Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

domenica 1 gennaio 2006

Traduzione, introduzione e cura di GASPARE SCIOPPIO, L’angelo della pace. Modi e regole per comporre il dissidio religioso tra Cattolici e Protestanti


Si propongono alcuni brani del lavoro, che possono mostrare la natura ed il progetto dell'opera.
NOTA AL TESTO
L’Angelus pacis sive de modis et rationibus dissidii Religionis inter Catholicos et Protestantes componendi GASPARIS SCIOPPII commentarius è conservato tuttora manoscritto nel fondo scioppiano della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, contrassegnato come “Codice Scioppiano, n. 248”. L’opera fu redatta nella sua stesura definitiva a Padova nel 1648, pochi mesi prima della morte dell’Autore. Si ricava dalla corrispondenza – pure ancora manoscritta e inedita, raccolta nel medesimo fondo nei codici nn. 219, 220 e 225 - che Scioppio andava già cercando con molto impegno e con vivo interesse il tempo e il luogo più adatti e i mezzi necessari per pubblicarla, ritenendo l’opera di grande valore in sé, perfettamente rispondente agli obiettivi perseguiti in tutta la sua vita di studioso e di diplomatico, significativamente importante nel contesto politico e religioso dell’Europa degli anni conclusivi della guerra dei Trent’anni.
L’opera è costituita da 153 fogli, minutamente scritti sul recto e sul verso, in perfetta lingua latina intercalata con parole o brevi passi in lingua greca e tedesca. L’autore distribuisce tutta la materia in sette parti, suddivise in 85 capitoli complessivi (numerati con cifra romana) e precedute da un piccolo brano da noi definito “Prefazione”. In realtà i capitoli sono 84, poiché lo Scioppio, nella divisione fatta sicuramente a lavoro definitivamente concluso, segna “Capitolo L” in basso sul verso della pagina 79 e “Capitolo LI” all’inizio sul recto della pagina 80, non accorgendosi d’aver tralasciato d’inserire l’eventuale testo o comunque di non aver corretto la numerazione.
Il lavoro costituisce un discorso organico e argomentato, composto a guisa di un vero tessuto intrecciato fittamente di fili dell’ordito (documentazione e interpretazione biblica) e di fili della trama (il pensiero politico e religioso): quasi un mosaico di pregevole fattura, che testimonia nello scrittore una straordinaria padronanza di tutti i testi delle Sacre Scritture e una consumata perizia a sistemarli secondo un disegno logico difficilmente intaccabile, grazie anche alla sua diretta conoscenza dei problemi delle Chiese cristiane e degli Stati europei in generale e tedeschi in particolare.
Ne risulta, però, un libro di lettura spesso faticosa e talora anche difficoltosa, a causa soprattutto delle numerosissime e frequentissime citazioni e della struttura stessa del testo, tra l’altro privo dell’utile guida di titoli delle parti e dei capitoli o d’altri opportuni indicatori. Quindi, pur restando costante la nostra preoccupazione di mantenere il più possibile invariato il testo originale al fine di conservarne intatta l’impronta diretta, tuttavia si sono fatti gli interventi ritenuti utili per precisarne gli aspetti formali e per fornire migliori opportunità di comprensione dei contenuti stessi. Pertanto si sono soppresse le sottolineature e le citazioni dirette dalla Bibbia, rese per lo più in procedimenti discorsivi indiretti; si sono, poi, riunite in “note di chiusura” alla fine dei capitoli o alla conclusione di discorsi a nostro avviso di senso organicamente compiuto, tutte le relative indicazioni documentarie e bibliografiche, che, lasciate secondo la disposizione e la collocazione testuale originali, potevano disturbare la lettura. S’è operata una scelta antologica del lavoro, tralasciando capitoli interi o parti di singoli capitoli (contrassegnando l’omissione con punti sospensivi), preoccupandoci di consentire un approccio solido al pensiero politico dello Scioppio e una conoscenza ampia e concreta delle sue aspirazioni ireniche, tese anche all’instaurazione d’un ordine sociale fondato sulla giustizia. A tal fine, s’è pensato che tornasse utile pure fornire titoli ai singoli capitoli, il più possibile rispondenti al loro contenuto e alla maggiore comprensione dello sviluppo di tutta la dissertazione.
Per la stesura della nostra Introduzione abbiamo utilizzato anche alcuni documenti (lettere e vari appunti sparsi) trovati manoscritti nel fondo scioppiano della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, e tuttora conservati nei codici 216, 217, 219, 220, 225, 236 e 255. Siccome qualche volta si tratta di biglietti volanti, si darà notizia volta per volta della natura del documento, della sua collocazione e della datazione ricavata o attribuita. Sono stati utilizzati, perché ritenuti particolarmente utili e significativi per gettare luce sulle reali intenzioni di varie iniziative culturali e sulla natura di alcuni interventi politici di Scioppio.
QUARTA DI COPERTINA
Grazie alla sua formazione classica, Gaspare Scioppio conosce e frequenta alcuni insigni umanisti del suo tempo; così, viene prestissimo a contatto con i più importanti ambienti europei (soprattutto tedeschi e italiani), nei quali si decidono gli orientamenti culturali e si operano le scelte operative, che segnano la storia dell’Impero e dei Principi tedeschi, del Papato romano e delle Chiese riformate. Acquisisce una seria e robusta conoscenza dei problemi giuridici e politici, che sono sottesi dalle diverse dottrine teologiche e dalle opposte rivendicazioni ecclesiastiche soprattutto delle religioni cristiane; studia criticamente le opere di Baronio e di Bellarmino, di Giacomo I e di Campanella, di Grozio e di Casaubon, di Sarpi e di Micanzio. Convinto sostenitore del ruolo storico del sacro romano impero germanico, fino alla pace di Praga (1635) difende le ragioni di Ferdinando II degli Asburgo ora opponendosi ora dialogando con il mondo tedesco, con Roma, con Venezia, con Londra e con la stessa Spagna. Successivamente e fino alla morte (1649), le esperienze della sua vita privata e pubblica, l’evoluzione delle vicende politiche internazionali, l’esito delle azioni belliche, lo stesso approfondimento d’importanti temi giuridici e teologici inducono lo Scioppio a riconsiderare le sue posizioni dottrinali e i suoi rapporti con i protagonisti della storia europea del tempo. S’avvicina, così, alle idee moderate del latitudinarismo anglo-veneto e indaga sotto altra luce le cause dei dissidi che avevano generato le guerre di religione. Persuasosi della bontà e della verità del movimento irenico, s’impegna e opera anch’egli per la rappacificazione delle chiese cristiane, base necessaria del desiderato rinnovamento morale e riordinamento giuridico e politico. Dedica a questo fine numerose opere, i cui significativi contributi lo collocano a giusto titolo tra gli spiriti più impegnati nel movimento irenico anglo-veneto. Frutto maturo e conclusivo di quest’impegno è l’Angelus pacis del 1648 (mai pubblicato) , da cui sono tratte le pagine antologiche qui presentate per la prima volta in lingua italiana.
La vera via alla pace, insomma, non sarà quella della polemica, tendente a far trionfare a ogni costo la propria parte, ma sarà quella della critica che riesce a trovare i punti fermi della reciproca concordanza, oltre ogni inutile e deleteria divergenza preconcetta
(E. DE MAS, L’attesa del secolo aureo, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1982).
INTRODUZIONE
Il 24 ottobre 1648 la Francia, la Svezia, l’imperatore e gli stati del sacro romano impero germanico firmavano la pace di Vestfalia. Come conseguenze politiche più immediate e maggiormente rilevanti scaturirono da una parte la condizione di grave impotenza in cui vennero ridotti l’imperatore e la dieta e, dall’altra parte, le nuove forme d’autonomia e di indipendenza dei principi tedeschi. Per il futuro l’imperatore avrebbe dovuto dedicare le sue cure solo ai domini ereditari orientali degli Asburgo; e i pochi principi rimasti potenti si sarebbero dovuti impegnare a consolidare il proprio regno in modo da sostenere le pesanti situazioni di serrata concorrenza nell’intero sistema degli stati europei. Inoltre, terminava finalmente l’intreccio di interessi politici e di motivi religiosi, dal quale si erano generate nel passato quasi tutte le situazioni di contrasto e le occasioni di controversie.
Il conflitto, che era durato trent’anni seminando ogni forma di calamità, evidenziò con tutta chiarezza la gravità e la reale portata dei pericoli, che l’egemonia assoluta d’un’unica potenza comportava per l’Europa intera: pericoli che potevano e dovevano essere evitati, ricorrendo a ben mirate concertazioni diplomatiche, lasciando come estremo mezzo il ricorso alla guerra. Pertanto, la guerra dei Trent’anni può considerarsi l’ultimo conflitto di dimensione europea, in cui interagirono pesantemente cause di natura anche religiosa; e Gustavo Adolfo fu sicuramente l’ultimo grande sovrano che poté unire religione e politica di potenza. La Francia di Richelieu incrementava sempre maggiormente il principio secondo cui il bene comune e l’interesse dello stato dovevano costituire l’unico fondamento e la vera giustificazione di qualunque iniziativa politica e azione militare. Questo principio, tuttavia, giunse a maturazione solo quando sia i cattolici sia i protestanti si convinsero che non si doveva riconoscere alcun valore alle proteste del Papa e della curia romana contro eventuali clausole di patti e trattati, che recassero qualche nocumento alla chiesa cattolica. Essa, infatti, pur in tutto il suo storico valore, ormai rappresentava solo una parte; e, come tale, poteva e doveva anch’essa sedere ai tavoli delle concertazioni, subordinando sempre le proprie richieste agli interessi della totalità. Veniva definitivamente rigettata come illegittima e prevaricatrice la rivendicazione d’un’autorità religiosa sovranazionale, che pretendesse di interferire in qualche modo nelle questioni di stato.
Nei medesimi giorni della firma del trattato di Vestfalia, Gaspare Scioppio scriveva in una sua lettera:
“Io ho cose importantissime per la pace e la tranquillità di Germania. Ma non le posso publicar ancora, per non impedire le utilità grandissime, che daranno a tutta la christianità li miei libri come siano stampati e letti ancora in Italia e Spagna, dove sarebbono proibite tutte le mie opere, se io prima publicassi le cose pertinenti alla pace di Germania. Le quali però vorrei communicare col S. Cristofor Forhero, acciocché lui nella prima Dieta dell’Imperio ne faccia ben capaci li Principi Protestanti. Che qualcheduno di Principi per servizio publico facesse a spesa sua stampar in Hollanda le mie opere (…). Maggior danno al Papa e li suoi preti e Frati non si può fare in questo mondo, ne dispor meglio li animi di tutti i Christiani ad una fraterna carità et pace: mostrando io tutto quello che con buona conscienza si può e si deve fare verso quelli, che havendo un istesso fondamento della fede, sono poi d’opinioni differenti circa li altri capi della dottrina”.
Sicuramente faceva riferimento all’Angelus Pacis, nella cui stesura aveva “occupato l’anno che sta ormai trascorrendo” (1648); a suo parere “è un libro che, se non m’inganno del tutto, voi che state costì giudicherete d’un’utilità da non disdegnare affatto per la vostra Republica” , e che comunque “se non m’inganna la S. Scrittura, farà meraviglioso effetto” . A gettare luce sulle posizioni dello Scioppio, è utile considerare quanto scriverà in un’altra sua lettera successivamente, qualche mese prima di morire. E’ una lettera in cui vengono affrontati problemi di politica internazionale e questioni di strategia diplomatica; infatti, al barone di Deghenfold che gli chiedeva consigli e suggerimenti da proporre al Re Giovanni di Portogallo, che stava valutando la possibilità di un’impresa contro i Turchi, lo Scioppio, dopo aver elencato sette considerazioni ritenute urgenti e necessarie, rivolge questi ammonimenti:
“Sarà necessario avvertire il Re di Portogallo, che questa impresa s’ha da trattare con molta servatezza senza communicar niente con persone dependenti dalla Corte di Roma, che non sono buone se non à guastar simili imprese, massime li Giesuiti, che indrizzando ogni cosa alla Monarchia del loro Generale, con le prattiche loro rovinano li Principi e li regni, si come à me basta l’animo di far chiaro, che la rovina di casa d’Austria e quasi di tutta la Germania non deriva da altro che dall’avarizia et ambizione de Giesuiti: V.S. può raccomandar la degn.ma persona del nostro s.r Barone per tal impresa, il quale facil.te troverà huomini atti alla guerra e prattichi de paesi e delle lingue, de quali si potrebbe il Re servire senza Frati o Preti. E se il s.r Residente volesse venir qua, gli potrei a bocca dir molte cose à proposito, che sarebbe troppo scommodo à metterle in scritto”.
Sedici anni prima, però, nella lettera inviata a Giovanni Francesco Gandolfo, vescovo d’Alba, lo Scioppio, essendo stato informato della condanna da parte del Santo Uffizio a Roma di due sue opere , aveva sostenuto con ferma determinazione:
“Quanto più rifletto per persuadermi che si tratti di cosa vera, tanto meno riesco a convincermi. Infatti, conosco molto bene i sentimenti del mio animo: come ho fatto costantemente ormai da trentacinque anni e continuerò a fare ugualmente in futuro fino al mio ultimo respiro, non mi rifiuto di difendere, con l’aiuto di Dio, la dottrina della sacra Chiesa romana e la dignità della Sede apostolica, dovessi anche attirarmi l’odio del mondo intero o versare il mio sangue. Del resto io non sono così sconosciuto al Sommo Pontefice da avere difficoltà a dimostrargli che io brucerò non solo tutti i miei libri quanti essi siano, ma anche la stessa mano destra piuttosto che avere l’intenzione di scrivere consapevolmente e proporre agli altri qualcosa che non sia in accordo con le Sacre Scritture o con le deliberazioni dei Concili celebrati in conformità alle leggi o con il pensiero unanime dei Santi Padri o, infine, con le clausole della Chiesa Romana”
e conclude con tutta sincerità, almeno per quanto è possibile intuire:
“Tuttavia, non essendoci nulla che possa farmi accusare in coscienza, ho invece motivo di professare nei miei confronti quello che afferma l’Apostolo quando dice: per me il bene è morire piuttosto che permettere che qualcuno distrugga la mia gloria. E la mia gloria è questa: che undici masnadieri e assassini mandati da Madrid, dopo avermi colpito e inferto molte ferite, dopo avermi steso a terra e abbandonato come morto, per dichiarare il motivo e il titolo della mia uccisione e per proclamare la magnanimità del loro gesto, proferiscano queste parole, congratulandosi reciprocamente: ‘Bene, abbiamo reso il nostro doveroso omaggio a quel gran papista! Abbiamo reso il nostro doveroso omaggio a quel gran papista!’. Ecco, dunque! Con l’aiuto di Dio, io vivrò da papista, e morirò da papista: e tutti i miei denigratori farisei e ipocriti schiattino d’invidia!” .
Facendo riferimento a questi documenti tuttora inediti, si possono considerare, in linea di massima, due periodi nelle posizioni dottrinali che ispirano la lunga e intensa attività diplomatica di Scioppio; e si può porre come data di demarcazione l’anno 1635, cioè l’anno della pace di Praga, che segna l’inizio delle profonde delusioni culturali e dei gravi fallimenti politici di Stati fino allora uniti e sorretti dai comuni intendimenti. Infatti, l’obiettivo dell’unificazione dell’Europa non era stato abbandonato completamente; e a prevedere e desiderare un imminente futuro diverso per tutta l’Europa non erano solo alcuni sparuti utopisti, come Campanella che vagheggiava la restaurazione di una monarchia universale. Addirittura, dalla battaglia della Montagna Bianca fino almeno alla pace di Praga, la possibilità concreta di ricostruire l’unità dell’impero sotto la potente egemonia degli Asburgo sull’Europa continentale sembrò vicina e certa, come non lo era mai stata sin dai tempi delle grandi vittorie di Carlo V. Anche lo Scioppio, pertanto, non era riuscito a capire quanto fosse anacronistico da un punto di vista politico impegnarsi e lavorare per la ricostruzione dell’Impero, benché fosse un’idea ancora ben radicata nella coscienza dei contemporanei quasi come un mito. L’Impero era senza dubbio imponente; ma ormai era ridotto a un agglomerato informe di popoli diversi per tradizioni, lingua, cultura, organizzazione politica; soprattutto mancava geograficamente di una valida e indispensabile continuità territoriale. L’unico vincolo tra tante regioni diverse era costituito dalla figura e spesso soltanto dalla persona dell’Imperatore.
Però, le nuove realtà politiche europee da tempo avevano indicato chiaramente che il futuro apparteneva alle monarchie nazionali, fortemente accentrate e in sé ben compatte; l’Impero, invece, era grande e disarticolato, per cui si presentava come un retaggio del passato e non più come una possibilità prospettata in un futuro capace di ridargli vita nuova. Il punto di forza e di debolezza dell’impero asburgico – di cui lo Scioppio si sentì sempre e fu continuamente uno dei più convinti difensori – era costituito proprio dalla concentrazione di molte entità territoriali diverse sotto un unico sovrano: una concentrazione indubbiamente rara nella storia mondiale, ma che di fatto significava anche una dispersione pericolosamente eccessiva. Forse lo Scioppio non aveva ben meditato la lezione che Machiavelli aveva data riguardo all’Europa del futuro: cioè, che i modi della sua organizzazione politica la facevano una nazione del tutto unica al mondo. Infatti, a differenza del continente asiatico, in cui i sovrani avevano poteri illimitati e governavano masse enormi di sudditi docilmente sottomessi ed acriticamente obbedienti, l’Europa assisteva a un grande proliferare di repubbliche, cioè di stati abitati da cittadini consapevoli e attivi, cioè di stati in cui la competizione dei gruppi politici diveniva sempre più robusta, incrementando sempre più alacremente le capacità dell’iniziativa individuale. Nell’Europa del futuro il potere del monarca sarà tenuto a bada dalle tradizioni, dalle consuetudini e dalle leggi; per cui ogni tentativo serio di dispotismo avrebbe trovato la strada sbarrata dalla consolidata stratificazione dei poteri. L’Europa, quindi, patria generatrice delle virtù dell’individuo e dell’intraprendenza dei gruppi organizzati, si presentava con una sua sicura caratteristica morale prima ancora che con la sua precisa configurazione fisica. Questo diventerà ancora più evidente, quando cesserà la secolare identificazione dell’Europa con la Cristianità.
Negli ultimi decenni del XVI secolo e nella prima metà del secolo successivo la situazione europea, nelle sue molteplici e forti componenti culturali, politiche e religiose, presentava un panorama caratterizzato quasi da due schieramenti: quello dei conservatori dell’asse “diacattolico” Roma-Madrid e quello dei riformisti e dei Riformati del corridoio che partiva da Londra e giungeva a Venezia, passando per i maggiori centri dei Paesi Bassi e degli Stati tedeschi. Per uno strano paradosso dei fatti, inoltre, in entrambi i campi troviamo presente e attivo il pensiero di Tommaso Campanella, il domenicano che giaceva in carcere, vittima e prigioniero di quell’assolutismo pontificio e asburgico, di cui prevedeva l’imminente dominio universale e il totale trionfo finale: lo stilese, diffidato e respinto da ogni parte politica e organizzazione religiosa, scrisse opere che furono ugualmente utilizzate da tutti, perché facilmente adattabili a ogni movimento di fede, sia politica sia religiosa, che tendesse a radicali rivolgimenti sociali e culturali, certamente benefici e forieri di ordine e pacificazione universali. Per questo furono usate sia per propagandare la fiducia nei desideri e nei sogni del nazionalismo degli Stati della Germania, sia per sostenere le ragioni del conservatorismo della Curia romana contro le legittime aspirazioni di sana e moderata laicità rivendicata dalla repubblica di Venezia, sia per controbattere le idee latitudinarie che si covavano a Londra nella corte del “sapientissimo” re Giacomo I .
Non era facile fronteggiare le forze congiunte dell’imperatore e del re di Spagna, temuto braccio secolare della politica del Papato e della Curia di Roma; tuttavia, non erano pochi i segni che alimentavano le speranze degli spiriti più preoccupati per le sorti dell’umanità e più speranzosi in un futuro da costruire a maggiore e migliore misura d’uomo. Erano anime ardimentose che sognavano un pensiero libero che indagasse audacemente i regni della natura e dell’uomo, proteso a disegnare seriamente la nuova scienza ampia e autonoma, impegnato a costruire sinceramente e con coraggio una società equa e fondata sulla giustizia: un pensiero, cioè, capace d’instaurare e vivificare la pace vera, perché perseguita a vantaggio di tutti nel rispetto dei diritti che si fondano sulla sicurezza e si reggono sulla reciproca solidarietà. Erano menti aperte e intelligenze sottili che costituivano un vero lievito, che fermentava gruppi sempre più numerosi in tutta l’Europa protestante e comunque protesa verso la certezza dell’imminente realizzazione di quanto, già profetizzato dagli oracoli divini, veniva ora anche preannunciato dagli astri (apparizione di comete e di stelle nuove).
Scioppio in questo primo periodo, spostandosi per le diverse città della Germania, dell’Italia e della Spagna, e peregrinando nei palazzi vescovili e cardinalizi e nelle corti di principi e nobili, aveva un solo intento: tessere strategie operative per ri-cattolicizzare la Germania, onde riportarla sotto l’unico dominio egemonico degli Asburgo d’Austria. La forza sociale e l’unità politica della Germania doveva partire dall’unificazione religiosa, che, a sua volta, doveva identificarsi e riconoscersi nel credo e nel culto cattolico romano postridentino. L’unità religiosa era la condizione indispensabile e necessaria per tentare qualunque azione di unificazione territoriale e politica degli Stati tedeschi. La casa degli Asburgo – di Spagna e d’Austria – doveva sentire l’imperativo storico del suo compito, stando sempre a fianco della Chiesa cattolica e in particolare del papa di Roma: era questa la ragion d’essere del sacro romano impero germanico. L’imperatore, responsabile della difesa della fede, deve – in ossequio alle direttive del pontefice – cancellare l’errore, reprimere lo scisma, sopprimere l’eresia; anche con la guerra cruenta, ove lo richieda la pertinacia dell’errante. Sono le idee che Scioppio sostiene nelle opere pubblicate nei primi decenni della sua attività. Ecco cosa scrive, a esempio, nel 1605, riguardo al problema del primato del papa:
“Si può provare con molti passi delle Sacre Scritture che Cristo ha stabilito Pietro quale pastore di tutta la Chiesa e quale capo e principe degli Apostoli. Certamente, non perché signoreggiasse il gregge con la violenza, come fanno i re delle genti (infatti, è chiaramente proibito da Lc. 22, dove si raccomanda a chi vuole essere il primo di servire con umiltà e mansuetudine), ma perché fosse, al posto di Cristo, il sostegno di tutti gli altri Apostoli con ogni carità, mansuetudine e amore paterno, e pascolasse fedelmente le pecore in Cristo” .
Affrontando il discusso e spinoso argomento del potere papale nelle questioni temporali, non esita a scrivere:
“ I cattolici sono del parere e credono che il papa è lui stesso principe secolare e capo di tutte le terre e delle regioni donate alla Chiesa (secondo la profezia di Isaia, egli è stato preposto alle autorità secolari, ai Re e ai Principi, affinché pascesse sia i loro regni e sia loro stessi, e conducesse le loro anime alla salvezza …). E’ facile provare con le Scritture che il papa può esercitare entrambi i poteri, quello spirituale e quello temporale, purché non si distragga dai problemi più importanti a vantaggio di quelli di minor peso” .
Addirittura, quando il fedele si chiede se sia “lecito” adorare il sommo Pontefice, Scioppio non ha alcuna incertezza nell’affermare:
“Io dico che è assolutamente legittimo e lecito adorarlo, anche perché nelle Scritture vi sono molti insegnamenti ed esempi d’adorazione non solo di uomini, ma anche di cose fatte dalla mano degli uomini” .
Se poi vogliamo renderci conto di quale fosse in quegli anni l’opinione dello Scioppio sul movimento dei riformati, basta leggere l’inizio del lavoro che scrive, sempre nel 1605, sull’argomento: “Col consenso universale della Chiesa primitiva è provato quanto l’eresia sia peggiore del paganesimo”; e, dopo aver elencato in dodici punti le calamità causate dal luteranesimo, sostiene che “tutto ciò vale di più per il Calvinismo, che ha tanto corrotto la Polonia (…) da poter veramente pensare che i calvinisti sono posseduti dal demonio, per cui essi sono mostri e flagelli autentici nella religione cristiana” .
Non è difficile scorgere l’influsso della sua recente lettura degli Annali del cardinale Baronio e lo studio delle opere del cardinale Bellarmino . Il Baronio, infatti, in una serie di conferenze rivolte al popolo, narrava le vicende della chiesa cattolica, difendendola dagli attacchi di Mattia Vlacich e dimostrandone la sostanziale immutata autorità nelle sacre tradizioni, dalla sua fondazione in poi. Ma lo Scioppio si fa prendere forse dall’entusiasmo di neofita, per cui gli sfugge che gli scritti del Baronio (almeno quelli che lui dice d’aver letti) tendevano a uno scopo ben preciso, per cui molti problemi di teologia dommatica e morale non venivano toccati o erano lasciati del tutto irrisolti. Allo stesso modo dobbiamo riconoscere che egli va al di là delle posizioni dello stesso cardinale Bellarmino, il quale, teorizzando la perfezione dello Stato e della Chiesa ciascuno nel suo ordine, garantisce l’originalità della giurisdizione anche civile, e non solo di quella ecclesiastica. In questo modo, Bellarmino intende negare la legittimità di qualunque intervento diretto del papa nel campo civile, in quanto la giurisdizione ecclesiastica ha un potere solo indiretto, essendo i suoi interventi legittimi solo quando si tratta di questioni civili che riguardano la vita cristiana e le vie necessarie per tutelarla, soprattutto nella predicazione della parola di Dio. Il gesuita vuole scampare ogni pericolo di monismo di potere sia teocratico che cesaropapista. Ogni potere, quindi anche quello civile, deriva direttamente da Dio; perciò il suo soggetto diretto e immediato rimane sempre il popolo, che può delegarlo e riprenderlo quando e come crede, anche con il tirannicidio (in casi estremi e comunque ben circoscritti e definiti). Lo Scioppio in questo periodo è, invece, in sintonia col Bellarmino, quando riafferma la concezione giuridico-formale dell’appartenenza all’ortodossia e alla chiesa, privilegiando l’elemento esteriore e istituzionale della chiesa cattolica romana, al di fuori della quale gli uomini non potevano sperare o ottenere salvezza. Certo, non si può incorrere nell’errore di mancanza di prospettiva storica; infatti, solo la teologia cattolica contemporanea, più disponibile ad ascoltare le istanze bibliche storicamente valorizzate dai movimenti dei riformati, tende a scostarsi da simili posizioni, per avvicinarsi a dimensioni più interiori e comunitarie della vita della chiesa. Del resto, si dovrebbe maggiormente riflettere sul fatto che anche all’interno della chiesa cattolica - in apparenza così solidamente compattata – in realtà rimanevano molte questioni drammaticamente sospese, anche perché non erano maturi i tempi. Si pensi alla questione tanto controversa, se la giurisdizione dei vescovi fosse una delegazione dell’autorità papale o provenisse direttamente da Dio, come sostenevano molti vescovi soprattutto spagnoli, e come lo stesso Scioppio rivendicherà nel secondo periodo del suo pensiero. Dopo accesi dibattiti per tutta la lunga durata del concilio tridentino, tale questione, che toccava sostanzialmente problemi interni alla dottrina cattolica, fu lasciata cadere, per essere nuovamente affrontata, dopo frequenti e forti discussioni durate tre secoli, nel concilio ecumenico vaticano I del 1870; ma ugualmente senza alcun esito. Dobbiamo attendere la conclusione del concilio vaticano II (XXI ecumenico) nel 1962, per vedere accolta una dichiarazione della natura “collegiale” del papa e dei vescovi. Se è vero – come si disse - che a Trento erano andati vescovi per tornarsene parroci, è anche vero che l’obiettivo che il concilio tridentino voleva perseguire fermamente era in primo luogo quello di disciplinare la vita religiosa, moralizzando i costumi dei religiosi e dei laici e centralizzando il governo di tutta la chiesa nelle sole mani della curia romana.
Come era possibile, allora, pensare di attuare i canoni tridentini e nello stesso tempo “germanizzare” tutti gli stati tedeschi? Era coniugabile il fermento di nazionalizzazione germanica con l’universalismo apostolico romano? L’ostacolo per la ri-conversione dei tedeschi alla religione cattolica – fondamento dei processi di rappacificazione religiosa e di unificazione politica – erano veramente e solamente il malcostume del clero e gli scandali dei fedeli, ovvero entrava in gioco un più complesso intreccio di motivazioni storiche culturali ed economiche che s’erano originate ed evolute lungo i decenni precedenti e che, comunque, erano stato il più vero movente della nascita delle chiese riformate e dell’ormai vecchio contrasto con l’Inghilterra, i Paesi Bassi e soprattutto con la Francia? Gaspare Scioppio - al servizio dell’arciduca Ferdinando futuro imperatore, del papa Paolo V, del re di Spagna e del Duca di Mantova – punta dritto a far valere sempre e comunque le ragioni della parte ch’egli doveva difendere, ponendo sempre in netta evidenza ogni eventuale debolezza e torto della parte avversa e limitandosi, al massimo, a impostare i termini delle altre questioni in maniera piuttosto vaga e, quindi, adatta a sfuggire al rigore dell’argomentazione stringente e dell’evidenza spesso anche innegabile. E’ il caso delle sue prese di posizione in occasione sia della condanna di Giordano Bruno, sia della sua linea difensiva contro le rimostranze e le rivendicazioni di Venezia colpita dall’interdetto papale, e sia infine della confutazione delle idee che Giacomo I enunciava esplicitamente o implicava indirettamente nelle leggi, che egli emanava come re e che i suoi cittadini inglesi dovevano rispettare in quanto sudditi a lui fedeli, indipendentemente se anglicani, protestanti o cattolici. La chiesa cattolica doveva condannare Bruno, in quanto eretico impenitente e, quindi, pietra di scandalo e occasione di dannazione per gli uomini. Ma i protestanti tedeschi, quindi i cittadini della Germania, non sono eretici, bensì solo scismatici in buona fede, pronti a seguire la verità (ovviamente la verità della chiesa romana), una volta che sia loro adeguatamente presentata e dimostrata. Certo i cattolici hanno la colpa di non aver loro predicato la verità nei modi voluti da Cristo; ma siamo nel mondo umano, quindi dell’errore e della riparazione. E così Venezia: sostanzialmente la repubblica di san Marco è nel diritto e nella verità; ma sono sbagliati i modi delle sue rivendicazioni, in quanto screditano l’autorevolezza del pontefice romano, seminando tentazioni molto pericolose per altri stati meno saldi e incapaci di autonomia, perché ancora non maturi per essere arbitri del loro destino.
Più significativo, però, è il suo comportamento, quando fu ingaggiato da Paolo V insieme ad altri per sferrare l’attacco contro Giacomo I . Il re di Londra voleva unificare i sudditi dei tre Paesi di cui era re, cioè Scozia, Irlanda e Inghilterra, che erano di diverso credo religioso. Il re riteneva politicamente necessario che ogni suo suddito rimanesse obbligato a rispettare le leggi dello stato inglese, senza che nessuno potesse appellarsi a motivi di coscienza o di dissenso religioso. Pertanto, sosteneva che l’accusa mossagli dai cattolici, cioè d’essere eretico e scismatico, fosse priva d’ogni fondamento; anzi era convinto che simile accusa fosse da attribuire proprio alla chiesa romana, che aveva osteggiato ogni dialogo e aveva rifiutato ogni tentativo di discussione con la Riforma. Pretendere che il suddito di un re debba essere vincolato all’obbedienza non delle leggi dello Stato, ma a quelle del suo capo religioso è una menzogna e un assurdo giuridico; per questo è nella più retta ragione anche il governo veneziano difeso dal servita Paolo Sarpi insieme a Fulgenzio Micanzio. Stare in lite con il papa non significa porsi fuori dalla chiesa, e dissentire dai pareri della curia romana non implica essere scismatici o addirittura eretici . E’ questo il significato più vero che bisogna dare al “levar le censure” a Venezia, ossia alla revoca da parte di papa Paolo V il 21 aprile 1607 di quella scomunica e di quell’interdetto, che lo stesso papa aveva fulminati contro la città lagunare il 17 aprile dell’anno precedente.
“L’esempio di Venezia – nota il De Mas – costituisce un importante precedente per una ridefinizione della comunità stessa degli Stati cristiani, in quanto rappresenta una implicita o tacita ammissione da parte curialista che un sovrano può difendere i propri diritti nell’ambito del suo territorio anche contro il Papa senza per questo restare escluso dalla comunità religiosa, sempre che non ricorrano insieme gli estremi dell’eresia e dello scisma, come nel caso dei Luterani e delle altre Chiese e sette protestanti. La Gran Bretagna anglicana poteva ancora presentarsi come cattolica, separata da Roma per la supremazia giurisdizionale del sovrano, ma unita a Roma per il contenuto della fede che era rimasto sostanzialmente quello antico” .
Scioppio, che era già venuto in possesso di alcune opere di Campanella e, quindi, ne aveva conosciuto il pensiero, pensò di utilizzarlo in maniera ugualmente efficace per lottare allo stesso tempo e allo stesso modo sia contro Giacomo I in Inghilterra, sia contro il protestantesimo in Germania e sia contro i veneziani in Italia. Infatti, nel 1607 interrompeva il suo lungo soggiorno in Italia per intraprendere un viaggio verso la Germania al fine di preparare e prendere parte, quale uomo di fiducia della Curia romana, ai lavori dell’importante dieta di Ratisbona, nella quale cattolici, luterani e calvinisti avrebbero dovuto discutere e concludere decisioni definitive soprattutto sulla revisione degli accordi presi nell’ormai lontana pace di Augusta del 1555; all’ordine del giorno era iscritta la votazione di sussidi da elargire all’imperatore per la guerra contro i Turchi; in realtà, però, si trattava di una vera revisione sostanziale dell’ordinamento giuridico e amministrativo dell’Impero. Infatti, i calvinisti chiedevano il riconoscimento dei medesimi diritti che i luterani avevano ottenuti nel 1555; però tanto i cattolici quanto i luterani avevano valide ragioni per negarlo, poiché, se i protestanti pretendevano la garanzia dei diritti acquisiti, i cattolici da parte loro non cedevano sulla loro volontà di vedersi restituiti tutti i possessi dei beni da loro perduti. Scioppio, quindi, si recava in Germania come diplomatico ritenuto capace di tutelare nei paesi tedeschi le pretese di Roma e di rintuzzare le opposte ragioni della parte luterana e dei paesi calvinisti: era un incarico già sufficiente per consolidare nel suo pensiero la validità dei postulati della politica papale (che si trovava in situazioni veramente scabrose, dal momento che questa volta si trattava di andare anche contro il potente ordine dei Gesuiti) e per rinvigorire nel suo animo il dogma cattolico della supremazia del pontefice e dell’universalità del suo insegnamento, da rispettarsi sempre e ovunque perché sicuramente infallibile. Politica e religione, diritto e dogma, fede e disciplina s’implicavano in un inscindibile intreccio. Con la testa e il cuore pieni di questi pensieri, Scioppio s’incontra, in sua sosta a Venezia, col servita Paolo Sarpi, il difensore delle ragioni dello stato veneto contro l’interdetto fulminato da Paolo V: rispetto reciproco, ma nessun cedimento da parte di Sarpi, che resta fermamente convinto delle sue posizioni giuridiche e fortemente deciso a non fermarsi nemmeno di fronte alle minacce di morte, di cui lo avvisava anche lo stesso Scioppio, che intanto – pur’egli saldamente fermo nelle sue idee - procedeva nel suo viaggio verso Ratisbona. Successivamente, negli anni trenta, Scioppio passerà nel campo dei veneti, e terrà corrispondenza con Fulgenzio Micanzio, il compagno di quel Sarpi, la cui opera principale sul concilio di Trento era stata pubblicata – all’insaputa dell’autore - a Londra nel maggio 1619 da Marcantonio De Dominis, l’arcivescovo di Spalato che aveva aderito all’anglicanesimo e si era trasferito già nel 1616 nella città di Giacomo I. Scioppio si verrà a trovare, così, in mezzo agli artefici della politica antipapale e anticurialista, che erano contemporaneamente anche i pionieri delle dottrine latitudinarie e della politica della tolleranza.
Gli avvenimenti storici dei primi due decenni del XVII secolo e i rivolgimenti talora radicali in diversi campi della cultura alimentavano con ragioni sempre più forti le speranze d’un imminente rinnovamento morale e il sogno d’un riordinamento politico di vaste proporzioni, da realizzarsi nello spirito della fede dei riformati e nelle direzioni suggerite dalla parola evangelica autenticamente interpretata e liberamente attuata per la vera felicità degli uomini sulla terra e la maggiore gloria di Dio, che non avrebbe disdegnato di abitare anche tra gli uomini nella storia costruita sui valori oggettivi e universali e animata da aspirazioni verso l’alto da raggiungere nella speranza sostenuta dalla benevola condiscendenza dell’Alto. Rotto l’ibrido connubio religione-politica, la terra sarebbe stata abitata da uomini di Dio, investiti dalla duplice parallela responsabilità di “dominare” la terra e “servire” il suo Creatore, nello stato di massima libertà e spirito d’iniziativa. La convinzione d’una prossima rinascita dello spirito germanico riformato prendeva sempre più piede: “Una grossa rivoluzione culturale – scrive De Mas - era in atto nella filosofia naturale. Qui l’antiaristotelismo aveva segnato tre punti a proprio vantaggio: il primo con la diffusione della logica di Pietro Ramo, il martire della notte di S. Bartolomeo che aveva combattuto la sua battaglia contro Aristotele a colpi di ‘assiomi’ e di ‘metodo dicotomico’, anziché sillogistico; il secondo con il declino della medicina galenica sopraffatta da quella paracelsiana; il terzo era dato dal sistema copernicano che contrastava il campo a quello aristotelico o tolemaico. Anche i segni esteriori del rinnovamento (scoperte astronomiche; nuovi rimedi terapeutici; logiche non sillogistiche né verbalistiche) cospiravano per rafforzare le grandi aspettative di novità imminenti, tanto nelle scienze umane quanto nella teologia o ‘sapere divino’” .
In tutto questo fermento culturale le opere campanelliane, che circolavano ancora solo manoscritte, costituivano occasione di conforto e di confronto con altre opere di grande significato. Nel 1619 Johann Valentin Andrea pubblicava a Strasburgo la Cristianopoli insieme con un trattato contro i Rosacroce, e Giovanni Keplero pubblicava a Linz L’armonia del mondo; a Londra Marcantonio De Dominis, sempre nello stesso anno, curava la stampa della Historia del Concilio tridentino di Paolo Sarpi, premettendovi una lettera dedicatoria a Giacomo I contenente violente accuse contro papa Paolo V; nell’autunno del 1619 il moderato Wotton in Germania incontrava Keplero, notoramente interessato ai propositi latitudinari, e lo invitava a trasferirsi nella capitale inglese; a Venezia Fulgenzio Micanzio provvedeva alla ristampa veneta dei Saggi morali di Bacone. L’anno precedente, nel 1618 a Venezia si leggevano e si commentavano opere di astronomia, quali il De Magnete di Gilbert ottenuto tramite il De Dominis e il Cavendish ; infine, il 13 novembre 1618 si apriva a Dordrecht il sinodo dei protestanti, nel quale, pur essendoci una schiacciante presenza di gomaristi, prendeva parte anche il rappresentate del re Giacomo I che difendeva le posizioni dei moderati arminiani. Politicamente, in Germania si assisteva all’elezione di Federico V del Palatinato a re di Boemia con l’appoggio del capo dell’Unione protestante, il principe Cristiano di Anhalt, e dell’arcivescovo londinese Abbot; l’anno successivo lo stesso Federico V, genero del re Giacomo I, diventerà re della Boemia.
Da parte sua Scioppio – attingendo a piene mani alle opere di Campanella, che aveva ispirato anche l’opera politica di Andrea - si dedica al lavoro indefesso della stesura di opere, che mirano solo e sempre a difendere le ragioni religiose e politiche del cattolicesimo romano e delle mire egemoniche degli Asburgo dell’Austria e della Spagna. Si colloca, quindi, fuori dal movimento di rinnovamento e di latitudinarietà, e si schiera con il fronte della monarchia universale da restaurare con la forza secolare degli Asburgo e sotto la garanzia della Roma del papa a giusta ragione sostenuta e diretta dall’Ordine dei Gesuiti: sono questi i legittimi strumenti investiti della missione storica di guida politica e religiosa degli uomini. Nel novembre 1626 Scioppio incontrerà nella sede del Santo Uffizio a Roma il Campanella , che era stato liberato dalle carceri. Il diplomatico tedesco avrà perduto ormai ogni simpatia per il monaco domenicano, il cui pensiero aveva pure condiviso per anni, utilizzandolo per comporre le sue opere contro i protestanti e i dissidenti da Roma. Nella Philotheca, suo diario personale composto successivamente , Scioppio, ricordando i primi anni della sua permanenza in Italia, darà giudizi molto negativi nei confronti di Campanella; però proprio in quegli stessi anni il fiduciario dell’arciduca Ferdinando d’Austria, grazie alle spiegazioni che il famoso monaco-mago gli forniva con le lettere nelle quali accoratamente veniva chiamato “angelo suo”, si radicava nella convinzione che si doveva e si poteva restaurare la monarchia universale. Gaspare Scioppio – osserva accortamente il De Mas, quando sottolinea la ripercussione che la letteratura politica di Campanella ebbe sul mondo cattolico
“non a torto giudicava la Monarchia Messiae opera centrale dell’apocalittica politica, come uno scritto ottimamente idoneo a condurre innanzi la polemica ‘non tanto contro gli eretici, quanto contro gli scismatici e gli usurpatori della giurisdizione ecclesiastica’ (…). A suo avviso, per combattere le asserzioni degli scrittori anti-curialisti come Sarpi e Giacomo I, non conveniva riconoscere la potenziale indipendenza del potere laico da quello ecclesiastico, come facevano i Gesuiti con la loro dottrina del contratto bilaterale, ma occorreva imporre in tutta la sua crudezza la essenziale dipendenza del primo” .
L’8 ottobre 1609 Paolo V invia a Scioppio il Triplici nodo triplex cuneus, l’opera giacobita che era incaricato di confutare: valendosi degli scritti campanelliani, egli inizia la stesura dell’Ecclesiasticus che terminerà e pubblicherà nel 1611. Secondo lo Scioppio il pluralismo ecclesiale e quello statuale coincidevano, per cui dovevano essere condannati entrambi, perseguendo con determinazione l’unitaria monarchia negli stati della Germania prima e da estendere poi a realtà territoriali sempre più vaste. Questo significava l’impellente dovere di lavorare concretamente per prepararla, operando anche mediante la negazione dei diritti sovrani. Sembrava ritornare in tutto il suo fulgore il trionfo teocratico: la chiesa universale, radicalmente rinnovata ed emendata grazie all’applicazione delle norme canoniche del concilio tridentino e con l’ausilio del braccio secolare del sacro romano impero germanico, diveniva il simbolo dell’unificazione di tutti i popoli della terra, che avrebbero visto veramente la definitiva scomparsa delle guerre e dei dissidi politici e religiosi.
Non è dato sapere con certezza se Scioppio conoscesse adeguatamente la sistemazione razionale della politica che stava avvenendo in Germania sulla base del pensiero campanelliano grazie all’impegno anche di Christoph von Besold, il giurista amico di Andrea e professore a Tubinga, che nel 1623, nella ristampa della Monarchia di Spagna di Campanella da lui stesso tradotta in tedesco tre anni prima, aveva aggiunto una propria appendice, nella quale s’affrontava lo spinoso problema dell’opportunità che l’intero mondo cristiano venisse affidato alla guida e al governo d’un solo monarca. E’ certo, però, che Besold conosceva l’interpretazione che il Piscator, professore del Palatinato, aveva dato alla famosa e variamente discussa profezia di Daniele , che richiamava e coinvolgeva il problema della monarchia universale. Sono gli anni in cui si diffonde non poca fiducia nel genere utopico, rappresentato soprattutto dalla Citta del sole di Campanella (pubblicata nel 1623, ma scritta alcuni anni prima) e dalla Cristianopolis di Andrea (ispirata all’opera campanelliana letta manoscritta, ma composta e pubblicata nel 1619). Già dal 1618 in Germania alcuni conoscevano le idee dei due autori; anche Besold, che non perdette l’occasione nel 1623 di spegnere gli entusiasmi degli animi dei suoi compatrioti. Lo stesso Keplero, tutto dedito a scrutare i cieli per disegnare una veritiera e oggettiva fisica astronomica, non manca di ironizzare con i sognatori d’un mondo bellissimo, pericolosamente rivoluzionari, ma sostanzialmente incapaci di smuovere qualcosa di concreto per la costruzione d’un mondo migliore; infatti, scrivendo negli anni 1623-1624 a Pietro Kruger e Mathias Bernegger, li invitava accoratamente a distogliere gli occhi da pericolosi inviti della politica utopica e a dedicarsi interamente ai “verdi boschi della filosofia naturale”; è vano affidarsi e proporsi sogni: “Campanella ha scritto la Città del sole, cosa succederebbe se noi scrivessimo una Città della luna? Forse sarebbe impresa mirabile darsi da fare per descrivere a colori vivaci i costumi ciclopici del nostro tempo!” . Besold aveva pubblicato la sua opera politica maggiore, i Politicorum libri duo, nel 1618 a Francoforte; nel ristamparla, nel 1620 a Tubinga, vi premetteva una Lettera indirizzata al lettore, nella quale puntualizzava la vera natura dei suoi intendimenti politici, che confermerà negli anni successivi.
“Non ho delineato – afferma – un qualche progetto di Stato immaginario (…), come hanno fatto appunto Moro, Campanella, Valentin Andrea, e altri. Io tratto degli Stati e del diritto pubblico come sono ora o come sono stati in passato” .
Ora, lottare contro la monarchia universale, profetizzata anche da così importanti personalità, significava porsi a fianco del realismo giuridico e politico di Besold e della nuova fisica astronomica eliocentrica indagata e dimostrata da Keplero. La monarchia universale era il contrario del principio della sovranità particolare, che altri dotti ribadivano e ricalcavano nelle loro opere a Venezia (Sarpi, Fulgenzio Micanzio) e a Londra (Bacone scrive nel 1624 le sue Considerazioni per una guerra contro la Spagna), che suonano come chiara condanna dell’espansionismo spagnolo dopo la sconfitta del Palatinato e l’aggressione della Valtellina. Quindi, non erano molti i difensori dell’egemonia degli Asburgo e della futura monarchia universale. Fra questi è da annoverare Gaspare Scioppio; ma non come sognatore utopico, bensì come artefice sottile di riunioni e incontri diplomatici e suggeritore tempestivo di utili strategie militari, adempiendo il suo compito di funzionario degli Asburgo d’Austria.
Quando Scioppio era tornato in Germania con l’incarico di tenere sottocchio le mosse dei principi protestanti e di suggerire ai principi cattolici e a Roma ogni intervento utile alla difesa degli interessi religiosi, politici ed economici di Roma, era andato persuadendosi di quanto aveva già sostenuto immediatamente dopo la sua conversione nel 1598: l’ostacolo per riconvertire i protestanti tedeschi al cattolicesimo era costituito soprattutto dalle pessime condizioni culturali del clero, dall’ignoranza e dall’immoralità dei vescovi e dal funesto e crescente nepotismo dei papi. Osservazioni note a tutti e da tutti lamentate; ma, formulate da Scioppio nel suo stile icastico e improntato non certamente a toni suadenti, e rivolte direttamente a cardinali potenti e indirettamente allo stesso Paolo V, se non sortirono alcun effetto positivo tra i suoi avversari, gli fecero perdere naturalmente ogni fiducia da parte dei suoi “amici”, che da quel momento videro in lui non un alleato fedele, ma un “infiltrato” pericoloso e comunque da tenere lontano. Si potrebbe anche fare appello e sottolineare la sua dirittura morale; però non era questo che serviva alla lotta politica e religiosa di quei terribili anni, che dovevano assistere a repentine e nette vittorie sui protestanti, almeno per tutta la prima metà della guerra dei trent’anni (fino alla pace di Praga del 1635), grazie a iniziative politiche audaci e ad azioni d’intraprendenza spesso spregiudicate più che diplomatiche. Viene messa in atto una forma realistica di machiavellismo meramente pragmatico, imposto da ragioni di attacco offensivo più che da esigenze di politica difensiva; pertanto con poco spazio per rivendicazioni di natura di legittimità giuridica e coerenza morale. Almeno finché non si fosse disponibili ad abbracciare le ragioni del latitudinarismo e saltare nella parte della politica della tolleranza, cioè nel campo antiasburgico. Salto che Scioppio non farà mai, poiché rimarrà sempre tenace assertore dei principi della dominazione asburgica, sola garante della nazione tedesca unita etnicamente e culturalmente, politicamente e religiosamente. Si convincerà che l’ostacolo per il raggiungimento dell’obiettivo è la politica di predominio della curia romana dominata dall’egoismo dei Gesuiti. Molto significativo è quanto scrive nel 1635, nell’opera (rimasta sempre inedita), con la quale reclama la necessità d’un concilio generale da convocare per rinvenire ogni mezzo idoneo a sanare i mali che funestavano la cristianità:
“I canoni veri e autentici (…) – scrive - sono stati interpretati malamente da molti adulatori, che hanno voluto tornare graditi ai Pontefici già da molto tempo addietro; per questo hanno sostenuto e dimostrato fino ai nostri giorni che al Papa sono possibili TUTTE LE COSE, per cui egli ha il potere di fare ciò che vuole, anche ciò che non è lecito, lo elevano AL DI SOPRA anche di Dio e gli attribuiscono, SENZA ALCUN DIRITTO e contro tutti gli esempi dati da San Pietro, il sommo e universale potere di amministrare ovunque su tutte le chiese. Il papa s’è impossessato dei diritti di tutte le chiese inferiori, sicché i Prelati inferiori ossia i vescovi sono NIENTE. E se Dio non soccorre la situazione della Chiesa universale, la Chiesa corre un grande pericolo. Nel prossimo Concilio, si deve definire il potere del Papa, in modo che d’ora in poi non possa fare ciò che piace a lui, ma ciò che sarà lecito” .
Scioppio intuisce e porta allo scoperto la possibilità della compresenza di due forme di “ortodossia”: quella della chiesa di Roma e quella delle chiese protestanti. Per il rifiuto ostinato ad accettare questa realtà i cristiani stavano offrendo uno spettacolo desolante, gettando nello sgomento sia i credenti che i non credenti; infatti, tutti
“guardavano con raccapriccio fra loro scannarsi e perseguitarsi con ogni mezzo i devoti dell’amore fraterno e della carità universale. Lo spettacolo tristissimo delle guerre di religione in Germania, in Svizzera, in Francia, nei Paesi Bassi era insieme tragico e assurdo” .
Nel diritto laico ed ecclesiastico, così come nella politica dei re delle nazioni e dei pastori delle chiese, doveva finalmente avere il suo dovuto riconoscimento il pluralismo di credo religiosi e di dottrine politiche: in uno stesso Stato poteva esserci tranquillamente l’unità nella fedeltà al sovrano insieme alla pluralità di fede religiosa. Si trattava di definire con coraggio e nettezza gli ambiti di coinvolgimento di ciascuna sfera, individuando alcuni punti essenziali e nevralgici, di parte o comuni, da salvaguardare sempre e da parte di tutti. Ci si incamminava verso una concezione più sostanziale e interiore della fede religiosa, non ridotta certo a mero fatto privato e di coscienza, ma nemmeno vissuta e usata come terribile ricatto anche politico. Politica e diritto canonico, religione e teologia, libertà di coscienza e ricerca scientifica erano separabili e nello stesso tempo ricongiungibili: era questa l’idea fondante propria dell’irenismo politico-culturale, del latitudinarismo teologico e della tolleranza religiosa.
Non si poteva, però, fare finta di nulla, e nascondersi che sul fronte opposto mancava ogni volontà di fare qualche passo indietro. Bisognava fare i conti con la Roma cattolica dominata dall’ordine dei Gesuiti, assolutamente indisponibili a qualunque forma anche legittima di cedimento o di compromesso, quanto mai necessari per una vita quotidiana vissuta con concretezza sempre unita all’altrettanto necessario rispetto della reciproca libertà di coscienza e della comune dignità di uomini. Lo Scioppio, almeno fino agli anni trenta, analizza, interpreta e pensa di risolvere i problemi connessi con le vicende della Germania in chiave prevalentemente di potenza territoriale e militare e di equilibrio economico e politico. Da diplomatico attento alle ragioni ovviamente interessate della propria parte, cerca la combinazione di alleanze e il conseguimento di interventi, che possano produrre i frutti più abbondanti possibile e maggiormente adatti per raggiungere i suoi obiettivi, trascurando spesso le giuste ragioni di chi dissente e lotta per le sue convinzioni. Riguardo alla lotta di Roma e dei papisti contro la repubblica veneta - e quindi anche riguardo allo Scioppio - Enrico De Mas con acuto senso giuridico e con profondo spirito di fede religiosa, ma anche con evidente sofferenza morale, ha scritto:
“L’aspetto più drammatico della politica antiveneta è che proprio i campioni della fede cattolica ufficiale e delle ragioni ecumeniche del potere papale non esitassero a trascinare nelle spire delle contese politiche e giurisdizionali la religione di Cristo, nata da un atto d’amore e di speranza universale, assoggettandola a finalità di parte che non lasciavano certo in chi le sperimentava ai propri danni né amore né speranza alcuna” .
Porre come pregiudiziale per la soluzione delle questioni politiche nazionali della Germania la conversione dei protestanti tedeschi al cattolicesimo romano e l’accettazione delle norme sintetizzate nel simbolo tridentino, significava insistere su una possibilità che s’allontanava sempre di più dall’orizzonte sia della concretezza politica sia delle reali aspirazioni delle chiese riformate; infatti, ancora secondo il parere di De Mas,
“lamentando la rottura dell’unità ecclesiale per effetto della Riforma, e procacciando di ricomporla per la via della forza e unilaterale, i Gesuiti non tenevano conto delle grosse responsabilità che si era addossata la loro parte seguendo i dettami del Concilio di Trento”
e quando Tommaso Campanella negli Antiveneti – la sua opera portata nella città lagunare dallo stesso Scioppio - tuonava implacabile contro la repubblica di Venezia, perché ardiva difendere il suo Stato e reclamava il rispetto delle proprie leggi anche da parte dei sudditi ecclesiastici, e quindi colpevole di non essere sottostata agli ingiusti voleri del papa,
“non badava alla prova più lampante che la disobbedienza era stata provocata dalla alterigia del Papa, incapace di distinguere fra la supremazia in ordine ad spiritualia e la soggezione altrui nelle cose terrene, in temporalibus”
e così facendo, il monaco prigioniero degli Asburgo non s’accorgeva che egli “metteva vieppiù in risalto le ragioni della parte opposta, che quello stesso potere non intendeva negare ma ridimensionare e neutralizzare nelle sue conseguenze deteriori, contro la mondanizzazione e per il bene stesso della Chiesa” .
Le esperienze della sua vita privata e pubblica, l’evoluzione delle vicende politiche, l’esito delle azioni belliche, lo stesso approfondimento d’importanti temi teologici e giuridici inducono Scioppio a riconsiderare le sue posizioni dottrinali e le sue relazioni con i protagonisti della storia europea del tempo. Affronta tre questioni di grande rilievo; e dalla soluzione che pensa di poter dare ad esse, fa derivare tutto un nuovo impianto dottrinale e una nuova strategia diplomatica. Secondo lui si tratta, in primo luogo, di capire la vera natura dei rapporti interni che debbono e possono esserci fra le diverse chiese cristiane; in secondo luogo, d’impostare su nuovi principi giuridici, dettati dalle nuove realtà geopolitiche, i rapporti fra i principi tedeschi e fra loro e la casa degli Asburgo; in terzo luogo, di stabilire con netta chiarezza i poteri dell’autorità del sommo pontefice romano con il collegio episcopale da una parte e, dall’altra parte, con i re dei diversi Stati. Il passo sopra citato dal De necessitate et utilitate generalis Concilii ad sananda praesentia Christianitatis mala del 1635 costituisce, a questo punto, quel valido documento da noi ricercato e proposto come punto di demarcazione del pensiero di Scioppio e come indizio del suo decisivo passaggio verso posizioni di latitudinarismo teologico e di tolleranza politica, unico fondamento stabile d’ogni politica di pacificazione religiosa, di rinnovamento morale e di riordinamento giuridico e politico.
Nel 1638 Scioppio scrive l’Irenicus. L’opera presenta già la medesima struttura anche formale che sarà poi data all’Angelus pacis. Infatti, le prime tre pagine contengono una serie di citazioni dal Salmo 84, dai capitoli 12 e 13 d’Isaia, da Agostino, dalle Lettere paoline agli Ebrei e ai Galati; nella pagina 4 si definisce e si precisa il concetto di eresia e di eretico con l’ausilio di testi tratti dal Crisostomo e da Agostino; dalla pagina 5 inizia una lunga citazione dallo Speculum Haereticorum, di Ambrosius Catharinus, vescovo e teologo dell’Ordine Domenicano, che era stato pubblicato a Roma con tutte le approvazioni richieste dalle norme canoniche. Nel brano vengono ripresi ed elencati molti errori dottrinali e di costume attribuiti non solo ai Protestanti, ma anche ai Cattolici. E questo è un segnale chiaro e preciso del mutamento di visione dello Scioppio. Infatti, fino a questa data egli aveva sempre messo in evidenza le mancanze e i difetti del mondo dei Riformati, richiamando alle autorità religiose e politiche cattoliche il dovere di intervenire per ristabilire l’ordine e la verità. Qualche anno prima, infatti, nel Processus iuris del 1631 , non aveva esitato a puntare l’indice su sette gravi “crimini” di cui si macchiavano, però, solo i Protestanti; ora, nel 1638, elenca con toni accusatori e di crudo realismo “molti frutti cattivi”, che deturpano il mondo ecclesiastico e religioso in genere. Sono 18 accuse ben nette, che i responsabili della dottrina religiosa e le guide dei popoli debbono meditare, per porvi immediato ed efficace rimedio. Esse sono comuni al mondo dei Protestanti e a quello dei Cattolici; ma questi ultimi sembrano responsabili ancora maggiori. Eccone testualmente l’elenco:
  1. Insaziabile commercio e abominevole caccia di indulgenze.
  2. Niente onore di Dio; niente edificazione della chiesa.
  3. Odiosa frequenza di scomuniche, interdetti e censure.
  4. Adulteri, libertinaggi, altri turpi scandali della carne, anche da parte di coloro che si sono quasi castrati, o meglio infibulati, per essere perfetti e obbedire meglio a Cristo per il raggiungimento del regno di Dio.
  5. Abuso e dissipazione delle cospicue rendite ecclesiastiche, sperperate per il lusso, lo sfarzo, verso parassiti, meretrici, cani, cavalli e servitù oziosa.
  6. Promozione al sacerdozio e all’episcopato di indegni, di ignoranti, di neo convertiti, di fanciulli, di chi ha come suo Dio il ventre, Bacco e Venere, e non il Dio vero e vivo.
  7. Esposizione dei beni spirituali quasi in vendita all’asta ai migliori offerenti, cioè la simonia che vende per denaro ogni cosa divina e umana.
  8. Sui pulpiti non la trattazione della parola di Dio semplice e pura, ma mischiata con questioni vane e con favole sciocche.
  9. Esaltazione del libero arbitrio in una natura umana caduta, e abrogazione della grazia di Cristo di cui siamo, invece, carenti. A questo titolo la Confessione Augustana crea moltissimo disordine nel popolo nei confronti della chiesa romana, poiché le rimprovera con asprezza ed esagerazione l’infondata interpretazione di tutti i libri e le attribuisce errori in tutti i suoi pubblici discorsi sulla fede in Cristo e sulla gratuita remissione dei peccati.
  10. Abuso iniquo e ignorante della facoltà di ritenere e di rimettere i peccati e angustia delle coscienze ancora deboli.
  11. Fiducia esclusiva nelle azioni esteriori e misconoscimento delle vere e maggiori opere di carità nello stabilire la giustizia santificatrice, accettando solo a stento che qualcosa derivi anche dalla grazia di Dio.
  12. Scandaloso annullamento dei voti di castità.
  13. Venerazione terrena e spregevole dei santi.
  14. Per un lucro veramente turpe, il tentare l’inganno, offrendo alla venerazione dei fedeli reliquie di santi false a posto di quelle vere.
  15. Vendita delle messe.
  16. Disordine della chiesa a causa dei partiti creati dagli scolastici.
  17. Temerarietà dei maestri, e promozione a questo livello di persone indegne.
  18. Uguagliamento dei santi Padri della Chiesa con lo stesso Spirito Santo, quando si ritiene che i Santi Padri e le Sacre Scritture siano dotati di pari fede e autorità.
Allo Scioppio, però, forse non dovette sembrare opportuno chiedersi se, per la riconciliazione dei Cattolici con i Protestanti, fosse veramente bastato eliminare gli abusi e ripristinare una reciproca buona condotta oppure fosse stato necessario esaminare qualche altra componente, probabilmente più profonda e meno appariscente, ma ormai fortemente radicata e operante con incisività. Egli, infatti, pone l’accento sugli abusi e la corruzione come elemento fondamentale della crisi della Chiesa e dei Cristiani; però gli abusi e la corruzione sono la conseguenza del decadimento dello spirito religioso in primo luogo e, poi, delle strutture della Chiesa e delle istituzioni ecclesiastiche. La crisi spirituale nasce da uno squilibrio fra la vecchia forma che caparbiamente volevano mantenere il pensiero e la pratica religiosa e le nuove situazioni che andavano, invece, evolvendosi sul piano economico, culturale e dello stesso sentire religioso. All’inizio del XVII secolo era ormai in stato di notevole avanzamento tutto un complesso processo di rinnovamento: nella produzione e nello scambio erano nate nuove iniziative economiche, fra le classi sociali s’erano instaurati nuovi rapporti, si stava formando con sempre maggiore decisione lo stato moderno, s’imponeva la diffusione dell’umanesimo come nuovo modo di concepire l’uomo e i suoi rapporti con la società, la natura e Dio. Da parte sua, però, il pensiero teologico non tentava l’elaborazione e il ripensamento di queste nuove forme, al fine di formare nuove sintesi dottrinali e interpretative. Le università e le facoltà teologiche sembravano aver perduto la loro funzione di guida: erano decadute anche come istituzioni, perché preferivano stare sottomesse alle autorità politiche, trasformandosi in docili strumenti di potere. La stessa teologia era divenuta estranea alle nuove correnti di pensiero, limitandosi spesso a respingerle; mentre il mondo laico cristiano camminava e s’evolveva. Diveniva, quindi, inevitabile lo scontro con la rigidezza dell’insegnamento astratto, che sprezzava i nuovi tormentosi problemi della coscienza del popolo e dello stesso clero.
Del resto, erano secoli che le aspirazioni a una profonda riforma dottrinale e disciplinare della Chiesa rimanevano deluse. Erano stati tollerati, e in qualche caso anche favoriti, tentativi di rinnovamento che non assumessero, però, chiari caratteri rivoluzionari o comunque ereticali; ma si era trattato di episodi limitati, ben distanti da quel radicale cambiamento che avrebbe generato il complesso e violento movimento dei riformati. Quanto più aumentava il potere economico e politico della chiesa romana, tanto più si sentiva il tradimento delle origini della predicazione evangelica, per cui la potenza terrena della chiesa si traduceva in sua povertà morale sempre più riprovevole. Tutti nutrivano timore e speranza che il “caso Lutero” si concludesse con il rogo; ma non fu così, perché il monaco e teologo agostiniano era ormai un simbolo e contava numerosi sostenitori sparsi nei vari strati sociali dei Paesi tedeschi. Religione e politica, teologia e filosofia, povertà e ricchezza sentivano nella voce di Lutero l’espressione fedele delle proprie esigenze . Non a caso il frate servita Paolo Sarpi nella sua Istoria del concilio tridentino lancia tre accuse principali contro la chiesa romana: la mancanza dell’invito ai Protestanti a partecipare ai lavori conciliari, la mancanza di ascolto dei francesi che erano stati invitati ma non tenuti in alcuna considerazione, il fine essenziale del concilio stesso, che consisteva nel cercare più stretti controlli sotto l’autorità del papato piuttosto che lungimiranti misure di una riforma liberale.
Ora, di tutto questo non c’è molta impronta nello Scioppio, che si mostra preoccupato soprattutto di studiare gli interventi tattici da suggerire alla Casa degli Asburgo di Germania, alla cui conservazione egli ha dedicato ogni sua energia intellettiva e morale. La fedeltà agli Asburgo e l’intento di conservarne il trono e di salvaguardarne la potenza rimangono sostanzialmente lo scopo delle sue attente scelte di scaltro diplomatico e il metro con cui egli valuta fatti e uomini: chiunque possa ostacolare i suoi disegni diventa suo naturale avversario e, quindi, viene trattato come il nemico da controllare oculatamente e al momento giusto neutralizzare. Per questo, nel porsi i vari problemi e nel proporre possibili soluzioni, egli rimane ancorato a una visione sostanzialmente schematica e piuttosto tardiva. Anche le vicende che segnarono il suo rapporto con l’ordine dei Gesuiti vanno considerate all’interno di questa visuale. Infatti, non c’è alcun dubbio che il gesuitismo significava intolleranza e accentramento del cattolicesimo romano, per cui mirava al predominio dei poteri papali e curiali sui Paesi anche tedeschi. Ma non si può non tenere nel dovuto conto anche il fatto che il potere papale veniva concretamente minacciato e pericolosamente messo a dura prova dalle spinte nazionalistiche non solo dei principi germanici, ma anche e nello stesso tempo dalla Spagna e dalla Francia, che andavano alla ricerca di un proprio rafforzamento autonomo e miravano a imporre una propria egemonia sugli altri Paesi e sullo stesso papato. Ora, Scioppio non dedica mai alcuna considerazione a quest’altro risvolto del problema: pensa di poter esaurire la questione, pubblicizzando con non molto tatto e additando con toni eccessivi quella che lui considera un’irrazionale e irrefrenabile brama di potere da parte dei Gesuiti, dei quali condanna tutte le teorie e critica aspramente anche le proposte pedagogiche e la prassi didattica. Forse sarebbe stato maggiormente proficuo ch’egli avesse valutato anche il fatto che l’azione della controriforma, che doveva porre in atto i programmi del concilio tridentino - che anche lui era andato a salvaguardare nelle diete di Ratisbona del 1608 e del 1613- puntava e contava sull’utilizzazione di due armi: l’istruzione del clero e la predicazione al popolo cristiano. Per raggiungere queste finalità, la controriforma poteva avvalersi solo degli Ordini religiosi, mirando nel frattempo a preparare le nuove generazioni; quindi i Gesuiti, i Domenicani e i Cappuccini erano divenuti quasi necessariamente anche “possessori” di ingenti patrimoni, che avevano bisogno indubbiamente di una gestione oculata e disinteressata, ma sempre in chiave di autodifesa e di autoconservazione: senza la disponibilità di chiese, monasteri e abbazie, non poteva certo garantirsi il perseguimento delle finalità del movimento di riforma postridentina. Anche su quest’altro aspetto del problema doveva poggiare, quindi, l’eventuale azione di contrasto e di dissenso sul modo di agire da parte degli Ordini e dei Vescovi anche tedeschi, senza per questo sminuire tutti gli altri problemi connessi, compreso quello della legittimità giuridica o anche della sola opportunità morale e pastorale di simili possedimenti, unita alla necessaria prudenza amministrativa .
A questo punto si colloca la seconda questione che Scioppio si propone di mettere in evidenza, cioè la necessità di stabilire nuovi principi giuridici, dettati dalle nuove realtà geopolitiche, sui quali poter fondare i termini dei nuovi emergenti rapporti all’interno del complesso sistema dei principi tedeschi, e le modalità delle relazioni fra loro e gli Asburgo. Bisogna partire da una constatazione certa, cioè che l’inarrestabile disfacimento del sacro romano impero germanico e, quindi, la rovina degli Asburgo, hanno la loro non ultima causa nel costante progressivo risvegliarsi del sentimento nazionale. Il franco Carlo Magno governava un immenso agglomerato di popoli diversi; sarebbe stato sufficiente il maturare di particolari condizioni, perché le differenze tra popoli diversi emergessero e gradualmente si facesse strada quella coscienza nazionale, alla quale non avrebbe potuto resistere alcuna forza e per il pieno appagamento della quale si sarebbero sopportati sacrifici e guerre.
Allo Scioppio forse mancò un’esatta percezione della reale portata cui era giunto questo processo storico nei primi decenni del XVII secolo. In Germania, infatti, i principi erano schierati o con la Spagna o con la Francia, e comunque contro il predominio della Curia di Roma e del suo braccio secolare. Pertanto, lo stato di potenza proprio dei “territori” maggiori era tendenzialmente assoluto: una volta risolto a favore del principe il problema dell’autonomia nei confronti della Chiesa Romana, si sarebbe presentato nella sua crudezza il problema della sovranità territoriale nei confronti dell’Impero. Le sorti di Roma e dell’Impero erano inscindibilmente legate, per cui entrambe dipendevano dall’evoluzione del contesto territoriale e “nazionale” tedesco, che si palesava sempre più chiaramente un campo di forze complesso in se stesso e inattaccabile nella sua autonomia di fatto. Infatti, il panorama speculativo del primo Seicento tedesco, pur continuando a essere compreso fra gli opposti temi territorio e impero, principe e ceto, riforma e controriforma, tradizionalismo aristotelico e innovazione scientifica, tuttavia si mostrava proteso verso punte di “sovranità territoriale” sempre più acute e, quindi, sempre meno disponibili a subire le decisioni imperiali e ad accontentarsi di un ruolo di pura partecipazione passiva.
L’alternativa impero-territorio e, quindi, Germania-Roma cercherà la risposta decisiva e la soluzione definitiva negli eventi dei movimenti di riforma religiosa protestante luterana, che ribadiscono in terra tedesca quello che stavano rivendicando l’anglicanesimo in Inghilterra, il protestantesimo calvinista in Olanda, il latitudinarismo a Venezia. Le voci di Bacone, di Grozio, di Casaubon, di De Dominis (e più tardi di Comenio) nella corte di Londra, l’audacia scientifica di Keplero in Germania e quella di Galilei in Italia sembrano fondersi in un potente unisono, per proclamare i diritti della vera libertà di ricerca nel mondo sia naturale che umano, cioè per annunciare a tutti il felice raggiungimento da parte dell’uomo della possibilità concreta di scandagliare, in ragionevole autonomia e prudente collaborazione, i meravigliosi misteri della natura, i seducenti segreti degli astri e gli apparentemente imperscrutabili sentimenti dell’animo di quell’uomo che, vivente nel tempo, è destinato all’eterno e, momento finito, prende il senso più vero soltanto nel suo inarrestabile tendere verso l’infinito. Durante la guerra dei Trent’anni si consolidava tutto questo vasto e profondo movimento di idee che, soprattutto nella Germania roccaforte ancora di poteri assoluti e reazionari, si sarebbero tradotte a favore dell’autonomia contro l’assolutismo, cioè del principe contro l’impero, la cui sorte sembrava già segnata dopo la pace di Praga nel 1635.
In questo scenario culturale e politico Scioppio si sforza di definire i termini giuridici, che avrebbero potuto e dovuto regolare i rapporti tra l’autorità papale e, da una parte, il potere laico dei principi e, dall’altra parte, quello ecclesiale proprio del collegio cardinalizio ed episcopale. Anche a questo riguardo appare molto significativo il confronto di ciò che Scioppio aveva sostenuto nei due diversi momenti del suo pensiero. Infatti, in un’opera del 1625, rimasta tuttora manoscritta e inedita , aveva sostenuto che, per stabilire la pace universale, era dovere fondamentale del papa conservare e propagare la fede religiosa; a tal fine egli doveva rivolgersi ai re e ai principi, e indurli a prendere coscienza della loro missione e ad adoperarsi con ogni mezzo a loro disposizione per corrispondervi adeguatamente. Il pontefice, da parte sua, nei loro confronti doveva servirsi di tre vie: invitarli per mezzo della predicazione, spronarli all’emulazione con il proprio esempio, costringerli ricorrendo anche alla guerra. Il primo compito l’avrebbe assolto mediante una “congregazione per la propaganda della fede”, il secondo con “il mettere in atto il Concilio tridentino, in quanto, se il clero si fosse emendato secondo i precetti del Concilio, anche i popoli avrebbero scelto volentieri di seguirli come loro guide e loro via verso la salvezza”; il terzo compito l’avrebbe attuato solo mediante
“la pacificazione del mondo dei cristiani, in quanto i Re e i Principi cristiani non avrebbero mai incalzato con la guerra gli infedeli e gli eretici, finché essi stessi si fossero temuti reciprocamente; infatti, sarebbe stato agire veramente da insensati il pretendere di mettere a rischio le cose proprie che stanno al sicuro, per pensare alle cose di altri e per nulla certe. Pertanto è dovere essenziale del Pontefice costringerli a stare insieme (…), in maniera che i Re e i Principi cristiani, liberi dalla paura reciproca e ristabilita la pace per la pubblica utilità, siano disposti anche a prendere le armi per conservare e propagare la fede” .
Ventidue anni dopo, in un’opera del 1647, rimasta pure manoscritta e inedita , Scioppio in apertura si rivolge nello stesso tempo e accoratamente al “Papa, Cardinali, Vescovi, Prelati, Chierici e Religiosi; Imperatore, Re, Principi, Ottimati, Governatori dei popoli, e, infine tutti, i Cristiani della chiesa Occidentale e della Chiesa Orientale”, e servendosi di espressioni bibliche testuali, dichiara loro:
“Oggi sapete tutti che sono puro del sangue di tutti. Infatti, non mi sono tirato indietro quanto meno d’annunziarvi tutto il disegno di Dio che ho udito nel santuario, e non vi ho tolto niente di ciò che era utile per la salvezza dell’anima” .
Successivamente, dopo aver ricordato “ai principi ecclesiastici e secolari tedeschi” ch’egli aveva già dedicato al medesimo argomento due lavori negli anni ’30 , sottolinea lo scopo di questo suo ultimo intervento:
“L’utilità che bisogna aspettarsi dall’opera – scrive – è la seguente: i cattolici e i protestanti imparino le cose necessarie, in modo che, seguendo con fedeltà il precetto di Cristo, abbiano il sale in sé e stiano in pace tra di loro. In quest’opera troveranno, infatti, moltissime cose, grazie alle quali potranno sostenersi gli uni gli altri con la giustificazione e la traslazione delle colpe; infatti, troveranno esposti con chiarezza quali sono gli scandali e gli intoppi che sbarrano dall’una e dall’altra parte la via alla pace e alla concordia, e che è necessario eliminare. Affinché il Dragone resti schiacciato e la Chiesa abbia la pace, è necessario che gli uni e gli altri glorifichino Dio mediante la confessione delle ignominie commesse e delle immoralità di cui sono macchiati. E poiché tanto gli uni quanto gli altri hanno non poca difficoltà a rendere una simile confessione, io ho ritenuto opportuno venire loro incontro e mostrare ciò che ognuna delle due parti ha fatto a suo tempo” .
A conclusione della guerra dei Trent’anni era ancora ragionevole nutrire qualche speranza che il cattolicesimo e il protestantesimo potessero essere riconciliati, oppure si trattava ormai solamente di vana utopia? C’erano solo due vie aperte: o la reciproca tolleranza o la lotta aperta fino alla distruzione del proprio avversario. Scioppio fino al 1635 aveva perseguito la seconda alternativa; successivamente imboccò anch’egli la prima, unendosi alla folta schiera degli spiriti che sostenevano che rinvigorire la fede religiosa e rinnovare il costume sociale costituivano i presupposti indispensabili per avviarsi concretamente verso l’instaurazione di un mondo dominato dalla ragione umana, libera ricercatrice del mondo della natura, della scienza e del diritto. L’adesione dello Scioppio al movimento latitudinario è così ponderata e sofferta, che non può essere ridotta a sentimenti di astio per presunti torti subiti da parte dei Gesuiti e della Curia papale. Una volta che Scioppio si convince della non condivisibilità della politica romana, perché ritenuta inadeguata e addirittura ostile ai fini della Casa degli Asburgo, consegue quasi naturale il suo aderire, attraverso soprattutto Fulgenzio Micanzio, ai programmi della tolleranza e del latitudinarismo di Venezia, che nel frattempo era divenuta sua sede abituale. Ed è qui che Scioppio dedica gli ultimi due anni della sua vita a comporre l’Angelus pacis, che si può considerare la sintesi robusta e conclusiva di tutto il suo pensiero politico e il pubblico testamento finale dei suoi sentimenti religiosi.
In generale il latitudinarismo sta all’opposto del gesuitismo, inteso come coercizione della coscienza individuale e imposizione di un credo religioso e di un atteggiamento politico . Da qui nasce la diversità di concepire l’intervento del potere politico nelle questioni religiose. Il latitudinario, infatti, ricorre all’autorità civile per sollecitare il compimento del suo dovere verso la difesa della fede e per chiedere la garanzia del suo sostegno verso i movimenti di autentico rinnovamento dottrinale o anche solo di condotta morale. Quindi, non è la “ragion di stato” a soggiogare la religione, ma è lo zelo verso la fede che obbliga la politica a porsi al doveroso servizio della fede e della pace. Pertanto, nel latitudinarismo non può esserci posto alcuno per qualunque forma di “machiavellismo”, soprattutto se inteso come la strumentalizzazione politica della fede e delle istituzioni religiose. L’attenzione per le riforme religiose sta nella natura stessa delle responsabilità del potere civile e politico, che deve vigilare, affinché non si consumino ingiustizie sociali e misfatti morali in nome tanto d’improvvidi ed eccessivi rinnovamenti tanto di chiusure reazionarie e funeste. Certo, pur partecipando totalmente della sostanza del programma latitudinario, nella prima metà del XVI secolo si presentavano vie d’attuazione diverse e fondamentalmente ambigue; e davanti allo Scioppio si ponevano tre alternative chiare: o rimanere nel campo del cattolicesimo romano o passare nel campo della riforma tedesca o unirsi al movimento veneto di Fulgenzio Micanzio. Saltare nella parte della Riforma significava divenire uno strumento della lotta contro i Gesuiti e il papa, ma anche contro gli Asburgo d’Austria e di Spagna; rimanere dalla parte cattolica significava impegnarsi a rispettare e a porre in atto tutti i dettami del Concilio di Trento; seguire le posizioni del Fulgenzio significava essere disponibile a preferire la divisione delle Chiese anziché contribuire a una loro unificazione mediante la forza o l’inganno .
Le posizioni di Scioppio non sono tanto lineari da consentire l’individuazione di elementi di un’appartenenza chiara e decisa. Egli rimane fedele agli Asburgo d’Austria e di Spagna, ma riconosce le ragioni del dissenso politico dei principi tedeschi; conserva solidamente la fede cattolica, ma diviene acerrimo oppositore dei Gesuiti, della Curia papale e dello stesso Pontefice di Roma; e intanto rimprovera il malcostume e la poca fede sia dei cattolici che dei protestanti. Probabilmente le vicende esterne della sua vita – molto diverse da quelle di un Bacone, di un Grozio, di un De Dominis, di un Keplero, di un Galilei, di un Sarpi o di un Fulgenzio – gl’impedirono di “radicarsi” in un ambiente di particolare caratterizzazione culturale. Certo, aveva avuto non poche relazioni con spiriti latitudinari e impegnati in forme d’irenismo anche interreligioso: nativo del Palatinato, aveva studiato ad Heidelberg e ad Altdorf; tra l’altro, aveva soggiornato a Praga e in molte altre città anche dell’Italia e della Spagna, conoscendo personalità di grande rilievo e assumendo incarichi di notevole prestigio. Di certo rimane il messaggio conclusivo dell’Angelus pacis: la storia dell’umanità registra la cruenta lotta tra il bene e il male, tra la verità e l’errore; gli uomini si schierano in uno dei due campi; Dio attende le decisioni degli uomini e rispetta i risultati delle loro libere scelte; alla fine dei tempi, però, trionferanno con certezza il bene e la verità, cioè la pace, che sarà “il frutto della giustizia, l’opera del diritto” e la cui vera via
“non sarà – come scrive De Mas - quella della polemica, tendente a far trionfare a ogni costo la propria parte, ma sarà quella della critica che riesce a trovare i punti fermi della reciproca concordanza, oltre ogni inutile e deleteria divergenza preconcetta” .
Anche il pensiero politico e l’azione diplomatica di Gaspare Scioppio restano documento eloquente e testimonianza preziosa d’un fatto ricorrente nella storia dei secoli: le ragioni della discordia tra gli uomini, che causa sofferenze indicibili e guasti spesso irreparabili, sono di natura religiosa e di natura politica. Il nemico che sta sempre in agguato per attentare senza sosta alla convivenza pacifica e alla reciproca fraternità tra gli uomini è il fanatismo religioso e politico; è esso che induce ad atteggiamenti radicali e intolleranti contro chiunque manifesti diversità d’opinione o non intenda allinearsi, concedendo il proprio assenso a idee e a comportamenti che vengono imposti con qualunque mezzo e a qualunque costo, anche estremi e disumani. Le vicende personali e culturali che segnarono l’evoluzione dei comportamenti dello Scioppio confermano, inoltre, i caratteri con cui da una parte si presenta la tipica mentalità intollerante e, dall’altra parte, si svela l’animo di chi opera per la pace e la solidarietà universali. L’intolleranza è l’ostinazione e l’accanimento nel sostenere le proprie idee e nel respingere quelle altrui, la caparbietà nel difendere le proprie posizioni sino a negare qualunque disponibilità al dialogo sinceramente chiarificatore e ogni possibilità di confronto veramente costruttivo, il rifiuto di riflessioni pacate e di mediazioni concilianti. Insomma, il contrario della mitezza, che mira sempre a prediligere la moderazione e ad approfondire tutte le occasioni per rinforzare e consolidare l’armonia con gli altri. L’azione politica improntata a moderazione e tolleranza persegue sempre il bene comune e la felicità universale. Quindi, come testimonia lo stesso Scioppio, quando si osserva che tra gli uomini imperversano la guerra e l’egoismo; soprattutto, quando si assiste a scontri irragionevoli che non conoscono né legami di idee politiche e sociali né rapporti di credo religiosi e morali, si deve confessare il dominio della discordia e dell’istinto.
L’ideale di forme di governo universali è stato sempre un ideale di guerra e non di pace. E a nulla serve ogni tentativo speculativo e pratico per attutirne l’intima essenza d’irrazionalità e l’implicita natura d’egoismo radicale, anche se camuffato da ragioni più o meno nobili. Al tempo dello Scioppio si combattevano guerre sanguinose tra sovrani che avrebbero dovuto avere come somma guida il Vangelo; e ogni re educato cristianamente non poteva non essere consapevole che il suo compito consisteva nel difendere la pace interna ed esterna della propria nazione, e non nel garantire privilegi di parte, tradendo la verità e imponendo l’errore. Ai nostri giorni assistiamo a notevoli mutamenti sia in campo sociale e politico sia in campo morale e religioso. L’universalismo, pertanto, può essere pensato in maniera sostanzialmente diversa da quella di quattro secoli fa, in quanto oggi il globalismo si sostanzia delle differenze e si nutre della pluralità. Però, non sono meno pericolosi i rischi di disumanizzazione. Per questo, nel tentativo di cercare ciò che accomuna e di accogliere ciò che è diverso, dopo i lunghi secoli di conflitti e di chiusure, un ruolo fondamentale potrà essere quello delle grandi religioni dell’umanità, che per loro stessa natura si pongono come realtà spesso “globali”. Anch’esse, sfidate da venti di secolarizzazione e da mode di religiosità postmoderna, debbono ritornare alla profondità del proprio impulso spirituale, per poter rappresentare un’energia storica per il dialogo tra le diversità umane a partire dal principio pratico, comune a tutte le culture, della dignità umana. Oggi a confrontarsi sono ancora culture spesso incomunicanti, e a imporsi sono condizioni nuove per scontri talora irriducibili. Per questo si tratta di promuovere valori universali, come i diritti dell’uomo e la democrazia, chiudendo le porte a ogni tentativo di tradizionalismo autoritario. In questo modo è possibile immaginare una fertilizzazione incrociata di culture, che allontani ogni rischio serio di annullamento delle diverse identità. E’ una speranza che nasce, però, in mezzo allo spettacolo anche odierno di tanti conflitti generati fondamentalmente da incomunicabilità culturale, politica e religiosa.
Recensione di I.B. Protopapa in "Rocca", a. 65, N. 19, 1 ottobre 2006, p. 61

La letteratura irenica nel periodo della Riforma. L'angelo della pace, l'opera di Gaspare Scioppio scritta originariamente in latino nel 1648 (Angelus Pacis, appunto), costituisce un testo inedito che, grazie alla cura di Cosimo Scarcella, docente di Storia e Filosofia, ci può far conoscere non solo la situazione politica di allora, ma soprattutto la personalità di un autore che - come scrive Giovanni Fiaschi - non è stato solo un illustre umanista ma anche un «importante attore sulla scena politica della Controriforma» (p. IX). Scioppio, di famiglia tedesca luterana, si convertì al cattolicesimo dopo una tormentata decisione, quando era diventato già famoso latinista. F -difensore di Machiavelli contro le condanne dei gesuiti e dei protestanti a favore del concreto scopo dell'utile pubblico e non del semplice interesse personale. Anche se impegnato a cooperare con le gerarchie ecclesiastiche, non negò mai che la Chiesa romana è piena di colpe e di difetti. Quello che l'umanista tedesco proponeva era, poi, di convocare un Concilio per una possibile unione pacifica fra cattolici e protestanti. Il suo pensiero politico e la sua azione diplomatica, come sottolinea lo stesso Scarcella, «restano documento eloquente e testimonianza preziosa d'un fatto ricorrente nella storia dei secoli: le ragioni della discordia tra gli uomini, che causa sofferenze indicibili e guasti spesso irreparabili, sono di natura religiosa e di natura politica» (p. XLIX). L'angelo della pace, dunque, nonostante sia un testo ormai antico, risulta a nostro avviso molto attuale ed utile ad "illuminarci" su tematiche Come la guerra e la pace, l'egoismo umano, gli scontri Irragionevoli tra gli uomini, il fanatismo religioso, le culture e le idee politiche e sociali. «(...) si tratta - scrive ancora il curatore - di promuovere valori universali, come i diritti dell uomo, e la democrazia, chiudendo le porte ad ogni tentativo di tradizionalismo autoritario»
(p. LI).
I.B. Protopapa