Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

martedì 19 luglio 2022

 

 

 

35. LE RELZIONI TRA LE GENERAZIONI UMANE

TRA NEGAZIONISMO,  REVISIONISMO E INTEGRAZIONE CRITICA

 

 

          Per tutto il tempo dominato dalla pandemia causata dal Covid-19 si sono avuti (e si hanno tuttora) frequenti e significative manifestazioni di grave decadenza della civiltà, di preoccupante insensibilità umana e di pericolosa carenza di senso morale. Tralasciando, infatti, il fenomeno assurdo e paradossale dell’agnosticismo scientifico, del negazionismo ideologico e del fanatismo pseudoreligioso, si resta attoniti nel leggere  e nell’assistere a forme di caccia al colpevole dell’ignota e funesta calamità pandemica dilagante per l’intero pianeta; e si fa a gara nell’indicare qualcosa o qualcuno su cui scaricare la colpa, additando, ovviamente, categorie diverse da quella cui appartiene l’«accusatore», e si punta in particolare sulle generazioni più indifese: ora sui giovani “irresponsabili” ora sugli anziani “imprudenti” ora sui malati “abbandonati” ora sui migranti “inopportuni”. Come se non fossimo una sola e unica «famiglia» sociale di esseri umani. Nasce e s’impone, allora, l’amara e  dolorosa percezione che la frattura nei rapporti tra generazioni e tra stati di varie condizioni sociali è diventata un pauroso abisso, che tutto fagocita. E’ assurdo, infatti, che non si comprenda o non si voglia condividere una verità fattuale semplice, evidente e chiara: che in ogni società si è tutti uniti ed equamente coinvolti sia nelle evenienze favorevoli sia negli accadimenti negativi: quando, per esempio, soffrono particolarmente  i bambini e i giovani, nello stesso tempo soffrono a modo loro  anche gli adulti e gli anziani: e non c’è motivo, quindi, per mettere gli uni di fronte o, peggio, contro gli altri: una società, che non rispetta e non si cura dei suoi vecchi, non si preoccupa e non si cura nemmeno dei suoi giovani. Si tratta, in questi casi, di società ”malate”  di insensibilità umana e indifferenza sociale, la cui sola cifra è il maggiore e più immediato profitto, che ovviamente non dànno né assicurano i  giovani e gli anziani.

 

Questo, se si guarda e si considera la realtà dell’umanità limitatamente al breve – unico possibile, ma significativo – tratto spazio-temporale, in cui si svolge la singola esistenza personale più o meno lunga. Se, poi, si volge lo sguardo il più possibile lontano e si affissano gli occhi sugli accadimenti nell’intero spazio del pianeta terrestre e si esaminano le qualità esistenziali, che hanno caratterizzato (e caratterizzano tuttora) i rapporti tra le nazioni e le relazioni tra i popoli, l’animo umano - soprattutto in questo periodo veramente drammatico - raggela e la mente attonita si rifiuta di credere a ciò che gli occhi le presentano. Ammutolisce esterrefatto e nello stesso tempo si ribella titanicamente l’animo soprattutto di chi ha vissuto i suoi anni nel clima della libertà e della pace, cioè, di chi ha covato i valori irrinunciabili della dignità umana, di chi ha nutrito i sentimenti costruttivi della solidarietà e di chi crede nel reciproco sostegno generoso e non di rado del tutto gratuito. Non si fa riferimento tanto alle centinaia di luoghi attualmente teatro di assurde guerre fratricide (promosse e sostenute a distanza da pochi potenti e subìte e combattute da vicino dai molti malcapitati destinati a lottare e a morire), quanto alle cause vere e reali  – antropologicamente connaturate e ultime e sociologicamente radicate e profonde.- che originano e alimentano negli umani assurdi e inauditi istinti di odio cieco e di brama smisurata di prepotenza. Cioè, l’uomo è essenzialmente malvagio per sua propria natura? Per  realizzare totalmente i suoi progetti esistenziali ha bisogno di tormentare e dilaniare i suoi simili insieme a madre Natura nella sua totalità?

 

 E’ vero che già Thomas Hobbes – uno tra gli altri - aveva marchiato l’uomo per natura propria “lupo verso i suoi simili” e aveva denunciato conseguentemente lo stato naturale dell’umanità come “guerra di tutti contro tutti”: quindi, lotta continua indiscriminata, alimentata da cinici egoismi sfrenati, da insensati impulsi di strapotere e da incontrollato spirito di prepotenza e di sopravvivenza. Ma l’insistenza del  filosofo britannico su questa visione estremamente negativa mirava soprattutto ad evidenziare la necessità salvifica  d’una strutturazione organica del corpo sociale, per la quale urgevano un ordinamento politico condiviso (anche se coartatamente) e, quindi,  la presenza responsabilmente vigile d’un Potere assoluto e l’intervento rigorosamente inflessibile d’un Leviatano, che avrebbero saputo e potuto imbrigliare e incanalare ogni forza ed energia negative  in itinerari di sinergia positiva e collaborativa a vantaggio d’un graduale sviluppo generale. Da parte opposta c’imbattiamo nel pensiero del ginevrino Jean Jacques Rousseau, autentico “santone” della Natura soprattutto umana, per il quale è proprio la socializzazione degli uomini a corrompere l’originaria bontà naturale dell’umanità. La tesi proposta dal Rousseau, però, non pare convincere, a meno che la “socializzazione umana” sia dotata di poteri taumaturgici, grazie ai quali può trasformare sostanzialmente la realtà oggettiva anche umana. La convivenza – si argomenta a tal proposito - può ritenersi occasione (individualmente sgradita, ma necessaria nei fatti) per lo svelarsi e il manifestarsi di aspetti anche negativi, e persino aggressivi, connaturati nell’esistente umano. Tra queste opposte concezioni - paradossali e, quindi, difficili a comprendersi e a condividersi - si collocano molte altre visioni, che, ponendo l’accento su qualcuno dei molteplici e diversi aspetti del problema, tentano di sostenere e di dimostrare la multiforme e talora contraddittoria vita umana nel suo evolvere e i conseguenti suoi comportamenti.

 

 

Appare maggiormente persuasiva e, quindi, più facilmente condivisibile la proposta di coloro che ricercano e tentano di comprendere le modalità e le problematiche riguardanti il naturale e ineludibile passaggio generazionale, osservando e indagando i processi della «educabilità» dell’uomo e della «sociabilità» dei popoli. L’uomo – si nota e s’argomenta - non nasce “uomo” già fatto, ma “cucciolo” umano non ancora cresciuto e formato, ma che dovrà crescere e formarsi – gradualmente e faticosamente - fino a divenire uomo sostanzialmente «formato» mediante il superamento di ogni tappa della crescita globale in ogni dimensione costitutiva l’integrale natura dell’esistente umano: dimensione fisica, intellettiva, morale, sociale e politica. Ugualmente i popoli: affinché essi, da agglomerati indistinti di anonimi individui umani, divengano “società di cittadini” liberamente aggregati e responsabilmente impegnati tra loro, dovranno «crescere e rinnovarsi» tempestivamente nell’acquisizione e nella condivisione di comuni progetti di ordine civile, etico e, innanzitutto, giuridico, per realizzare concreti progressi di bene comune. Il singolo e le società, quindi, non nascono né esistono «hinc et nunc ex nihilo sui et obiecti», ma radicano nel passato ereditato e vivono, grazie anche ad esso, il loro presente storico e progettano il  loro agognato futuro ideale. Non c’è, quindi, presente solido e futuro credibile senza il passato capito e accolto con il rispetto profondo richiesro e dovutogli. Ma è proprio l’ineludibile legame vitale del presente col passato che sta alla base di antiche e recenti discussioni.

 

Le nuove generazioni – avvertiva con fierezza Francesco Bacone nel 1600, ripercorrendo le orme di una tradizione plurisecolare -  sono come dei nani sollevati e appoggiati sulle larghe e robuste spalle di un gigante:  i giovani, cioè, possono fruire . liberamente e felicemente - delle conquiste scientifiche e di civilizzazione ottenute dall’impegno e dal lavoro delle generazioni che li hanno preceduti e, ripartendo da esse, proseguono e arricchiscono l’umano  patrimonio scientifico e culturale, consegnandolo più copioso e più fertile ai loro posteri. La crescita civile e culturale dell’umanità, quindi, è una costruzione in diversi tempi e a più mani destinata a uomini sempre più pronti ad abitare proficuamente l’inesplorato e prezioso pianeta Terra e a convivere degnamente in solidale armonia con i loro simili.  Questa visione impastata d’ottimistica positività s’infrange, però, davanti alla situazione emblematicamente rappresentata in piena epoca illuministica dalla «Querelle des Anciens et des Modernes»: una un’inutile polemica tra dotti per rivendicare e dimostrare la maggiore rilevanza dell’antichità sulla modernità o il contrario. La cultura, quindi, vista come competizione da superare e vincere e non come emulazione da ammirare col desiderio di migliorare il presen te e il futuro.  Atteggiamento, questo, che rivela il dominio di un pericoloso individualismo, che nuoce al singolo, che da solo non ha prospettive di fecondità, e alla comunità umana, che resta impoverita.

 

 

 

 

giovedì 27 gennaio 2022

 

DEMOCRAZIA - PARTITI POLITICI - SOVRANITA’ POPOLARE


Pubblicato su "IUNCTUTAE"


 

Il quadro ideologico e il panorama della situazione politica italiana non sono certo rassicuranti; lo scenario presentato dalle condizioni sociali ed economiche dei cittadini è davvero preoccupante. Le offerte formative e le pianificazioni operative della maggior parte degli attori politici appaiono piuttosto deboli e inadeguate, attente per lo più a questioni settoriali e di breve respiro, pur nella loro indiscutibile intrinseca importanza; anche la vita interna dei partiti politici non invia messaggi confortanti di responsabilità collettiva né fornisce esempi di atteggiamenti costruttivi; la libertà dei cittadini risulta sostanzialmente limitata, povera, talora perfino negata nella vita reale. Vacillano fondamenti importanti della vita privata e pubblica, anche se ben consolidati dalla tradizione. Il ritmo delle richieste di trasformazioni è divenuto così frenetico e caotico da impossessarsi dell’animo dei cittadini, i quali, di conseguenza, discutono acriticamente e frettolosamente tutto, senza prendersi il tempo giusto per riflettere, valutare e scegliere. In tale situazione caotica, perciò, mancano le condizioni necessarie per una chiara visione complessiva dei problemi, idonea a trovarne soluzioni assennate e utili. In simili momenti difficili  vengono meno il controllo delle volontà (con cui solamente si preserva il senso della concretezza() e il dominio sugli istinti dell’egoismo e del rancore (con cui solamente si salvaguarda la lucidità della razionalità). In questi ultimi anni, invece, le menti dei cittadini sono offuscate e le loro coscienze sono smarrite, poiché assistono, al posto del dialogo civile e del confronto politico, a scontri passionali e a lotte funeste: come, la dissennata denigrazione delle autorità statuali, i furiosi tentativi di delegittimazione degli istituti governativi, l’assalto impulsivo al potere legislativo del Parlamento, denunciato di dilettantismo e da qualche parte minacciato apertamente di inevitabile estinzione per la presunta sua inconcludente inefficienza.

 

Per un futuro auspicabile per il nostro Paese s’impone la necessità d’una pausa di riflessione pacata e positiva, al fine di restaurare l’unità degli spiriti e ripristinare le difese naturali della rettitudine morale, della libertà sociale e dell’etica politica. Qualità, queste, garantite soltanto dalla libertà di pensiero e dall’autonomia di giudizio morale critico. Quando, infatti, lo spirito partitico arriva a prevalere su questi punti, emerge allora cupo e minaccioso il fanatismo dei singoli e dei gruppi, con tutte le sue nefaste conseguenze. La crescita della vita delle società e degli Stati è, ovviamente, il risultato anche del progresso sociale e dell’avanzamento culturale dei popoli, i quali non vanno guidati faziosamente e, peggio, violentemente fomentati, ma tempestivamente educati e saggiamente formati, affinchè diventino un insieme di cittadini operosi, corresponsabili e coerenti, cioè un ‘popolo’. Questo compito formativo è affidato a tutte le agenzie formative: dalla famiglia alla scuola, dall’associazionismo laico e religioso ai partiti politici, dagli Enti Locali a tutte le Autorità governative e statuali.

 

Nel perseguimento di quest’opera di formazione sociale e politica del popolo è sempre sottesa una concezione generale di uomo, di società e di stato. Ora, da tempo ormai non si possono più invocare strutture sociali e ordinamenti statuali ispirati esclusivamente alle dottrine d’un collettivismo acritico, astratto e per certi aspetti irrealizzabile: ne deriverebbero inevitabilmente l’assolutizzazione della società e dello Stato, l’immolazione della concretezza delle individualità singole e degli organismi sociali intermedi, premessa rischiosa di svolgimenti pubblici ambigui e d’imprevedibili esiti totalitari. Ma non sono ugualmente i tempi delle altrettanto teoriche rivendicazioni delle dottrine liberali e dell’ottimistico dominio dell’economia liberista: l’entusiastica idolatria del mito del libero mercato, profeta invocato di benessere individuale e collettivo, ha già generato gravi situazioni d’ingiustizia sociale disumana e d’intollerante assoggettamento culturale.

 

Il cittadino delle democrazie contemporanee, di fatto, non è né il ‘socialista’ devotamente sottomesso, né il ‘liberale’ osservante senza riserve, e nemmeno il testimone d’una presunta ‘democrazia popolare’. L’odierno cittadino democratico, in realtà, è un individuo indifferente al valore delle virtù umane, sordo al richiamo degli ideali etici, insensibile alle istanze dei doveri sociali e politici. L’uomo democratico, con cui bisogna fare i conti oggi, in concreto, è sorretto e motivato unicamente dalla categoria del tornaconto privato, da raggiungere esclusivamente mediante l’astuto calcolo dell’interesse personale, prevedibile con certezza nello scambio da proporre o da valutare o da accettare. Del resto, già Alexis de Tocqueville aveva tratteggiato i connotati di questo moderno cittadino: insofferente d’ogni regola e disciplina; convinto sostenitore della spontaneità della natura e soprattutto dell’umanità; ottimistico profeta dell’autosoluzione d’ogni congiuntura; paladino eroico della singolarità d’ogni uomo, ritenuta unica titolare d’ogni diritto senza alcun corrispettivo dovere. E’ necessario, pertanto, indagare la possibilità d’una concezione, che conduca a una democrazia autentica e umana, che superi, cioè, da una parte l’idolatria dello stato e, dall’altra parte, il calcolo combinato di interessi privatistici. Si tratta di ricercare una cultura, che concili in armonia le diversità, evitando le opposte pericolose soluzioni dell’omologazione e dell’esclusione, in un contesto di condivisa solidarietà.

 

Il ‘popolo’ italiano, tutto considerato, potrebbe essere già ben incamminato per questa strada, grazie alla visione dell’uomo, su cui è fondata la Costituzione Repubblicana, nella quale il cittadino è valutato come persona integrale in sé e solidale con gli altri. Siccome in questi ultimi decenni essa è stata dimenticata, talora anche svilita, spesso chiamata in causa solo reclamarne la revisione e addirittura la riscrittura, forse sarebbe utile approfondirne almeno alcuni valori e principi sottesi, tenendo nella giusta considerazione che essi sono il risultato della collaborazione delle tre grandi anime culturali, che hanno contribuito alla ricostruzione fisica e morale dell’Italia dopo la guerra: l’anima socialista, quella liberale e quella cattolica. Si tratta di alcuni articoli, in cui si statuiscono in primo luogo la centralità della persona umana nell’organizzazione dello Stato in tutte le sue attività e, in secondo luogo, un sistema di partecipazione sociale ed economica ispirato a solidarietà nazionale e internazionale.

 

Per quest’ultimo aspetto, basta rileggere e ripensare i vari ambiti, in cui sono chiamati i cittadini a operare come singoli e come popolo. In primo luogo, il lavoro, fondamento della Repubblica Democratica Italiana, considerato sì come rapporto economico, ma rivendicato anche e soprattutto come valore umano e sociale; quindi, non come criterio di appartenenza a una delle classi sociali, ma come diritto di realizzare la propria vita personale (artt. 1 e 4) e di ottemperare, come cittadini, ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” nell’ambito della nazione (art. 2) e nel contesto internazionale (art. 10). La solidarietà viene estesa, poi, a orizzonti sempre più vasti, fino a farli coincidere con i confini del mondo: l’Italia, “in condizioni di parità con gli altri Stati, consente alle limitazioni di sovranità necessarie” per realizzare “la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11). D’importanza non meno rilevante è, ancora, il riferimento al principio di solidarietà, richiesto proprio dalla dignità dell’uomo, a proposito della tutela della salute, dichiarata “diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32) e, infine, nella dichiarazione del diritto di una “scuola aperta a tutti” (art. 34).

 

Il rispetto della persona umana, a sua volta, dev’essere esteso a tutti i cittadini, in quanto “hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). Essi, inoltre, come unitario popolo italiano, sono gli unici titolari della sovranità nazionale. E’ importante, allora, ripensare – specialmente in questi ultimi tempi - le motivazioni e le finalità inerenti agli articoli 49 e 67, in cui è sancita con chiarezza la forma di democrazia, che i Padri Costituenti hanno progettato: in Italia la democrazia non poteva essere né doveva divenire oligarchia, ma rimanere sempre e comunque “governo del popolo”, che andava posto nelle condizioni concrete di esercitare la propria sovranità in modo continuativo e in ogni occasione, e non soltanto il giorno del voto; si stabilì, allora, la norma del voto libero, uguale, personale e segreto, grazie al quale ogni cittadino, in possesso dei diritti richiesti, in condizione di libertà e di uguaglianza, può (e deve) eleggere il suo rappresentante, che legifererà per delega in ogni situazione particolare, ma sempre nella prospettiva dell’interesse dell’intera Nazione. In concreto i Costituenti immaginarono e stabilirono la libera formazione e la responsabile operosità dei partiti politici. Il combinato disposto degli articoli 49 e 67, pertanto, potrebbe costituire la chiave di lettura di tutto il tessuto strutturale della democrazia italiana: “Tutti i cittadini – è scritto nell’articolo 49 - hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”; ovviamente mediante il proprio eletto, il quale, sancisce l’articolo 67, “rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, essendo il suo mandato di natura esclusivamente politica.

 

Il partito politico, quindi, nelle intenzioni dei Costituenti, è la struttura politica realizzabile in ogni luogo dell’intero territorio nazionale, in cui i cittadini partecipano e discutono idee, proposte, iniziative, per formulare progetti di scelte politiche. Da ciò scaturiscono gli elementi costitutivi del partito politico, cioè: libertà di associazione, pluralità di associazione, adozione del metodo democratico nella vita organizzativa interna d’ogni partito e nei rapporti tra di loro e nei confronti con tutti i cittadini, libero contributo di ciascun partito per determinare la politica nazionale. La ragion d’essere dei partiti è la formazione della coscienza politica dei cittadini, che dovranno scegliere tra i più meritevoli i propri “rappresentanti”. In concreto tutto ciò è affidato alle disposizioni delle leggi ordinarie e particolarmente a quelle che disciplinano le competizioni elettorali. Se questo modello costituzionale fosse attuato, si creerebbero situazioni, in cui i dibattiti di idee e le proposte d’iniziative operative fra tutti i cittadini porterebbero sicuramente al “libero concorso” di tutti nella formazione delle scelte politiche nelle diverse istituzioni della Repubblica nell’ossequio dei tre poteri “sovrani”: legislativo, esecutivo, giudiziario. Nella realtà odierna ciò non succede. Ed è facile comprendere che, se i partiti non vivono nell’alveo delle regole democratiche, ma si trasformano in comitati d’interessi particolari, se non addirittura personali, allora, tradendo la Carta Costituzionale, diventano organizzazioni oligarchiche, guidate (e talora dominate) da gruppi dirigenti preoccupati di conservare la propria posizione egemonica. Sarà inevitabile, allora, che siano i dirigenti di partito a controllare l’accesso di nuovi ‘tesserati’, ovviamente non sempre veramente degni e capaci Ma questo è la negazione della democrazia popolare, perché si spezza l’anello che lega la sovranità popolare alla democrazia dei partiti e questa alla democrazia delle istituzioni pubbliche. E’ il trionfo della partitocrazia, corruzione pessima della democrazia. La situazione della democrazia italiana oggi è sotto gli occhi di tutti. Aldo Moro nel 69, nel pieno di un grave sconvolgimento del sistema politico, avvertiva: «Questa crisi va fronteggiata, rendendo acuta la sensibilità dei partiti, aperta la loro azione, ricco di riflessione e di adesione il loro modo di essere nella realtà sociale. Non si tratta, dunque, di annullare i partiti, ma di renderli consapevoli del limite che scaturisce da una più grande ricchezza e vivezza della vita sociale. Riconosciuto, però, il limite, nel quale del resto è implicita una straordinaria occasione di arricchimento e di umanizzazione, dev'essere fermamente riconfermata la ragion d'essere dei partiti, il loro naturale pluralismo, la dialettica democratica della quale essi sono parte, la loro distinzione, la loro polemica, il loro convergere come il loro contrastare».

 

Non è compito della filosofia prevedere se e quando si possano superare e vincere errori e distorsioni. La filosofia può solo additarli e indicare la via meno incerta della verità politica. Ma tutto presuppone una trasformazione culturale radicale e un audace ritorno alle fonti vere dello spirito anche della Carta Costituzionale. Il compito tocca tutti indistintamente, come uomini e come cittadini: nessuno può sottrarsi alle proprie responsabilità, che richiedono coraggio, azione e lotta, ripudio d’ogni forma di neutralità e accettazione di una parte da sostenere.

 

martedì 11 gennaio 2022


 

FEDELTA’ POLITICA E COERENZA MORALE


Il Governo che impone al Parlamento il voto palese, motivandolo come atto richiesto dall’importanza e dall’urgenza del provvedimento presentato. Il Parlamento che ne contesta le circostanze, esigendo la regolarità e rivendicando la legittimità del voto segreto a tutela della propria autonomia legislativa. Da una parte il voto palese rappresentato (o comunque fatto percepire) come costrizione ricattatoria; dall’altra parte il voto segreto temuto (o minacciato) come opportunità di ritorsioni e occasione di resa dei conti. Da una parte i partiti, che invocano  e pretendono la fedeltà politica dei parlamentari da loro fatti eleggere; dall’altra parte i parlamentari che rivendicano il rispetto del loro mandato popolare e della propria coscienza. La questione potrebbe ridursi a un’interessante dissertazione astratta sul rapporto politica-morale, se non coinvolgesse il destino della democrazia repubblicana italiana, la ragion d’essere dei partiti politici, la sorte dell’equità civile, la difesa della giustizia sociale, la tutela del vivere quotidiano dei cittadini. Le Istituzioni, pertanto, garanti massime della democrazia italiana, rischiano di diventare affossatori di democrazia e usurpatori di sovranità popolare; e questo proprio mentre s’adoperano per attuare fondamentali riforme istituzionali (senato, regioni, provincie, legge elettorale, riforma dl sistema giudiziario, assetti ecomico-finanziari),

 

I cittadini italiani, in verità, assistono per lo più disincantati e scettici alle vicende  della politica italiana interna ed estera. Essi, infatti, sanno correttamente che l’idea e l’attuazione delle democrazie col tempo si sono evolute e continuano a evolversi, lasciando giustamente la sfera dell’astrattezza, per immergersi nella concretezza del governo dei popoli. Sono anche convinti, però, che da quest’evoluzione non scaturisce (e non dovrebbe mai scaturire), quale conseguenza inevitabile, un decadimento dell’idea e dell’etica, che sostanziano ogni democrazia autentica: questa, infatti, prima d’essere una tra le possibili forme di governo, è in primo luogo una visione generale della vita e uno stile di condotta privata e pubblica. Da qui il loro convincimento che anche l’attuale “democrazia del numero” è uno svolgimento  positivo e costruttivo delle democrazie, a patto, però, ne restino salvaguardati i valori etici e gli obiettivi politici caratterizzanti. Ciò che oggi preoccupa i cittadini elettori (votanti e non-votanti) è il dover assistere al deterioramento della morale individuale e il decadimento dell’etica pubblica, come indicano alcuni segnali pericolosi. Si pensi, per esempio, alla trasformazione del ruolo degli eletti che ha alterato sostanzialmente anche il dettato costituzionale. Ovviamente anche la Costituzione non è testo sacro ispirato dall’alto; può, quindi, anzi deve essere aggiornata, adeguata, emendata. E’ necessario, però, che ciò sia fatto da chi ne abbia avuto mandato specifico e, soprattutto, con indiscutibile lealtà d’intenti ed evidente trasparenza di procedimenti.

 

Ed è proprio questo che genera perplessità negli italiani. Assistono, infatti, all’affannosa corsa a “far passare” provvedimenti proposti come strumenti d’una maggiore efficienza gestionale; in realtà, però, benché propugnati come mezzi di “stabilità e crescita”, di fatto implicano modiche sostanziali di princìpi essenziali, peraltro sanciti come fondamentali dalla Costituzione. Senza nascondersi che è molto incerto che tutto ciò arrechi qualche utilità alla vita del cittadino. A confermare la diffidenza dell’italiano politicamente “laico” (quindi, osservatore disinteressato, imparziale e sereno) non è solo ciò su cui si legifera, ma anche il modo con cui in questi ultimi tempi si opera in politica, sia nei palazzi e sia nelle piazze. Infastidiscono e suscitano sospetto l’arroganza dei partiti che il numero dei votanti di turno designa “maggioritari” e la baldanza di dirigenti, che rivendicano per sé il compito di decidere contenuti, tempi e modi della vita pubblica, sempre vigili a salvaguardarla dagl’intralci provenienti sia dai partiti indicati “minoritari” dal numero dei votanti sia da chi all’interno della cosiddetta “coalizione di maggioranza” tenti di discostarsi dalla linea dettata dai propri dirigenti. Ovviamente s’invoca sempre la necessità del dialogo aperto e disponibile a ogni contributo, salvo poi a non rintracciarne mai alcuno valido e appropriato. Inoltre, non si perde occasione per sottolineare e recriminare l’importante numero degli elettori non votanti; addirittura nei loro confronti s’è coniato il termine “astensionisti”, come se il non recarsi alle urne sia sempre e comunque una scelta d’irresponsabile disinteresse e non (anche e soprattutto) una decisione meditata, sofferta e perfino obbligata dai fatti, secondo l’insegnamento anche di Platone.

 

Si conosce da tutti la necessità della tempestività risoluta necessaria ai governanti. Ma già cinque secoli fa il Machiavelli, commentando e suggerendo l’antico pensiero di Tito Livio, metteva in risalto il valore della “imitazione” del passato e insegnava, anche a tal fine, in cosa doveva consistere la “virtù” del governante efficiente: saggio equilibrio di perspicacia dell’intelligenza. per comprendere ogni situazione, e di forza volitiva sicura, ma sempre suggerita e valutata dalla complessità dei problemi. Ma questo richiede il contributo di tutti. Da tutti, quindi, si richiede un momento di autocritica. Di primaria importanza, per esempio, è il ponderare le conseguenze possibili dell’uso attuale del voto segreto e del voto palese, in quanto i rischi cui si può incorrere non sembrano né pochi, né astratti, né lontani. Da una parte, infatti il voto segreto da espressione di responsabilità politica e da salvaguardia di libertà di coscienza e divenuto circostanza per l’esplosione d’inespressi risentimenti e occasione per la resa dei conti; il voto palese, dall’altra parte, da strumento legislativo condiviso, spedito e limpido è divenuto strumento di ricatto e di coercizione.

 

Tralasciando considerazioni d’altra natura, è innegabile che in questo modo risultano confusi i confini e stravolti i ruoli tra fedeltà politica e coscienza morale e si generano pericolosi equivoci avallati spesso da colpevoli silenzi. Non si tratta di sconfessare e capovolgere la secolare conquista di Machiavelli, rivendicando oggi l’autonomia della morale dall’egemonia della politica; si tratta di rinverdire con nuova linfa vitale la deontologia politica, cioè riscoprire le ragioni etiche, che danno senso all’azione politica, da parte di tutti i cittadini, ognuno nel ruolo che ha scelto o che gli è stato affidato. Sopravvalutare le ragioni della politica significherebbe valicare i confini dello stato etico: sarebbe utile, allora, meditare sulle circostanze e sui contenuti del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, scritto nel 1925 da Benedetto Croce. Sopravvalutare il ruolo delle esigenze del privato significherebbe assolutizzare gli egoismi, avversari d’ogni possibile azione veramente politica. Alcide De Gasperi – che seppe perché, quando e come dedicarsi alla politica e intuì quando e come uscirne - insegna che il politico è democratico quando possiede e pratica il “metodo democratico”, cioè quando cerca il dialogo e rispetta la deontologia propria della politica: un governante ottimo – ammonisce – rispetta i valori con fedeltà costante e grande coerenza. Queste, però,  non un valore in sè e per sè, ma sempre agganciate a una scelta, che abbia valore in sé e che ne fondi la validità.

A battere un terreno più concreto ci indirizza Enrico Berlinguer, audace innovatore politico: “I partiti – dichiara già nel 1981 a Eugenio Scalfari - non fanno più politica, e questa è l’origine dei malanni d’Italia”. E Aldo Moro, martire per la coerenza, avverte: “Per fare le cose, occorre tutto il tempo che occorre” e raccomanda il rispetto del ruolo degli organi intermedi: “Il decentramento nella gestione degli interessi comuni – ammonisce - è uno strumento dell’avvicinamento del potere agli amministrati e dell’umanizzazione di esso come garanzia del suo retto fine”. Insegnamenti necessari anche nei nostri tempi. In momenti di particolare smarrimento ci soccorre comunque l’esperienza di Mahatma Gandhi: “Meglio un milione di volte sembrare infedeli agli occhi del mondo che esserlo verso noi stessi”.

 

 


sabato 18 dicembre 2021

 

IL POSTPANDEMIA: 

CIVILTÀ DEI CONSUMI O CIVILTÀ DELL’UOMO

 

In questi ultimi tempi, aggrediti e dominati dalla virulenta pandemia del Covid-19, che col suo variare repentino e imprevedibile sembra non lasciare facile scampo all’umanità dell’intero pianeta Terra, s’assiste quotidianamente  un po’ ovunque, ma soprattutto nei Paesi del Vecchio Continente  e, quindi, anche in Italia - attraverso i numerosi e vari mezzi di comunicazione - alla girandola di notizie che ci travolgono riguardo allo stato dell’infezione sanitaria e alle conseguenti criticità sociali causate dalla particolare congiuntura economico-finanziaria dei vari Stati. Ogni comunicazione si conclude sempre con un’analisi dettagliata dell’andamento epidemiologico, con un accorto commento alle statistiche sanitarie e con qualche azzardata previsione in campo economico-finanziario. Ma è su quest’ultimo aspetto, tuttavia, che s’appunta maggiormente l’attenzione generale dei responsabili dei governi delle nazioni, i quali indugiano con responsabile prudenza a offrire ai popoli un quadro della situazione certamente realistico, ma anche aperto a cauto ottimismo, onde attenuare i diffusi sentimenti di sfiducia e di paura. Con quest’atteggiamento, assolutamente comprensibile e apprezzabile, si  vela, comunque, quella che è la principale vera preoccupazione che agita il pensiero dei potenti del mondo: la dimensione economica delle nazioni è vissuta, di fatto, come il primo problema umano e sociale generato dalla crisi sanitaria e che deve essere affrontato con decisione e risolto con tempestività. La crisi sanitaria, quindi, genera la crisi economico-finanziaria, da cui derivano le situazioni problematiche dei consumi e delle produzioni e, di conseguenza, delle opportunità lavorative e occupazionali.

In verità, sono tutti elementi costitutivi della vita umana e sociale e, quindi, momenti essenziali della consueta quotidianità tanto dei singoli quanto delle collettività. Si tratta, pertanto, di aspetti assolutamente sostanziali e ugualmente necessari della vita dei popoli e delle nazioni. Però, a ben considerarli in sé stessi e tentare poi di riscontrarne il rispetto da parte dell’azione  dell’odierna politica - caduta in balìa degli avversi nazionalismi e partitismi e corredata perlopiù solo di miopi e grette mire egoistiche e personalistiche del tutto  ignare del bene comune – si rivelano deficitari, in quanto parziali, insufficienti e gravemente inadeguati per una visione concettuale e fattuale, che ambisca a essere davvero integrale umanamente e dalle ampie dimensioni del mondo universale. L’odierna crisi pandemica, infatti, è globale e coinvolge tutte le realtà umane e sociali, a partire dall’alto dei mercati finanziari, per finire a condizionare pesantemente e determinare incisivamente l'economia reale, con la quale il popolo fa e deve fare i conti quotidianamente, con l’animo tremante, perché pendulo tra timori e speranze, tra diffusa confusione d’incertezze e fuggevoli sprazzi di lucidità angosciante, tra calma padronanza di sé e malcelata ira contenuta e sorda. E’ la vita concreta che ogni giorno sostiene la gente - rapportata alle laute negoziazioni dei mercati finanziari - che costringe a ripensare alcuni concetti fondamentali e ad aggiornare alcuni atteggiamenti comuni alla base della relazione tra economia, finanza, lavoro e sviluppo.

Negli ultimi tempi da più parti s’immagina e si progetta - anche e a giusta ragione – un probabile assetto delle nazioni e delle società nel prossimo futuro post-pandemico, e l’attenzione generale è volta soprattutto all’individuazione del come spendere le risorse da destinare ai diversi settori. Il suggerimento dominante è di cogliere l’opportunità e non sprecare energie per ottenere aggiornamenti e modernizzazioni; e dai diversi schieramenti politici e corpi sociali produttivi si snocciola un caldeggiato elenco magico di obiettivi: ripartenza, sostenibilità, transizione ecologica; ovviamente con l’occhio sempre puntato al Prodotto Interno Lordo. Tutti questi obiettivi sono da perseguire assolutamente, in quanto  necessari per la strutturazione della vita umana consociata; ma, così come sono proposti e perseguiti, rischiano di oscurare le finalità primarie e gli obiettivi fondamentali richiesti dal nuovo corso storico, che attende ogni cittadino spettatore e testimone di questa sciagurata calamità. Superare, infatti, l’emergenza sanitaria e risolvere al meglio la congiuntura economica significa solo aver mirato a modernizzare il futuro, senza favorirne nello stesso tempo il processo altrettanto vitale di civilizzazione e acculturazione, così come è sancito nella Costituzione Italiana, costantemente vigile e attenta a garantire e proteggere il benessere d’ogni cittadino in qualunque situazione sociale si trovi. Oggi viviamo in tempi di strabilianti innovazioni, ma anche di inquietanti forme di schiavitù salariale, sociale, tecnologica. Sono queste le dimensioni esistenziali, che rivendica e reclama il dovere civico e morale della giustizia sociale e della verità.

 Giova ricordare a questo riguardo quanto raccomandò già nel 1969 Aldo Moro: «Sia dunque ben chiaro che, quando si parla di un giusto controllo dell’economia e di rapporti umani, su base di autonomia, dignità e responsabilità nell’ambiente di lavoro, non si discute solo di efficienza produttiva, ma di condizione sociale della persona, di qualche cosa che va al di là della pur naturale rivendicazione di benessere e della giustizia, per toccare la posizione dell’uomo ed il suo modo di essere, il solo accettabile ed appagante, nella società. (…).  Si riscatta la persona dall’inquietudine e dallo scontento, che il solo benessere non riesce a placare. In una tale condizione c’è un lavoro da compiere ed una disciplina da accettare. Ma è importante e caratterizzante che in essi si esprima l’uomo non come servo della macchina, della tecnica, dei padroni, del potere, ma come libero e responsabile protagonista d vita sociale e politica».

 

 

 

venerdì 8 ottobre 2021

 

 LA RICERCA DEL SENSO DELLA VITA
tra assurdo e assurdità del non-senso

 

Che si esista è un dato fattuale chiaro ed evidente e, quindi, indubitabile e indiscutibile. L’inizio (con la nascita) e la fine (con la morte) d’ogni esistenza sono ugualmente realtà perlopiù ignote, ma concretamente sicure, certe e incontrovertibili: niente e nessuno sa come e quando si nasce, ma tutti e ciascuno ci si scorge improvvisamente gettati nel mondo degli esistenti e dei viventi e, pertanto, necessariamente destinato anche a uscirne fuori e scomparire - un qualche giorno talora desiderato e invocato, ma sempre paurosamente atteso e intimamene temuto - in qualche abissale voragine nascosta e  ignota, ma che tutto fagocita e divora.

Una vita, dunque, consiste sostanzialmente nell’arco di tempo compreso tra il momento della nascita e dell’apparire e il momento della morte e dello scomparire: itinerario evolutivo destinato per tutte le realtà singole e collettive. E’ in questo spazio temporale che si generano, avvengono, si affrontano e si giocano tutte le partite d’ogni esistenza. E ogni accadimento occupa e consuma una particella di tempo: lunga e d’ampio respiro o piccola e di breve durata, pur sempre una porzione costitutiva del patrimonio temporale - ben pre-determinato - da ogni realtà ricevuto in dotazione. Questo vale per il singolo individuo, per le varie forme associative di vita e di comunità di persone e di popoli, nel loro susseguirsi e nel loro mutare nel tempo. Per tutte le realtà l’esistenza è fondamentalmente il poter e voler conoscere veramente il senso del proprio essere sulla terra e realizzare totalmente se stessi durante l’inesorabile silenzioso scorrere e consumarsi del tempo a lui concesso, ma forse tendente verso l’infinito.

L’esistente umano, in particolare, per ricercare e trovare un qualche senso attinente o pertinente alla sua vita, ha almeno tre vie alternative, che può imboccare e percorrere. La prima: chiedersi e tentare d’indovinare quando, come e perché è pervenuto alla sua esistenza nel mondo; la seconda: indagare per quale causa agente e per quale nuova ignota destinazione - finalizzata o casuale - debba estinguersi e sparire dal pianeta terrestre. Cioè, può avviare e sostenere il suo itinerario d’indagine esistenziale, o partendo dal mistero talora angosciante della sua nascita o meditando sull’ineluttabile cogente necessità della sua morte. Rimane, altresì, una terza via: intuire con lucidità di mente e accettare con virile fermezza di volontà il senso rintracciato in un’indagine compiuta nella solitudine interiore del suo spirito; insinuarsi, poi, e penetrare con audacia nelle pieghe del proprio animo, per riconoscere e accogliere ogni risultanza della sua riflessione meditata riguardante il significato emerso del suo esistere nel presente, ora e in sé stesso, senza ricorrere all’ausilio di probabili termini di relazione certamente utili, ma pericolosamente fuorvianti. Soprattutto l’uomo, infatti - quale essere dotato di libera riflessività razionale, per nulla passiva e istintuale - deve avere il coraggioso ardire di non accontentarsi di comode elucubrazioni spesso inconcludenti, che servono solo ad allontanare pressanti scomode domande e addirittura a mistificare esigenze intime e profonde. E’ facile e appagante accogliere acriticamente le nobili voci dei vari credo religiosi, come è esaltante aderire agli ultimi dettami della cultura dominante e delle valide conquiste della scienza. All’uomo, però, che si limita a nutrirsi solo o soprattutto delle risultanze del mondo a lui esterno, sfugge il senso vero del vivere suo e del cosmo, in cui si trova collocato. Lo turba di continuo e agita la sua mente l’ombra sfuggente ma onnipresente del non-senso e, quindi, dell’assurdità di tutto, ch’egli respinge e allontana dal suo animo. Nello stesso tempo, però, sente che il non-senso non è meno assurdo della stessa assurdità: un senso deve esserci in ogni realtà e l’uomo ad esso anela e lo trova solo quando riesce a separarsi  momentaneamente dal mondo a lui esterno e si ripiega nella solitudine interiore del proprio essere: lì trova il senso vero che sinceramente desidera e onestamente ricerca.

Solo così l’uomo scoprirà che il senso e il valore d’ogni vita non provengono né gli sono dati dall’esterno, che non sono un dato oggettivo, che solo il mondo custodisce ed elargisce a suo insindacabile volere, assegnando all’umanità il compito di rispettare e onorare ciò che a essa è destinato, evitando il blasfemo atto dell’inutile disubbidienza, con cui si dissacra la presunta verità e si genera disordine e caos. Al contrario, è l’uomo che proietta sul mondo valori e significati, che la sua mente razionale germina e la sua libera volontà di uomo determina. Ne deriverà e si consoliderà una vita umana animata e pervasa da un perenne e vitale afflato di sacralità, con cui si genera, si sostanzia e si orienta l’autentica dimensione della solidarietà umana universale. Ogni senso autentico, infatti, si cova nell’intimità della libera coscienza personale; e non c’è tesoro più prezioso del senso esistenziale personale intuito audacemente e custodito gelosamente in se stessi. Essere parte del genere umano, essere attore delle proprie scelte e co-attore dell’intera vita del cosmo, padroneggiare il sentimento della solidarietà naturale, intuire e testimoniare il proprio insostituibile ruolo nella storia dei tempi sono il tesoro covato e scoperto nella sacralità della propria coscienza. Questa inviolabile sacralità non è, quindi, un momento della coscienza umana, ma un elemento costitutivo e, perciò, organico della struttura stessa della coscienza, totalmente connessa allo sforzo che l’uomo compie per costruire un mondo che abbia un senso. Il significato della realtà, quindi, non è un dato oggettivo che si trova e si accetta, ma un valore che l’uomo proietta e pone in realtà, che percepisce come vuote e insensate. Il senso del mondo, quindi, è quasi una proiezione della totalità della persona umana integralmente vissuta.

 

venerdì 11 giugno 2021


IN ITALIA NON CI SARA’ FUTURO INTEGRALE SENZA LE DONNE

In Finlandia Sanna Marin a 34 anni è Primo Ministro 

 

Pubblicato in Presenza Taurisanese, maggio-giugno 2021, n. 328, p. 13

 

In Italia la popolazione femminile costituisce più della metà dei cittadini. Ogni cittadino italiano – secondo l’esplicito dettato della Carta Costituzionale - contribuisce attivamente alla vita della Nazione mediante “L’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2). Questo dovere fondamentale e inderogabile non ammette eccezioni o deroghe per alcun motivo, in quanto la Repubblica  proclama la pari dignità dei suoi cittadini e riconosce loro indistintamente i medesimi diritti, ma esige da ciascuno l’assolvimento dei rispettivi doveri: “Tutti i cittadini – è sancito solennemente nell’articolo 3 – hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Il cittadino italiano, quindi, che legittimamente usufruisce – indipendentemente dalle diversità personali e sociali -  dei diritti garantitigli, non può non adempiere – secondo le sue possibilità e nel rispetto delle le diversità personali e sociali - ai doveri richiestigli, poiché sarebbe un fatto, oltre che contrario al dettato costituzionale, anche gravemente lesivo della integralità della persona umana, in quanto depriverebbe i propri concittadini del contributo dovuto e, pertanto, depaupererebbe tutta la Nazione economicamente e soprattutto moralmente e culturalmente. Analizzando la situazione reale  in Italia, sembra che le donne – che sono, appunto, oltre la metà della popolazione – non sono messe nella possibilità concreta di offrire totalmente e liberamente il proprio contributo adeguato alle loro capacità, determinando, così, uno spreco ingiustificato e dannoso di energie collaborative e costruttive.

 

A queste puntualizzazioni s’è spinti, quando si voglia considerare e valutare il ruolo riservato e assegnato alle donne italiane, oggi, nelle varie attività socio-economiche del Paese, nelle decisioni politiche e nel mondo della cultura e della ricerca. Ad accendere la curiosità e a suscitare l’interesse degli spiriti più attenti sono state le reazioni italiane registrate in occasione della nomina, circa un anno fa, alla carica di Primo Ministro della Finlandia di Sanna Marin. Improntate a stupore e ammirazione, si levavano voci piuttosto fioche, che avevano il sapore soprattutto della meraviglia e dell’attesa. Molti sapevano e sottolineavano solo il fatto che si trattava di una donna e che era una donna giovane, pochi andarono alla ricerca, per acquisire o approfondire conoscenze utili e illuminanti sulla vicenda umana e sull’esperienza politico-amministrativa, grazie alle quali la neoeletta Premier s’era proposta all’attenzione dei parlamentari finlandesi, che non hanno avuto perplessità a porre nelle sue mani la guida del Governo Nazionale. Sanna Marin, di 34 anni, dopo la regolare frequenza delle Scuole Superiori, frequenta l’Università di Tampere, conseguendo nel 2007 (a ventidue anni) la Laurea in Scienze dell’Amministrazione; nello stesso anno viene eletta nel Consiglio Comunale di Tampere, ricoprendo la carica di Presidente del Consiglio Comunale. Negi ultimi anni è stata vicepresidente dei socialdemocratici finlandesi e parlamentare. E’ madre d’una bambina avuta dal compagno storico. Emerge la figura di una donna umanamente costruitasi su solide fondamenta, di una professionista competente e responsabile e di una cittadina eticamente indiscutibile e politicamente formatasi per mezzo di esperienze compiute con la necessaria gradualità e con esiti positivi puntualmente verificati. Un esempio degno di emulazione.

 

Sarebbe quanto mai opportuno, ora, considerare quali opportunità reali hanno le donne in Italia d’intraprendere e concludere percorsi formativi teorico-pratici di cultura civica, che consentano loro – oltre all’accesso in carriere esecutive o impiegatizie - di cimentarsi personalmente in compiti di responsabilità, di assumere direttamente iniziative impegnative, di affrontare rischi e pericoli d’un’impresa. Ed anche: di acquisire un consistente patrimonio di dottrina e di pratica necessario per scegliere di sobbarcarsi a cariche pubbliche politico-amministrative. In Italia, di fatto, le donne presenti nell’agone politico-amministrativo sono un numero molto esiguo e perlopiù relegate a ruoli secondari e comunque sostanzialmente gestiti da figure maschili, per cui risalta chiaramente la disparità numerica e qualitativa tra i generi e la scarsa possibilità di rappresentare i problemi relativi ai diritti-doveri delle donne.

 

Nonostante ciò, oggi, in considerazione degl’inconfutabili miglioramenti nella valutazione delle donne, s’è portati a ritenere risolto il problema dell’uguaglianza tra i generi; in realtà, però, se si considera – oltre alla crescente partecipazione femminile nel campo del lavoro, dell’insegnamento e della cultura - la presenza delle donne nelle sedi, in cui si prendono decisioni nei settori della finanza, dell’economica e della politica, ci si rende conto che di fatto – contro ogni dettato e auspicio dei Padri Costituenti - l’uguaglianza tra uomini e donne è ben lontana dall’essere acquisita. In tutti i settori della vita lavorativa nazionale, infatti,  gli uomini tendono ad occupare le posizioni di maggior potere; nelle organizzazioni i vertici aziendali e i dirigenti sono perlopiù uomini; nelle istituzioni politiche il numero di donne è sempre molto inferiore a quello degli uomini. Eppure i Padri Costituenti hanno definito e sancito alcuni Principi Fondamentali rimasti sinora nell’ombra o addirittura del tutto ignorati. Ciò costituisce – oltre a una notevole ingiustizia sociale moralmente biasimevole - un grave vulus giuridico, che dev’essere sanato, perché il Paese possa essere davvero annoverato tra quelli realmente progrediti. Tra i Principi Fondamentali della Costituzione, infatti, nell’articolo 3, dopo la dichiarazione della pari dignità e uguaglianza tra i generi, è sancito il compito della Repubblica a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”, che creano disparità e impediscono lo sviluppo personale e “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

          Questo fondamentale dettato costituzionale sarebbe stato destinato a rimanere nel mondo delle nobili aspirazioni, se i Costituenti non avessero indicato anche le vie concrete per la sua realizzazione. Trattando, infatti, dell’ambito dei “Rapporti Politici” – che è il luogo, in cui in sostanza viene presa la maggior parte delle decisioni, che condizionano e orientano le scelte importanti e gl’indirizzi qualificanti della varia e complessa vita d’un popolo – la Carta nell’articolo 51 stabilisce: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza”.  E quasi interpretando possibili dubbi e dannose incertezze, per non lasciare spazio a tentazioni fuorvianti e, comunque, per  bloccare ogni cavillo o pericolo di fraintendimento, si chiama in causa direttamente la Repubblica, assegnandole il dovere non solo di riconoscere e garantire i diritti sociali e politici anche delle cittadine, ma anche di   “promuovere con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini” (art. 51). E, in verità, provvedimenti legislativi in tal senso sono stati indubbiamente prodotti, ma finora non sono stati in grado di incidere significativamente sulla condizione e sulla partecipazione delle donne alle attività della Nazione. Basti osservare le presenze femminili nel Parlamento (solo un centinaio di donne su 945 membri) e negli Enti Locali (solo un quinto delle presenze maschili). Eppure in Italia non potrà esserci davvero un futuro globalmente inclusivo e integralmente umano senza la giusta valorizzazione delle energie e delle risorse del genere femminile.

 

          Nella Costituzione, infine, vengono chiaramente indicati il mezzo adatto e il modo concreto, perché ogni cittadino – uomo e donna - possa partecipare concretamente e agire efficacemente nella vita socio-economica e e politica della Nazione. A tal fine, infatti. fu stabilito: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti, per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art.50). Ovviamente i Padri Costituenti pensavano al partito quale luogo, in cui i cittadini d'ogni ceto sociale – in costante cooperazione con i movimenti femminili e giovanili – discutevano con responsabilità e libertà problematiche del momento, di parte e d’interesse generale, e proponevano democraticamente ipotesi risolutive, ciascuno in coerenza con i propri valori umani e e le proprie convinzioni politiche e civili. La progressiva trasformazione negli ultimi decenni della natura specifica e delle finalità affidate al partito originario, pone problemi nuovi, che richiedono riflessione e autocritica.

  

martedì 25 maggio 2021

 

COSA FANNO I PARLAMENTARI? 

Pubblicato su «Iuncturae» il 25 maggio 2021

 

“Noi assistiamo alle esequie di una forma di governo”, disse novant’anni fa, il 19 dicembre 1925, al Senato, nel celebre discorso di rifiuto della legge sulle prerogative del Capo del governo, Gaetano Mosca, dotto giurista, esperto senatore e rispettato membro del governo Salandra. La riforma che veniva proposta, compatibile con la lettera dello Statuto Albertino allora vigente, nella sostanza era preoccupante. E gli avvenimenti degli anni che seguirono diedero ragione al “vecchio” parlamentare, dimostrando nei fatti e con chiarezza che a rinforzare il regime fascista non furono l’energia volitiva del Duce e la capacità governativa del suo Consiglio, ma la debolezza e la paura di molti Membri del Parlamento. Lo strapotere del despota non si fonda mai sulle sue doti morali e sulla sua capacità governativa, ma sempre sulla debolezza e l’inadeguatezza dei cittadini, che, tramite l’atteggiamento e le scelte dei propri deputati, si mostrano incerti nell’esporre le proprie idee, timidi nell’avanzare le proprie proposte e, soprattutto, deboli nel difendere i propri convincimenti e fiacchi nel bloccare il capo, ogni qualvolta pretenda – anche al fine encomiabile di incrementare progresso e garantire felicità - di usare irragionevolmente metodi non accettabili, perchè spesso al limite della legalità e comunque estranei al costume di una vita veramente “democratica e popolare”, per cui offendono dignità umana e diritti politici.

 

E’ deludente, quasi disarmante, assistere oggi a “delegati d’un intero popolo”, che pretendono a loro volta di delegare codardamente al Presidente della Repubblica azioni e iniziative, che sanno bene che la Costituzione preclude al Capo dello Stato e impone, invece, proprio a loro che sono i detentori del Potere Legislativo. Coloro che hanno il dovere di interpretare e difendere il bene comune della Nazione, s’attardano a dichiarazioni di rito e a insensate minacce verbali spesso indegne, attendendo speranzosamente un qualche intervento dall’alto per fare ciò che solo il Parlamento – nella sua collettività e nei singoli componenti – può e deve proporre a nome del popolo e imporre per il bene del popolo! Se la maggioranza di parlamentari eletti dal popolo, secondo leggi da loro stessi approvate, consente al Governo - da essa voluto e mai sfiduciato - comportamenti arroganti e di fatto al limite d’ogni vera democrazia; se un’intera classe politica, formatasi e costituita secondo norme e procedure da se stessa create, ha dato e mantiene in vita questo Governo, non è proprio il caso che si gridi allo scandalo e s’invochi qualcuno a porre rimedio. Tocca a loro: alla classe politica prendere posizione; è dovere d’ogni parlamentare - delegato secondo la Costituzione a governare senza vincolo di mandato e in nome del popolo e per il bene del popolo – assumersi le sue responsabilità e ad agire secondo il dettato della sua ragione.

 

Non siamo più nella Firenze governata dai Medici, né il popolo italiano è quella massa amorfa e grezza pensata e descritta dal fiorentino Machiavelli, né i cittadini italiani sono disposti ancora oggi a stare a sopportare chi volesse governarli da capo “furbo come una volpe e forte come un leone”, cambiando aspetto da situazione a situazione. Il popolo italiano non accetta più d’essere ingannato, né ha più paura di reagire alla corruzione e incapacità di chi lo governa. Solo la saggezza della ragione dei cittadini italiani e la loro responsabilità civile li sostengono ad assistere tristemente ma dignitosamente anche agli ultimi spettacoli vergognosi offerti nelle Aule Parlamentari. I cittadini aspettano che si passi dalle comparse ai fatti: non significano nulla né il lancio delle frasi indegne per tutti né il tiro dei fiori persino oltraggiati nel loro nobile e sacro significato. E “i fatti” stanno nel potere di voto d’ogni parlamentare, esercitato a viso aperto e dettato da ragione e coscienza, non da calcoli privati e ricatti nascosti.

 

Novant’anni fa l’ormai vecchio parlamentare Gaetano Mosca, annunciando il proprio voto contrario a una riforma proposta dal governo, avvertiva che mutamenti proposti come strumenti  più adatti a un governo efficace, in realtà implicavano cambiamenti radicali del sistema di governo, che rischiavano di compromettere diritti civili, equità sociali, doveri politici e persino valori etici della nazione intera, già in piena crisi morale ed economica di quegli anni (non molto dissimili dai nostri). Probabilmente si trattava di cambiamenti addirittura necessari; ma erano proprio le modalità, con cui li si stava proponendo e perseguendo: procedimenti innovativi esageratamente rapidi potevano nascondere qualche “salto nel buio” dettato dall’impulso frenetico d’una “nuova generazione, che crede di sapere tutto e di poter tutto mutare”. Proprio per questo, terminava le sue parole, dichiarando umilmente che sentiva come suo “forte dovere di ammonirla”.

 

Sono passati circa novant’anni: forse non pochi perché gli “anziani” e le “nuove” generazioni del nostro tempo rileggano la nostra storia, prendendo qualche utile lezione.

 

lunedì 26 aprile 2021

 

«NEL GRANDE SILENZIO»

Soliloquio di Nietzsche nell’«immensa impossibilità di parlare»

Pubblicato in Iuncturae il 30 aprile 2021


Friedrich Nietzsche (1844-1900) – interprete di una delle più radicali revisioni culturali dell’Occidente – in «Aurora» (1881) intitola il pensiero n.423 «Nel grande silenzio». E’ uno scritto breve ed essenziale, ma nella sua stringatezza denso di messaggi eloquenti, con i quali il filosofo manifesta il suo animo combattuto da opposte istanze e prefigura non pochi esiti del suo pensiero nichilista, indovinati ed efficaci anche per i tempi che ci è dato vivere.

Allontanatosi dalla ressa e dai frastuoni della «città» - confida il filoso - trova rifugio in riva al mare in un luogo solitario, che conciliava la meditazione sul senso immediato e finale del vivere cosmico e sulla destinazione dell’operosità e dei travagli degli uomini. La serena limpidezza dell’aria e la trasparente luminosità dei luoghi placavano il suo spirito stanco e sollecitavano la sua mente a meditare su problemi di vario interesse. Abbandonatosi completamente alla pace di quell’ambiente, il filosofo si sciolse da ogni reticenza e fuse i moti del suo essere con le palpitazioni della Natura, alla quale si rivolse con parole echeggianti un’antica intima frequentazione, amichevole e familiare: «Ecco il mare – le rivolse amabilmente soddisfatto -, qui possiamo dimenticare la città». Tutti, infatti, provati e stanchi per le vicissitudini della quotidianità, cercano un quieto riposo rigenerante, che favorisca l’oblio delle avversità e consenta lo scambio reciproco di confidenze di felicità e di sofferenza, di conquista e di fallimento.  

A chi accostarsi con fiducia e chiedere sostegno e conforto? Da chi aspettarsi chiarimenti e rassicurazioni sui destini umani? A chi affidare i segreti del proprio animo? Egli aveva già chiuso le porte a ogni tentativo metafisico, aveva demolito ogni realtà trascendente ed inoltre aveva annunciato la «morte di Dio», rivendicato dalle religioni quale fondamento e garante d’ogni forma di al di là e al di sopra di questo mondo. Ed era giunto a tali conclusioni con un percorso di pensiero meditato e sofferto, anche se complesso e apparentemente contraddittorio, soprattutto nei confronti della religione ricevuta dai genitori. Figlio, infatti, di un pastore protestante, egli stesso formatosi nella cultura del cristianesimo calvinista, con estrema onestà intellettuale e con esemplare coerenza morale aveva dovuto aderire ai dettami dell’esperienza della sua vita e alle risultanze per lui evidenti della ragione. «A chi -scrive senza esitazione – oggi mi si rivela ambiguo nei riguardi del cristianesimo non do neppure la mano. C’è solo un modo di essere onesto in proposito: un no assoluto» (Frammenti 1887-189, Postumi, KSA, 13, p. 416). Ma significativamente Karl Jaspers, introduce i suoi studi sul filosofo tedesco con un chiaro avvio, solidamente documentato: «La lotta di Nietzsche contro il cristianesimo nasce dalla sua propria essenza cristiana» (K. Jaspers, Nietzsche e il Cristianesimo, trad. it, Marinotti Edizioni, Milano 2008, p. 41).  Per le sue conversazioni intime, quindi, a Nietzsche non rimaneva che il dialogo franco e sincero con la Natura.  

Nietzsche, quindi, raggiunge la riva del mare. Domina l’ampio spazio circostante un silenzio profondo, interrotto, però, proprio in quel momento dallo «strepitare delle campane dell’Ave Maria […] ma solo per un istante ancora!»; era, infatti, soltanto il «sussurro - cupo e folle, eppur dolce - al crocicchio del giorno e della notte». L’animo del filosofo si riverbera sulla natura: lo «strepitare» delle campane non è percepito come un disturbo molesto, ma come l’amabile «sussurro cupo e folle, eppur dolce», che  al calar del sole accompagna e quasi protegge l’ostinato alternarsi delle ore e l’inesorabile consumarsi dei giorni della vita umana. Suono breve e rapido quello delle campane vespertine, ma carico di note sentimentali e di rimembranze emotive: «cupo e folle» come la mente degli uomini alla ricerca di senso e giustificazione alle scelte fatte sotto la tirannia del bisogno «folle» di dare ad esse fondamento e scopo ultraterreni; suono, però, anche «dolce», perché giunge come balsamo alle loro sofferenze inespresse, ma strazianti. Cessata la voce delle campane,  «ora tutto tace». La vasta distesa delle acque marine si offre tutta scintillante alla vista di chi la sta contemplando, ma «non può dire parola»; la volta celeste mostra il suo eterno spettacolo di luce e di colori, ma anch’esso «non può dire parola»; anche gli scogli, che vanno lentamente declinando verso le acque del mare calmo alla ricerca di un luogo ancor più appartato e solitario, «non possono dire parola». Tutti i protagonisti, concordemente, covano – e sembra frenino a fatica - un forte desiderio represso di emettere voci sinora soffocate e proferire parole risolute e chiare sinora trattenute. Nello stesso tempo i luoghi dintorno vibrano smorzati e palpitano sommessamente sotto il misterioso fitto velo del silenzio, e pare che tutto voglia esprimere un pensiero taciuto: «Questa immensa impossibilità di parlare, che ci coglie all’improvviso, è bella e agghiacciante: ne è gonfio il cuore». Mare, cielo, terra – e anche l’uomo - appaiono accomunati da un’unica esperienza esistenziale: sono tutti impediti di esprimersi chiaramente e di manifestarsi apertamente; tutti sembrano vittime e prede di forze ignote e comunque superiori, ch’essi subiscono mestamente, ma ne rispettano il potere coercitivo.

A questo punto il filosofo, come scosso da un guizzo di lucida razionalità e quasi sospinto dal risveglio della propria dignità, rompe ogni argine di misura e di riservatezza e dà libero sfogo all’impeto della rinvigorita volontà di potenza umana. Si strappa e butta via la maschera della finzione e – sapendo «Perché l’uomo non vede le cose? Perché vi ha interposto se stesso: egli nasconde le cose» (Aurora, Pensiero 438) – sbotta tra rabbia, sarcasmo e cinismo: «O ipocrisia di questa muta bellezza! Quanto bene saprebbe parlare, quanto male, anche, se volesse!».  La natura, però, non dà né ha alcun segno di reazione; resta muta, impassibile, impenetrabile. Il filosofo, tuttavia, avendo conosciuto per esperienza personale che le «Nature flemmatiche possiamo entusiasmarle  solo fanatizzandole» (Aurora, Pensiero 222) gioca d’astuzia, ricorrendo anche all’oltraggio fino all’irrisionee e allo scherno: «Il nodo della mia lingua e la sua dolorosa felicità nel viso – manifesta ironicamente alla natura che, a suo dire, poco prima l’aveva inebriato - è una malizia per deridere la consonanza del tuo sentire!». Era del tutto incomprensibile il mutismo ostinato della Natura. In fondo il filosofo non aveva chiesto la rivelazione di alcuna verità nascosta né aveva voluto estorcere lo svelamento di qualche segreto misterioso. Andava solo alla ricerca di qualche senso al vivere dell’uomo e del mondo; la stessa Hannah Arendt, peraltro, impegnata a decifrare l’animo di uomini malvagi, sosterrà che «Il bisogno di cercare una ragione non deriva dal desiderio di verità, ma dal desiderio di trovare un significato».

Nietzsche si rammarica, ma non si vergogna né si pente di questo suo comportamento e soprattutto d’essersi fatto zimbello di forze ignote; della Natura, invece, prova profonda compassione, perché essa è costretta a non parlare, «anche se – insiste quasi incattivito il filosofo, rivolgendosi rudemente alla Natura - è soltanto la tua malvagità ad annodarti la lingua: sì, io ti commisero a cagione della tua malvagità!». Il silenzio, però, si fa ancor più profondo e il cuore si gonfia nuovamente, perché «lo atterrisce una nuova verità: neppure esso può dire parola». Anch’esso con malvagità non parla e, insensibile quale simulacro marmoreo, con ghigno beffardo sembra irridere a ogni tentativo di comunicazione, per cui: «Il parlare, anzi il pensare – confessa tristemente il filosofo - mi è odioso: non odo forse, dietro ogni parola, ridere l’errore, l’immaginazione, lo spirito dell’illusione? Non devo irridere la mia pietà? Irridere la mia irrisione?».  Il mare, che con la sua tranquillità e la sua possente distesa d’acqua, aveva ispirato sentimenti di tenacia nella speranza, ora si mostra elemento imbelle e servile, quindi da irridere; la sera, che col suo regolare e progressivo scandire ore di luce e ore di tenebra, aveva confermato la realtà dell’eterno ritorno del tutto, ora getta l’animo nel dubbio e nell’incertezza, quindi da irridere; il cielo, che con la meraviglia inimitabile del suo cangiante manto variopinto, aveva infuso pensieri di eternità, ora si rivela terribile doloroso inganno, quindi da irridere. Mare, sera e cielo, «Voi – accusa il filosofo deluso e amareggiato - siete cattivi maestri! Voi insegnate all’uomo a cessare di essere uomo!». Non è, non può e non deve essere come la Natura presume e pretende insegnare: l’uomo, dotato di spirito apollineo unitamente all’energia dionisiaca, non si abbandona alla forza dell’istinto, vivendo «pallido, scintillante, muto, immenso, riposante su se steso». No! Ecco, allora, l’ammonimento del filosofo: «Conviene alla natura umana di un maestro, mettere i propri discepoli in guardia contro se stesso» (Aurora, Pensiero 447).