35. LE RELZIONI TRA LE GENERAZIONI UMANE
TRA NEGAZIONISMO, REVISIONISMO E INTEGRAZIONE CRITICA
Per
tutto il tempo dominato dalla pandemia causata dal Covid-19 si sono avuti (e si
hanno tuttora) frequenti e significative manifestazioni di grave decadenza della
civiltà, di preoccupante insensibilità umana e di pericolosa carenza di senso morale.
Tralasciando, infatti, il fenomeno assurdo e paradossale dell’agnosticismo
scientifico, del negazionismo ideologico e del fanatismo pseudoreligioso, si
resta attoniti nel leggere e nell’assistere
a forme di caccia al colpevole dell’ignota e funesta calamità pandemica dilagante
per l’intero pianeta; e si fa a gara nell’indicare qualcosa o qualcuno su cui
scaricare la colpa, additando, ovviamente, categorie diverse da quella cui appartiene
l’«accusatore», e si punta in particolare sulle generazioni più indifese: ora sui
giovani “irresponsabili” ora sugli anziani “imprudenti” ora sui malati “abbandonati”
ora sui migranti “inopportuni”. Come se non fossimo una sola e unica «famiglia»
sociale di esseri umani. Nasce e s’impone, allora, l’amara e dolorosa percezione che la frattura nei
rapporti tra generazioni e tra stati di varie condizioni sociali è diventata un
pauroso abisso, che tutto fagocita. E’ assurdo, infatti, che non si comprenda o
non si voglia condividere una verità fattuale semplice, evidente e chiara: che in
ogni società si è tutti uniti ed equamente coinvolti sia nelle evenienze favorevoli
sia negli accadimenti negativi: quando, per esempio, soffrono particolarmente i bambini e i giovani, nello stesso tempo
soffrono a modo loro anche gli adulti e gli
anziani: e non c’è motivo, quindi, per mettere gli uni di fronte o, peggio, contro
gli altri: una società, che non rispetta e non si cura dei suoi vecchi, non si
preoccupa e non si cura nemmeno dei suoi giovani. Si tratta, in questi casi, di
società ”malate” di insensibilità umana
e indifferenza sociale, la cui sola cifra è il maggiore e più immediato profitto,
che ovviamente non dànno né assicurano i giovani e gli anziani.
Questo, se si guarda e si considera la realtà
dell’umanità limitatamente al breve – unico possibile, ma significativo –
tratto spazio-temporale, in cui si svolge la singola esistenza personale più o
meno lunga. Se, poi, si volge lo sguardo il più possibile lontano e si affissano
gli occhi sugli accadimenti nell’intero spazio del pianeta terrestre e si esaminano
le qualità esistenziali, che hanno caratterizzato (e caratterizzano tuttora) i
rapporti tra le nazioni e le relazioni tra i popoli, l’animo umano -
soprattutto in questo periodo veramente drammatico - raggela e la mente
attonita si rifiuta di credere a ciò che gli occhi le presentano. Ammutolisce esterrefatto
e nello stesso tempo si ribella titanicamente l’animo soprattutto di chi ha
vissuto i suoi anni nel clima della libertà e della pace, cioè, di chi ha
covato i valori irrinunciabili della dignità umana, di chi ha nutrito i
sentimenti costruttivi della solidarietà e di chi crede nel reciproco sostegno generoso
e non di rado del tutto gratuito. Non si fa riferimento tanto alle centinaia di
luoghi attualmente teatro di assurde guerre fratricide (promosse e sostenute a
distanza da pochi potenti e subìte e combattute da vicino dai molti malcapitati
destinati a lottare e a morire), quanto alle cause vere e reali – antropologicamente connaturate e ultime e sociologicamente
radicate e profonde.- che originano e alimentano negli umani assurdi e inauditi
istinti di odio cieco e di brama smisurata di prepotenza. Cioè, l’uomo è essenzialmente
malvagio per sua propria natura? Per realizzare totalmente i suoi progetti esistenziali
ha bisogno di tormentare e dilaniare i suoi simili insieme a madre Natura nella
sua totalità?
E’
vero che già Thomas Hobbes – uno tra gli altri - aveva marchiato l’uomo per natura
propria “lupo verso i suoi simili” e aveva denunciato conseguentemente lo stato
naturale dell’umanità come “guerra di tutti contro tutti”: quindi, lotta
continua indiscriminata, alimentata da cinici egoismi sfrenati, da insensati
impulsi di strapotere e da incontrollato spirito di prepotenza e di sopravvivenza.
Ma l’insistenza del filosofo britannico
su questa visione estremamente negativa mirava soprattutto ad evidenziare la
necessità salvifica d’una strutturazione
organica del corpo sociale, per la quale urgevano un ordinamento politico condiviso
(anche se coartatamente) e, quindi, la
presenza responsabilmente vigile d’un Potere assoluto e l’intervento rigorosamente
inflessibile d’un Leviatano, che avrebbero saputo e potuto imbrigliare e incanalare
ogni forza ed energia negative in itinerari
di sinergia positiva e collaborativa a vantaggio d’un graduale sviluppo
generale. Da parte opposta c’imbattiamo nel pensiero del ginevrino Jean Jacques
Rousseau, autentico “santone” della Natura soprattutto umana, per il quale è
proprio la socializzazione degli uomini a corrompere l’originaria bontà naturale
dell’umanità. La tesi proposta dal Rousseau, però, non pare convincere, a meno
che la “socializzazione umana” sia dotata di poteri taumaturgici, grazie ai
quali può trasformare sostanzialmente la realtà oggettiva anche umana. La
convivenza – si argomenta a tal proposito - può ritenersi occasione (individualmente
sgradita, ma necessaria nei fatti) per lo svelarsi e il manifestarsi di aspetti
anche negativi, e persino aggressivi, connaturati nell’esistente umano. Tra
queste opposte concezioni - paradossali e, quindi, difficili a comprendersi e a
condividersi - si collocano molte altre visioni, che, ponendo l’accento su
qualcuno dei molteplici e diversi aspetti del problema, tentano di sostenere e
di dimostrare la multiforme e talora contraddittoria vita umana nel suo evolvere
e i conseguenti suoi comportamenti.
Appare maggiormente persuasiva e, quindi, più
facilmente condivisibile la proposta di coloro che ricercano e tentano di comprendere
le modalità e le problematiche riguardanti il naturale e ineludibile passaggio
generazionale, osservando e indagando i processi della «educabilità» dell’uomo
e della «sociabilità» dei popoli. L’uomo – si nota e s’argomenta - non nasce “uomo”
già fatto, ma “cucciolo” umano non ancora cresciuto e formato, ma che dovrà
crescere e formarsi – gradualmente e faticosamente - fino a divenire uomo sostanzialmente
«formato» mediante il superamento di ogni tappa della crescita globale in ogni dimensione
costitutiva l’integrale natura dell’esistente umano: dimensione fisica,
intellettiva, morale, sociale e politica. Ugualmente i popoli: affinché essi, da
agglomerati indistinti di anonimi individui umani, divengano “società di
cittadini” liberamente aggregati e responsabilmente impegnati tra loro,
dovranno «crescere e rinnovarsi» tempestivamente nell’acquisizione e nella
condivisione di comuni progetti di ordine civile, etico e, innanzitutto, giuridico,
per realizzare concreti progressi di bene comune. Il singolo e le società,
quindi, non nascono né esistono «hinc et nunc ex nihilo sui et obiecti», ma radicano
nel passato ereditato e vivono, grazie anche ad esso, il loro presente storico e
progettano il loro agognato futuro
ideale. Non c’è, quindi, presente solido e futuro credibile senza il passato capito
e accolto con il rispetto profondo richiesro e dovutogli. Ma è proprio l’ineludibile
legame vitale del presente col passato che sta alla base di antiche e recenti
discussioni.
Le nuove generazioni – avvertiva con fierezza
Francesco Bacone nel 1600, ripercorrendo le orme di una tradizione plurisecolare
- sono come dei nani sollevati e appoggiati
sulle larghe e robuste spalle di un gigante: i giovani, cioè, possono fruire . liberamente
e felicemente - delle conquiste scientifiche e di civilizzazione ottenute dall’impegno
e dal lavoro delle generazioni che li hanno preceduti e, ripartendo da esse, proseguono
e arricchiscono l’umano patrimonio scientifico
e culturale, consegnandolo più copioso e più fertile ai loro posteri. La
crescita civile e culturale dell’umanità, quindi, è una costruzione in diversi
tempi e a più mani destinata a uomini sempre più pronti ad abitare proficuamente
l’inesplorato e prezioso pianeta Terra e a convivere degnamente in solidale armonia
con i loro simili. Questa visione impastata
d’ottimistica positività s’infrange, però, davanti alla situazione emblematicamente
rappresentata in piena epoca illuministica dalla «Querelle des Anciens et des Modernes»: una un’inutile
polemica tra dotti per rivendicare e dimostrare la maggiore rilevanza dell’antichità
sulla modernità o il contrario. La cultura, quindi, vista come competizione da
superare e vincere e non come emulazione da ammirare col desiderio di migliorare
il presen te e il futuro. Atteggiamento,
questo, che rivela il dominio di un pericoloso individualismo, che nuoce al
singolo, che da solo non ha prospettive di fecondità, e alla comunità umana,
che resta impoverita.