Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

martedì 22 marzo 2016

PARTITI POLITICI: “MUTAZIONE GENETICA” O DETERIORAZIONE ETICO-GIURIDICA?


Su Il Foglio di giovedì scorso 17 marzo è stata proposta ai lettori un’interessante e articolata “chiacchierata con Giuliano Amato”, in cui l’ex premier e attuale giudice della Corte Costituzionale propone un’analisi delle vicende dei partiti politici nelle attuali situazioni sia dell’Italia e sia di altre parti del mondo; analisi in parte condivisibile, ma in parte suscettibile di osservazioni e di necessarie puntualizzazioni. E’ indubbio, infatti, che le società umane – proprio perché umane - mutano, che le generazioni si susseguono con caratteristiche proprie sempre nuove, che gli ordinamenti etici s’aggiornano, le istituzioni s’adeguano e, quindi, l’evoluzione anche dei partiti politici non è “né buona né cattiva: è semplicemente inevitabile, è l’unico modo per andare avanti”. 

L’insigne giurista parte da un dato oggettivo inconfutabile: in Italia e in altre nazioni europee (e non solo) si moltiplicano formazioni politiche nuove, s’assiste a inarrestabili travasi da uno schieramento all’altro, si stringono ibridi connubi fra forze antagoniste, divenute d’un tratto associate nella gestione del potere: sempre, ovviamente, con la dichiarazione di voler solo contribuire alla soluzione di problemi di “economia, di politica estera e di riforme costituzionali”. Tradotto in termini più espliciti: nell’attuale realtà politica delle Nazioni e degli Stati è ormai impossibile pensare a vecchi o nuovi partiti maggioritari oppure sperare in qualche coalizione pluripartitica stabile, cui affidare il governo. Non c’è posto, dunque, per un “centro di governo”, ai cui lati si collocano una “destra” e una “sinistra” minoritarie e destinate al loro ruolo insostituibile di opposizione critica e costruttiva. Il partito politico, pertanto, non è né può essere più quello previsto dall’articolo 49 della Costituzione italiana, ma diventa quello che, captando gli umori  delle varie fasce sociali del momento, propaganda progetti e promette riforme “buone”, mirando però all’incremento del proprio numero di elettori che andranno a votare. Calcoli, quindi, d’interesse partitico a beneficio solo di una parte  e, perciò, avulsi dal bene comune e indifferenti ai valori umani sottesi e alle finalità sociali da perseguire. 

E’ un’analisi improntata a trasformismo governativo e a pragmatismo politico, legittimi e rispettabili, ma che suscitano alcune perplessità riguardo soprattutto due punti. In primo luogo, infatti, è necessario stabilire quali sono – sempre e comunque – la ragion d’essere, la natura e il ruolo del partito politico in una repubblica democratica. Bisogna stabilire se esso è la risultante del libero e responsabile “concorso dei cittadini con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (articolo 49 della Costituione) oppure il risultato variabile e transitorio dei giochi tra i capi-partito. Preoccupano gli spettacoli quotidiani, in cui s’è costretti a confermarsi nella convinione che i partiti odierni mirano solo a imporsi contro tutto e contro tutti, attenti esclusivamente a demolirsi reciprocamente; e, quando lo spettacolo è meno indegno, appaiono sempre più inequivocabili due livelli sociali ben separati tra di loro: quello dei cosiddetti leaders che si denigrano, scommettendo a chi offende di più, e quello del popolo laborioso e serio, ormai disincantato e del tutto disinteressato alle umilianti e sconcertanti beghe partitiche. E’ necessario chiarire, quindi, se i partiti politici – nelle loro oggettive “mutazioni genetiche” storiche – si trasformano per la spinta di nuove esigenze del bene comune oppure vengono costruiti per calcoli settoriali e con tatticismi di dominio di alcuni settori, del tutto estranei ai problemi dei cittadini. 

In secondo luogo sembra necessario intendersi su cosa siano “centro, destra e sinistra” nella vita politica d’una repubblica democratica, intesa come potere del popolo, da parte del popolo, per il raggiungimento di finalità di bene comune. Tradotto in vita pratica, la democrazia è il “vivere insieme” nel rispetto della giustizia sociale e nella salvaguardia della libertà individuale e collettiva. Senza assiduo, attento e leale ascolto del popolo si rischia di “proporre e imporre” modelli di giustizia e di libertà forse belli e affascinanti, ma non aderenti alla realtà del popolo in un determinato momento storico e con particolari problematiche etiche e sociali. La vita politica veramente efficace ha bisogno di un “centro” inteso come punto di saggia e coraggiosa onvergenza delle istanze della “destra” e della “sinistra”, che, se lasciate in balìa di se stesse, la prima rimane puro cinismo (che può giungere a detestare la giustizia sociale e a svilire alcuni sentimenti umani) e la seconda si rifugia in un puro irrealismo (che – secondo l’insegnamento di Rousseau – preferisce sempre “ciò che non è a ciò che è”). 

Per quest’opera di mediazione culturale e politica essenziale la democrazia ha bisogno dei suoi tempi e dei suoi ritmi, che vanno sempre e comunque rispettati da chiunque sia chiamato al compito di governare. Solo così si governa in nome e per conto di tutti i cittadini, qualunque sia la loro fede politica. I cittadini, da parte loro, vanno necessariamente “educati alla politica” quale loro dovere di solidarietà pubblica, per divenire attori e protagonisti di politica e non rimanere individui “governati” perché bisognosi di guida e di sostegno. E il luogo naturale, dove i cittadini possono educarsi politicamente e agire attivamente nella società, è il partito politico. Non quello, però, mutato in associazione di interessi settoriali e privati a sostegno di precarie e mutevoli oligarchie partitiche, bensì come formazioni libere e animate da ideali ed energie sempre nuove e disponibili a ogni mutamento richiesto da realtà oggettive. Diversamente molti cittadini s’appartano, ma non per negligenza politica o insensibilità etica, bensì per salvaguardare la loro lucidità razionale e la loro libertà di pensiero: per proteggere, cioè, la propria dignità umana dalle insidie d’una politica ridotta a furbizia messa al servizio delle passioni di alcuni.

giovedì 17 marzo 2016

TEMPO DI DIRITTI E FORZA DELLA POLITICA

Pubblicato in Affaritaliani il 02.03.2016

Nelle ultime settimane s’è assistito in Italia a fatti veramente significativi, che hanno suscitato stupore e preoccupazione insieme. Mentre, infatti, in due diverse piazze numerosi cittadini esprimevano le ragioni e rivendicavano i diritti di due diverse concezioni di famiglia e di matrimonio, e mentre nella propria Aula Legislativa i senatori della Repubblica discutevano per raggiungere un accordo e legiferare al meglio sul riconoscimento dei diritti delle unioni civili omo ed eterosessuali, i capi dei partiti politici moltiplicavano e diversificavano la propria posizione, mutandone spesso, e talora anche sostanzialmente, le conclusioni, palesemente più motivati da tatticismi di carattere elettorale che guidati da fedeltà a valori morali e coerenza con principi giuridici. Salomonicamente è intervenuto il Governo, il Potere Esecutivo. Forse s’allungavano i tempi, di certo c’era la dichiarata incomprensibile urgenza di “portare a casa” anche questa legge: e allora, con l’arma della questione della fiducia, estorceva ai legislatori l’approvazione della “sua buona legge”, che doveva leggersi come “fatto storico”, in quanto venivano finalmente “concessi diritti alle coppie omosessuali che prima non avevano”; si tagliava, quindi, un “traguardo importante”, dato che era una “legge molto complessa e difficile, perché tocca le sensibilità di ogni parlamentare e che viene approvata dopo due anni e mezzo di discussione”.


Premesso che venivano riconosciuti i diritti delle “unioni civili” e, quindi, non solo delle “coppie omosessuali”, ma anche di quelle eterosessuali, eliminando finalmente la discriminazione anticostituzionale fatta sull’orientamento sessuale, s’impongono almeno due osservazioni. In primo luogo: i “diritti” non vengono mai concessi da alcun potere democratico, ma debbono essere da esso solo riconosciuti e garantiti, soprattutto mediante l’eliminazione degli ostacoli, che ne impediscono la fruizione, com’è il caso delle unioni civili, stando ai pronunciamenti della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione e persino della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In secondo luogo: la politica governativa rivendica quotidianamente d’essere protagonista d’una luminosa e florida stagione di riforme e di diritti sociali e civili, con attenzione particolare alle classi più indifese e meno abbienti. La realtà, però, mostra un Esecutivo piuttosto timido, sempre disponibile ad accordi minimali, pur di poter sostenere di “aver fatto” qualcosa e di aver realizzato con i fatti riforme dai predecessori sempre annunciati e subito dimenticati.

Mancando di lungimiranza politica e non avendo la cultura del rispetto di tutte le minoranze (anche se scomode), il Governo in carica rischia di rimanere ostaggio di compromessi, che sfociano con certezza in controversie e rancori. Ed è il caso della legge sulle unioni civili da poco approvata. Infatti, lo stralcio dell’adozione dei figli del partner probabilmente dimostra capacità di mediazione politica, ma certamente testimonia mancanza di audacia ed energia governativa. I campi della scienza, della morale e della politica sono e debbono rimanere intrinsecamente separati. Ciò che scientificamente è possibile, non è automaticamente lecito in morale, né la politica deve rimanerne succube. L’adozione del figlio (ovviamente già in vita) del partner non ha nulla a che fare con altre pericolose immorali pratiche riproduttive che si chiamano in causa più o meno in buona fede. Tocca, quindi, alla politica mostrare il coraggio di definire con rigore ogni ambito, sbarrando ogni abuso e smascherando ogni furbizia. Il riconoscimento e l’affermazione di nuovi diritti pesano sull’ordine sociale esistente, ridistribuiscono poteri, rimodulano princìpi e norme. A chi governa il compito di produrre norme tempestive e chiare:  a ogni minore esistente deve garantirsi il diritto di una vita degna d’ogni uomo; è veramente doveroso, allora, svelare l’ipocrisia, con cui si giustifica lo stralcio concordato e accettato sulle adozioni del figlio del partner, chiamando in causa l’interesse dei minori, i quali, invece, resteranno vittime d’una sopraffazione, che è vera riesumazione della discriminazione tra figli legittimi e figli nati fuori dal matrimonio, civilmente e felicemente eliminata quarant’anno fa.

Indubbiamente la società è una struttura complessa e articolata, nella quale i singoli individui, inserendosi in sistemi relazionali già preesistenti e consolidati, operano ciascuno secondo la propria posizione e il proprio ruolo, al fine di perseguire il soddisfacimento di ben definiti bisogni comuni, pianificati nelle istituzioni. Tuttavia, la società umana non è qualcosa di astratto e ideale, ma una realtà storica concreta, costituita da generazioni umane diverse che convivono, si susseguono e si rinnovano; per questo essa si pone e si realizza come un organismo vivente e in continuo divenire, che si modifica perennemente, progredisce con gradualità sia materialmente che moralmente, salvaguardando ciò che in essa è e resta oggettivamente valido per tutti e acquisendo, nello stesso tempo, ogni novità utile e positiva per l’intera comunità. Considerare la società diversamente, come un insieme di strutture stabilite una volta per tutte e immutabili, significherebbe mitizzarla o addirittura deificarla, illudendosi di poter contenere e costringere nei suoi archetipi i sempre nuovi insorgenti dinamismi della vita sociale. La solidità e la stabilità d’una società si fondano, pertanto, sulla sua reale capacità di operare con rinnovata efficacia e con continuità, al fine di produrre risultati apprezzabili e vantaggiosi per tutti.

Questo dinamismo intrinseco d’ogni società provoca continui movimenti per il riconoscimento di nuovi diritti richiesti per la soddisfazione di  nuovi bisogni o di singoli o di gruppi. E non è un’operazione sempre facile e indolore. Talora, infatti, è un processo che richiede la demolizione di modelli culturali saldamente consolidati oppure esige l’ammissione almeno giuridica di istituti, che contrastano col senso comune dominante. In questo caso c’è bisogno di una prudente negoziazione socio-culturale, con cui si armonizzi gradualmente l’esistente con il nuovo, giustificando ragionevolmente e adattando cautamente le rispettive categorie mentali e morali.

E’ l’odierno caso italiano del riconoscimento dei diritti delle cosiddette unioni civili, che coinvolgono la visione degli istituti della famiglia e del matrimonio, oltretutto già acquisiti nostra Carta costituzionale del 1946 con i mutamenti sostanziali e rivoluzionari per quei tempi. Infatti, con il dettato dell’articolo 29, concordato dopo un lungo confronto e serrate discussioni tra i costituenti, fu eliminato il ruolo assolutamente maschilista ed egemone del padre di famiglia e riconosciuta la pari dignità morale e giuridica della madre di famiglia, rendendo la comune genitorialità unica responsabile del rispetto verso l’eventuale figliolanza. Ovviamente l’istituto del matrimonio e la concezione di famiglia  ne rimasero talmente coinvolti e trasformati che tuttora non è agevole stabilire chi e che cosa ne fondano la legittimità: se la filiazione legittima o la fedeltà reciproca o l’indissolubilità del legame o gli aspetti patrimoniali, considerato che l’adozione del divorzio e della separazione dei beni hanno svuotato il contenuto di queste categorie. Da ciò consegue chiaramente che l’istituto socio-giuridico del matrimonio non corrisponde più a una categoria ben definita, per cui non è impossibile, ma si può e si deve trovare la soluzione giusta ed equilibrata che consenta anche la legittimazione giuridica d’un legame socio-affettivo tra due persone, che ne facciano richiesta, nel rispetto del dettato dell’articolo 3 della Costituzionale, cioè nel rispetto della “pari dignità sociale e l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.


domenica 6 marzo 2016

“LEZIONE” DAL PASSATO PER UN “RIFORMISMO NON IDEOLOGICO”


Un antichissimo adagio recita: la storia è maestra di vita. Qualcuno, per esperienza o per burla, lo traduce: la storia  ha insegnato e insegna che gli uomini da essa non hanno imparato e non vogliono imparare mai nulla. Considerando, infatti, come viene considerato, giudicato e rispettato il passato, sia nei suoi aspetti negativi che nei suoi apporti positivi, non si può negare che la storia, da scrigno prezioso di saggezza e di esperienza, è trattata spesso come vecchio ripostiglio ingombro di oggetti inutili e spesso di ostacolo. Si valutano, pertanto, e si esaltano progetti futuribili belli e accattivanti, ma che sembrano spesso sradicati dalla realtà concreta, più volatili delle radici aeree. Progetti, tuttavia, che, se validamente sostenuti da  responsabile disponibilità a fruire - come si sostiene nell’articolo allegato -  di “ competenze che ci sono e attingendo al capitale inestimabile dell’esperienza in casa e fuori”, sarebbero veramente conquiste di valori umani e di traguardi di sviluppo sociale.

Nel “Domenicale” de Il Sole24Ore di qualche settimana fa è apparso uno scambio di corrispondenza tra Adolfo Battaglia e Roberto Napoletano dal titolo “La lezione italiana di un riformismo non ideologico”. I toni eloquentemente pacati, i contenuti esposti con sintesi magistrale, il suggerimento a riflettere e a nutrire una qualche pur timida speranza, fanno dello scritto qualcosa che merita d’essere letto,. E soprattutto d’accettarne la “lezione”

Lettera di Adolfo Battaglia

Caro Direttore,
la sua nota sul senso e l’importanza dello schema Vanoni pubblicata nello scorso Domenicale ha il raro merito di puntualizzare la trama politico-culturale che la nostra storiografia normalmente trascura e che è invece uno dei pochi pilastri solidi su cui si è retto lo Stato repubblicano per alcuni decenni. Nella concretezza del riformismo italiano stanno certamente uomini e forze dalle posizioni per tanti altri versi differenti. E accanto a De Gasperi, Einaudi, Vanoni, Saraceno, Ugo La Malfa, Ciampi vengono anche i Menichella, i Siglienti, i Cosciani, i De Gennaro, i Visentini, i Giordani; e perfino, in tempi differenti e per obiettivi differenziati, Fanfani e Moro, che realizzeranno in verità i due soli governi realmente riformatori avutisi in cinquant’anni (in ambedue, vedi caso, aveva un peso La Malfa).

Quella linea richiama senza dubbio alla dirigenza dell’IRI e della Banca d’Italia negli anni ’30-60; ma anche al grande turmoil keynesiano, generatore delle esperienze riformatrici americane e nord-europea. In Italia, occorrerebbe ripensare a Beneduce, al Nitti di inizio secolo, alla comprensione della struttura economico sociale moderna che fu nel ’24-26 dell’ultimo Amendola, fino al “Socialismo liberale” di Rosselli. La storiografia ha difficoltà a compiere un salto che implica la visione di una linea del riformismo italiano a prescindere da posizioni e da ideologie dei partiti. È un fatto invece che quella linea esiste ed è esistita nella concretezza delle opere di governo, come il portato di un sentimento democratico, e di una cultura economica largamente comune, aldilà di ogni teoria generale. Ed è sull’aggiornamento e sulla innovazione di quella trama riformatrice che le presidenze di Carlo Ciampi e di Giorgio Napolitano sono riuscite a salvare il Paese. Pensa che sarebbe male se oggi l’opera di governo si ispirasse di più a una tradizione così ricca? Adolfo Battaglia

Risposta di Roberto Napoletano


Adolfo Battaglia rivela i segni della sua storia politica repubblicana, dimentica qualcuno tra gli uomini del fare del miracolo economico italiano, penso a Gabriele Pescatore, e loda a ragione come riformatori i governi Fanfani e Moro di “impronta lamalfiana”, ben distanziati tra di loro, ma dimentica ciò che di buono è venuto ancora un bel po’ dopo: la stagione della politica dei redditi dell’esecutivo Ciampi e il primo governo Prodi che vinse la battaglia dell’euro, entrambi vanno di diritto considerati dentro quell’alveo di riformismo non ideologico che ha dimostrato di saper coniugare visione politica e buona amministrazione, di fare le cose, custodendo negli anni i cromosomi delle persone perbene e lo spirito forte della Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa.

Soprattutto Battaglia ha ragione da vendere quando chiede al governo Renzi, che dimostra coraggio politico e capacità di azione ma eccede a volte in semplicismi e sicurezze di risultato, di attingere al capitale di valori della tradizione di governo più bella e ricca del Paese. Negli anni della ricostruzione e del miracolo economico italiano intelligenza tecnica, riformismo cattolico e cultura laica si seppero intrecciare positivamente e riuscirono a trasformare un Paese agricolo di secondo livello prima in un’economia industrializzata poi in una potenza economica mondiale. I De Gasperi, i Fanfani nell’età dell’oro italiana non rinunciarono mai al capitale della esperienza e della competenza, vollero intorno a sé uomini del fare del calibro di un Menichella, che come governatore della Banca d’Italia fece vincere alla lira l’oscar mondiale delle monete, e di un Pescatore, chiamato alla guida della prima Cassa del Mezzogiorno organizzata come un’agenzia americana di sviluppo, che tennero sempre fuori la politica dalle scelte di gestione, unirono le due Italie con gli acquedotti, le dighe e le strade, riuscirono a portare in casa i primi soldi esteri fino ad arrivare a raddoppiare il prestito Marshall. Per capire di che pasta erano questi uomini è sufficiente ricordare che quando andarono in America a raccogliere risorse per l’Italia, impresa che riuscì alla grande, si imposero di consumare un solo pranzo frugale al giorno perché nessuno potesse nemmeno pensare che erano andati a fare baldoria con i dollari che avrebbero dovuto raccogliere per contribuire a ridare una casa e un lavoro agli italiani.

Che cosa dire, poi, dei discorsi parlamentari di Ugo La Malfa quando metteva in guardia dai rischi di un eccesso di regionalismo che avrebbe moltiplicato i capi di gabinetto, i direttori di divisione e di sezione, avrebbe elevato al cubo le clientele e smarrito, di fatto, la capacità realizzativa, cioè, la qualità di fare le cose giuste con la velocità giusta? Quella storia di malaffare, profeticamente paventata dal “realismo visionario” di La Malfa, si verificò puntualmente, determinò quasi sempre la paralisi e si intrecciò, spesso, rovinosamente con un capitalismo lazzaronesco-feudale e una politica corrotta. Le macerie di questa storia di immobilismo e di clientele sono arrivate fino ai nostri giorni: a decidere di fare un tentativo serio di rimuoverle, per la prima volta, è stato proprio il governo Renzi riformando il Titolo V con il suo carico di distorsioni e di corruzione. Ancora una volta la scelta compiuta è quella giusta, e ne va reso merito, ma perché si traduca poi in atti concludenti ci vogliono ancora un paio di passaggi e proprio lo spirito e l’orgoglio di quegli uomini che hanno scritto la trama politico-culturale del miracolo economico italiano, la stessa fame di fare e cambiare le cose e la stessa, identica, voglia di affrontare e risolvere i problemi senza un approccio ideologico, puntando a unire non a dividere, seguendo le competenze che ci sono e attingendo al capitale inestimabile dell’esperienza in casa e fuori.


giovedì 3 marzo 2016

SENZA PARTITI (VERI) NON C’E’ POLITICA DEMOCRATICA (VERA)

Pubblicato su Affaritaliani il  23 febbraio 2016

Lo spettacolo che sta dando il mondo della politica italiana non è certo dei più esaltanti, anzi è di livello talmente deludente che spinge a riflessioni attente, per poter valutare oggettivamente e con responsabilità ogni circostanza. Infatti, sembra che regnino – sia nelle strutture partitiche sia negli organismi istituzionali legislativi e di governo – uno smarrimento generale e un’incontrollata frettosa premura di salvaguardare gli interessi di parte, probabilmente anche legittimi, ma certamente avulsi dalle reali esigenze del bene comune. 

Certo, come tutte le organizzazioni sociali, anche i partiti attraversano momenti di floridezza e momenti di fiacchezza, determinati o da infondate interpretazioni dei disagi della società o da inadeguatezza dei leader del momento oppure da comportamenti suggeriti più da tattica partitica che da strategia politica. Il malessere e il disagio aumentano, poi, allorquando i partiti giungono a occupare spazi pubblici non propri, fino a impadronirsi delle istituzioni e abusarne. Allora ne consegue la loro delegittimazione, smarrendo sempre di più il contatto vitale con i cittadini, i quali, non vedendone l’utilità, nutrono e accrescono i latenti sentimenti di antipolitica, fino al qualunquismo e all’assenteismo. S’impone, allora, l’urgenza di riannodare il legame società-politica-istituzioni, ricollocando ciascuno nell’alveo del proprio spazio, secondo le funzioni e i ruoli propri. Il problema non si risolve, però, riconoscendo e denunciando lo scollamento tra politica e base popolare. Devono, invece e in primo luogo, rinnovarsi i partiti, riconquistando la loro natura originaria, servendosi d’ogni mezzo nuovo messo a disposizione dall’evoluzione e dal progresso: cioè devono tornare ad essere aggiornati e validi strumenti di partecipazione dei cittadini e non costruzione di classi a loro ostili.


E i partiti politici, pur nella loro molteplicità talora eccessiva, sono insostituibili per una politica veramente democratica. Il popolo d’un Paese libero si munisce sempre di forme associative, mediante le quali vive e agisce nella vita politica da soggetto responsabile e attivo; così come è ovvio che ogni governo, che voglia essere democratico, esercita il potere nel rispetto morale e con l’ausilio delle rappresentanze sociali territoriali, prime fra tutte i partiti politici e le organizzazioni sindacali. Indubbiamente non mancano vie alternative per una partecipazione politica, ma i corpi territoriali intermedi, liberamente organizzati e abilmente diretti, garantiscono con maggiore efficacia molte opportunità, tra cui due veramente fondamentali: quella d’individuare decisioni concrete e pertinenti al bene comune e quella di preparare il ricambio della classe politica con soggetti validi e capaci. 


Questo è confermato dalla storia e sostenuto da studiosi esperti. Alla fine del primo conflitto mondiale, per esempio, il giurista James Bryce sostenne categoricamente: “Nessun grande paese libero è stato senza i partiti. Nessuno ha mostrato come un governo rappresentativo possa operare senza di essi. Essi creano l’ordine dal caos di una moltitudine di elettori”. E dopo le sciagure della seconda guerra mondiale, i nostri Padri Costituenti hanno stabilito concordemente: “L'Italia è una Repubblica democratica” (art, 1), per cui, dovendo “riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali” (art. 2), hanno riconosciuto ai cittadini il “diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale” (art. 18), concludendo con l’articolo 49, in cui hanno indicato i partiti politici come il luogo naturale dove i cittadini si riuniscono e si confrontano liberamente, “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. 

E’ nei partiti, quindi, che i cittadini elaborano liberamente idee proprie, lontani dal rischio di rimanere ostacolati o addirittura fuorviati da pericolosi giochi politici. Non pare, quindi, sia stato un gesto di pura formalità il richiamo che il Presidente Mattarella ha rivolto al Parlamento nel suo discorso d’insediamento: “La strada maestra di un Paese unito è quella che indica la nostra Costituzione, quando sottolinea il ruolo delle formazioni sociali, corollario di una piena partecipazione alla vita pubblica”. E, manifestando preoccupata attenzione al mutamento dei tempi, annotava che “la crisi di rappresentanza ha reso deboli o inefficaci gli strumenti tradizionali della partecipazione”, divenuti ormai un forte ostacolo per il dispiegarsi delle energie del paese, per cui s’impone una riconsiderazione e una ristrutturazione delle rappresentane sociali e soprattutto dei partiti e delle forze sindacali.


E’ evidente che in Italia i partiti politici  attraversano ormai da qualche decennio una profonda crisi, mostrando sempre di più d’aver smarrito la ragion d’essere assegnata loro dalla Costituzione.  Da organizzazioni libere di cittadini liberi sono diventati associazioni d’interesse privato, sia elettorale sia economico e sia di potere; non operano più come laboratori di progetti d’interesse generale, ma come fucina di personalismi decisionisti; non vivono più come presidio di dialogo aperto tra cittadini benpensanti, ma come colonia di leader da ascoltare e ubbidire. Faticano a riconoscere e denunciare che la causa profonda della loro crisi è ancora più drammatica: è la loro intrinseca incapacità di darsi un ordinamento interno e un metodo di interconnessione reciproca, causata dalla sempre più massiccia personalizzazione del potere, incarnata nel leader del momento.


La personalizzazione dei partiti s’è rivelata ancor più incisiva, da quando il medesimo leader occupa la guida d’un partito (che ha compiti di progettazione e di programmazione) e nello stesso tempo presiede la massima istituzione del potere esecutivo (ovviamente controllandola). Con la legge 400 del 1988 l’Italia s’è dotata d’un Presidente del Consiglio dei Ministri con prerogative e competenze adeguate ai suoi poteri esecutivi; gradualmente, con successivi procedimenti di riforme sostanziali, la Presidenza del Consiglio è divenuto di fatto il fulcro operativo dell’attività dell’intero governo, sul piano sia organizzativo e sia legislativo. E’ utile ricordare, inoltre, che il rafforzamento dei poteri del Primo Ministro italiano ha coinciso con il progressivo spostamento di una vasta serie di funzioni normative dal Parlamento all’Esecutivo. E tutto ciò è avvenuto nei tempi della grave crisi dei partiti tradizionali, offrendo, così, ai Presidenti del Consiglio l’opportunità di servirsi d’ogni occasione per consolidare il partito d’appartenenza o di formarsene uno proprio. Ma il tempo scorre, e tutto o cambia o viene travolto: ogni assetto sociale, politico, istituzionale. La divisione dei poteri, la separazione tra governanti e governati, la diversità controllori e controllati non sono invenzioni astratte, ma insegnamenti concreti che la storia millenaria dell’umanità consegna ai nuovi tempi. Alla saggezza e all’onestà degli uomini farne buon uso.