S’affida, quindi, alla volontà, che gli consente d’impadronirsi e d’arricchirsi di nuovi aspetti di realtà e di verità, precluse all’indagine solamente conoscitiva. Tuttavia, nemmeno così riesce a squarciare completamente il velo, che nasconde il senso autentico e indubitabile della vita umana e del cosmo. Anzi, qualche volta, si vive ancora più confuso e si sente smarrito nelle nebbie dell’offuscante ammasso di contraddizioni evidenti e indiscutibili.
La realtà, infatti, da un lato si presenta come un tutto ordinato e ben governato, ma dall’altro lato si mostra in una prospettiva inquietante di disordine e caos, fonte d’ingiustizia e d’irrazionalità. La complessa meravigliosa armonia del cielo stellato è quanto mai sublime, e la silenziosa contemplazione della sua smisurata vastità infonde nell’animo stupore, ammirazione e pace; e tuttavia l’astronomia documenta fenomeni giganteschi, incontrollabili, terrificanti. Allo stesso modo, il ciclo vitale del mondo vegetale e animale, nella sua molteplicità e perfezione mostra sorprendenti quadri di bellezza; e tuttavia, proprio per la concretizzazione di tale meraviglioso ordine, sono necessari atti egoistici, forse anche cruenti, ma indispensabili per la propria sopravvivenza, per la conservazione e la successione delle specie. La stessa formazione della vita umana, considerata nei suoi intimi, delicati e amabili momenti, suscita sentimenti di meraviglia e di tenerezza; e tuttavia anch’essa registra fenomeni di sofferenza, spesso impone rinunce molto dolorose, talora nasconde desolanti fallimenti. Già nell’origine della vita umana, quindi, emergono e s’impongono non poche e penose contraddizioni.
E’ innegabile, pertanto, che la realtà è ambivalente e contraddittoria. Perciò, quando si va alla ricerca del senso della vita, non si può fare a meno di riconoscere la presenza sia del mistero sia della contraddizione. E’ una situazione che richiama il pensiero di Immanuel Kant: l’umana ragione si rende conto di avere a che fare con un cosmo tanto immenso e misterioso che non potrà mai conoscerlo veramente; la contraddizione, però, è antinomia, non assurdità, in quanto consiste nel conflitto tra due leggi, entrambe legittime, anche se in contrasto tra di loro. E anche nell’indagare il senso della vita si presenteranno due leggi, le quali, intrecciandosi in modo inestricabile, costituiscono la condizione umana contraddittoria in se stessa, perciò destinata a imprigionare il pensiero dell’uomo.
Questa situazione esistenziale contraddittoria mostra con somma chiarezza una grande verità: nelle vicende dell’umanità e del mondo non tutto è prestabilito con rapporti di necessità, ma parte è affidata anche alla responsabilità di ciascun uomo, il quale con le sue scelte libere, orienta e determina gli accadimenti. Questa verità non è raggiungibile con il solo intelletto, né è data nella sua interezza dalla volontà. L’essere umano – secondo il filosofo tedesco - è dotato anche di un profondo “sentimento”, per mezzo del quale egli percepisce ogni sapore (anche i gusti, i colori, i suoni, i profumi) della vita: è il sentire dell’anima, la percezione da parte della nostra più intima personalità del sapore della vita nella sua totalità. Esso spalanca le porte del nostro piccolo io e ci fa guardare verso tutti gli esseri (non solo umani, ma anche animali, vegetali, inanimati come le pietre e le nuvole), con i quali entriamo in empatia e viviamo una comunanza di fondo, quasi come in una rete che tutti racchiude, quasi un grembo comune dal quale tutti siamo stati generati e al quale tutti desideriamo ritornare. Grazie al sentimento, gli esseri umani - ciascuno nella singolare e irripetibile personalità - intuiscono ciò che non vedono, e lo sentono come realtà originaria e finale, che abbraccia tutti gli esseri e a cui tutti gli esseri aspirano come loro ultima meta.
Allora, l’essere umano, “minuscola totalità” gettata nell’infinito cosmo imperscrutabile, apparentemente arrendendosi davanti alle dure evidenze della ragione, si rifugia nel grembo dell’imponderabile e dell’ignoto, e affida tutto se stesso al flusso spontaneo, libero, incontrollabile, primordiale dell’Essere Totale e Trascendente. Solo allora egli intuisce e rispecchia in sè l’armonia e la bellezza dell’umanità e dell’universo; s’accorge, con singolare immediatezza e straordinaria semplicità, di aver “trovato” il senso autentico della vita anche umana. Esso è la “speranza”. Lo aveva già sostenuto Immanuel Kant, insostituibile filosofo della razionalità umana considerata in tutta la sua integralità. Anch’egli s’era imbattuto nei meandri del “mistero”, dopo essersi chiesto cosa “potesse sapere” e “dovesse fare”. Le risposte razionalmente “logiche” a questi due quesiti non gli rivelavano il senso autentico e totale della vita; allorquando formulò il terzo quesito, cioè cosa gli fosse “lecito sperare”, gli risultò sciolto l’enigma. Infatti, nel suo sentimento sentiva riflettersi l’armonia cosmica e la pacificazione tra gli uomini e i popoli, come verità cui anelare e realtà da realizzare: quindi oggetto dello “sperare” legittimamente.
La speranza, pertanto, non è una virtù come o addirittura inferiore alle altre (come aveva sostenuto Aristotele). Essa, invece, è la sintesi dell’intera personalità umana. Infatti, ogni uomo è la sua speranza, in quanto egli viene definito veramente solo da ciò ch’egli spera. La speranza è il traguardo che si vuole raggiungere, lo scopo che sollecita e rinforza le scelte che si compiono quotidianamente. La salute, gli averi, il potere, il dominio su cose e persone possono essere stabiliti e perseguiti come finalità ultime della propria speranza, per cui è consequenziale che si faccia tutto in loro funzione. Lo scopo perseguito è la speranza; quindi, ogni uomo è la sua speranza. Ecco perché la speranza è la sintesi della vita umana, investendo la totalità unitaria dell’uomo, in cui ragione, volontà e sentimento si uniscono e generano qualcosa di superiore che dà il sapore complessivo alla personalità. Un uomo vero è tale non in base a ciò che possiede, né a ciò che conosce, e nemmeno a ciò che riesce a realizzare, ma solo in base a ciò che è, in quanto essere individuale e irripetibile: certamente è anche il proprio corpo fisico, la propria professione, ma è ancor più la sua speranza, cioè la tensione totale e il gusto della sua vita, che da lui s’espande e che gli altri percepiscono sempre e comunque.
La speranza, quindi, è fondamento ed essenza della vita umana. E, tuttavia, essa non è mai qualcosa d’immutabile, di risolutivo, d’indiscutibile. Infatti, la speranza rimane sempre speranza, non diventa mai conoscenza certa o realtà conquistata. Essa non è mai un dominio che si possa governare o realizzare. E, allora, che cosa si può sperare per la vita propria e degli altri? Che cosa si può sperare, senza venir meno o ingannare la propria natura razionale? Si tratta – direbbe Kant – di uno sperare legittimamente, tale, cioè, che non raggiri la propria ragione e che, nello stesso tempo, preservi dall’arroganza di quelli (non pochi) che sono convinti che la vita è un inganno, dove vanno avanti solo e sempre i furbi. Quindi, alla domanda in che cosa poter sperare, si deve rispondere – sempre con l’aiuto di Kant – in modo molto semplice e immediato: che l’ultimo orizzonte della vita umana non sia il presente e il contingente ma l’eterno e l’assoluto, non l’assurdo ma il senso, non il nulla ma l’essere, non il male ma il bene, non la morte ma la vita.
L’uomo ragionevole può legittimamente sperare solo questo: che viva per qualcosa più grande di lui, che esista una dimensione dell’essere più grande del suo piccolo io destinato a scomparire. Che esista davvero una dimensione di Infinito e di Totalità, in cui tutto trovi e abbia senso.
mercoledì 23 gennaio 2013
CASUALITÀ, DESTINO O LIBERTÀ?
L’intera durata
dell’esistenza di ciascun vivente (soprattutto) umano, breve o lunga che sia,
può essere interpretata e spiegata in maniere diverse, ma tutte ugualmente credibili
e valide, perché tutte ugualmente dettate da intimi sinceri bisogni dell’animo
e suggerite da profonde intense aspirazioni dell’umana
sensibilità. La vita, pertanto, può essere intuita come un naturale spontaneo ininterrotto
fluire di momenti e, di conseguenza, può essere vissuta come un regolare
succedersi di accadimenti necessitati e imprevedibili. Oppure può essere concepita
come un mosaico di fattura straordinaria, ma misteriosa e oscura, composta da
tessere del tutto slegate e tra di loro indipendenti, collocate in un punto
particolare per puro gioco del caso oppure costrette dall’ignoto causale agire di forze
sfuggenti a ogni possibilità di comprensione e, pertanto, imprevedibili,
incontrollabili, ingovernabili da parte dell’uomo. A questi due principali e
comuni modi d’intendere il problema
della vita umana, non si può non aggiungere almeno un altro, in apparenza poco rilevante
e, quindi, non meritevole di considerazione; esso, però, è abbastanza diffuso e
non sempre è riconducibile a superficialità di riflessione, a faciloneria di
valutazione, a negligenza nelle scelte morali. Quest’ultima concezione consiste
nell’inconfessata sfiducia in ogni agire umano, per cui si traduce in atteggiamenti
di stanca resistenza e d’indolente disinteresse: si offusca il significato del
proprio vivere, s’indeboliscono le virtù fondamentali, s’inaridisce la linfa vitale,
che alimenta progetti esaltanti e vivifica scelte audaci; un’indolenza diffusa penetra
pian piano nell’anima, permeando ogni fibra dell’essere umano, talora diventato
passivo abulico spettatore d’ogni evento.
Certo, il dilemma esistenziale
non è nuovo, né investe solo le menti più pensose o gli spiriti più riflessivi.
E’ un problema che coinvolge tutti gli esseri razionali indistintamente e in
maniera più o meno consapevole, qualunque cultura abbiano, qualunque
sensibilità posseggano, qualunque situazione esistenziale vivano. Ed è un
problema che trova sempre e comunque soluzioni differenti.
Perché io, in
questo momento e in questo luogo, con queste doti positive e con questi caratteri
negativi, con queste attitudini e con queste
aspirazioni, con queste simpatie e antipatie? Sono tanti interrogativi,
che covano muti e inesorabili nel profondo dell’essere umano. Continuamente in
agguato, ora balenano all’improvviso sogghignanti, per poi scomparire
immediatamente e dileguarsi, qual guizzo fulmineo d’un fuoco fatuo; ora s’ergono
e s’impongono, possenti e inesorabili, con piglio vigoroso e, qual giudici
implacabili, pretendono con ostinata tenacia una qualche soddisfacente
risposta. E ancora, a livello meno individuale, ci si chiede: chi o che cosa è
il motore del cosmo? Chi ne assegna i traguardi? Chi ne decide la direzione?
Chi muove le vicende del mondo e dell’umanità? Chi determina il cammino delle
civiltà e dei popoli? Chi stabilisce le scelte dei singoli uomini e ne indica
gli itinerari? Come si muove l’universo? E’ finito o infinito? E’ determinato o
indeterminato? E’ vero, è reale che, tra tutti gli esseri viventi e non, l’uomo
occupa un posto privilegiato o, comunque, particolare? Caso, caos, un Tutto
architettato bene o congegnato male: cos’è quest’immenso universo conosciuto
solo in minima parte dalla pur millenaria capacità conoscitiva dell’uomo?
Dove e come sia
possibile attingere una risposta che appaghi, se non tutte, almeno qualcuna di queste
domande è impresa molto faticosa e, comunque, non agevole. La tradizione,
infatti, da parte sua, custodisce e lascia in eredità spiegazioni certamente plausibili
e spesso anche seducenti, che hanno costellato il corso dei secoli e dei millenni:
e tuttavia lasciano tutte, sempre, ampi aloni fitti di triste insoddisfazione. Le
conquiste culturali e i progressi della scienza e della tecnica attuali, da
parte loro, non solo non placano aneliti e non dissipano dubbi, ma addirittura
ne accrescono la vastità e ne incrementano il vigore. Infatti, mentre
s’arricchiscono senza sosta le conquiste della scienza e della tecnica al
servizio d’un sempre più produttivo funzionamento delle attività dell’uomo,
poco o nulla contribuisce a spiegarne le motivazioni e a comprenderne le
giustificazioni. La cultura contemporanea, soprattutto occidentale, si affida
sempre più esclusivamente ai poteri della ragione e della scienza, rincorrendo
i miti della funzionalità e della praticità, per cui svaluta e spesso abbandona
del tutto ogni altra componente della natura umana. Quest’eccesso di
razionalismo inaridisce l’umanità, le strappa la gioia della totalità della vita
e la priva della possibilità di provare il sapore della felicità autentica.
Ecco, allora, la necessità di riappropriarsi della totalità dell’essere umano, costituito
anche di sensazioni, impressioni, percezioni, sentimenti, emozioni, affetti,
passioni: quella totalità che le culture antiche – particolarmente quella greca
– definivano “eros”, cioè il fondamento dell’essere dell’uomo, la fonte della
sua ragion d’esistere, la meta ultima, cui tendere ogni giorno in ogni azione.
E’ quell’eros che ha originato il cosmo, che lo vivifica, che ne incrementa la
vitalità e ne ripara gli errori; quell’eros che – se non censurato e limitato dalla
prepotenza assolutizzante d’un ingiustificato razionalismo – dovrebbe ispirare
le azioni dei singoli in sintonia sublime e dovrebbe indicare le scelte anche
dei popoli, tra loro diversi, ma identici per natura e dignità.
"Noi – avvertiva già Socrate nel ‘Simposio’ - stacchiamo dalla
totalità di Eros una determinata faccia: le attribuiamo il nome del complesso e
la chiamiamo eros. Per le altre facce usiamo dei diversi nomi”; ma eros
è una ‘passione’ che ha valenza universale, in quanto il suo fine, in
definitiva, è raggiungere il bene, in modo continuativo, per essere felici. In
definitiva, eros è l'espressione del nostro desiderio di trascendenza. Trattandosi di un
ideale, può essere considerato come utopia,
la quale però dà una direzione coerente alla nostra vita nella direzione della
crescita e della trascendenza.
Meta grande e
astratta? “La grandezza dell'uomo – sussurra Heidegger - si misura in base a
quel che cerca e all'insistenza con cui egli resta alla ricerca”. Mezzo secolo
prima, Nietzsche non aveva esitato nel dichiarare: “Si possono concepire i
filosofi come persone che compiono sforzi estremi, per sperimentare fino a che
altezza l'uomo possa elevarsi”. Senza mai dimenticare, comunque, il sofferto
umano consiglio, che aveva suggerito Kant: “La ragione umana viene afflitta da
domande che non può respingere, perché le sono assegnate dalla natura della
ragione stessa, e a cui però non può neanche dare risposta, perché esse
superano ogni capacità della ragione umana”.
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