Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

mercoledì 21 aprile 2021

 

CHI E’ IL POPOLO NELLA DEMOCRAZIA?

Pubblicato in Presenza Taurisanese a. aprile 2021,n. 327, pp. 13-14 

                                             Pubblicato in Iuncurae  il 30 aprile 2021

Non c’è società umana, organizzata civilmente e strutturata politicamente in un ben definito ordine giuridico, che non contempli il legittimo detentore della sovranità, riconosciuto e condiviso da tutti i cittadini. Anche nelle società organizzate e governate secondo la forma democratica, quindi, c’è il titolare della sovranità; ed è il démos, cioè il “popolo”, che, in quanto sovrano, non riconosce nulla e nessuno superiore a sé, a meno che non venga derubato e svuotato del suo potere. Ma chi è il popolo in una democrazia? Non certo quello di uno stato retto da una monarchia, in cui è costituito da sudditi devoti al re; o da una plutocrazia, in cui è costituito da consumatori al servizio del mercato; o da una oligarchia, in cui è costituito da anonimi individui divenuti muto gregge al seguito del padrone; o da una partitocrazia, in cui è costituito da miliziani scelti al servizio del leader.

Chi è, allora, il popolo d’una democrazia? Lungi dal porsi solamente come una moltitudine indistinta d’individui coabitanti nello stesso luogo, esso è un insieme di persone, tutte di pari dignità, unite tra di loro – con l’obiettivo finale di perseguire, accrescere e fruire del maggior bene comune possibile - da un rapporto di collaborazione costruttiva e strutturata in un complesso di tradizioni, consuetudini e norme, divenuto col tempo fonte e fondamento d’una propria Costituzione Nazionale.  Infatti, in uno dei Principi Fondamentali, sui quali si regge tutto l’articolato della Costituzione della Repubblica Democratica Italiana, si proclama solennemente che il popolo italiano  è la totalità dei cittadini, i quali “Hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). A ben riflettere, quindi, un Paese che voglia ritenersi, vivere e agire da “Paese Democratico” – come cittadinanza e come insieme ordinato di istituzioni statuali – si fonda preliminarmente e opera sostanzialmente nell’ottica d’una propria specifica visione generale del mondo, dell’uomo e delle loro storie. Pertanto, la democrazia di per sé non è semplicemente una tra le tante forme di governo, bensì prima di tutto ed essenzialmente una grande idea regolativa sia antropologica sia cosmologica, in quanto presuppone e si nutre d’una visione generale della realtà, nella quale non ci sono diversità e gradualità di valori, ma solo molteplicità e varietà di funzioni, tutte da rispettare e onorare secondo i principi di proporzionalità e necessarietà: in questa prospettiva di democrazia non esistono un centro e delle periferie economico-sociali-culturali, ma ogni singola realtà è contemporaneamente centro e periferia d’un’unica totalità  multicentrica.

Solo nella democrazia così definita radica e prospera la libertà civile e politica dei singoli cittadini e delle istituzioni che li governano; e solo nella libertà e con la libertà ha senso e concretezza la formula adottata ormai da secoli da tutti gli organi governativi democratici: “In nome del popolo sovrano”. Questa espressione, infatti, sintetizza e racchiude felicemente la coincidenza di Stato, in quanto organizzazione della comunità, e di Governo, in quanto organismo responsabile delle scelte politiche, e li correda di un valore, oltre che socio-economico, anche etico-politico, per cui divengono contemporaneamente fonti d’incremento culturale e gestori di potere “sovrano”, ma non nell’accezione di sovranismo o autoritarismo, bensì come concreta manifestazione e chiara espressione d’una volontà “democratica”, in quanto sono la voce indiscussa della volontà libera del popolo e, quindi, volontà democratica nel suo significato autentico e profondo: la democrazia è libertà dello spirito e delle intenzioni d’un popolo, che si realizzano nel concreto agire umano, cioè  nella vita e nell’azione politica.

Nasce, a questo punto, il problema di come il popolo eserciti materialmente la sua sovrana e libera volontà e di come la traduca concretamente ed efficacemente in azioni governative. La via della democrazia diretta – largamente usata in alcune città dell’antica Grecia - si rivela per i nostri tempi utopia e inganno per almeno due motivi principali. In primo luogo per  il  grande numero di cittadini delle odierne nazioni democratiche: basti pensare che lo stesso Jean Jacques Rousseau, già due secoli e mezzo fa, nello stendere le  Considerazioni sul Governo della Polonia  (pubblicate nel l 1782), proprio a causa della grandezza numerica della cittadinanza polacca, credette necessario, rifacendosi al suo precedente Progetto di Costituzione della Corsica (scritto nel 1768), suddividere la grande  nazione  della Polonia in piccoli stati tra di loro confederati. In secondo luogo, perché la democrazia diretta - nonostante l’utilizzo dei mezzi messi a disposizione dalla tecnologia più avanzata - di fatto, esclude il popolo dalla partecipazione attiva e consapevole alla vita politica nazionale. Infatti, nel mondo attuale della globalizzazione e dell’internalizzazione si richiedono, con urgenza sempre più pressante, velocità e decisionismo, tanto che da più parti si sente talora denunciare la lentezza e addirittura l’inutilità del voto e, quindi, dei Parlamenti, da sostituire ormai – senza alcun confronto di idee e senza un vero dialogo con i cittadini - con alcuni individui scelti col sorteggio, senza alcuna considerazione per le specifiche capacità amministrative, per  le necessarie doti morali e l’indiscutibile sensibilità  etica. L’importante è che siano pronti a decidere e svelti nel tagliare i tempi del profitto e dell’efficienza. In breve e in sostanza si celebra il trionfo del pragmatismo - attivo, operoso e sempre vincente - di pochi e, nello stesso tempo, si esclude il popolo e si condanna a morte la democrazia. La democrazia, infatti, è inclusione, riflessione e mediazione, e opera sempre al fine di ascoltare le voci di tutte le persone, di coinvolgere e tutelare tutti i cittadini, senza la presunzione di formulare arbitrariamente e proporre arrogantemente programmi ritenuti validi e proficui, ma che in effetti lasciano inascoltati e irrisolti i problemi reali di larga parte di cittadini,

Come via da percorrere rimane quella della democrazia rappresentativa, in cui il popolo - che evidentemente non può governare direttamente la “Res Publica” - delega, attraverso il voto, a propri eletti di governare, di fatto, in suo nome. In molte democrazie compiute della Terra – grazie proprio al voto popolare – si designano gli eletti (cioè, i deputati), alcuni a proporre, decidere e governare, e altri a correggere, suggerire, controllare quelli che governano: sono le cosiddette “maggioranza e minoranza”, che, ciascuna nel proprio ruolo, collaborano insieme – coerentemente con il significato etimologico e lo spirito autentico della democrazia, che è “servizio” di ciascuno verso tutti - al miglior governo possibile della cosa pubblica e per il bene comune. E’ il bipolarismo, per cui maggioranza e minoranza lavorano sinergicamente per il benessere e il progresso della nazione. Le cose cambiano, quando la “democrazia”, da governo voluto dal voto popolare, si tramuta in “potere” di partito o di partiti. Allora al posto della formula “in nome del popolo sovrano” si sostituisce di fatto l’altra “in nome del partito o della coalizione di partiti”, che sovrani non sono né possono essere. A questo punto la Democrazia è umiliata, tradita e annichilita: svuotata, infatti, dei suoi veri valori etici e privata dei suoi contenuti sociali e politi, viene ridotta ad asettico contenitore informe, disponibile ad accogliere qualunque mistificazione di realtà di privati o di comunità particolari o di piccole collettività.

La Democrazia, però, muore, perché non viene più alimentato il fuoco della fucina, nella quale – oltre che nella famiglia e nella scuola - si forgiano uomini probi, cittadini e lavoratori onesti, professionisti e imprenditori coraggiosi e, soprattutto si preparano e si cimentano amministratori responsabili e capaci, cioè i partiti politici.  Questi costituivano una fitta rete capillare di piccoli centri (le sezioni), che si diramavano da tutte le parti del Paese e confluivano tutti verso la capitale. In ogni “sezione” arrivavano quotidianamente i giornali organo d’ogni partito, con i quali si proponeva l’interpretazione dei fatti consona alle diverse visioni politiche, che i cittadini discutevano e commentavano talora animatamente e con sentita passione, espressione della aderenza e della fedeltà al proprio credo politico. Era un pulsare vivo di confronti di idee, che, arricchite del contributo di tante diverse opinioni, da ogni periferia giungevano ai deputati, che a loro volta recepivano e vagliavano nelle sedi parlamentari. Nelle “sezioni” di partito, infatti, s’incontravano cittadini d’ogni ceto sociale, s’accoglieva il contributo pronto e valido del movimento femminile e dei giovani, si approfondiva la reciproca conoscenza, si prendeva consapevolezza dei vari ruoli politici, s’apprendeva l’arte d’amministrare la cosa pubblica e, gradualmente e a tempo opportuno, si veniva designati – in base alle capacità e al merito - per i vari incarichi pubblici. Era l’applicazione e la realizzazione del dettato costituzionale: “Tutti i cittadini – sancisce l’articolo 49 - hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Quanto diverse - per natura, metodo, contenuti e finalità - le cosiddette “scuole di formazione politica” degli odierni partiti. Da circa un trentennio la Costituzione è disattesa. I partiti si sono svuotati di ideali e si sono riempiti di interessi personali e di parte, condividendo un umico denominatore            comune: acquistare e accrescere a qualunque costo potere e ricchezza. Ovviamente con la compagnia del séguito coerente di tutte le logiche conseguenze naturali, tra le quali non ci saranno né quella di bene comune né quella di rispetto del popolo,   (C.S.)

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 4 marzo 2021

 

IL TEMPO DI PANDEMIA C’INTERROGA E CI SFIDA

Pubblicato su “Presenza Taurisanese”, anno XXXIX, n. 3, marzo 2021, p. 13

 

L’umanità lotta ormai da molto tempo contro una pandemia, che in tutto il mondo miete ogni giorno un gran numero di vite umane, crea gravi scompensi ecologici, causa pericolose crisi nel settore socioeconomico, costringe a profondi mutamenti nelle modalità anche delle relazioni interpersonali affettive e sociali. S’attende, perciò, come una vera liberazione che, grazie soprattutto all’apporto della scienza, venga vinta questa terribile sciagura. Molti credono – e forse sperano - che ciò avvenga quanto prima, per poter ricominciare la vita “normale” di prima, interrotta bruscamente dalla virulenza della pandemia, considerata spesso solo come un brutto improvviso accadimento, che, una volta passato, lascerà tutto com’era e ognuno potrà riprendere la propria vita dal punto dove era stato costretto a fermarsi. Probabilmente, però, la situazione non è così facile come si crede e si spera. Infatti, la pandemia - che sarà stata non una violenta tempesta momentanea, ma un ciclone vorticoso che ha scompigliato ogni realtà individuale e sociale - richiede una svolta radicale nel sistema socio-economico e nel modello etico-culturale, che l’umanità s’è creati e secondo i quali è vissuta finora. E’ la sfida che la Natura e la Storia lanciano all’umanità: ripensare le linee guida dell’organizzazione dell’attuale vita individuale e sociale, mutare radicalmente i principi in base ai quali poter pensare liberamente, sentire rettamente, vivere coerentemente, in modo che siano consoni alla dignità di tutti gli esseri viventi, rispettati nella loro integralità.


Davanti allo spettacolo terribile, che la pandemia presenta oggi agli occhi di tutti, torna alla mente ciò che ha scritto, in situazioni analoghe, Martin Heidegger all’indomani della seconda guerra mondiale, alla vista degli orrendi disastri causati dalla follia bellica dell’uomo “Siamo noi forse – si domandava il filosofo - alla vigilia della più mostruosa trasformazione della terra intera e dello spazio storico-temporale a cui essa è legata? Siamo forse alla vigilia di una notte che prelude un’alba nuova? Sta sorgendo solo ora questa terra del tramonto?” (Un detto di Anassimandro, 1946). In questo nostro tempo, invaso e dominato dall’aggressività letale d’un virus emerso improvvisamente, l’umanità assiste, incredula ed esterrefatta, a fenomeni gravemente distruttivi, per cui si chiede se si stia consumando la fase terminale d’una “mostruosa trasformazione” dell’intero sistema di vita terrestre, oppure se sia l’arrivo d’una forma di vita nuova, oppure se si tratti dell’imminente tramonto d’un presente che scompare, per cedere il posto ad altro per ora del tutto sconosciuto. Il genere umano, quindi, non sa se sta assistendo semplicemente alla trasformazione del presente o al nascere d’un futuro del tutto inatteso o al crudele ghigno d’una fine definitiva. Ovviamente s’avanzano diverse ipotesi interpretative di tali fenomeni e se ne ricercano eventuali rimedi. Misconoscendo la tesi dell’insana follia del negazionismo, c’è chi nella pandemia scorge un intervento punitivo di Dio, chi vede una dura rivolta della natura che rivendica i suoi diritti violati, chi constata semplicemente interferenze casuali nell’azione dei diversi elementi, chi chiama in causa la tracotanza dell’uomo alla ricerca ossessiva di ricchezza e di potere. Probabilmente ogni risposta ha il suo fondamento condivisibile o meno, ma ragionevole.


Da parte sua, il filosofo tedesco trovava e suggeriva, a suo tempo, la via segnata dal ritrovamento dell’autenticità umana smarrita, disprezzata e tradita. Sulle orme del pensiero già di Parmenide, ripreso e sviluppato, tra gli altri, da Einstein, affermava che l’esistente umano può vivere secondo due diverse modalità: secondo la “banalità” delle apparenze, cioè impegnandosi a prendersi “cura” delle cose contingenti del mondo e vivere totalmente preoccupato per esse, e secondo la “autenticità” delle realtà sostanziali, cioè – spiega a chiare lettere - disponendosi  ad accogliere virilmente e senza riserve la prospettiva della morte, vera e indiscutibile rivelazione della finitezza umana: essa soltanto è veramente capace di far emergere e far apprezzare l’esistenza propria del vivere umano. L’individuo umano, infatti, viene e si trova in vita senza averne la minima consapevolezza, ma ha piena coscienza che tutta la sua vita si svolgerà liberamente in un arco di tempo limitato; è in suo potere, quindi, scegliere e decidere i modi e gli scopi per cui vivere nel tempo a sua disposizione. Heidegger avverte esplicitamente: non c’è scampo: bisogna risolversi a vivere o alienandosi in realtà prive di autentico senso finale oppure impegnandosi in attività di seria e indiscussa valenza morale ed etica. La prima opzione sarà fonte di lotte individualistiche tra i singoli e tra le società, a caccia di possesso e di ricchezza anche mediante lo sfruttamento a danno di tutto e di tutti; la seconda opzione sarà - nei limiti delle capacità umane - fonte e garanzia di progresso reale realizzato grazie alla sinergia dei comportamenti convergenti degli umani e della terra.

 

A questo riguardo, particolarmente incisivi e significativi sono i ripetuti interventi di Papa Francesco in tutti questi mesi. “La pandemia – ha affermato recentemente,- non è un castigo divino, ma mette in luce le false sicurezze”. La pandemia, infatti, aggredendo gli esseri umani, s’è rivelata anche e soprattutto una grave crisi storica, che - come le grandi guerre del secolo scorso - ha investito tutti e tutto; pertanto, va analizzata responsabilmente sotto ogni suo aspetto e considerata onestamente in tutti i suoi risvolti possibili, negativi ed eventualmente positivi. Per questo, porgendo gli auguri natalizi alla Curia Romana, ha sostenuto autorevolmente: “Questo flagello è stato un banco di prova non indifferente e, nello stesso tempo, una grande occasione per convertirci e recuperare autenticità”. Ciò significa che l’umanità ha smarrito l’identità del suo essere e ha perduto anche l’autenticità del suo pensare e del suo agire; si è costruito un modello culturale, in cui di fatto resta vilipesa la dignità umana e vengono calpestati e persino negati i diritti della Terra. Momenti tragici come questi - a parere del pontefice – ricorrono “ovunque e in ogni periodo della storia, coinvolgono le ideologie, la politica, l’economia, la tecnica, l’ecologia, la religione. Si tratta di una tappa obbligata della storia personale e sociale. Si manifesta come un evento straordinario, che causa sempre un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare”.

 

L’umanità di oggi sta cogliendo il messaggio, che la Natura e la Storia le stanno inviando? E’ pronta a un’autocritica generale ed è disponibile a una revisione radicale del suo sistema di vita? Dare una risposta definitiva a quest’interrogativi è azzardato, perché bisogna attendere e verificare i comportamenti umani e le relative reazioni della Natura e della Storia. Al momento, però, non si notano segnali sicuri d’una revisione dei modi di pensare degli uomini e della loro volontà di risistemare il proprio agire. La pandemia, infatti, richiede una svolta radicale e convinta. Heidegger la sognava come “alba nuova”, Papa Francesco la invoca come “con-versione”. Considerato, però, che gli uomini – e soprattutto i reggitori della cosa pubblica - sono impegnati non tanto a rifondare e revisionare la vecchia e malata concezione del mondo, quanto piuttosto ad eliminare gli ostacoli, che impediscono il ripristino di ciò che c’era prima, nasce qualche dubbio, che genera perplessità e sfiducia. Non a caso il Pontefice Romano ha esortato più volte a non stare sempre a lagnarsi, ma – come ha raccomandato nel dare gli auguri di Natale - capire che “la pandemia impone maggiore sobrietà, attenzione discreta e rispettosa dei vicini che possono avere bisogno”. Riscoprire, cioè, che non esiste solo l’io con i suoi interessi, ma anche l’altro, che per il modello della cultura in atto è solo oggetto per il consumo. Sono opportune e necessarie nuove strategie di governo, sono auspicabili interventi mirati per un’equa distribuzione delle risorse disponibili, sono encomiabili inviti ed esortazioni alla solidarietà umana e alla cooperazione internazionale; però, se tutto ciò resta compiuto nello spirito, che domina attualmente nel mondo, si otterrà solo un’imbiancatura di facciata, ma la realtà sostanziale rimarrà immutata. Per un vero cambiamento di rotta è necessario preliminarmente una profonda metanoia dell’animo umano.

mercoledì 16 settembre 2020

QUINTINO SCOZZI Le sue opere custodiscono la memoria storica di Melissano

 

Pubblicato su “Presenza Taurisanese”, anno XXXVIII, n. 8, agosto / settembre2020, pp. 10-11]

 

 

A Quintino Scozzi, appassionato ricercatore e studioso della storia di Melissano,  la spinta decisiva ad affrettare i tempi e a intensificare gli sforzi nel portare a termine tanti dei suoi lavori fu data da un avvenimento tanto paradossale quanto grave, in quanto artefice ne era proprio la pubblica Amministrazione Comunale del momento [dei beni culturali difensore per suo compito naturale e protettore per suo dovere istituzionale], avallata dalla «massima indifferenza della popolazione [ugualmente colpevole e complice, perché noncurante delle proprie memorie], presa da ben altri interessi e soprattutto ignara  del valore storico  e artistico dell’antico monumento»[1]. Infatti, intorno al 1950 Quintino Scozzi aveva dovuto assistere – ancor giovane e disarmato – all’abbattimento del trecentesco Castello appartenuto agli Amendolia e dopo qualche decennio a Orso Minutolo, per giungere nel 1723 nelle mani dei Conti Caracciolo. Pertanto, unica testimonianza superstite delle origini del trecentesco Casale di Melessano rimaneva la cinquecentesca chiesa parrocchiale dedicata al protettore Sant’Antonio da Padova. Questa in seguito alla permuta decisa dalla Curia Vescovile di Nardò, nel novembre 1978 era divenuta proprietà del Comune di Melissano, il quale subito ne decretava – tra l’assoluta indifferenza dei cittadini[2] -  la demolizione, onde ricavare spazi per parcheggi. Quintino Scozzi, ormai uomo maturo e di un’apprezzabile cultura, si muove presso tutte le Autorità competenti, - Soprintendente alle Belle Arti di Bari,  Vescovo di Nardò, Prefetto di Lecce, Sindaco, Parroco e Cittadinanza di Melissano - perché fosse evitato quell’oltraggio incivile e dissacratorio, e il 28 febbraio 1979 pubblica una Lettera Aperta, nella quale dichiara le motivazioni del suo gesto:  «Mosso – scrive - da un sentimento fatto di rispetto, di pietà e di venerazione, chiesi e chiedo ancora oggi  alle Autorità competenti che l’antica chiesa sia recuperata in tutta la sua interezza – in omaggio al passato  al futuro, alla vita dell’arte – al culto dei fedeli così come i padri l’affidarono ai loro figli. […]. Si provveda, dunque, al restauro, col contributo di quanti hanno a cuore i monumenti onusti di antichità  e palpitanti di vita secolare»[3]. I contenuti della lagnanza dettagliatamente documentata e l’afflato umano  e religioso della perorazione conclusiva sono incontestabile documento di raro senso civico e di profondo religioso rispetto delle proprie radici morali ed etiche: «Quella chiesa – conclude lo Scozzi - che in passato generazioni di melessanesi per educarli al bene e avvertirli che  tutto viene, tutto passa , tutto ritorna a Dio; quella chiesa accolse i vagiti dei neonati, le preghiere dei credenti, le speranze dei giovani, la letizia degli sposi, i lamenti dei sofferenti; quella chiesa, infine, in cui giacciono scheletri di lontani predecessori in un’atmosfera ovattata di arcano silenzio, possa riprendere il suo antico fulgore per continuare ad accogliere i figli dei figli in solenne, affettuoso, materno amplesso»[4]. L’antico monumento fu salvato e già da un quarto di secolo è divenuto la sede decorosa ed efficiente del Centro Culturale a lui intitolato, come è stato pubblicato su questo stesso Giornale[5]. Prima dell’inizio dei lavori per il restauro del monumento Scozzi non mancò di tracciarne la storia e di descriverne l’esistente, comprese le cinque splendide pale d’altare, di cui ora non è rimasta traccia[6].

 

Dedicatosi alla ricerca, allo studio e alla divulgazione d’ogni utile documento inerente alle vicende storiche, ai costumi morali, alle consuetudini sociali e alle tradizioni popolari di Melissano[7], Quintino Scozzi spese le sue energie migliori nella stesura di due pregevoli volumi, unici nel loro genere; il primo il già citato  Un Paese del Sud. Melissano del 1981 e il secondo La morale attraversi i detti popolari del 1987[8]. Nel primo ci consegna una ricca e delicata tavolozza di 65 affreschi narranti – in una lingua semplice ma accurata, appropriata ma scorrevole, mai ricercata o ambigua - fatti e personaggi artefici delle tappe dell’evoluzione del Paese, a partire dal XIV secolo fino ai suoi giorni. A prevenire eventuali osservazioni da parte dei lettori, l’Autore formula espressamente tre puntualizzazioni. La prima è un’apparente giustificazione, ma in realtà è un modo discreto per sottolineare la fondatezza storica delle sue affermazioni; scrive, infatti, «Perché il lettore possa avere la sensazione di compiere un tuffo nel passato, ho largheggiato nelle citazioni, che hanno il potere di ritrarre, per il loro contenuto realistico e la suggestività, gli avvenimenti, le condizioni, le vicende, la vita , insomma, di un tempo che fu»[9]. La seconda puntualizzazione riporta i lettori - soprattutto melissanesi e salentini  - dal “tuffo nel passato” alle responsabilità, che detta il presente mediante la testimonianza e l’esempio di “tre figli di questa operosa cittadina”.  «Don Quintino Sicuro, asceta dalla fede eroica; Ferruccio Caputo, martire delle fosse ardeatine; Luigi Corvaglia, scrittore di elevato pensiero e critico di vastissima cultura»[10]. La terza puntualizzazione è rivelatrice di sentimenti intimi dell’Autore [che sente, però, di non poter né tacere né camuffare] e, nello stesso tempo, del dovuto rispetto per la coscienza religiosa dei Melissanesi [che in quegli anni aggredivano le dottrine e contestavano le condotte predicate dalla Religione Cattolica]. Scrive, infatti, «Convinto che la storia di un paese è fondata anche sui sentimenti, sulla devozione, sulla tradizione, sulla fede religiosa della sua gente e che l’eliminazione, anche parziale, della vita ecclesiale equivarrebbe alla distruzione del patrimonio storico-religioso del luogo, ho inteso descrivere  tutti i fatti riguardanti la vita della Parrocchia che è, appunto, quella del paese »[11].

 

Nel secondo volume Quintino Scozzi ci regala un prezioso mosaico di 448 tessere di elegante e mirabile fattura. In esso, infatti, si leggono, suddivisi in gruppi (nell’ordine delle le lettere dell’alfabeto),  448 proverbi, ivi comprese alcune espressioni dialettali e qualche frase metaforica. Per ogni proverbio viene riportata la dizione in dialetto melissanese, la sua traduzione letterale in lingua italiana, e un commento, in cui è conservato e tramandato il senso morale intrinseco. Abbiamo, quindi, conservati e tramandati i modi di intendere e di vivere propri del melissanese, oggi forse ignaro del valore degli insegnamenti dei propri progenitori e all'oscuro delle sue radici sociali e morali. A evidenziare i pregi di quest’opera, rimane l’autorevole giudizio del compianto Donato Valli, che scrive all’Autore: «Ho letto con interesse e con divertita adesione il Suo libro sui detti popolari melissanesi. Quel che più ha sollecitato la mia curiosità di lettore non è la raccolta in sé (fenomeno oggi molto diffuso), ma il garbato commento che accompagna i proverbi e che è anch’esso documento di popolare saggezza conservatasi intatta attraverso il mutare dei costumi. Al pari del proverbio descritto, il commento ci riporta al tempo perenne dell’infanzia dell’anima, ai miti incorrotti della nostra cultura contadina e paesana, ricca di semplicità, di fede, di certezze. E’ commovente pensare come lei abbia saputo  mantenere intatto  il bagaglio di tali valori: prenderne coscienza significa anche contribuire alla salvaguardia dell’uomo»[12].

 

\Suonino di monito le parole pronunciate da papa Francesco il 14 giugno ultimo scorso: «E’ essenziale ricordare il bene ricevuto.  Senza farne memoria, diventiamo estranei a noi stessi, passanti dell’esistenza. Senza memoria ci sradichiamo dal terreno che ci nutre, e ci lasciamo portare via come foglie dal vento. Fare memoria, invece, è riannodarsi ai legami più forti, è sentirsi parte di una storia, è respirare con un popolo»[13].



[1] Q. SCOZZI, Melissano. Il Circolo Vecchio. Lettera aperta del 28 febbraio 1979.

[2] Quintino Scozzi non hai scritto o proferito verbalmente un giudizio negativo su fatti accaduti e da lui narrati o su enti e persone coinvolte. L’unica eccezione è nel rilevare e documentare - davanti alla decisione dell’amministrazione comunale di demolire lo storico monumento - la totale indifferenza e ignoranza del valore storico e culturale dell’antica chiesa patronale. Indignazione lo mosse anche a a scrivere nei riguardi di di qualcuno, di cui mai rivelò il nome: «Quando si rimestano (senza umiltà) argomenti già rimestati.  Chi per scrivere (o riscrivere) su Melissano, tragga, comodamente, notizie, indicazioni, spunti, date eccetera (esumati dagli Archivi con infinita pazienza e grandi sacrifici) […] è tenuto a citare per correttezza  e serietà, i lavori consultati. Quanto sopra in conseguenza  di comportamenti vili, indecorosi (e perseguibili) tenuti da soggetto in sfrenato delirio di grandezzaCommemorazione del Servio di Dio don Quintino Sicuro, 1989, p. 9.

[3] Q. SCOZZI, Melissano. Il Circolo Vecchio. , Ibidem.

[4] Q. SCOZZI, Melissano. Il Circolo Vecchio. , Ibidem.

[5] C. SCARCELLA, L'antica Chiesa Parrocchiale e il Centro Culturale 'Quintino Scozzi' - Storia di un recupero,  In «Presenza Taurisanese», , n. 310, aprile 2019, pp. 12-13.

[6] Q. SCOZZI, Storia di una chiesa, Tipolito F.lli Amato, Cutrofiano,1982; ristampata nel 1994 presso la Tipografia di Melissano.

[7] Si ricordano i preziosi suoi interventi su aspetti specifici della storia di Melissano degni di nota, accuratamente studiati e puntualmente pubblicati e messi a disposizione dei suoi concittadini Leghisti e fascisti a Melissano nel primo dopoguerra,  Tipografia di Matino,  1983; Melissano in alcuni documenti spagnoli del 1613, Tipografia di Matino, 1984; La grotta del SS. Crocifisso,  Tipografia di Melissano, 1985; Notizie inedite su Melissano, Tipografia di Matino, 1988; Commemorazione di don Quintino Sicuro, Tipografia di Melissano, 1989; Note Melissanesi, Tipografia di Melissano, 198.

[8]  Q. SCOZZI, La morale attraverso i detti popolari, Grafo 7 Editrice, Taviano, 1987.

[9] Q. SCOZZI, Un Paese del Sud. Melissano - Storia e Tradizioni Popolari, Tipografia di Matino,  1981,  p. 9.

[10] Q. SCOZZI, Idem, Idem, pp. 9-10.

[11] Q. SCOZZI, Idem, p. 9.

[12] D. VALLI, Lettera  pubblicata nel volume di Quintino Scozzi, La morale, op. cit., p.3.

[13] PAPA FRNCESCO,  in “L’Osservatore Romano” di lunedì, 15 giugno 2020.